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Disarmiamo gli animi armiamo la ragione ( Martini Carlo Maria , 1999 )
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In queste settimane di guerra nei Balcani due parole mi tornano alla mente . La prima è di Bertolt Brecht al termine del suo lavoro teatrale : La resistibile ascesa di Arturo Ui : " E voi imparate che occorre vedere e non guardare in aria ; occorre agire e non parlare . Questo mostro stava , una volta , per governare il mondo . I popoli lo spensero , ma ora non cantiamo vittoria troppo presto , il grembo da cui nacque è ancora fecondo " . Questa metafora del grembo ancora fecondo evoca una delle cause di quanto sta avvenendo . C ' è una matrice dalla quale sono stati generati molti stermini , fino alla Shoah . Essa continua a generarne . I conflitti nelle terre dell ' ex Jugoslavia , la " pulizia etnica " , l ' esodo forzato delle genti del Kosovo lo attestano , come pure tanti altri conflitti in altre regioni del mondo che , pur drammaticamente vivi , non fanno notizia . Tutto questo non è lontano da noi . Anche il nostro Paese ha conosciuto vergognose " leggi razziali " . Altre " notti feroci " gravano sull ' Europa , come Primo Levi ci aveva avvertiti . Avevamo sperato in un sempre più diffuso e radicato costume democratico e invece di nuovo rinascono forme di dittatura , di violenta privazione della libertà . Questo millennio si avvia alla conclusione tra incursioni aeree , bombardamenti , stragi . La seconda parola a cui ripenso in questi giorni è stata pronunciata dall ' Assemblea delle chiese cristiane europee a Basilea nel maggio 1989 : " Abbiamo causato guerre e non siamo stati capaci di sfruttare tutte le opportunità di dialogo e di riconciliazione : abbiamo accettato e spesso giustificato con troppa facilità le guerre " . Questa parola ci ricorda le responsabilità che portiamo anche come cristiani . Sulle ragioni possibili di alcuni atti di guerra ( cioè sul tema di una eventuale " guerra giusta " ) , si è ragionato a lungo nei due millenni cristiani . Sant ' Agostino scriveva : " Fare la guerra è una felicità per i malvagi , ma per i buoni una necessità ... è ingiusta la guerra fatta contro popoli inoffensivi , per desiderio di nuocere , per sete di potere , per ingrandire un impero , per ottenere ricchezze e acquistare gloria . In tutti questi casi la guerra va considerata un " brigantaggio in grande stile " " ( De Civitate Dei , IV , 6 ) . Ma Giovanni XXIII nella Pacem in terris , afferma : " Nell ' era atomica è irrazionale ( alienum est a ratione ) pensare che la guerra possa essere utilizzata come strumento di riparazione dei diritti violati " . Il concetto di " guerra giusta " viene così superato . E il Concilio , che per lo più non ha voluto pronunciare anatemi , ha tuttavia su questo punto un parola ferma e dura : " Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti , è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato " . Tra le ragioni che hanno portato al superamento della dottrina della guerra giusta , accanto alla percezione dei danni incalcolabili prodotti dalle " moderne armi scientifiche " , vi è la progressiva adesione alla struttura politica di tipo democratico , con il riconoscimento dell ' opinione pubblica come istanza di controllo e di guida nella gestione del potere politico . Anche sul piano internazionale , il progressivo consolidarsi di una istanza sovranazionale costituisce una ( sia pur gracile ) alternativa alla guerra mediante la mediazione politica . Con la condanna del ricorso alla guerra , la coscienza cristiana va progressivamente superando anche la logica della deterrenza . La deterrenza , afferma il Concilio , " non è via sicura per conservare saldamente la pace ... le cause di guerre anziché venire eliminate da tale corsa minacciano piuttosto di aggravarsi gradatamente ... mentre si spendono enormi ricchezze per procurarsi sempre nuove armi , diventa poi impossibile arrecare sufficiente rimedio alle miserie così grandi del mondo presente " . In queste settimane di guerra ci ha costantemente guidato il magistero coerente e coraggioso del papa Giovanni Paolo II . Non dimentico le sue parole il mattino del primo giorno della guerra nel Golfo , era il 17 gennaio 1991 : " In queste ore di grandi pericoli , vorrei ripetere con forza che la guerra non può essere un mezzo adeguato per risolvere completamente i problemi esistenti tra le nazioni . Non lo è mai stato e non lo sarà mai . Continuo a sperare che ciò che è iniziato abbia fine al più presto . Prego affinché l ' esperienza di questo primo giorno di conflitto sia sufficiente per far comprendere l ' orrore di quanto sta succedendo e far capire la necessità che le aspirazioni e i diritti di tutti i popoli della regione siano oggetto di un particolare impegno della comunità internazionale . Si tratta di problemi la cui soluzione può essere ricercata solamente in un contesto internazionale , ove tutte le parti interessate siano presenti e cooperino con lealtà " . " Declino dell ' umanità , scacco della comunità internazionale , attentato ai valori più cari a tutte le religioni " , così diceva il Papa a proposito della guerra nel Golfo . Parole che dobbiamo ancora ripetere per la guerra nei Balcani . Dobbiamo instancabilmente cercare , pensare una alternativa all ' uso delle armi , anche quando essa sembra impossibile . Come vescovo avverto l ' urgenza di contribuire ad una educazione alla pace : solo scrutando le ragioni misteriose del male nella storia e nel cuore dell ' uomo possiamo comprendere perché la pace sia problema sempre aperto . Il riconoscimento del male in tutte le sue forme , questa immane potenza del negativo che ha nella guerra la sua manifestazione più drammatica , non deve però indurci al pessimismo paralizzando la fiducia nelle risorse positive dell ' uomo . Nasce di qui la tensione al dialogo come via privilegiata alla pace : " Ogni uomo , credente o no , pur restando prudente e lucido circa la possibile ostinazione del suo fratello , può e deve conservare una sufficiente fiducia nell ' uomo , nella sua capacità di essere ragionevole , nel suo senso del bene , della giustizia , dell ' equità , nella sua possibilità di amore fraterno e di speranza , mai totalmente pervertiti , per scommettere sul ricorso al dialogo e sulla sua possibile ripresa " ( Giovanni Paolo II , Messaggio per la Giornata della pace 1983 ) . Questa fiducia nell ' uomo è anzitutto fiducia nelle risorse della sua coscienza , soprattutto di quanti patiscono ingiustizia . Bisogna puntare " sulle forze di pace nascoste negli uomini e nei popoli che soffrono ... così da sottoporre le forze oppressive a delle spinte efficaci di trasformazione , più efficaci di quelle fiammate di violenza che in genere non producono nulla , se non un futuro di sofferenze ancora più grandi " ( Messaggio per la Giornata della pace , 1980 ) . Alla forza della coscienza e non alla violenza è affidata la causa della pace . Sul versante politico , la pace richiede strutture politiche sovranazionali davvero efficaci nell ' arginare le possibili sopraffazioni . Era già questo l ' auspicio di Paolo VI nel suo discorso alle Nazioni Unite nel 1965 : " Il bene comune universale pone ora problemi a dimensioni mondiali che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici aventi ampiezza , strutture e mezzi delle stesse proporzioni , di Poteri pubblici cioè , che siano in grado di operare in modo efficiente sul piano mondiale . Lo stesso ordine morale quindi domanda che tali poteri vengano istituiti ... Chi non vede il bisogno di giungere così , progressivamente , a instaurare un ' autorità mondiale , capace di agire con efficacia sul piano giuridico e politico ? " . In questi giorni di guerra ripenso al lungo , difficile cammino della coscienza cristiana durante due millenni nel giudicare la guerra e gli armamenti . Prima delle armi nucleari e chimiche il principio della legittima difesa poteva in certi casi condurre a parlare di guerra giusta . Ora invece si è convinti della tragica inutilità e moralità di una guerra condotta con questi nuovi tipi di armamenti . Dobbiamo augurarci che la coscienza critica dei cristiani e di ogni uomo faccia ancora dei passi ulteriori . Intanto occorre che la mobilitazione contro il male sia accompagnata da un ' opera progettuale , che dia nuova consistenza alla pace , alla sicurezza , alla stessa dissuasione . In tale linea : una ricerca di giustizia , di eguaglianza , di solidarietà , il potenziamento del dialogo , dei sistemi democratici , degli organismi di controllo internazionali . La stessa dissuasione dovrebbe fondarsi non già sulla minaccia rappresentata dagli arsenali , bensì su quelle risorse ben più degne dell ' uomo che sono la solidarietà internazionale , le sanzioni giuridiche , l ' isolamento di chi fa ricorso alla prepotenza e alla forza . Rassegnarsi alla logica della guerra o della dissuasione armata vuol dire accettare la spirale perversa degli armamenti e finire in una trappola mortale per l ' umanità . Dal punto di vista progettuale , accanto alla proposta di studiare forme efficaci di difesa civile non violenta , sta il riconoscimento del valore della obiezione di coscienza , la denuncia di certe forme di ricerca scientifica subalterne a logiche di distruzione , lo scandalo rappresentato dal divario crescente Nord - Sud alimentato dal commercio delle armi . Sta l ' appello alla mediazione politica come strumento di composizione dei conflitti ; l ' appello a disarmare gli animi , armando la ragione ; l ' appello a credere nella Parola : " Forgeranno le loro spade in vomeri , le loro lance in falci , un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo " . ( Isaia , 2,4 ) .
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Nel dicembre del 1993 si è svolto alla Sorbona , sotto l ' egida della Academie Universelle des Cultures , un congresso sul concetto di intervento internazionale . C ' erano non solo giuristi , politologi , militari , politici , ma anche filosofi e storici come Paul Ricoeur o Jacques Le Goff , medici senza frontiere come Bernard Koutchner , rappresentanti di minoranze un tempo perseguitate come Elie Wiesel , Ariel Dorfmann , Toni Morrison , vittime della repressione di vari dittatori , come Leszek Kolakowski o Bronislaw Geremek o Jorge Semprun , insomma molta gente a cui la guerra non piace , non è mai piaciuta e non vorrebbero vederne più . Si aveva paura a usare parole come " intervento " , che sapeva troppo di ingerenza ( anche Sagunto è stato un intervento , e ha permesso ai romani di fare fuori i cartaginesi ) , e si preferiva parlare di soccorso e di " azione internazionale " . Pura ipocrisia ? No , i romani che intervengono a favore di Sagunto sono romani , e basta . In quel convegno invece si stava parlando di comunità internazionale , di un gruppo di paesi che ritengono che la situazione , in un punto qualsiasi del globo , abbia raggiunto l ' intollerabile , e decidono di intervenire per porre fine a quello che la coscienza comune definisce un delitto . Ma quali paesi fanno parte della comunità internazionale , e quali sono i limiti della coscienza comune ? Si può certo sostenere che per ogni civiltà uccidere sia un male , ma solo entro certi limiti . Noi europei e cristiani ammettiamo per esempio l ' omicidio per legittima difesa , ma gli antichi abitanti del Centro e Sud America ammettevano il sacrificio umano rituale , e gli attuali abitanti degli Stati Uniti ammettono la pena di morte . Una delle conclusioni di quel tormentatissimo convegno era stata che , come avviene in chirurgia , intervenire significa agire energicamente per interrompere o eliminare un male . La chirurgia vuole il bene , ma i suoi metodi sono violenti . È consentita una chirurgia internazionale ? Tutta la filosofia politica moderna ci dice che , per evitare la guerra di tutti contro tutti , lo Stato deve esercitare una certa violenza sugli individui . Ma quegli individui hanno sottoscritto un contratto sociale . Che cosa avviene tra stati che non hanno sottoscritto un contratto comune ? Di solito una comunità , che si ritiene depositaria di valori molto diffusi ( diciamo i paesi democratici ) stabilisce i limiti di ciò che essa giudica intollerabile . Non è tollerabile condannare a morte per reati d ' opinione . Non è tollerabile il genocidio . Non è tollerabile l ' infibulazione ( almeno , se praticata a casa nostra ) . Pertanto si decide di difendere coloro che sono danneggiati ai limiti dell ' intollerabile . Ma sia chiaro che quell ' intollerabile è intollerabile per noi , non per "loro".Chi siamo noi ? I cristiani ? Non necessariamente , cristiani rispettabilissimi , anche se non cattolici , appoggiano Milosevic . Il bello è che questo " noi " ( anche se è definito da un trattato , come quello nord - atlantico ) è un Noi impreciso . È una Comunità che si riconosce su alcuni valori . Dunque quando si decide di intervenire in base ai valori di una Comunità , si fa una scommessa : che i nostri valori , e il nostro senso dei limiti tra tollerabile e intollerabile , siano giusti . Si tratta di una sorta di scommessa storica non diversa da quella che legittima le rivoluzioni , o i tirannicidi : chi mi dice che io abbia diritto di esercitare la violenza ( e che violenza , talora ) per ristabilire quella che ritengo una giustizia violata ? Non c ' è nulla che legittimi una rivoluzione , per chi l ' avversa : semplicemente chi vi si impegna crede , scommette , che ciò che fa sia giusto . Non diversamente accade per la decisione di un intervento internazionale . È questa situazione quella che spiega l ' angoscia che afferra tutti in questi giorni . C ' è un male terribile a cui opporsi ( la pulizia etnica ) : è l ' intervento bellico lecito o no ? Si deve fare una guerra per impedire una ingiustizia ? Secondo giustizia sì . E secondo carità ? Ancora una volta si ripropone il problema della scommessa : se con una violenza minima avrò impedito una ingiustizia enorme , avrò agito secondo carità , come fa il poliziotto che spara al pazzo assassino per salvare la vita a molti innocenti . Ma la scommessa è duplice . Da un lato si scommette che noi siamo in accordo col senso comune , che quello che vogliamo reprimere è qualche cosa di universalmente intollerabile ( e peggio per chi non lo capisce e ammette ancora ) . Dall ' altro si scommette che la violenza che giustifichiamo riuscirà a prevenire violenze maggiori . Sono due problemi assolutamente diversi . Ora provo a dare per scontato il primo , che scontato non è , ma vorrei ricordare a tutti che questo non è un trattato di etica , bensì un articolo di giornale , sordidamente ricattato da esigenze di spazio e di comprensibilità . In altre parole , il primo problema è così grave , e angoscioso , che non può , anzi non deve essere trattato sulle gazzette . Diciamo allora che è giusto , per impedire un delitto come la pulizia etnica ( foriero di altri delitti e di altre atrocità che il nostro secolo ha conosciuto ) , ricorrere alla violenza . Ma la seconda domanda è se la forma di violenza che esercitiamo possa davvero prevenire violenze maggiori . Qui non siamo più di fronte a un problema etico bensì a un problema tecnico , il quale ha tuttavia un risvolto etico : se l ' ingiustizia a cui mi piego non prevenisse l ' ingiustizia maggiore , sarebbe stato lecito usarla ? Questo equivale a fare un discorso sulla utilità della guerra , nel senso di guerra guerreggiata , di guerra tradizionale , che ha per fine l ' annientamento finale del nemico e la vittoria del vincitore . Il discorso sulla inutilità della guerra è difficile perché pare che chi lo fa parli in favore dell ' ingiustizia che la guerra cerca di sanare . Ma questo è un ricatto psicologico . Se qualcuno per esempio dicesse che tutti i guai della Serbia derivano dalla dittatura di Milosevic , e che se i servizi segreti occidentali riuscissero a uccidere Milosevic tutto si risolverebbe in un giorno , questo qualcuno criticherebbe la guerra come strumento utile per risolvere il problema del Kosovo , ma non sarebbe pro - Milosevic . D ' accordo ? Perché nessuno adotta questa posizione ? Per due ragioni . Una , che i servizi segreti di tutto il mondo sono per definizione inefficienti , non sono stati capaci di fare ammazzare né Castro né Saddam ed è vergognoso che si consideri ancora giusto sperperare per essi pubblico denaro . L ' altro è che non è affatto vero che quello che fanno i serbi sia dovuto alla follia di un dittatore , ma dipende da odi etnici millenari , che coinvolgono e loro e altre etnie balcaniche , il che rende il problema ancora più drammatico . Torniamo allora al discorso sulla utilità della guerra . Qual è stato nel corso dei secoli il fine di quella che chiameremo paleo - guerra ? Sconfiggere l ' avversario in modo da trarre un beneficio dalla sua perdita . Questo imponeva tre condizioni : che al nemico dovessero essere tenute segrete le nostre forze e le nostre intenzioni , in modo da poterlo prendere di sorpresa ; che ci fosse una forte solidarietà nel fronte interno ; che infine tutte le forze a disposizione fossero utilizzate per distruggere il nemico . Per questo nella paleo - guerra ( compresa la guerra fredda ) si stroncavano coloro che dall ' interno del fronte amico trasmettevano informazioni al fronte nemico ( fucilazione di Mata Hari , i Rosenberg sulla sedia elettrica ) , si impediva la propaganda del fronte avverso ( si metteva in prigione chi ascoltava Radio Londra , McCarthy condannava i filocomunisti di Hollywood ) , e si punivano coloro che , dall ' interno del fronte nemico , lavoravano contro il proprio paese ( impiccagione di John Amery , segregazione a vita di Ezra Pound ) perché non si doveva fiaccare lo spirito dei cittadini . E infine si insegnava a tutti che il nemico andava ucciso , e i bollettini di guerra esultavano quando le forze nemiche venivano sterminate . Queste condizioni sono entrate in crisi con la prima neo - guerra , quella del Golfo , ma si attribuiva ancora la smagliatura alla stupidità dei popoli di colore , che ammettevano i giornalisti americani a Bagdad , forse per vanità , o per corruzione . Ora non ci sono più equivoci , l ' Italia invia aerei in Serbia ma mantiene relazioni diplomatiche con la Jugoslavia , le televisioni della Nato comunicano ora per ora ai serbi quali aerei Nato stanno lasciando Aviano , agenti serbi sostengono le ragioni del governo avversario dagli schermi della televisione di stato , giornalisti italiani trasmettono da Belgrado con l ' appoggio delle autorità locali . Ma è guerra questa , col nemico in casa che fa propaganda per i suoi ? Nella neo - guerra ciascun belligerante ha il nemico nelle retrovie e , dando continuamente la parola all ' avversario , i media demoralizzano i cittadini ( mentre Clausewitz ricordava che condizione della vittoria è la coesione morale di tutti i combattenti ) . D ' altra parte , quand ' anche i media fossero imbavagliati , le nuove tecnologie della comunicazione permettono flussi d ' informazione inarrestabili - e non so quanto Milosevic possa bloccare non dico Internet ma le trasmissioni radio da paesi nemici . Tutte le cose che ho detto sembrano contraddire il bell ' articolo di Furio Colombo su Repubblica del 19 aprile scorso , dove si sostiene che il Villaggio Globale di McLuhaniana memoria sarebbe morto il 13 aprile 1999 , quando in un mondo di media , cellulari , satelliti , spie spaziali e così via , si dovette dipendere dal telefonino da campo di un funzionario di agenzia internazionale , incapace di chiarire se davvero fosse avvenuta una infiltrazione serba in territorio albanese . " Noi non sappiamo nulla dei serbi . I serbi non sanno nulla di noi . Gli albanesi non riescono a vedere sopra il mare di teste che li sta invadendo . La Macedonia scambia i profughi per nemici e li massacra di botte " . Ma allora , questa è una guerra dove ciascuno sa tutto degli altri o dove nessuno sa niente ? Tutte e due le cose . Il fronte interno è trasparente , mentre la frontiera è opaca . Gli agenti di Milosevic parlano nelle trasmissioni di Gad Lerner , mentre sul fronte , là dove i generali di un tempo esploravano col binocolo , e sapevano benissimo dove si appostava il nemico , oggi non si sa niente . Questo accade perché , se il fine della paleo - guerra era distruggere quanti più nemici fosse possibile , pare tipico della neo - guerra cercare di ucciderne il meno possibile , perché a ucciderne troppi si incorrerebbe nella riprovazione dei media . Nella neo - guerra non si è ansiosi di distruggere il nemico , perché i media ci rendono vulnerabili di fronte alla sua morte - non più evento lontano e impreciso , ma evidenza visiva insostenibile . Nella neo - guerra ogni armata si muove all ' insegna del vittimismo . Milosevic accusa orribili perdite ( Mussolini se ne sarebbe vergognato ) , e basta che un aviatore della Nato caschi a terra che tutti si commuovono . Insomma , nella neo - guerra perde , di fronte all ' opinione pubblica , chi ha ammazzato troppo . E dunque è giusto che alla frontiera nessuno si affronti e nessuno sappia niente dell ' altro . In fondo la neo - guerra è all ' insegna della " bomba intelligente " , che dovrebbe distruggere il nemico senza ammazzarlo , e si capiscono i nostri ministri che dicono : noi , scontri col nemico ? ma niente affatto ! Che poi un sacco di gente muoia lo stesso è tecnicamente irrilevante . Anzi , il difetto della neo - guerra è che muore della gente , ma non si vince . Ma possibile che nessuno sappia condurre una neo - guerra ? Nessuno , è naturale . L ' equilibrio del terrore aveva preparato gli strateghi a una guerra atomica ma non a una terza guerra mondiale , dove si dovessero spezzare le reni alla Serbia . É come se i migliori laureati del Politecnico fossero stati tenuti per cinquant ' anni a fare videogiochi . Vi fidereste a lasciargli fare ora un ponte ? Ma infine , l ' ultima beffa della neo - guerra non è che non ci sia nessuno oggi in servizio che sia vecchio abbastanza da avere imparato a fare una guerra - e non ci potrebbe essere in ogni caso , perché la neo - guerra è un gioco dove per definizione si perde sempre , anche perché la tecnologia che viene usata è più complessa del cervello di coloro che la manovrano e un semplice computer , benché fondamentalmente idiota , può giocare più scherzi di quanti ne immagini colui che lo manovra .. Bisogna intervenire contro il delitto del nazionalismo serbo , ma forse la guerra è un ' arma spuntata . Forse l ' unica speranza è nell ' avidità umana . Se la vecchia guerra ingrassava i mercanti di cannoni , e questo guadagno faceva passare in secondo piano l ' arresto provvisorio di alcuni scambi commerciali , la neo - guerra , se pure permette di smerciare un surplus di armamenti prima che diventino obsoleti , mette in crisi i trasporti aerei , il turismo , gli stessi media ( che perdono pubblicità commerciale ) e in genere tutta l ' industria del superfluo . Se l ' industria degli armamenti ha bisogno di tensione , quella del superfluo ha bisogno di pace . Prima o poi qualcuno più potente di Clinton e di Milosevic dirà basta , e tutti e due ci staranno a perdere un poco di faccia , pur di salvare il resto . È triste , ma almeno è vero .
Il Palazzo e la Piazza ( Bobbio Norberto , 1986 )
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La metafora del « palazzo » usata sempre più frequentemente nel linguaggio politico corrente , per indicare , con intenzione non benevola , coloro che ci governano , richiama , per contrapposizione , l ' analoga metafora della « piazza » , di cui ci si serve , con intenzione parimenti non benevola , per indicare la moltitudine di coloro che stanno fuori ( in basso ) e non hanno altro potere che quello di protestare o di applaudire : « analoga » , perché connota un insieme di persone mediante il luogo in cui si trovano , come « casa » per famiglia , « caserma » per truppa , « castello » per signore , « reggia » per monarca , e , passando dal nome astratto al nome proprio , « Farnesina » per corpo diplomatico italiano . A commento della manifestazione romana del marzo scorso , promossa da un sindacato contro una minacciata riduzione della scala mobile , il « Corriere della Sera » intitolò un suo articolo Il Parlamento e la « piazza » . Recentemente sulla « Stampa » il titolo annunciava Studenti in « piazza » e nel sottotitolo si leggeva : Palazzo Chigi risponde in tono pacato . Ancor più recentemente « La Repubblica » ha dato l ' annuncio che Carniti sarebbe diventato presidente della Rai in questo modo : Entra nel Palazzo un uomo di « piazza » . Per quanto la reiterazione della contrapposizione sia di questi ultimi anni ( e chi sa quanti altri esempi se ne potrebbero dare ) , dovuta a una celebre invettiva di Pasolini , l ' antitesi « palazzo - piazza » è antica e appartiene al linguaggio politico tradizionale . In un articolo del primo fascicolo della bella rivista dell ' Istituto italiano di cultura a Parigi , uscita in questi giorni col titolo «50 , rue de Varenne » , tutto dedicato al tema della « piazza » ( anche se prevalentemente dal punto di vista architettonico e quindi non nel suo significato metaforico ) , mi cade sottocchio un brano di uno dei Ricordi di Guicciardini , in cui si legge : « ... e spesso tra il palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o un muro sì grosso che ... tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa , quanto delle cose che si fanno in India » . Se una ricerca su questa contrapposizione , soprattutto sull ' uso di « piazza » nel suo significato politico , non fosse ancora stata fatta ( ma non si sa mai ) , varrebbe la pena che un giovane volenteroso vi si accingesse . Intanto non mi sembra inopportuna qualche osservazione generale . « Piazza » è uno di quei tanti termini che , nati nel linguaggio comune , diventati sempre più popolari attraverso il linguaggio dei giornali , possono offrire un interessante e nuovo campo d ' indagine anche allo studioso . Nelle espressioni più correnti , « manifestazione o dimostrazione di piazza » , « scendere o andare in piazza » , « fare appello alla piazza » , o addirittura proverbiali , come « pane in piazza e giustizia in palazzo » , la parola sta a indicare una moltitudine di persone che si riuniscono spontaneamente e volontariamente , o vengono convocate da chi ha voce per farsi ubbidire , allo scopo di manifestare , secondo un diverso grado d ' intensità , uno stato d ' animo , un ' opinione , una volontà politica , che possono essere tanto di protesta , come avviene di solito nei regimi democratici , in cui uno dei diritti costituzionalmente garantiti è il diritto di riunione in pubblico e di libera manifestazione del proprio pensiero anche attraverso il mezzo della riunione pacifica , quanto di consenso , com ' è avvenuto nel nostro paese con le famose « adunate » fasciste di piazza Venezia , dove la moltitudine vi confluiva , in parte di propria volontà , in parte perché inquadrata nelle organizzazioni di massa del regime . Le due maggiori caratteristiche che servono a definire la « piazza » come fenomeno politico sono , da un lato , la partecipazione ( o la mobilitazione secondo i casi ) di un numero molto alto di persone , e , dall ' altro , il luogo aperto della riunione . Sulla base di questi due elementi la « piazza » si distingue da altre sedi di riunione a scopo di protesta o di discussione politica , più ristrette e meno aperte , come il salotto o il caffè , l ' uno privato , l ' altro semipubblico , di cui soltanto si può disporre là dove le libertà civili non sono riconosciute . A differenza dei luoghi dove si possono riunire soltanto poche persone e al chiuso , la « piazza » non è sede di discussione , dove si vada per dibattere un problema e decidere di conseguenza . Coloro che vi confluiscono lo fanno perché hanno uno scopo comune , in qualche modo già prestabilito . Ascoltano gli oratori di parte se si tratta di una protesta , di una petizione , di una rivendicazione nei riguardi dei signori del palazzo ; oppure pendono dalle labbra del grande demagogo , che fissa le mete , dà ordini , indica il nemico da abbattere negli avversari del governo , e acclamano . A differenza dell ' agorà classica , la « piazza » tanto nei regimi autocratici , quanto nei regimi di democrazia indiretta o rappresentativa , non è neppure un luogo dove si prendano decisioni : le decisioni che contano o sono già prese dagli stessi partecipanti ( si manifesta perché si vuole un certo provvedimento o si contesta un provvedimento già preso ) , oppure dallo stesso dittatore ( e la folla parla per monosillabi : « Sì » , « No » , « A noi ! » ) . In un regime di democrazia rappresentativa , che è quello che c ' interessa , la « piazza » è la più visibile conseguenza del diritto di riunione illimitato rispetto al numero delle persone che possono esercitarlo insieme e contemporaneamente . Prima dell ' avvento dei regimi democratici la facoltà concessa ai cittadini di riunirsi per presentare petizioni era riservata a gruppi di pochi , non più di una decina . Altrimenti la riunione è illecita , ed è vietata come « assembramento » , o peggio come « tumulto » , nei casi estremi come « sedizione » . Non c ' è più esatta descrizione di come un accorrere di gente per protesta si trasformi in tumulto che quella offertaci da Manzoni nel capitolo XII dei Promessi sposi in cui si comincia a parlare di « piazze » e strade che « brulicavano di uomini , trasportati da una rabbia comune , predominati da un pensiero comune , conoscenti o estranei , senza essersi dati l ' intesa , quasi senza avvedersene , come gocciole sparse sullo stesso pendio » e si finisce con quel « trambusto » che « andava sempre crescendo » , perché « tutti coloro che gli pizzicavan le mani di far qualche bell ' impresa , correvan là , dove gli amici erano i più forti , e l ' impunità sicura » . « Palazzo » e « piazza » sono due espressioni polemiche per designare , rispettivamente , i governanti e i governati , soprattutto il loro rapporto d ' incomprensione reciproca , di estraneità , di rivalità , ancora oggi , come nel brano sopracitato di Guicciardini . E si richiamano a vicenda , negativamente : vista dal palazzo la piazza è il luogo della libertà licenziosa ; visto dalla piazza il palazzo è il luogo dell ' arbitrio del potere . Se cade l ' uno è destinato a cadere anche l ' altro .
La violenza oscura ( Bobbio Norberto , 1984 )
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L ' anno finisce nel nostro paese sotto il segno della violenza più abietta . Mi vado sempre più convincendo che la violenza terroristica , specie quella rivolta non contro il personaggio rappresentativo di un potere che si vuole abbattere , ma quella che si scatena contro una folla ignara , scelta a caso , con assoluta indifferenza , sia violenza fine a se stessa . La violenza per la violenza . O per lo meno l ' enorme sproporzione tra il mezzo e il fine è tale che nessuna persona ragionevole riesce a far valere rispetto a tale atto la massima machiavellica del fine che giustifica i mezzi . Questa massima fondamentale dell ' etica politica , e non solamente dell ' etica politica ma di ogni etica che giudica l ' azione , qualsiasi azione , non in base a principi universali ma in base ai risultati , richiede per essere accettata tre condizioni . Primo : non qualsiasi fine giustifica qualsiasi mezzo . Il fine che giustifica il mezzo deve a sua volta essere giustificato . In altre parole , deve essere un fine buono . Ma in base a quale criterio si distinguono i fini buoni dai fini cattivi ? E chi giudica quali sono i fini buoni e i fini cattivi ? La massima machiavellica lascia questo problema completamente aperto . L ' etica dei risultati rinvia all ' etica dei principi in un circolo senza fine . Secondo : il fine deve essere non solo in qualche modo giustificabile ma anche con una certa probabilità raggiungibile . Nel dramma di Camus , I giusti , uno dei protagonisti , il rivoluzionario , proclama : « Noi uccidiamo per costruire un mondo ove più nessuno ucciderà » , applicando la massima secondo cui il fine giustifica i mezzi , e annunciando un fine che non può non essere universalmente riconosciuto come moralmente nobile . Ma la sua compagna lo interrompe : « E se così non fosse ? » Quante volte nella storia è stata compiuta un ' azione moralmente riprovevole con intenzione di perseguire uno scopo nobile , ma poi , « non è stato così » ? Terzo : pure ammesso che il fine sia nobile , il che vuol dire giustificabile con argomenti di carattere etico , e raggiungibile con una certa probabilità , il che vuol dire non arbitrario , non velleitario , non ingenuamente utopistico , i mezzi impiegati debbono essere tali da far presumere in base al senso comune che siano adeguati al fine , e se vengono giudicati in base allo stesso senso comune immorali , siano anche i soli mezzi capaci di ottenere quello scopo e pertanto siano non solo opportuni ma anche rigorosamente necessari . In un atto terroristico come quello compiuto la sera di domenica 23 dicembre , non si ritrova nessuna di queste tre condizioni . Anzitutto qual è il fine ? Impossibile il giudizio sulla bontà o non bontà del fine , se non si sa esattamente quale sia il fine dichiarato o presunto . Generalmente nell ' atto di terrorismo puro il fine non è dichiarato : a differenza del terrorista che colpisce un bersaglio preciso , il terrorista il cui obiettivo è unicamente quello di seminar panico in una folla inerme , può rivendicare il gesto ma non ne rivela mai lo scopo . Per dare un ' apparenza di giustificazione razionale a questa forma di terrorismo si è creduto , dalla strage di piazza Fontana in poi , che un fine più o meno preciso ma reale esistesse ( e in questo senso si può parlare di fine presunto ) e consistesse nella creazione di uno stato di cose cui è stato dato un nome : destabilizzazione . Ma che significa « destabilizzare » ? Si tratta di una delle tante parole del linguaggio politico che , essendo abitualmente usate nella conversazione quotidiana , si finisce di convincersi abbiano un significato preciso , mentre non appena si tenta di definirle ci si accorge che sono mobili , fluide , inafferrabili . Proviamo a intendere per « destabilizzare » il provocare , in una compagine sociale , uno stato di confusione tale da rendere praticamente impossibile il normale funzionamento di un sistema politico qualunque esso sia ( non è detto che solo i regimi democratici possano essere oggetto di un ' azione destabilizzante ) . Ma questo fine è raggiungibile ? Che una strage anche grandissima , in un solo punto del territorio nazionale , specie quando si tratti di un territorio vasto come quello italiano , possa avere conseguenze tali da creare le condizioni per un rivolgimento capace di mutare radicalmente lo stato di cose vigente , è poco credibile . Del resto le stragi sinora compiute non hanno avuto altro esito che quello di seminare panico , sollevare indignazione , provocare lutti le cui conseguenze private sono infinitamente superiori a quelle pubbliche e politiche . Il corso degli eventi sarebbe stato diverso nel nostro paese se le stragi non fossero avvenute ? Avremmo avuto governi più stabili , politici meno discussi , maggiore o minore inflazione , maggiore o minore disoccupazione ? Non dovrebbe essere allora altrettanto destabilizzante un terremoto ? In un naufragio non muoiono altrettante vittime innocenti ? Ma se il raggiungimento del fine , anche di quello presunto , è poco probabile , non si dovrà dedurre che i mezzi ( mi riferisco alla terza condizione ) sono di per sé palesemente inadeguati ? Le interpretazioni possibili di una simile azione sono due : o l ' attore è irrazionale oppure il mezzo si è convertito nel fine , non ha un fine perché è esso stesso il fine . Riguardo all ' azione del terrorismo puro , io propendo per questa seconda interpretazione . L ' unico fine della strage è la strage . So benissimo di correre sul filo del paradosso . Ma cerco di far capire e di capire io stesso che vi sono azioni umane di fronte alle quali si può parlare di malvagità assoluta . Se è vero , come io credo sia vero , che la moralità assoluta consista nel fare il bene con nessun altro scopo che quello di fare il bene , disinteressatamente , la immoralità assoluta dovrà consistere nel compiere un ' azione malvagia con nessun altro scopo che quello di fare il male . Il terrorista che fa esplodere la bomba in un treno è perfettamente consapevole del fatto che le vittime designate sono innocenti . Non sono neppure suoi nemici . Non sono neppure capri espiatori di un rito propiziatorio compiuto per placare un dio irato . Sono cose vili , oggetti di nessun conto ( e per questo l ' uno vale l ' altro ) , la cui distruzione egli affida al caso per mostrare la sua cieca volontà di potenza , la sua radicale indifferenza ad ogni fine che la trascenda .
La catena dei violenti ( Bobbio Norberto , 1986 )
StampaQuotidiana ,
L ' impresa militare americana contro la Libia , presentata e giustificata come una risposta legittima a un atto di terrorismo , solleva ancora una volta l ' eterno problema del rapporto fra la morale comune o il diritto , suo fratello minore , e la violenza . Eterno , perché non mai risolto e probabilmente insolubile , se è vero , e io credo sia vero , quel che diceva Machiavelli : gli uomini « hanno ed ebbero sempre le stesse passioni » , ed è quindi naturale che ne derivino gli stessi effetti . La morale comune e il diritto , suo fratello minore , condannano in linea di principio la violenza e ammettono che l ' unica violenza legittima sia quella che risponde alla violenza dell ' altro , almeno in date circostanze , quando non è possibile diversa risposta . Detto altrimenti , la violenza di un soggetto , individuo o gruppo che sia , in linea di principio illecita , diventa lecita quando in una data situazione rappresenta il solo rimedio possibile alla violenza dell ' altro . Illecita è la violenza dell ' aggressore , o originaria , lecita la violenza di chi si difende , o derivata . Ma in un sistema in cui non esiste un giudice imparziale al di sopra delle parti , o se esiste non è tenuto in alcun conto , come accade nel sistema dei rapporti internazionali , chi decide quale sia la violenza originaria e quale quella derivata ? A questa domanda non è difficile dare una risposta sulla base della lezione dei fatti : la violenza originaria è sempre , per ognuno dei due contendenti , quella dell ' altro . Anche nel caso che l ' aggressione sia venuta palesemente da una delle parti : basta considerare l ' aggressione come una reazione preventiva a una violenza minacciata . Gli americani bombardano Tripoli per ritorsione contro la bomba di Berlino attribuita a Gheddafi come mandante . In tal modo la loro violenza viene giustificata come derivata . Ma il terrorista non si trova affatto in imbarazzo a replicare ( ed è infatti un suo argomento abituale ) che il terrorismo è l ' unico atto di guerra consentito ai piccoli contro i grandi ed è quindi l ' unica reazione possibile , ancorché spietata ( ma se non fosse spietata non sarebbe una risposta efficace ) , alla prepotenza di chi esercita ingiustamente ( almeno a suo giudizio ) un enorme potere . Dunque anche la sua violenza non è , dal suo punto di vista , originaria . Provate a cercare la violenza originaria , la violenza che in quanto originaria sia da considerarsi sicuramente illecita . Non la troverete . E non la trovate , non già perché non ci possa essere , ma perché nessuno dei due contendenti ammetterà mai che originaria sia la propria , derivata l ' altrui . E un giudice esterno , e presumibilmente imparziale , nel sistema internazionale non esiste . Esiste la pubblica opinione ma , come tutti possono constatare leggendo i giornali in questi giorni , è divisa . Ed è divisa anche perché non è in grado di conoscere esattamente le cose , come potrebbe conoscerle un giudice dopo aver esaminato tutti i pro e tutti i contro , e dopo aver avuto accesso a tutte le prove addotte da una parte e dall ' altra . Pur non dubitando della correttezza del governo americano , sta di fatto che , nel nostro caso , le prove vengono da una sola delle parti in causa . Quel che è peggio , siccome ogni atto violento per giustificarsi deve rinviare a un atto violento precedente , lo stato di violenza una volta cominciato ( anche se non si sa quando e per colpa di chi sia davvero cominciato ) è destinato a continuare . E nel continuare , la violenza cresce di intensità e di estensione . Avviene quel fenomeno che si chiama « spirale » della violenza . Avviene per una ragione molto semplice : come si legge in un altro grande scrittore politico del passato , è naturale che chi è giudice nella propria causa sia indotto o dall ' « indole cattiva » o dalle « passioni » o dallo « spirito di vendetta » ad andare troppo oltre nella reazione e a commettere a sua volta , anche nel caso che la sua risposta sia legittima , un ' ingiustizia . Se la reazione contenuta nei limiti dell ' entità dell ' offesa è una violenza derivata , per quella parte in cui eccede questi limiti diventa originaria . In quanto originaria , può provocare una ritorsione che diventa a sua volta derivata e quindi legittima . Anche il diritto penale interno stabilisce che nella legittima difesa la reazione deve essere proporzionata all ' offesa . Ma nei rapporti fra due nemici che non riconoscono al di sopra di loro un potere comune , chi decide se questa proporzione vi sia stata ? Siccome ancora una volta ognuno dei due contendenti darà probabilmente un giudizio opposto , considerando proporzionata la propria difesa , sproporzionata quella dell ' altro , sorgeranno di nuovo ottime ragioni da parte di entrambi per aggiungere nuovi anelli alla catena . Generalmente questa catena termina in un solo modo : con la sconfitta definitiva di una delle parti . Con la vittoria del più forte . Poiché non si è potuto fare in modo che quel che è giusto sia forte , diceva Pascal , si è fatto in modo che quel che è forte sia giusto . Credo che non sarà diversa la conclusione dell ' attuale conflitto . Le azioni politiche si giudicano dai risultati . La legge morale non c ' entra . Il giudizio sulle azioni politiche non le appartiene . Reagan lo ha detto più volte : il suo scopo è quello di reprimere e sopprimere , alla lunga , il terrorismo medio - orientale . Rispetto a questo unico metro di giudizio della sua azione , è troppo presto per emettere un verdetto . Se vi sarà una recrudescenza del terrorismo , si dirà che ha avuto torto . Se si attenuerà o cesserà del tutto , si dirà che ha avuto ragione . Indipendentemente dal fatto che la reazione sia stata proporzionata all ' offesa , ossia da ogni considerazione di principio . Il fine giustifica i mezzi . Ancora Machiavelli : faccia un principe in modo di vincere e i mezzi « saranno sempre giudicati onorevoli e da ciascuno lodati » .
È lecito uccidere il tiranno? ( Bobbio Norberto , 1986 )
StampaQuotidiana ,
È lecito uccidere il tiranno ? Era naturale che dopo l ' attentato a Pinochet si riproponesse ancora una volta , anche in Italia , l ' eterna domanda . Se la sono posta in questi giorni , tra gli altri , Rossana Rossanda sul « Manifesto » rispondendo di sì ma sollevando i dubbi di Adriano Sofri , e di Mieli sulla « Stampa » e di Giuliano Zincone sul « Corriere della Sera » . Il problema è vecchio e le diverse possibili soluzioni altrettanto . Per fare qualche esempio , in un ' epoca in cui le guerre di religione avevano favorito la nascita di dottrine che predicavano il tirannicidio , Hobbes collocava la massima « E lecito uccidere il tiranno » fra le teorie sediziose che in uno Stato ben ordinato avrebbero dovuto essere proibite ( nella repubblica hobbesiana l ' articolo di Rossana Rossanda sarebbe stato censurato , e l ' autore forse messo in prigione ) . Nell ' età della rivoluzione francese , in cui venivano celebrati in cattedrale feste e riti in onore di Bruto , Kant affermò che chiunque avesse anche il minimo senso dei diritti dell ' umanità non poteva non essere scosso da un « brivido d ' orrore » di fronte all ' esecuzione solenne di Carlo I in Inghilterra e di Luigi XVI in Francia . Come tutti i problemi morali , anche il problema della liceità del tirannicidio non è di facile soluzione . Anzi , non ha una soluzione che possa essere data e accolta una volta per sempre , perché ogni caso è diverso da tutti gli altri . La soluzione dipende dalle circostanze di luogo e di tempo , dalla persona contro cui l ' atto si dirige , dalle persone che lo compiono , dalla gravità delle colpe e dalla impossibilità di ricorrere ad altri rimedi . Avevano ragione o torto i cospiratori del 20 luglio 1944 nel tentare di uccidere Hitler ? Aveva le stesse ragioni l ' anarchico Bresci nell ' uccidere Umberto I ? Basta porre queste due domande , e se ne potrebbero porre infinite altre analoghe , per rendersi conto che sotto il nome generico di attentato , o di atto terroristico , si celano eventi totalmente diversi , che non possono essere giudicati con lo stesso metro . Il primo aveva un intento prevalentemente liberatorio , il secondo essenzialmente punitivo . Il problema è reso più complesso dal fatto che la stessa azione può essere sempre giudicata con due criteri diversi : o in base a regole precostituite che debbono essere osservate o in base ai risultati che si ritiene debbano essere raggiunti . I due giudizi non coincidono quasi mai : osservando le buone regole spesso si ottengono cattivi risultati ; cercando di ottenere buoni risultati , molte buone regole vengono coscientemente e tranquillamente calpestate . Se si giudica l ' attentato in base alle regole precostituite , è evidente che esso contravviene alla norma « Non uccidere » , che è una delle leggi fondamentali della morale di ogni popolo e in ogni tempo . Come tale dovrebbe essere condannato . Ma non vi è regola senza eccezione . Non è lecito uccidere il nemico in una guerra giusta ? Non è sempre stata riconosciuta come guerra giusta la guerra di difesa ? Non può allora essere estesa al tiranno considerato come nemico interno l ' eccezione prevista per il nemico esterno ? Sennonché , come in guerra l ' eccezione vien meno di fronte alle popolazioni civili , così l ' attentatore dovrebbe colpire soltanto il tiranno e risparmiare le persone , la scorta o i familiari , che si trovino accanto a lui . Ma oggi questa condizione è sempre più difficile da rispettare per il tipo di armi impiegato , come ha dimostrato l ' uccisione di alcune guardie del corpo nell ' attentato a Pinochet . Ciò rende la liceità del tirannicidio , giudicandola in base agli argomenti della filosofia pubblica tradizionale , sempre più problematica . Nel dramma I giusti , di Camus , il congiurato cui è stato affidato il compito di uccidere il Gran Duca torna senza aver eseguito l ' ordine perché sulla carrozza erano seduti accanto al personaggio due piccoli nipoti . Quando uno dei compagni lo rimprovera : « L ' Organizzazione ti aveva comandato di uccidere il Gran Duca » , risponde : « E ' vero , ma non mi aveva comandato di assassinare dei bambini » . Partendo dal punto di vista dei risultati , il giudizio non diventa né più facile né più limpido . Anzitutto il risultato deve essere se non certo altamente probabile . Non c ' è dubbio che nel caso dell ' attentato al generale cileno il non raggiungimento del risultato abbia contribuito a rafforzare il potere del dittatore sia nei riguardi di tutti quei cittadini ( e sono ancora molti ) che sarebbero disposti a liberarsi dalla dittatura in cambio di una democrazia moderata ma non a cambiare il regime di Pinochet con un regime comunista , sia nei riguardi degli Stati Uniti , che abbandoneranno del tutto il generale solamente quando saranno sicuri che al suo posto invece di un governo democratico all ' americana non venga istituito un governo guidato dal partito comunista . In secondo luogo , si deve prevedere che il risultato non solo sia perseguibile con un alto grado di probabilità , ma che , se raggiunto , sia tale da non lasciar adito a dubbi sulla sua convenienza o opportunità , nel senso che , messi sui due piatti della bilancia il male necessario ( nell ' uso di certi mezzi ) e il bene possibile , il secondo prevalga . Inutile dire quanto questa soluzione sia difficile . Nel caso dell ' attentato a Giovanni Gentile ( so di toccare un tasto dolente ) la sproporzione tra la morte di un uomo e le conseguenze che questa morte poteva avere sulla condotta della guerra era tale da renderci oggi molto dubbiosi sulla saggezza di quell ' atto ( anche se devo confessare che allora non mi ero posto il problema nello stesso modo ) . Nel caso dell ' attentato a Pinochet sospendo il giudizio : mi parrebbe di commettere un atto di prevaricazione nel sostituire la mia opinione a quella di coloro che vivono dentro a quella situazione . Durante l ' occupazione tedesca , quando assistevamo alla tortura e alla morte di tanti nostri compagni , come avrei giudicato un attentato a Mussolini ? Un uomo dell ' altezza morale di Calamandrei alla notizia della morte di Mussolini trascrive sul suo diario , unico commento all ' episodio , il famoso cantico di Alceo : « Ora bisogna bere ; I ubriacarsi bisogna ; I ora che Mirsilo è morto » . Completamente diverso e più semplice il giudizio sugli atti di terrorismo indiscriminati , come le stragi alla stazione di Bologna , nella sinagoga di Istanbul , nel grande magazzino di rue de Rennes . Prova ne sia che , mentre di fronte all ' attentato al dittatore cileno c ' interroghiamo sulla sua liceità , di fronte a quelle stragi restiamo inorriditi , incapaci di dare , nonché una giustificazione , una qualsiasi plausibile spiegazione .
La logica del terrorismo ( Bobbio Norberto , 1985 )
StampaQuotidiana ,
Ogni atto terroristico suscita un acceso e quasi sempre inconcludente dibattito circa i suoi scopi e i suoi effetti . Il dibattito nasce dal fatto che di ogni atto terroristico , sia di quello indiscriminato sia di quello rivolto verso un obiettivo specifico , è estremamente difficile stabilire gli scopi . Ed è estremamente difficile stabilirne gli scopi perché non è facile prevederne gli effetti . L ' assassinio del prof. Tarantelli è stato immediatamente collegato alla campagna in corso pro e contro il referendum . Ma a guardar bene questo collegamento è stato fatto nei modi più diversi . I problemi connessi col referendum sono due : a ) se si debba svolgere , secondo l ' indicazione della Corte costituzionale , o debba essere evitato ; b ) se una volta che sia stato deciso di lasciarlo svolgere , quale delle due parti in contrasto lo vincerà . Ebbene , rispetto a entrambi i problemi , credo che nessuno sia in grado di prevedere esattamente se l ' assassinio del prof. Tarantelli avrà delle conseguenze e quali saranno . Rispetto al primo problema l ' assassinio è destinato a favorire coloro che il nodo della scala mobile preferiscono tagliarlo con il ricorso al voto popolare oppure coloro che preferiscono scioglierlo attraverso un compromesso fra le parti in cui non dovrebbero esservi né vincitori né vinti ? Rispetto al secondo , questo « sangue » è destinato a far aumentare i voti del « sì » oppure i voti contrari ? Posto il problema degli scopi e degli effetti di questo nuovo atto di terrorismo , e non si vede come possa essere posto altrimenti , si capisce subito che le risposte possibili sono molte , e anche opposte fra loro . Di fatto , a giudicare dalla polemica subito sorta fra uomini politici delle diverse parti , ognuno dà una interpretazione diversa secondo il proprio punto di vista . Ciò dimostra ancora una volta che la logica dell ' atto terroristico non può essere giudicata alla stregua della logica dell ' azione politica comune , che mette in diretta connessione il mezzo col fine , e che di fronte a un ' azione in cui non riesce a cogliere il nesso mezzo - fine è tentata di considerarla irrazionale ( o folle ) . Una delle ragioni per cui è così difficile dare un giudizio politico su un atto di terrorismo è che ci si sofferma troppo poco sul suo aspetto meramente punitivo o vendicativo . Il terrorista è o crede di essere , prima di tutto , un giustiziere . Ciò che per noi che ci mettiamo dal punto di vista dell ' ordinamento delle leggi dello Stato è un assassinio , per il terrorista che non accetta l ' ordinamento dello Stato , che considera lo Stato il principale nemico da abbattere , è una condanna a morte . Di un atto di giustizia è perfettamente inutile cercare quali siano gli scopi e gli effetti ulteriori . In un atto di giustizia lo scopo dell ' atto che è il rendere giustizia , è intrinseco all ' atto stesso . L ' atto di giustizia non pone alcuna domanda che vada al di là dell ' atto perché è esso stesso una risposta , ed è una risposta che chiude un ciclo di azioni e reazioni , e non ne apre uno nuovo . Che ogni atto di giustizia , soprattutto poi quando è così spietato , possa avere anche lo scopo di costituire un atto d ' intimidazione e di avvertimento nei riguardi di futuri colpevoli , non si può escludere , sebbene uno scopo di questo genere sia molto più evidente nella giustizia di un ' istituzione regolata da norme generali e astratte com ' è l ' ordinamento giuridico dello Stato che in quella di un gruppo terroristico la cui organizzazione è labile , discontinua , e la cui azione futura è molto più incerta . Ma in ogni caso l ' eventuale effetto rispetto ad azioni future è secondario rispetto a quello primario ed essenziale della punizione di azioni passate . Ha dunque ben poco senso cercare una giustificazione politica di un atto che essendo compiuto come un atto di giustizia trova la propria giustificazione in se stesso , cioè esclusivamente nel fatto di essere un atto di giustizia , e che in quanto tale può avere paradossalmente una giustificazione etica ( se pure di un ' etica distorta ) e non ha niente a che fare con la politica . A questa prima osservazione se ne collega una seconda , a mio parere più importante . L ' unica cosa che un atto terroristico come l ' assassinio del prof. Tarantelli vuole politicamente dimostrare è che di fronte ai grandi conflitti sociali non vi può essere che un unico modo per risolverli : il ricorso alla violenza . In quanto tale esso è una sfida alla democrazia intesa come l ' insieme delle regole che permettono di risolvere i conflitti senza ricorrere all ' uso della violenza da parte dei gruppi in conflitto fra loro . I modi per risolvere democraticamente , senza ricorrere alla violenza , i conflitti d ' interesse sono principalmente due : la trattativa che conduce a un accordo di compromesso oppure il voto calcolato in base alla regola di maggioranza . Si osservi bene : si tratta dei due metodi attualmente in contrasto per la soluzione della controversia sulla scala mobile , e sui quali è in corso , con esito incerto , la discussione fra le varie parti . Anche da questo punto di vista , a me pare sia perfettamente inutile il litigio sui presunti scopi dell ' assassinio . In quanto esso applica il metodo della violenza in antitesi al metodo democratico essenzialmente non violento , si contrappone contemporaneamente tanto alle pratiche del compromesso che vorrebbero evitare il referendum quanto all ' attuazione del referendum che pretende di risolvere con un voto di maggioranza un conflitto che secondo il terrorista , che ha una idea rivoluzionaria del cambiamento storico , non può essere risolto con nessuno dei rimedi offerti da un governo democratico che voglia rispettare le regole del gioco . Il terrorista dice no tanto al compromesso quanto al referendum , tra i quali non può fare alcuna distinzione dal suo punto di vista . Anche in questo caso il gesto ha un valore puramente dimostrativo e pertanto ha un fine in se stesso , come l ' atto di giustizia , indipendentemente dai suoi effetti . Con questo non si vuol dire che non abbia effetti che vadano ben al di là delle intenzioni degli attori , anche se non sappiamo esattamente quali potranno essere . Ma non è l ' arzigogolare sugli effetti che possa in qualche modo offrirci una ragione dell ' atto , perché l ' atto ha le sue ragioni chiarissime a chi le voglia intendere , indipendentemente da essi . Resta una domanda angosciosa : perché nel nostro paese questa sfida alla democrazia sia più forte che altrove .
La virtù dei deboli ( Bobbio Norberto , 1986 )
StampaQuotidiana ,
Le recenti vicende che stanno travolgendo la popolarità di Ronald Reagan hanno sollevato un vasto dibattito che riguarda non soltanto la persona del presidente ma anche l ' istituzione stessa della presidenza della repubblica degli Stati Uniti , come si è venuta trasformando negli ultimi decenni . Per quanto possa sembrare paradossale , si va dicendo che il presidente degli Stati Uniti è insieme forte e vulnerabile , e addirittura tanto più vulnerabile quanto più forte . Il paradosso consiste nel fatto che la vulnerabilità è di solito considerata caratteristica di un potere debole . Nell ' ultimo saggio scritto prima della morte ( Autoritarismo , fascismo e classi sociali , Il Mulino , Bologna 1975 ) Gino Germani esprimeva il dubbio che i pochi governi democratici nel mondo attuale potessero sopravvivere in un universo di Stati in gran parte non democratici . Egli fondava questo dubbio sulla convinzione che i regimi democratici fossero più vulnerabili sia per ragioni interne - la frammentazione del potere che consente a piccoli gruppi organizzati di inferire colpi mortali alla società costretta per difendersi a violare le sue stesse regole - , sia per ragioni esterne - la crescente e inarrestabile dimensione universale della politica internazionale che avrebbe favorito i regimi autoritari più di quelli democratici . Entrambe le ragioni mettevano in relazione la vulnerabilità delle democrazie con la loro debolezza . Soprattutto per quel che riguarda la politica estera , la stessa tesi è stata sostenuta col solito vigore e furore polemici da Jean - François Revel nel libro Come finiscono le democrazie ( Rizzoli , Milano 1984 ) . Le democrazie sarebbero destinate a finire , e a rappresentare un episodio di breve durata nella storia del mondo , per l ' incapacità di difendersi dal loro grande avversario , il totalitarismo . Questa incapacità sarebbe dovuta in parte ai dissensi interni , in parte all ' eccesso di arrendevolezza di fronte all ' astuto , spietato , antagonista . Anche in questo caso la vulnerabilità è interpretata come il naturale effetto della debolezza . In che senso la vulnerabilità può essere fatta derivare piuttosto dall ' eccesso di forza che dall ' eccesso di debolezza ? La risposta è stata data per secoli dai classici del pensiero politico : tanto più grande il potere dei governanti tanto più forte è la tentazione che essi hanno di abusarne , vale a dire di esercitarlo violando o aggirando le norme stabilite per regolarlo e limitarlo . Tale risposta trova piena conferma nell ' affermazione di uno dei più illustri storici contemporanei degli Stati Uniti , Arthur Schlesinger , che in un ' intervista di questi giorni ha detto : « Gli scandali come il Watergate , oggi l ' Irangate , sono la risposta patologica alla patologia dell ' onnipotenza » . Naturalmente vi sono regimi in cui il potere è forte e insieme invulnerabile . Sono gli Stati dispotici ove chi governa non ha , come diceva Montesquieu , « né leggi né freni » . Vi sono regimi in cui leggi fondamentali esistono ma mancano gli organi di controllo della loro osservanza . Sono le autocrazie preliberali in cui il rispetto delle leggi fondamentali che dovrebbero limitare il potere sovrano è demandato allo stesso detentore di quel potere ( « autocrate » è letteralmente colui che governa se stesso ) . Vi sono infine regimi in cui non solo il potere deve essere sempre esercitato entro i limiti stabiliti da una costituzione formale , e oggi , nella maggior parte dei casi , anche rigida , ma è , o dovrebbe essere , di fatto sottoposto sempre a controlli esterni . Sono gli Stati democratici . Di questi controlli due sono i principali : quello derivato dalla libertà di stampa , che permette la formazione di un ' opinione pubblica ; quello derivato dall ' istituzione della divisione dei poteri da cui nasce il controllo del potere legislativo su quello governativo . Sono due istituti caratteristici dello Stato democratico , di cui siamo debitori alla tradizione del pensiero liberale , che ha avuto negli Stati Uniti una delle sue terre d ' elezione . Secondo la brillante tesi sostenuta recentemente da Michel Walzer , professore di scienze sociali all ' Institute for Advanced Studies di Princeton , lo spirito del liberalismo consiste nell ' « arte della separazione » , a cominciare dalla separazione dello Stato dalla Chiesa , della sfera privata dalla pubblica , della società civile dal sistema politico , per finire , all ' interno del sistema politico , a quella tra l ' uno e l ' altro dei massimi poteri . Tutte queste separazioni servono , come afferma Walzer , « a prevenire e a combattere l ' uso tirannico del potere » . In base a questa tesi è lecito sostenere che tanto la crisi della presidenza Nixon quanto quella della presidenza Reagan siano nate proprio dalla violazione del principio di separazione , vale a dire dalla pratica costante , e per un certo periodo di tempo incontrollata , della confusione , in primo luogo della confusione fra potere legale e potere personale , ovvero nell ' uso personale del potere legale . Si capisce quindi perché si possa parlare di vulnerabilità a proposito tanto di un governo debole quanto di un governo forte . Ma se ne parla in due sensi diversi . Il primo è vulnerabile per sua natura ; il secondo è tale in un contesto istituzionale in cui anche il supremo potere è limitato da regole giuridiche . Nel primo caso la vulnerabilità è un fatto negativo , e induce chi la denuncia a sostenere che la democrazia è impraticabile . Nel secondo è un fatto positivo , ed è anzi la riprova che i meccanismi di controllo del potere , propri dei regimi democratici , sono entrati , se pur talora tardivamente , in azione . Nel primo caso è un difetto , nel secondo il rimedio a un difetto . Un rimedio che dimostra se mai quanto sia difficile il pieno rispetto delle regole democratiche nei rapporti internazionali , in un sistema in cui la maggior parte degli Stati non sono democratici ed è esso stesso solo apparentemente democratico , in realtà ingovernabile . Sino a che uno Stato non democratico vive in una comunità cui appartengono Stati non democratici , ed è essa stessa non democratica , anche il regime degli Stati democratici sarà una democrazia incompiuta . L ' idea del vecchio Kant , per cui la condizione preliminare di una pace perpetua , diversa da quella dei cimiteri , fosse che tutti gli Stati avessero egual forma di governo , la forma repubblicana , quella forma di governo in cui per decidere della guerra occorre l ' assenso dei cittadini , non era il « sogno di un visionario » . Era una previsione fatta nella forma del « se allora » . Purtroppo quel « se » - « se tutti gli Stati fossero repubblicani » - può essere per ora soltanto l ' oggetto di un augurio .
Tentati dalla destra ( Bobbio Norberto , 1982 )
StampaQuotidiana ,
Nel recente convegno sulla nuova destra , svoltosi a Cuneo per iniziativa dell ' Istituto storico della Resistenza , qualcuno ha messo in dubbio che « destra » e « sinistra » siano ancora concetti adeguati a rappresentare le divisioni attuali tra dottrine e movimenti politici . Siamo stati invitati a riflettere sul fatto che da sinistra si riscoprono scrittori di destra , come Cari Schmitt , da destra , in particolare dalla nuova destra reazionaria , scrittori di sinistra come Gramsci . Negli stessi giorni in un ' intervista a « Panorama » Massimo Cacciari , intellettuale di sinistra , dichiarava di rifiutare « quella concezione assiale della politica che prevede una destra e una sinistra , intese come blocchi compatti e specularmente contrapposti » . In realtà questa confusione non è nuova né è senza giustificazione : estrema sinistra ed estrema destra hanno amori diversi ma odi comuni . Uno di questi odi è la democrazia , intesa come il regime in cui le sole decisioni collettive legittime sono quelle prese in base alla regola della maggioranza . Peraltro , le ragioni di questa avversione sono , da una parte e dall ' altra , opposte . Proprio tenendo conto di queste opposte ragioni si riesce ancora a cogliere il principale carattere distintivo dei due schieramenti in cui si divide tradizionalmente l ' universo politico . L ' opposizione consiste in questo : per l ' estrema sinistra la regola di maggioranza , per cui ogni cittadino conta per uno , assicura un ' eguaglianza puramente formale ma non riesce altrettanto bene a promuovere l ' eguaglianza sostanziale ; per l ' estrema destra la stessa regola della maggioranza , pareggiando se pure solo formalmente tutti i cittadini , finisce per disconoscere che gli uomini sono sostanzialmente diseguali . Come si vede , la divisione avviene sul diverso giudizio che l ' una e l ' altra parte danno sull ' eguaglianza e rispettivamente sulla diseguaglianza come ideale da perseguire . Questo diverso giudizio permette di tener ben distinte ideologie che tendono a una maggiore eguaglianza rispetto alla democrazia formale , e che chiamerò egualitarie , e ideologie che chiedono una maggiore diseguaglianza , sempre rispetto alla democrazia formale , e che chiamerò inegualitarie . Si tratta di una distinzione vecchia come il mondo , molto più vecchia della distinzione tra sinistra e destra , che risale alla rivoluzione francese . Ma dacché i due termini di sinistra e destra sono stati introdotti nel linguaggio politico , essi sono sempre stati adoperati per coprire la distinzione tra ideologie egualitarie e inegualitarie . Perciò sinché vi saranno dottrine e movimenti che si contrappongono sulla base del diverso valore dato al principio dell ' eguaglianza , l ' uso dei due termini è non solo legittimo ma utile . Il loro rifiuto è prova o di imperdonabile ignoranza o peggio dell ' illusione di cancellare insieme coi due nomi la realtà che essi designano . La contrapposizione fra egualitari e inegualitari è vecchia quanto il mondo per la semplice ragione che gli uomini sono tanto eguali quanto diseguali : sono eguali in quanto appartengono al genere umano distinto da altri generi come quello degli animali , ma sono diseguali considerati come individui , uno per uno . Le ideologie egualitarie mettono l ' accento soprattutto sull ' appartenenza di tutti gli uomini a un genere comune , quelle inegualitarie sulle osservabili e inconfutabili differenze tra l ' uno e l ' altro individuo . In altre parole , le prime danno più importanza a ciò che ci unisce , le seconde a ciò che ci divide . Tra le tante prove storiche che si possono addurre di questa contrapposizione , mi limito a quella che si può trarre dai due autori considerati a buon diritto i principali ispiratori dei due schieramenti : Rousseau e Nietzsche . Nel suo Discorso sull ' origine delle diseguaglianze fra gli uomini , Rousseau parte dalla considerazione che gli uomini sono nati fondamentalmente eguali ma la civiltà corrotta li ha resi diseguali . Nietzsche , al contrario , parte dalla considerazione che gli uomini sono per natura diseguali e soltanto la civiltà , con la sua morale del gregge , di cui è massimamente responsabile il cristianesimo , e di cui sono manifestazioni al tempo presente la democrazia e il socialismo , li ha resi ingiustamenti eguali . L ' ideale che si può trarre dalla interpretazione rousseauiana del corso storico è quello rivoluzionario dell ' abbattimento delle società storiche fondate sulla diseguaglianza sociale e della instaurazione di una nuova società in cui tutti siano a pari diritto cittadini ; l ' ideale che si può trarre dalla interpretazione nietzscheana , è al contrario quello reazionario della restaurazione di un ordine gerarchico la cui distruzione ha reso possibile il trionfo della quantità , dei « malriusciti » , del branco . Lo stesso Nietzsche ritorna sempre a Rousseau , il suo grande nemico , ogni qualvolta sfoga il proprio furore contro il principio dell ' eguaglianza e contro quell ' avvenimento storico , la rivoluzione francese , che avrebbe cercato di attuarlo : « Quello che odio - una citazione fra mille - è la rousseauiana moralità della rivoluzione francese ... La dottrina dell ' eguaglianza . Ma non c ' è tossico più velenoso ! » Mi si può obiettare che il criterio dell ' eguaglianza non è il solo a permettere di caratterizzare due ideologie opposte . C ' è anche quello della libertà in base al quale si distinguono ideologie libertarie e autoritarie . Rispondo che questo criterio di distinzione serve a distinguere , nell ' ambito della sinistra e della destra , l ' ala estrema dall ' ala moderata . Si può sostenere infatti che le due ali estreme sono autoritarie , quelle moderate libertarie . Di conseguenza , la linea su cui si collocano le diverse ideologie partendo da sinistra e procedendo verso destra si sviluppa attraverso queste quattro aree . All ' estrema sinistra stanno i movimenti che sono insieme egualitari e autoritari : l ' esempio classico è quello dei giacobini e dei loro tardi seguaci , i bolscevichi . Alla sinistra moderata appartengono i movimenti egualitari e libertari , il cui esempio al tempo attuale sono i partiti socialdemocratici che ricoprono una vasta area che si potrebbe chiamare opportunamente di « socialismo liberale » . Seguono i movimenti della destra moderata che sono insieme inegualitari e libertari . Infine c ' è l ' estrema destra in cui si collocano i movimenti che accompagnano l ' autoritarismo alla voglia ( o nostalgia ) di una società ordinata gerarchicamente . Certamente la realtà è più ricca di qualsiasi schema . Ma è sempre meglio uno schema qualsiasi che la confusione mentale da cui possono nascere soltanto comportamenti politicamente aberranti .
La morte recita a Staglieno ( Ceronetti Guido , 1982 )
StampaQuotidiana ,
Staglieno ! Staglieno ! Necropoli senza fi ne , paradiso del necrofilo mentale , giardino accademico dell ' animista ateo ! Staglieno , porto sepolto , sotterraneo , alle spalle della città portuale ! Suo padre , il Père - Lachaise , ha più . misura , è fatto come un regolamento , un ' accademia militare , si è rinchiusa nei suoi viali una società più potente , più compatta , decisa a tenersi tutta per mano e a fare muro contro il tempo sotto il segno del due amanti del Paracleto , Abelardo ed Eloisa , la coppia di intellettuali sepolta in parole nella Patrologia del Migne e in ossa che si baciano e ribaciano sotto il tempietto neogotico di Parigi , ultima loro follia . Al Père - Lachaise , dove si è dissolta la fragilità dei vivi , tiene mirabilmente la forza , l ' energia , la fame di durare , la misteriosa volontà di patema dei morti . Aspettate a dire che la Francia è nella sua amministrazione ; cercate prima nell ' ombelico del Père - Lachaise il segreto della sua forza . Ma Staglieno è più inaspettato , più incredibile , più fantastico . La diga del progetto originario del Barabino , una sobria pianta quadrangolare dominata da un cappellone neoclassico , si rompe presto e il fiume dei morti sommerge la collina , le anime per placarsi pretendono sterminate gallerie , colonnati , boschetti sacri , ambulacri di Dedalo , templi egiziani , e un diluvio , un oceano , un ' atlantide di statue , di bassorilievi , di altorilievi , di busti , di medaglioni , di epigrafi spudorate , di gruppi statuari senza ritegno che raccontino di loro tutto . Staglieno è un ' enorme confessione collettiva , uno dei più grandi spettacoli del teatro della Morte ; si possono passare giorni ( notti , ancora meglio , nascondendosi in qualche cappella ) , settimane intere ad ascoltare quelle tirate , quei monologhi , quei battibecchi su chi ebbe più meriti , su chi ha più ammassato patrimoni celesti , e sempre ti direbbero dell ' insolito , dell ' inaudito sulla nullità , il vuoto , la miseria , la stupidità inarrivabile , l ' assurdità perfetta , la disperazione infinita che i nostri gusci d ' osso nascondono per vomitarli davanti alla faccia del cielo . Le sue voci Se le pietre romaniche cantano , le statue di Staglieno recitano : sono drammi giacosiani , ibseniani , ferrariani , scapigliateschi , verghiani , bracchiani , dannunziani , pirandelliani , labichiani , feidoiani , strindberghiani in una confusione da onde hertziane che s ' incrociano e accavallano , sovraccariche di voci e di rumori . Niente è meno silenzioso , di questo cimitero inesauribilmente sonoro . Il Père - Lachaise è maschio e occidentale . Staglieno è femmina e orientale , come Genova . Ha il disordine , la smania d ' invadere e di straripare con attiva pigrizia , di tutti gli Orienti . I suoi morti sono stati i cittadini orientali di un regno nordico ; cessati i doveri verso il re piemontese , si liberavano di ogni freno in morte . « Irraggia lo splendore orientale / Genova nelle donne dalla testa / Sibillina ... » cantava sotto l ' artiglio del Delfico , Campana . Le sue prodigiose visioni di Genova sono visioni d ' Oriente . Ma non vedremo mai più la Genova orientale campaniana , anche se qualche donna « dalla testa sibillina » , con nei capelli « un po ' d ' alga marina » si può forse incontrarla ancora , nei cortili e nei caruggi . Campana , l ' aedo di Marradi , è il sublime poeta di Genova . Montale è il metafisico del paesaggio ligure : il suo verso , proprio perché di scrittura metafisica , lo assume per disintegrarlo , se ne slega , non lo trattiene . Campana non è metafisico , è un Villon dei porti , un superbo lettore dell ' anima di un porto - Genova . Per girare nel porto , più che del lasciapassare del commissariato , è necessario munirsi dei versi campaniani sulla notte portuale , sul porto che si addormenta : « E ' la forza che dorme , è la tristezza / Inconscia delle cose che saranno / E ' la vita che cullasi nel ritmo / Affaticato » . Tutto è detto ; infelice chi non capisce . Senza marinai Ma quei versi servono soltanto al pensiero e al sogno . Il porto , com ' è oggi , è scoraggiante ... Dal mare e da terra , gli occhi che lo cercano non lo trovano più . Il porto può anche emigrare a Voltri , nel Duemila , o nei fiordi , o in Australia : il porto di Genova non è più . Dov ' è l ' Oriente ? Dov ' è il colore , spia dell ' anima delle cose ? Di notte , dall ' alto , dal largo , il porto è quella curva luminosa che si sfalda in segmenti e puntini tracciata dal compasso del golfo , niente di più banale , se non ti sostiene l ' immaginazione : « Là c ' è il porto » . Prova a cercare un marinaio , laggiù , un vero scaricatore , e balle di mercanzia , o navi piene di gente in lacrime ! Il porto è una immensa gru che nasconde il cielo , le navi sono ferraglia silenziosa , imbottite di containers , quasi mai vedi affacciarsi qualcuno , sono deretani di minerale dove non sembra agitarsi neppure un oxiuro ... Il saluto umano , l ' addio umano , spariti ... I traghetti non sono navi , sono garages ; gli ufficiali avviliti di essere alla testa di equipaggi di camion , di condurre in Sardegna , a Tunisi , a Palermo famiglie di roulottes , tribù di Fiat , di Alfa , di Peugeot , popoli di Michelin , città di Pirelli , cortei di Land Rover , generazioni di trattori , qualche volta con passeggeri sistemati nel cofano , tre o quattro nordafricani , due mezzi genovesi , un magliaro turco , una maestrina di Cagliari , un neonato abbandonato lì dalla madre , fuggita su un ' altra Citroën verso i Pirenei , in tutto così pochi che la Tirrenia non perde tempo a contarli e a fargli pagare il biglietto , né la Finanza a controllarne il bagaglio . Sul ponte , quando le navi partono , si agita una chiave inglese , un pneumatico che non ha voglia di emigrare si sporge triste dal parapetto . Ma dal molo chi gli risponde ? Il braccio di una gru , ma soltanto durante l ' orario sindacale ; mai di domenica . L ' Oriente genovese è da riinventare ... bisogna farlo risorgere dall ' invisibile , andarlo a scoprire nelle Madonnine ( tante Kalì e Annapurne ) ancora sospese ai muri che fatiscono , nelle navi di pietra cariche di balle di pietà cristiana ancora non disertate dagli equipaggi dei devoti ; farlo schizzare fuori dai libri , ascoltarlo in una cadenza dialettale . Credevo di detestare le cadenze liguri : dopo una settimana di immersione nei superstiti odori delle friggitorie di Genova mi penetrava l ' orecchio come una guzla araba , col contrappunto solare di un tamburo semita . In quell ' accento che strapiomba sul mare , dove attira e fa precipitare l ' idea la funerea sirena della u , che si ripete fino al trionfo del sonno in cui dolcemente tutto farà naufragio , c ' è come una tranquillità di contemplativi , un pessimismo ascetico e lontano . Oh perché così presto ? Perché tanto in fretta ? Sappiamo sappiamo che il Tempo mangia la vita , che il Tempo ha fame di tutto e non lascia vivo niente , ma questa metropoli mezzo sudamericana mezzo nordeuropa , sporcata dai gas siderurgici , il porto recintato da una sopraelevata , il cemento che sbaccanaleggia impaziente intorno alle ultime case di Portoria e di piazza Sarzano , luoghi di meraviglie , quadrivii magici , la vergogna dell ' anonimato verticale che soffoca e strazia la sublime distesa delle ardesie - perché tutto d ' un colpo , in pochissimi anni , ha rovesciato l ' Immagine di una città vera , di un mondo autentico , l ' ha sbrindellata , l ' ha dispersa ? Dunque a Staglieno , a Staglieno . Il caos della necropoli ci vendica dell ' Oriente laggiù perduto , dove la melopea campaniana non trova più nella sera ambigua « l ' alito salso umano » , e « nel gorgo di fremiti sordi » l ' odore di stoccafisso e il traballare delle mandòle Staglieno è intatto . La Morte non delude chi l ' ama . ( Almeno un poco : il tanatofobo , se esiste , è un amputato psichico , che non può correre sui sentieri degli elisi ) . Staglieno affascina , ma è il fascino della demenza ... Mi veniva un pensiero terrificante : se davvero dovessero risorgere , e risorgessero così come appaiono nelle sculture , coi loro angeli custodi , i loro cristi di languore , tra lo sgomento degli ultimi viventi , come la terra sopporterebbe il peso di tanto delirio ? Per lo più sono morti in pace , confortati dalla Religione , autorizzati dalla Scienza , tra le lacrime dei Congiunti , dopo vite probe , probissime - perché , in morte , sfogarsi in così scomposti deliri ? Forse perché Staglieno è femmina , un piagnone , anzi una prèfica , isteria che si scatena al contatto del sepolcro , braccia che brancicano , labbra che succhiano , e ha un ' anima di baccante , una febbre dionisiaca nelle vene , proprio lì , a due passi da un Bisagno al di sopra di ogni sospetto . Rachelina , mori a diciannove anni nel 1918 : « Il tuo vergine corpo riposa qui ma l ' anima tua gode coi beati » confessa l ' epigrafe . Su uno , Euterpe piange lacrime di coccodrillo : « Tutto amore per l ' arte che gli fu ispiratrice di elette e profonde armonie ne ritrasse splendida fama ma da quell ' ardore ebbe consunta innanzi tempo la vita » . Un Carlo Orazio « corse Europa e America lasciando ovunque desiderio di sé » , ma non è difficile quando , per correre , non si resta ospiti a lungo . « A Giuseppe Soldi negoziante » ... M ' impressiona un ' Antonietta Noceti « che alla scuola di G . C . imparò l ' eroismo che la tenne sempre serena » per via di quelle due iniziali , che sono quelle del mio povero nome , scritto sull ' acqua piovana . Davvero , alla mia scuola sarebbe possibile imparare uno speciale eroismo che mantiene sempre sereni ? Se fosse così , morrei senza dispiacere , contento della mia . giornata . Quelle porte di marmo , chiuse e semiaperte , presso a cui il Defunto sosta , esitando , incuriosito e atterrito , o è condotto di peso da angeli robusti come infermieri di vecchio manicomio - sono , del fantastico macabro , a Staglieno , uno dei motivi più misteriosi ... Fessurine sulla voragine , aperture sul precipizio , mi attirate morbosamente ... Se non foste di marmo , vi spingerei dolcemente , tentato di guardare ... Nel porticato superiore il monumento più morboso è quello di Raffaele Pienovi , 1879 , dell ' inuguagliabile scultore Villa . Una donzella , più curiosa che disperata , certamente la figlia del Pienovi , solleva leggermente il lenzuolo che copre , elegantemente sgualcito , il caro defunto fin sopra la testa , poggiata su due bei guanciali di malattia . Che cosa vede , la signorina Pienovi ? Ebbe una curiosità simile il marito di Emma Bovary , nella camera mortuaria , lei tutta velata di bianco , tra i ceri lacrimanti : « Lentamente , con la punta delle dita , palpitando , sollevò il velo . Ma gettò un grido d ' orrore … » In un romanzo ci viene detto quel che succede dopo : un grido , e poi il resto della storia ... Ma la sospensione del gruppo statuario è qualcosa d ' immenso , il mistero si chiude inesorabilmente . Il gruppo essendo un poco in alto , il visitatore non vede quel che c ' è sotto il lenzuolo ... Potrebbe non esserci niente ? Non c ' era nessuno ... Sono salito , ho guardato ... Non ho gridato . Non dirò quello che ho visto .