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La rivolta abusiva ( Bobbio Norberto , 1986 )
StampaQuotidiana ,
Chi s ' era immaginato che le proteste degli abusivi siciliani fossero una subitanea esplosione di rabbia , è costretto a ricredersi . A più di un mese dalla marcia su Roma dei trentamila , avvenuta il 17 febbraio , il movimento è passato dalla protesta pacifica all ' azione illegale di massa . Un ' azione che in quanto tale avrebbe dovuto essere fermamente condannata dal governo e dall ' opposizione . Anche dall ' opposizione che , sino a prova contraria , è l ' opposizione di uno Stato democratico . Ciò che è avvenuto in Sicilia è uno degli episodi più gravi , forse il più grave , di disobbedienza civile , che il nostro paese abbia conosciuto in questi quarant ' anni . Oggetto in un primo tempo d ' istigazione , cui non sono stati estranei alcuni sindaci , la disobbedienza è ora oggetto di una vera e propria minaccia , compiuta con azioni di continuata violenza . Per « disobbedienza civile » s ' intende quella particolare forma di disobbedienza che viene attuata allo scopo immediato di mostrare pubblicamente che la legge cui si dovrebbe prestare obbedienza è ingiusta e allo scopo mediato d ' indurre il governo a cambiarla . Abitualmente viene accompagnata da giustificazioni tali da farla apparire non solo lecita ma anche doverosa , e da esigere che venga tollerata , contrariamente a qualsiasi altra trasgressione , dalle pubbliche autorità . Si chiama « civile » perché chi la compie ritiene di non venir meno al proprio dovere di cittadino , anzi ritiene di comportarsi da buon cittadino piuttosto disobbedendo che obbedendo . Per questo suo carattere dimostrativo tende a esprimersi in pubblico a differenza dalla disobbedienza comune la quale per raggiungere il proprio scopo deve nascondersi . La disobbedienza civile può essere giudicata da due punti di vista : l ' uno strettamente giuridico , l ' altro etico . Dal punto di vista dello stretto diritto ogni forma di disobbedienza è da considerarsi in generale illecita . La nostra Costituzione stabilisce all ' art. 54 che « tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi » . Non c ' è bisogno di consultare un libro di logica per rendersi conto che l ' obbligo di osservare le leggi implica il divieto di non osservarle . A maggior ragione in un regime democratico . Nel quale ai cittadini è riconosciuto il diritto di riunirsi e di associarsi pacificamente per protestare contro una legge che ritengono ingiusta e impedirne l ' approvazione o promuoverne l ' abrogazione . Un regime democratico può essere definito come quello in cui alla disobbedienza civile , che è l ' extrema ratio cui possono ricorrere i sudditi di un regime dispotico , si sostituisce il diritto di protesta e oltre la protesta il diritto di partecipare direttamente o indirettamente alla formazione delle leggi . Dal diritto sacrosanto di protestare contro l ' emanazione di una legge non discende il diritto di non osservarla dopo che essa sia stata democraticamente approvata . Così pure dal dovere di osservare una legge non discende l ' obbligo di rinunciare a protestare affinché sia modificata o abrogata . Vi sono due modi per reagire a una legge che si considera ingiusta : la protesta e la disobbedienza . In un regime dispotico sono proibiti tutti e due . In un regime democratico è ammesso il primo e non il secondo . Non esiste alcun regime politico in cui siano ammessi entrambi . Il che vuol dire che la disobbedienza civile può essere attuata , in ogni caso , sempre e soltanto a proprio rischio e pericolo . Che all ' istigazione abbiano sin dall ' inizio partecipato non soltanto semplici cittadini ma anche persone investite di pubblica autorità , rende la « rivolta » siciliana ancora più preoccupante . Mi pare che il caso non abbia precedenti , e bisogna ammettere che come precedente è di una gravità eccezionale . Tra i mille segni di disgregazione della nostra vita civile , è uno dei più funesti . Uomini chiamati a provvedere all ' interesse pubblico proteggono i più sfacciati e insolenti interessi privati . Invece di reprimere gli abusi li difendono e difendendoli li favoriscono . Invece di mettersi dalla parte dei pochi onesti danno voce ai molti che onesti non sono stati . Giustificandoli con argomenti spesso speciosi ( in Sicilia non ci sarebbero abusi per causa di speculazione ) li incoraggiano a perseverare nell ' oltraggio alle leggi e nella violenza contro lo Stato . Diverso è il punto di vista morale . La disobbedienza civile può essere in alcuni casi moralmente giustificata . Ma occorre che la causa sia nobile . Occorre , per usare una nota formula giuridica , « l ' aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale » . Giustifichiamo ( e ammiriamo ) la disobbedienza dei neri nell ' Africa del Sud . Ci siamo schierati dalla parte dei neri che negli Stati Uniti entravano pacificamente in un locale pubblico o in un autobus riservato ai soli bianchi . Ma rispetto a questi esempi , le parti sono , nell ' attuale vicenda siciliana , invertite . Lo scopo della rivolta è la difesa non già di un diritto conculcato ma della violazione di un diritto . L ' impunità viene chiesta non contro il sopruso altrui ma per non subire le conseguenze della propria condotta sin dall ' inizio giuridicamente illecita e in molti casi socialmente rovinosa . Si disobbedisce non per non essere più sottoposti a una legge iniqua , ma per essere autorizzati da una legge che sarebbe non meno iniqua a perpetuare uno stato d ' ingiustizia . Il nostro Stato di diritto è una nave che fa acqua da tutte le parti . Ma il consentire che ognuno si faccia la legge che vuole , e il cittadino rispettoso delle leggi paghi anche per coloro che non le rispettano , è assolutamente intollerabile . E anche il modo più sicuro e più rapido per farla affondare .
Governo degli onesti ( Bobbio Norberto , 1981 )
StampaQuotidiana ,
Da quando è scoppiata la « questione morale » non si parla d ' altro . E giustamente ne ha parlato il presidente della Repubblica nel suo messaggio di fine d ' anno . Ma non mi pare si siano fatti grandi sforzi per capire di che si tratta . A giudicare dall ' occasione da cui è nata ( lo scandalo del petrolio e l ' affare Pecorelli ) sembra si voglia intendere che gli uomini politici debbono essere persone oneste nel senso comune della parola , persone cioè che non rubano , non mentono , non commettono nessuno di quei reati che sono puniti dal codice penale in quanto giudicate azioni che le persone perbene non dovrebbero compiere . Questa interpretazione è tanto diffusa che il partito comunista ha ritenuto di dover proporre come una svolta nella storia delle nostre istituzioni un governo degli onesti . Che la questione morale debba essere interpretata anche in questo modo , è fuori discussione . Fuori discussione perché ovvio . Non si vede infatti perché chi fa politica debba essere sottratto agli obblighi cui è sottoposto l ' uomo comune . Non esiste una morale pubblica distinta dalla morale privata . Se mai , l ' uomo pubblico dovrebbe essere più scrupoloso nel rispetto degli obblighi morali e di quelli giuridici ( ma questi sono generalmente obblighi morali sanzionati dallo Stato ) per la semplice ragione che le sue infrazioni sono più dannose alla collettività di quelle dell ' uomo comune . Non ignoro che il problema dei rapporti fra politica e morale è molto più intricato , che in politica vale il principio che il fine giustifica i mezzi , che gli Stati non si governano coi pater noster , e via discorrendo . Ma , girata e rigirata da tutte le parti , la famigerata dottrina della ragion di Stato significa soltanto questo : che l ' uomo di Stato si viene a trovare talora in circostanze eccezionali ( si badi « eccezionali » ) a dover prendere decisioni riguardanti il bene comune ( si badi « il bene comune » ) che non possono essere prese se non violando regole della morale corrente . Ciò che giustifica un mezzo moralmente discutibile è soltanto la nobiltà del fine , e la sua eccezionalità . Il che poi non è neppure una condizione particolare dell ' uomo politico perché lo stato di necessità vale come giustificazione anche per l ' uomo comune . Che l ' essenza del problema stia nella nobiltà del fine lo ha detto molto bene Ceronetti in un articolo sulla « Stampa » due settimane fa . Che il fine giustifichi i mezzi non vuol dire che i mezzi siano giustificati da qualsiasi fine . La stessa celebre frase di Machiavelli dice che « i mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno laudati » quando il principe riesce a « vincere » e a « mantenere lo Stato » . Quale sia la nobiltà del fine per cui alcuni dei nostri uomini politici commettono atti disonesti e offendono la morale comune , non è dato capire . C ' è il sospetto che il dilagare della corruzione sia dovuto prevalentemente al bisogno di denaro per sostenere una campagna elettorale o per mantenere in vita una corrente di partito . Non che grandi , alcuni di questi fini sono politicamente tutt ' altro che corretti . Si tratta , sì , di vincere , non una guerra , bensì le elezioni . Si tratta di conservare non lo Stato , bensì il proprio potere personale . La massima che il fine giustifica i mezzi è di per se stessa discutibile . E non solo discutibile ma insostenibile quando il fine che dovrebbe giustificare i mezzi è esso stesso ingiustificabile . Tutto questo , come ho detto , è ovvio , ma non esaurisce il problema . Qualsiasi trattato di morale distingue la morale generale che regola l ' azione di tutti gli uomini , e al cui rispetto quindi tutti sono tenuti , dalle morali speciali cui sono sottoposti gl ' individui in quanto appartengono a una determinata classe o gruppo o categoria o professione . Accanto alla morale comune ci sono le etiche del medico e del sacerdote , del giudice e del commerciante , dell ' insegnante e del giornalista . In ognuna di queste valgono obblighi specifici , e anche specifiche esenzioni di obblighi . Un medico ha l ' obbligo di accorrere alla chiamata di un malato grave anche fuori della sua ora d ' ufficio , ma è esentato dall ' obbligo di dire allo stesso malato la verità sulla gravità della malattia . Ogni professione ha il suo codice morale , che con parola dotta e pretenziosa si chiama « deontologia » . Tra le morali speciali vi è anche la morale dell ' uomo politico . Tanto più poi quando anche la politica è diventata una professione . Per capire la specificità dei diversi codici morali occorre aver di mira la funzione sociale delle diverse Categorie cui si riferiscono . Dalla considerazione che la funzione sociale del medico è quella di provvedere alla guarigione degli infermi nascono tutti quei problemi delicatissimi di etica medica che vanno dall ' eutanasia al prolungamento artificiale di una vita condannata . La funzione sociale dell ' attività politica è quella di perseguire , e possibilmente conseguire , l ' interesse pubblico . Di qua deriva l ' etica specifica di chi si dedica all ' attività politica , il suo codice morale . C ' è una distinzione che corre lungo tutta la storia del pensiero politico , la distinzione fra buon governo e malgoverno , fondata sulla distinzione fra il governante che persegue il bene comune e quello che persegue il bene proprio . L ' etica specifica dell ' uomo pubblico è quella in cui la distinzione fra l ' azione buona e l ' azione cattiva corre parallelamente alla distinzione fra l ' azione volta al bene comune e quella volta al bene individuale . Ne deriva che l ' uomo politico ha oltre ai doveri di tutti anche i doveri che gli spettano in quanto uomo politico . Questi ultimi sono strettamente connessi alla funzione specifica della sua attività . La funzione specifica dell ' attività politica è il buon governo come la funzione specifica del medico è quella di ben curare , quella del giudice di ben giudicare , dell ' insegnante di ben insegnare . No , quando si pone la questione morale con riferimento all ' azione del politico , non si tratta soltanto del governo degli onesti nel senso generico della parola . Si tratta del governo di uomini che antepongano l ' interesse dello Stato al proprio , a quello del proprio partito , della propria corrente , del proprio clan , di uomini che rispettino non solo le regole della morale comune ma anche quelle della propria morale professionale . Uno dei maggiori rimproveri che oggi l ' uomo della strada , l ' uomo della morale comune , muove alla nostra classe politica nel suo insieme è di subordinare l ' interesse pubblico che è il fine specifico della sua azione specifica all ' interesse privato , di approfittare del potere pubblico che deve essere esercitato solo in vista del bene comune per accrescere il proprio potere personale . Una volta si diceva che cattivo governante è colui che mira a soddisfare il bene proprio anziché a provvedere al bene comune . Oggi si dice che il malgoverno consiste nel considerare gli affari di Stato come affari privati . Le parole cambiano ma la sostanza è la stessa . In questo senso , e solo in questo senso , la questione morale è anche una questione politica . Una questione politica che nessun ritocco della Costituzione potrà mai risolvere . Dai buoni costumi possono nascere buone leggi . Ma non bastano le buone leggi a produrre buoni costumi .
Nel labirinto dell'anti-Stato ( Bobbio Norberto , 1981 )
StampaQuotidiana ,
In un articolo di alcuni mesi orsono ( Il potere invisibile , « La Stampa » , 23 novembre 1980 ) avevo definito la democrazia il governo del potere visibile , e avevo constatato amaramente che nel nostro paese il potere invisibile non solo non era stato debellato ma aveva continuato a prosperare e a dilatarsi in tutte le direzioni . Scrivevo : « Non si capisce nulla del nostro sistema di potere se non si è disposti ad ammettere che al di sotto del governo visibile c ' è un governo che agisce nella penombra ( il cosiddetto " sottogoverno " ) e ancora più in fondo un governo che agisce nella più assoluta oscurità e che potrebbe essere chiamato " criptogoverno " » . Vi è sempre stato e sempre vi sarà un potere invisibile contro lo Stato , che comprende le associazioni a delinquere , la mafia , le associazioni sovversive , i gruppi di cospiratori , di terroristi ( la sigla della famigerata Oas significava Organisation d ' armée secrète ) . Vi è sempre stato , e purtroppo sembra che non se ne possa fare a meno , un potere invisibile dentro lo Stato , che comprende i servizi segreti per la sicurezza interna ed esterna dello Stato , l ' organizzazione dello spionaggio e del controspionaggio . Ciò che in un regime democratico è assolutamente inammissibile è l ' esistenza di un potere invisibile che agisce accanto a quello dello Stato , insieme dentro e contro , sotto certi aspetti concorrente , sotto altri connivente , che si vale del segreto non proprio per abbatterlo ma neppure per servirlo . Se ne vale principalmente per aggirare o addirittura violare impunemente le leggi , oppure per ottenere favori straordinari o illeciti . Un potere che compie atti politicamente rilevanti senza avere alcuna responsabilità politica , anzi cercando di sottrarsi attraverso la segretezza anche alle normali responsabilità civili , amministrative e penali . Tralascio di discutere il problema dal punto di vista morale , anche se non sono il solo a essere disgustato del malcostume imperversante e ho provato quasi vergogna nel leggere tutti quei nomi di persone altolocate unite non si sa da che cosa , se non da un desiderio smodato di potere , da ambizioni spropositate , o soltanto da fatue vanità . Non dubito che il trarre vantaggi personali di carriera , di potere e di ricchezza da un ' affiliazione segreta sia moralmente riprovevole , e che dia un ben miserabile spettacolo di sé un paese in cui un così gran numero di personaggi appartenenti alla classe dirigente , alla classe « eletta » , come si diceva una volta ( e come oggi non si potrebbe più dire ) , entra a far parte di associazioni che si nascondono per nascondere . Non discuto la questione morale perché non ce n ' è bisogno . Mi fermo alla questione politica che basta da sola a permettere di esprimere un giudizio severo nei riguardi di un ' associazione il cui unico scopo reale , al di fuori degli scopi dichiarati , è di esercitare un potere occulto : dico « unico » almeno sino a che qualcuno , meglio se è membro dell ' associazione stessa , me ne saprà indicare un altro . Anch ' io , come Vittorio Gorresio , sarei contento di capire per quali ragioni personaggi già potenti per ricchezza o per condizione sociale ( non mi risulta che nella famosa lista vi siano operai , modesti impiegati , la solita gente che tira la carretta ) sentano il bisogno di associarsi con uomini di malaffare o politicamente sospetti . Abbiamo forse dimenticato che « repubblica » viene da « res publica » , e che « res publica » significa cosa pubblica , nel duplice senso di governo del pubblico e di governo in pubblico ? Governo del pubblico significa governo del popolo , e non di uno o di pochi ; governo in pubblico significa che gli atti del potere , o vengono esercitati direttamente davanti al popolo , oppure vengono in varie forme fatti conoscere ai naturali destinatari e non diventano ufficialmente validi sino a che non hanno ricevuto la dovuta pubblicità . Vi sono due tipi ideali di forme di governo , opposte l ' una all ' altra : democrazia e autocrazia . La democrazia avanza e l ' autocrazia retrocede via via che il potere diventa sempre più visibile e gli arcana imperii , i segreti di Stato , da regola diventano eccezione , un ' eccezione accolta in ambiti sempre più ristretti e tassativamente stabiliti . All ' inizio del Cinquecento Francesco Guicciardini poteva scrivere tranquillamente senza suscitare scandalo : « E ' incredibile quanto giovi a chi ha amministrazione che le cose sue siano segrete » . Ma alla fine del Settecento Michele Natale ( il vescovo di Vico giustiziato a Napoli il 20 agosto 1799 ) scriverà nel Catechismo repubblicano : « Vi è niente di segreto nel governo democratico ? Tutte le operazioni dei governanti devono essere note al Popolo Sovrano » . Non esiste democrazia senza opinione pubblica , senza la formazione di un pubblico che pretende di avere diritto a essere informato delle decisioni che vengono prese nell ' interesse collettivo e di esprimere su di esse la propria libera critica . Qualsiasi forma di potere occulto , rendendo vano questo diritto , distrugge uno dei pilastri su cui si regge il governo democratico . Del resto chi promuove forme di potere occulto e chi vi aderisce vuole proprio questo : sottrarre le proprie azioni al controllo democratico , non sottostare agli obblighi che una qualsiasi costituzione democratica impone a chi detiene il potere di prendere decisioni vincolanti per tutti i cittadini , se mai , al contrario , controllare lo Stato senza essere a sua volta controllato . Nello Stato dispotico il sovrano vede senza essere visto . L ' ideale di ogni forma di potere occulto è che il sovrano , che nella democrazia è il popolo , agendo alla luce del sole , possa essere visto e non veda . Fra i vari malanni della nostra democrazia l ' estensione sempre più ampia di zone di potere occulto non è dei meno gravi . Ma sarebbe ancora più grave se la zona che è stata ora scoperta fosse di nuovo ricoperta . Già gli amici e gli amici degli amici si apprestano a « fare quadrato » non per difendere le istituzioni democratiche ma per difendere il proprio partito , il proprio gruppo , il proprio clan . L ' unico modo per difendere le istituzioni democratiche è quello di fare quadrato intorno a coloro che non hanno mai avuto la tentazione di sprofondare nel sottosuolo per non farsi riconoscere . Sono molti per fortuna . Ma debbono avere coraggio e agire di conseguenza . Nessuno vuole , intendiamoci , che non si facciano le debite distinzioni : che non si distinguano i colpevoli dagli innocenti , gli scaltri dagli sprovveduti , coloro che hanno ordito la ragnatela da coloro che vi sono caduti . Personalmente io ho persino qualche dubbio circa la precipitazione con cui la lista è stata pubblicata . Ma sia chiaro : distinguere , non estinguere .
La crisi è permanente ( Bobbio Norberto , 1981 )
StampaQuotidiana ,
Ancora una crisi . Si è sempre detto che le crisi non dovevano essere al buio . Ma più al buio di così ? Si è ammesso che una crisi poteva essere al buio purché fosse « pilotata » . Ma c ' è il pilota ? E se c ' è , si può sapere chi è ? Dal 1968 , da quando è cominciata la degenerazione del nostro sistema politico con quattro legislature interrotte anzitempo , e una quinta , la presente , sulla cui fine naturale nessuno è disposto a giurare , anche i tempi dei governi si sono accorciati : quindici in dodici anni rispetto ai venticinque dei primi ventitrè . Mi domando se questi dati di fatto siano presenti ai nostri governanti e perché , essendo impossibile che siano a loro ignoti , non ne tengano il minimo conto . La nostra classe politica ha inventato non la rivoluzione permanente ma la crisi permanente . Mai una volta che i protagonisti si degnino di spiegare ai loro elettori , di fronte ai quali sono o dovrebbero essere responsabili dei loro atti , quali siano la ragione e la necessità di una nuova crisi che in genere scoppia improvvisa come un temporale , anche se se n ' è sentito talvolta da lontano il brontolio . Si scopre un centro di potere occulto , dove ci sono corruttori , corrotti e corrompibili ? Un governo di persone responsabili , un governo autorevole , sospende subito i ministri sospettati , prende rapidamente provvedimenti per diminuire il danno e il discredito che le istituzioni democratiche ricevono da una scoperta così scandalosa , cerca di far luce al più presto sull ' associazione segreta contraria alla Costituzione ed eventualmente la scioglie . Niente di tutto questo : il governo si dimette , apre la crisi , e quindi lascia tutti i problemi non risolti per trovarseli aggravati quando la crisi sarà finita . Un governo di persone responsabili . Responsabili di fronte a chi ? Responsabili rispetto a che cosa ? Si è discusso in questi giorni in un convegno a cui io stesso ho partecipato il tema della responsabilità politica , un tema da affrontare con spirito realistico e strumenti concettuali adeguati . Quando si dice di una persona che è responsabile si possono intendere due cose diverse : a ) che risponde delle proprie azioni di fronte a qualcuno che sta sopra di lui ; b ) che agisce rendendosi esatto conto delle conseguenze delle proprie azioni . Proviamo a verificare l ' esattezza di questi due aspetti del problema considerando il termine contrario : irresponsabile . Nel linguaggio del diritto costituzionale si dice che un organo è irresponsabile , quando essendo al vertice del sistema non ha nessuno al di sopra di sé cui rispondere delle proprie azioni politiche ( si tratta di una caratteristica tradizionale del sovrano che vale , in base all ' art. 90 della nostra Costituzione , anche per il presidente della Repubblica ) . Ma quando dico , ad esempio , che uno di quei centauri catafratti come un guerriero antico che corre all ' impazzata in una via della città con la sua motocicletta fragorosa , è un irresponsabile , voglio dire non già che non risponde della sua azione di fronte a nessuno , ma che si comporta da scriteriato , da individuo che agisce senza tener conto delle conseguenze della propria azione . La gente dice sempre più spesso che la maggior parte dei nostri uomini politici sono degli irresponsabili . Ma in che senso lo dice ? Nel senso che non rispondono di fronte a nessuno ? o nel senso che agiscono senza preoccuparsi troppo dei malanni che la loro azione produce ? Credo che nell ' opinione pubblica prevalga il secondo significato , specie di fronte alle crisi di governo , che sono giustamente percepite come una malattia del sistema , onde l ' impressione che tanto più frequenti le crisi tanto più grave il malato . Nel giudizio comune la crisi di governo è un atto che richiede ponderazione e prudenza . L ' esperienza di questi anni dovrebbe aver insegnato che crisi di governo non ponderate e imprudenti impediscono alla legislatura di arrivare sino alla fine : una legislatura non sopporta più di cinque governi , in media uno all ' anno . La presente è già giunta al quarto ( dopo due governi Cossiga e uno Forlani ) ad appena due anni dall ' inizio con un ' accelerazione senza precedenti : un governo ogni sei mesi . Dal governo annuale al governo semestrale . A quando quello mensile ? Mentre i governi si accorciano , le crisi si allungano . E quando le crisi si allungano , le legislature si accorciano . Il presidente Pertini , che non è responsabile nel primo significato del termine ma ha un alto senso di responsabilità nel secondo ( il che prova quanto i due significati debbano essere tenuti distinti ) , ha più volte dichiarato che non intende sciogliere ancora una volta il Parlamento . Ha capito benissimo che la fine prematura della legislatura sarebbe un colpo mortale inferto al sistema democratico . Ma l ' hanno capito coloro che sono responsabili , nel senso costituzionale , del governo del paese ? Quando appaiono sugli schermi della televisione questi timonieri più bravi nel pilotare le crisi che i governi , appaiono sereni , sicuri di sé , non sfiorati da dubbi sulla rotta da seguire , come se fossero già in vista del porto . Lo spettatore si domanda con un senso di angoscia : sono o non sono coscienti del lento ma inesorabile logoramento del regime democratico provocato da queste crisi , sempre brevi a parole , sempre lunghe nei fatti , tanto promettenti quando si aprono quanto deludenti quando si chiudono ? Ma se fossero davvero coscienti si comporterebbero davvero in questo modo ? Ma allora sono degli incoscienti ? A questa domanda si può rispondere soltanto prendendo in considerazione l ' altra faccia del problema e ponendosi una diversa domanda : « Verso chi sono responsabili ? » Viene la tentazione di rispondere : « Verso nessuno » . Quando debbono cadere le teste , cadono generalmente quelle degli altri . Tanto che a giudicare dalle teste che cadono , si dovrebbe concludere che la nostra classe politica conti il maggior numero di cittadini illibati e incorruttibili . Eppure in un sistema democratico non dovrebbe rispondere , la classe politica , agli elettori ? Le elezioni popolari non dovrebbero servire a discriminare i buoni dai cattivi reggitori , gli onesti dai disonesti ? Ma è proprio così ? Purtroppo non è così . La reale potenza dei partiti sta nella capacità che essi hanno di controllare i loro controllori . I risultati elettorali di questi anni sono lì a dimostrare che la cosiddetta verifica periodica del consenso in cui consiste l ' essenza della democrazia si svolge in modo da dare alla classe politica che ci ha governato sinora la tranquilla coscienza che viene dall ' aver sottoposto la propria azione al verdetto del popolo , e insieme la convinzione di aver ben meritato della salvezza della patria . Controllando i propri controllori essa finisce per essere responsabile , sì , ma solo di fronte a se stessa . In tal modo , il sistema è , almeno sino ad ora , bloccato . Ma chi è in grado di sbloccarlo ?
Governi deboli ( Bobbio Norberto , 1981 )
StampaQuotidiana ,
La frequenza con cui ricorre nel linguaggio politico quotidiano l ' espressione « patto sociale » merita qualche riflessione . L ' idea che lo Stato sia derivato da un patto degl ' individui che lo compongono e lo hanno istituito per rendere possibile una convivenza stabile e pacifica risale agli antichi , ed è diventata dominante nell ' età moderna attraverso le dottrine cosiddette « contrattualistiche » . Ma queste dottrine , da Hobbes a Kant , hanno concepito il « contratto sociale » come una specie di « fiat » divino , un atto di creazione e di fondazione , che si esaurisce nel momento stesso in cui nasce la sua creatura , lo Stato . Una volta costituito , lo Stato si erge al di sopra degli individui che gli hanno dato vita con il loro accordo , e la sua volontà si esprime d ' ora innanzi in forma di legge , cioè di comando al di sopra delle parti . Come modo di prendere decisioni comuni , il contratto viene degradato a istituto del diritto privato , di un diritto che , usciti gl ' individui dallo stato di natura , riceve legittimità ed efficacia dal riconoscimento dello Stato . Tutt ' al più , se lo Stato nato da quell ' accordo è uno Stato democratico , uno Stato il cui fondamento di legittimità risiede nel consenso , il contratto iniziale deve essere periodicamente rinnovato attraverso libere elezioni dell ' organo o degli organi principali cui è attribuito il potere di prendere decisioni vincolanti per tutta la collettività . In questo modello ideale i soggetti principali del rapporto politico sono , da un lato , gl ' individui singoli che decidono di istituire lo Stato , dall ' altro il sovrano che secondo le diverse interpretazioni del contratto sociale è , o egli stesso una delle parti contraenti , oppure un terzo a favore del quale il contratto viene stipulato dagli individui desiderosi di uscire dallo stato di natura . Non c ' è posto in questo modello per i corpi intermedi , i gruppi sociali , le corporazioni , insomma per le società particolari , che stanno in mezzo fra i singoli e la società globale ( la società politica o civile , della tradizione ) . O per lo meno esse non svolgono la parte del protagonista nella formazione dello Stato . Stanno dentro allo Stato , come del resto gl ' individui dopo che lo Stato è istituito , ma , a differenza degli individui , non hanno contribuito a formarlo , né sono chiamati a dare a esso una periodica legittimazione . Quando oggi si parla di « patto sociale » , ci si riferisce invece a una forma di rapporto politico in cui i protagonisti sono proprio quei corpi intermedi di cui la dottrina tradizionale del contratto sociale aveva ritenuto di potere non tener conto . Che cosa è successo ? È toccata anche al modello astratto del contratto sociale la sorte di tutti i modelli astratti : la realtà il più delle volte li ignora e procede per conto suo . Ciò che caratterizza le moderne società industriali e democratiche sono la molteplicità , la varietà , l ' influenza , delle società particolari in permanente conflitto fra di loro . Non a caso vengono chiamate con una connotazione ormai ricorrente « pluralistiche » , o « poliarchiche » . Che vuol dire : a più centri di potere . Le forze sociali ( intendi i sindacati ) e le forze politiche ( intendi i partiti ) , che appaiono continuamente sulla scena politica come gli attori principali , non sono né gl ' individui né lo Stato nel suo complesso , i due protagonisti del rapporto politico secondo il modello tradizionale . Sono le società particolari che la dottrina tradizionale aveva espunto dal proprio modello . Recentemente è uscito in traduzione italiana ( con introduzione di Angelo Scivoletto ) un libro ben noto agli studiosi , Poliarchia , di Robert Dahl ( Franco Angeli editore , Milano 1980 ) . Secondo Dahl , la caratteristica saliente delle poliarchie è , oltre l ' estensione della partecipazione popolare , la presenza di una forte competitività . Ma questa caratteristica non sarebbe completa se non si aggiungesse che i soggetti attivi , rilevanti , determinanti , della competizione , non sono gl ' individui . Sono enti collettivi : o grandi gruppi organizzati , come i sindacati e i partiti , oppure grandi organizzazioni , come le imprese ( non importa se private , pubbliche o semipubbliche ) . Più che una società non egemonica , come la definisce Dahl , la nostra società poliarchica è contrassegnata dall ' esistenza di più gruppi tendenzialmente egemoni in concorrenza fra loro . Partendo dalla concezione monistica dello Stato , che ha accompagnato la formazione dello Stato moderno , costruito idealmente come antitesi alla società medievale , si è spesso manifestata una tendenza a considerare lo Stato unitario come modello ideale anche per la società internazionale . Se pure con una certa forzatura , mi pare si possa dire che nella realtà è avvenuto il processo inverso . Lo Stato poliarchico contemporaneo assomiglia sempre più alla società internazionale , disarticolato com ' è in tanti potentati quasi sovrani , la cui competizione trova soluzioni provvisorie ( tregue , non paci ) attraverso laboriosi e spesso lunghi negoziati , che finiscono in accordi , come sono i contratti collettivi fra le forze sociali , o le coalizioni fra le forze politiche ( si badi , « coalizione » è un termine proprio del diritto internazionale ) , sottoposti , gli uni e le altre , alla clausola di validità a parità di condizioni ( che corrisponde al « rebus sic stantibus » dei trattati internazionali ) . Da questa constatazione discendono alcune conseguenze destinate a mutare l ' immagine ideale dello Stato moderno . Ne indico tre . Come possiamo osservare ogni giorno , in una situazione di forte competitività fra gruppi potenti , il governo o agisce egli stesso come parte in causa , oppure svolge la propria azione come mediatore delle parti in conflitto e alla fine come garante ( spesso impotente ) dell ' accordo intervenuto . In nessuno dei due casi la sua azione rispecchia l ' immagine tramandata per secoli del potere statale come potere sovrano . In contrasto col mito del governo forte si va formulando l ' ipotesi del governo debole , la cui debolezza non è patologica ma fisiologica . Il principio della supremazia della legge richiede in una società democratica il rispetto della regola della maggioranza , espediente tecnico indispensabile dove coloro che debbono prendere una decisione sono molti , in una situazione in cui , se fosse richiesta l ' unanimità , la decisione sarebbe praticamente impossibile . Al contrario , la soluzione di un conflitto mediante accordo rappresenta una decisione presa all ' unanimità , in quanto è valida solo se è accettata da entrambe le parti . Come tale , è possibile soltanto là dove i contraenti sono due o poco più . Ma là dove i contraenti sono due o poco più , è segno che i singoli individui sono esautorati , non contano nulla ( gli unici individui che entrano in scena sono i leaders dei gruppi ) . Infine , una società poliarchica è una società a equilibrio instabile , che deve essere continuamente ricomposto , senza che vi siano regole generali , accettate da tutti , per questa ricomposizione . Si consideri la facilità con cui si fanno e disfanno le coalizioni di governo ( lo stesso si può dire dei contratti collettivi ) . Nella teoria politica classica , il tema dell ' equilibrio si riferiva al rapporto interno fra i tre poteri dello Stato , dei quali nessuno dovrebbe prevaricare sugli altri due . Oggi il problema dell ' equilibrio di cui si deve preoccupare una teoria politica all ' altezza dei tempi è quello delle parti sociali . Ma si tratta di un equilibrio per cui non sono state fissate regole costituzionali e vale come unico principio equilibratore il diritto del più forte .
Non è decisionismo ( Bobbio Norberto , 1984 )
StampaQuotidiana ,
Ci sono parole che il linguaggio comune cede al linguaggio dotto , e viceversa vi sono parole che il linguaggio dotto cede al linguaggio comune . Questo secondo tipo di prestito sta avvenendo in questi giorni per la parola « decisionismo » . Ma la cessione è avvenuta con la totale perdita del significato originario . Ho l ' impressione che coloro che parlano di decisionismo a proposito della decisione del governo di far approvare al Parlamento il decreto sulla scala mobile non se ne siano accorti , e quindi stiano dando al termine un significato completamente diverso da quello in uso nel linguaggio dotto . Un significato che non può non ingenerare confusione e intorbidare le acque già abbastanza limacciose del dibattito politico . Come tutti gli « ismi » , « decisionismo » designa non un fatto , non un comportamento , né una serie di fatti o di comportamenti , ma una teoria . Si tratta della teoria giuridica dello scrittore di destra , Cari Schmitt , nota da tempo agli addetti ai lavori , riscoperta in questi ultimi anni , e rimessa in circolazione , non si sa bene con quale intenzione , da alcuni giuristi e scrittori politici di sinistra , sempre in polemica con la teoria meramente formale della democrazia ( l ' unica , a mio parere , sensata e accettabile ) , anche a prezzo di andare a braccetto con la vecchia ( e nuova ma non rinnovata ) destra reazionaria . Secondo Schmitt , le norme giuridiche non sono , come hanno sempre sostenuto i fautori dello Stato di diritto , ovvero dello Stato in cui il potere politico è sottoposto al diritto , il prodotto di un potere autorizzato a creare diritto secondo le norme di una costituzione che stabilisce chi ha il potere di emanare norme giuridiche e con quali procedure , ma sono ( o dovrebbero essere ) il prodotto di una pura decisione del potere in quanto tale . Insomma , il decisionismo è una teoria del diritto che si contrappone a un ' altra teoria del diritto , il cosiddetto normativismo , e vi si contrappone perché sostiene il primato della politica sul diritto , mentre i fautori dello Stato di diritto e della democrazia come insieme di regole del gioco per la formazione della volontà politica , sostengono al contrario il primato del diritto sulla politica . Ora ciò che sta avvenendo in Italia non ha niente a che vedere con la disputa dottrinale degli anni della repubblica di Weimar tra fautori dello Stato democratico e fautori dello Stato autocratico . Ciò di cui si sta discutendo oggi in Italia è se una certa decisione possa o debba essere presa in seguito all ' accordo tra le parti o in seguito a una deliberazione del Parlamento . Il decisionismo come teoria secondo la quale il diritto è in ultima istanza sempre il prodotto di un potere di fatto non c ' entra nulla . Tanto la decisione presa in seguito a un accordo tra parti autorizzate dalla Costituzione a decidere quanto la decisione presa da un organo collegiale autorizzato dalla stessa Costituzione a prendere decisioni vincolanti per tutta la collettività , com ' è il Parlamento , sono decisioni regolate dal diritto . Naturalmente si può discutere quale delle due procedure , quella che prevede che la decisione sia presa in seguito ad accordo tra le parti interessate oppure quella che attribuisce il diritto di decidere a un organo che può prendere la decisione in base alla regola della maggioranza , sia più opportuna o addirittura , in una determinata situazione e in una data materia , più legittima o più conforme alla Costituzione . Ma una tale discussione non riguarda affatto la disputa dottrinale per cui è nata in altri tempi la teoria del decisionismo . Con ciò non si vuole negare che ci siano differenze tra le due procedure . Ma si tratta di differenze che sono totalmente al di là della disputa tra normativisti e decisionisti . La prima differenza è molto semplice : quando una decisione viene presa in seguito a un accordo tra le parti , è ovvio che la decisione debba essere presa all ' unanimità . Se una delle due parti non accetta l ' accordo , la decisione è impossibile ; se la decisione è presa , è segno che il consenso è stato dato da tutte e due le parti , ed essendo solo due i soggetti della decisione la decisione è unanime . Quando una decisione è presa invece da un organo collegiale composto da una pluralità di persone , basta di solito , affinché una decisione venga considerata valida , la maggioranza . La regola della maggioranza è la regola democratica per eccellenza non già perché sia antidemocratica la regola dell ' unanimità , ma perché la regola dell ' unanimità è applicabile soltanto in pochi casi , tra cui quello in cui i soggetti chiamati a prendere una decisione siano due , oppure il gruppo formato da più individui sia tanto omogeneo che si possa prevedere una identità di interessi o di opinioni fra i suoi membri . In qualsiasi altro caso la regola o non è applicabile perché paralizza la possibilità stessa di arrivare a una decisione , oppure è ingiusta perché attribuisce a un solo membro del gruppo il diritto di veto . Una seconda differenza è meno ovvia e per questo meriterebbe ben altra riflessione . Il regime parlamentare è nato con la netta contrapposizione tra rappresentanza politica e rappresentanza degl ' interessi . Per rappresentanza politica distinta dalla rappresentanza degl ' interessi si è sempre intesa la rappresentanza degl ' interessi generali contrapposta alla rappresentanza d ' interessi particolari . Proprio per distinguere queste due forme di rappresentanza e per affermare la supremazia della prima sulla seconda è stato introdotto in tutte le costituzioni democratiche dalla Costituzione francese del 1791 in poi il divieto di mandato imperativo ovvero l ' obbligo imposto ai rappresentanti una volta eletti di difendere interessi non corporativi . Che questo principio oggi . sia continuamente violato , è una realtà che io stesso ho già rilevato più volte . Ma resta il fatto che la rappresentanza parlamentare è pur sempre meno particolaristica , nonostante forti tendenze in contrario , che la rappresentanza di grandi gruppi organizzati come le associazioni operaie e padronali che si accordano , quando riescono ad accordarsi , unicamente allo scopo di regolare i loro reciproci rapporti . Non c ' è dubbio che una decisione presa in base alla procedura dell ' accordo fra le parti sia una rivincita della rappresentanza degl ' interessi su quella politica . Se diventasse la procedura maestra per prendere decisioni collettive , sarebbe , anzi , la fine della rappresentanza politica , e segnerebbe la sconfitta di una delle battaglie secolari di ogni governo democratico . La decisione per accordo tra grandi organizzazioni in naturale conflitto tra loro , la cosiddetta « concertazione » , è un aspetto , forse l ' aspetto saliente , di quella nuova forma di Stato che viene chiamato , a torto o a ragione , Stato neocorporativo , e in cui alcuni osservatori sono indotti a vedere una delle ragioni principali di quella « trasformazione » della democrazia cui non si può non guardare con una certa preoccupazione . Se per decisionismo s ' intende un po ' rozzamente una svolta nello sviluppo della democrazia , non è detto che questa non si trovi proprio nella prevalenza della rappresentanza degl ' interessi sulla rappresentanza politica , prevalenza di cui può essere considerata una manifestazione la tendenza neocorporativa assai più che la riconduzione del flusso delle decisioni necessarie a governare nell ' alveo dei rapporti tra governo e Parlamento .
Il doppio Stato ( Bobbio Norberto , 1984 )
StampaQuotidiana ,
Uno dei temi maggiormente discussi in questi ultimi anni fra studiosi che s ' interrogano sullo stato attuale della democrazia , è il neocorporativismo . Il tema è stato dibattuto , a dire il vero , più fuori d ' Italia che nel nostro paese , ma da due o tre anni anche da noi il dibattito è cominciato e procede a ritmo sempre più accelerato . Dopo la raccolta di saggi , La società neocorporativa , a cura di M . Maraffi , uscita nel 1981 presso Il Mulino di Bologna , sono apparse a brevissima distanza di tempo , presso lo stesso editore , altre due raccolte di articoli ( in gran parte stranieri ) sull ' argomento , L ' organizzazione degli interessi dell ' Europa occidentali ( 1983 ) e La politica degli interessi nei paesi industrializzati ( 1984 ) nonché il libro , ben documentato e ben ragionato , di L . Bordogna e G . Provasi , Politica , economia i rappresentanza degli interessi , che reca un sottotitolo già di per se stesso significativo : Uno studio sulle recenti difficoltà delle democrazie occidentali . Ai lettori che non sono al corrente del dibattito fra gli addetti ai lavori e hanno invece reminiscenze storiche in cui il termine « corporativismo » è legato alla dottrina fascista oppure hanno nell ' orecchio il gergo giornalistico e corrente in cui per società corporativa s ' intende una società frammentata in tanti piccoli gruppi che tendono a far prevalere i loro interessi particolaristici sugli interessi generali , occorre rivolgere due avvertimenti : a ) quando oggi si parla di neocorporativismo , ci si riferisce a un assetto che si è venuto formando in società democratiche , anzi in alcune delle democrazie europee più avanzate , come la Svezia , tanto che è diventata ormai abituale la distinzione fra corporativismo statale o fascista e corporativismo sociale o democratico ; b ) il neocorporativismo non ha niente a che vedere con il fenomeno spesso lamentato , specie in Italia , della disgregazione del tessuto sociale in tanti gruppi e gruppuscoli rivali , le cui rivendicazioni indisciplinate e quindi imprevedibili rendono sempre più difficile il governo della società globale . Anzi , in un certo senso , è proprio l ' opposto : si chiama oggi assetto neocorporativo quello in cui si è formata la massima concentrazione delle organizzazioni degli interessi ( volgarmente i sindacati ) e queste organizzazioni prendono decisioni collettive di grande rilievo per tutta la società attraverso i loro rappresentanti al vertice insieme con organi del governo . Per capire la ragione di questa terminologia che può apparire ad alcuni fuorviante , bisogna rendersi conto che per « corporativismo » in generale nel linguaggio tecnico ormai consolidato s ' intendono principalmente due cose : a ) una dottrina che propugna la collaborazione delle due grandi classi antagonistiche dei datori di lavoro e dei lavoratori , anziché il conflitto permanente risolto di volta in volta con aggiustamenti non solo dei contenuti ma anche delle regole di gioco , oppure la sopraffazione di una classe sull ' altra ; b ) uno strumento istituzionale fondamentale , consistente nella sostituzione della rappresentanza immediata degli interessi particolari in contrasto , detta anche rappresentanza corporativa , alla rappresentanza politica , propria della democrazia rappresentativa , in cui l ' eletto , non vincolato al mandato dei suoi elettori , deve provvedere esclusivamente agli interessi generali . Varie sono le ragioni per cui in Italia il dibattito sul neocorporativismo ha stentato a farsi strada . Anzitutto , vi è una questione di principio : la dottrina liberale democratica italiana ha costantemente rifiutato di riconoscere la legittimità di una rappresentanza degli interessi accanto a quella politica , e ne è prova la nostra Costituzione che l ' ha relegata in un istituto secondario , il Consiglio nazionale dell ' economia e del lavoro , che ha potere unicamente consultivo , e che , oltretutto , è nato morto , e non appena risuscitato , è subito rimorto . In secondo luogo sono da prendere in considerazione le condizioni stesse in cui si è svolto in questi anni in Italia il conflitto sociale , ben di verso , almeno sino ad ora , da quello dei paesi in cui si è venuto assestando a poco a poco nel dopoguerra un sistema neocorporativo . Questo esiste soltanto nei paesi in cui vi è stato un forte partito socialdemocratico , tanto forte da essere diventato per periodi più o meno lunghi partito di governo , il partito che è stato chiamato del « compromesso » , ovvero dell ' accettazione temporanea del sistema capitalistico corretto da politiche redistributive . In Italia il più forte partito della classe operaia non è e non vuole essere un partito socialdemocratico e nulla vi è di più estraneo alla sua « filosofia » e a quella dei maggiori sindacati , anche di quelli di matrice non comunista , che l ' idea del compromesso sociale , da non confondersi con il compromesso politico , che invece è parte integrante della strategia del partito comunista ( ma la differenza fra i due tipi di compromesso richiederebbe un lungo discorso che rimando ad altra occasione ) . Dal punto di vista del sistema politico nel suo complesso , l ' assetto neocorporativo rappresenta uno spostamento del luogo classico delle decisioni collettive , che in un sistema parlamentare risiede nel Parlamento e nel governo , mentre nell ' assetto neocorporativo la decisione è presa al di fuori del parlamento e del governo , che rappresenta , nella più favorevole delle ipotesi , solo una delle due parti in conflitto . Di questi due sistemi decisionali , il primo è completamente istituzionalizzato , l ' altro è un sistema ancora debolmente o non affatto istituzionalizzato che , emerso a poco a poco dalla società civile , costituisce uno dei fenomeni più appariscenti della « trasformazione » della democrazia tuttora in corso . A un fenomeno di questo genere non può non far pensare il contrasto che si è avuto qualche mese fa in Italia fra governo e opposizione rispetto al modo di prendere la decisione sul costo del lavoro . Si è trattato infatti di un contrasto fra due procedure alternative per la formazione delle decisioni collettive : mediante accordo fra le parti in cui lo Stato entra soltanto come mediatore , oppure attraverso la formazione della maggioranza nella sede propria della rappresentanza politica . Si potrebbe parlare addirittura di una vera e propria forma di « doppio Stato » , non nel senso del contrasto fra Stato normativo e Stato discrezionale , analizzato a suo tempo da Ernst Fraenkel , ma nel senso del contrasto fra due procedure di decisione , che si escludono a vicenda , pur essendo entrambe compatibili , sui principi fondamentali della democrazia , secondo la quale una decisione collettiva deve essere legittimata in ultima istanza dal consenso diretto o indiretto degli interessati .
Il potere in maschera ( Bobbio Norberto , 1984 )
StampaQuotidiana ,
La conclusione dell ' articolo precedente , in cui parlo di un « doppio Stato » a proposito dello Stato neocorporativo , è manifestamente forzata . Nella realtà , e senza forzature , un doppio Stato esiste davvero in Italia , ma non è quello neocorporativo : è lo Stato che deriva dalla sopravvivenza e dalla robusta consistenza di un potere invisibile accanto a quello visibile . Alcuni anni or sono uno studioso americano in un libro tradotto anche in italiano , I confini della legittimazione ( De Donato , Roma ) , per sottolineare l ' estensione del potere occulto negli Stati Uniti negli anni di Nixon , ha usato l ' espressione « the duali State » che corrisponde esattamente al nostro « doppio Stato » . Dei due presunti Stati di una società neocorporativa dicevo che erano entrambi compatibili coi principi fondamentali della democrazia . La stessa cosa non vale quando dei due Stati l ' uno è lo Stato visibile , l ' altro quello invisibile . Lo Stato invisibile è l ' antitesi radicale della democrazia . Si può definire la democrazia ( ed è stata di fatto definita ) nei modi più diversi . Ma non vi è definizione in cui possa mancare l ' elemento caratterizzante della visibilità o della trasparenza del potere . Governo democratico è quello che svolge la propria attività in pubblico , sotto gli occhi di tutti . E deve svolgere la propria attività sotto gli occhi di tutti perché ogni cittadino ha il diritto di essere posto in grado di formarsi una libera opinione sulle decisioni che vengono prese in suo nome . Altrimenti , per quale ragione dovrebbe essere chiamato a recarsi periodicamente alle urne , e su quali basi potrebbe esprimere il proprio voto di approvazione e di condanna ? Che il potere tenda a mettersi la maschera per non farsi riconoscere e per poter svolgere la propria azione lontano da sguardi indiscreti , è una vecchia storia . Questa vecchia storia ha anche un celebre nome che al solo pronunciarlo mette i brividi nella schiena : arcana imperii . Nella sua analisi magistrale del potere Elias Canetti ha scritto : « Il segreto sta nel nucleo più interno del potere » ( Massa e potere , Adelphi , Milano 1981 ) . I padri fondatori della democrazia pretesero di dar vita a una forma di governo che non avesse più maschera , in cui gli arcani del dominio fossero definitivamente aboliti e questo « nucleo interno » distrutto . Molte sono le promesse non mantenute della democrazia reale rispetto alla democrazia ideale . E la graduale sostituzione della rappresentanza degl ' interessi alla rappresentanza politica di cui mi sono occupato nell ' articolo precedente è una di queste . Ma rientra , insieme con altre , nel capitolo generale delle cosiddette « trasformazioni » della democrazia . Il potere occulto , no . Non trasforma la democrazia , la perverte . Non la colpisce più o meno gravemente in uno dei suoi organi vitali , la uccide . Di tutte le promesse non mantenute , è quella che maggiormente ne offende lo spirito , ne devia il corso naturale , ne vanifica lo scopo . Grazie ai risultati ormai noti della Commissione parlamentare d ' inchiesta presieduta dall ' on. Tina Anselmi , ai numerosi documenti resi pubblici , alle dichiarazioni di parlamentari e di personaggi variamente autorevoli , alle inchieste giornalistiche , sappiamo ormai sulla loggia segreta di Licio Gelli molto di più di quello che si venne a sapere in seguito alle perquisizioni nella villa di Arezzo e nell ' ufficio di Castiglion Fibocchi del marzo 1981 . Ma prima di allora io stesso avevo cominciato a parlare , se pure con una espressione che era apparsa eccessiva , di « criptogoverno » ( in un articolo sulla « Stampa » del 23 novembre 1980 ) . Ho ora sott ' occhio la voluminosa e documentata relazione di minoranza dell ' on. Massimo Teodori , del partito radicale , sulla medesima inchiesta . La tesi principale ivi sostenuta , secondo cui la loggia P2 sarebbe stata parte integrante del sistema dei partiti e pertanto debba essere considerata come un effetto diretto della degenerazione partitocratica della democrazia italiana , dalla quale sarebbe derivata una vera e propria dislocazione del potere fuori dalle sedi costituzionalmente riconosciute , si può anche discutere e non accettare integralmente . Ma è da ritenere fuori discussione che la loggia P2 , come rileva giustamente Teodori , abbia esercitato in alcuni momenti della nostra vita nazionale una influenza ben più ampia , profonda , determinante , che una semplice lobby e abbia costituito , per l ' appartenenza degli affiliati alle più alte gerarchie dello Stato e ai più elevati strati della società , alti funzionari , diplomatici , generali , giornalisti , e quel che è ancora più scandaloso , uomini politici di quella che si chiama - oh , ironia dei nomi ! - l ' area democratica del nostro sistema politico , una compiuta organizzazione di potere occulto presso , dietro , sotto ( o sopra ? ) lo Stato . Indipendentemente dalle conseguenze direttamente politiche , che forse non sono da sopravvalutare , la formazione di una simile rete di potere sotterraneo è di per se stessa una vergogna nazionale dalla quale dobbiamo redimerci per poter diventare pienamente credibili come soggetti di un regime democratico nel consesso internazionale . Senza pregiudizi , s ' intende , verso le persone , giacché non tutte sono egualmente responsabili , ma anche senza indulgenze . Non possiamo però fingere di non accorgerci che sin d ' ora ciò che è emerso dalla documentazione è una prova avvilente della mediocrità intellettuale e morale di una parte non piccola della nostra classe dirigente . Le rivelazioni sulla vita di Gelli sono tali da farci restare allibiti ( e inorriditi ) alla scoperta che la maggior parte di coloro che sono entrati volontariamente nella sua cerchia per sottomettersi alla protezione di un uomo che non aveva altro scopo che quello di estendere il proprio potere con qualsiasi mezzo , rendendo in cambio della protezione servigi presuntivamente illeciti per la loro stessa segretezza , siano personaggi quasi tutti di altissimo rango , e nessuno di essi abbia avuto in anni di commerci sospetti con il fondatore della loggia un moto di ribellione , e abbia compiuto un atto di resipiscenza . Sono considerato uno che vede sempre nero , un pessimista cronico . Eppure confesso che non avrei mai immaginato che la vita italiana fosse stata inquinata sino a questo punto , sino al punto in cui non sai se più indignarti della bassa qualità dell ' intrigo o del grande numero delle persone che vi hanno preso parte , per la spudoratezza di chi ha guidato il gioco o per la insensibilità di coloro che l ' hanno accettato , e dei quali molti vengono chiamati nella retorica di rito delle cerimonie ufficiali « servitori dello Stato » . La realtà ha superato questa volta la più catastrofica delle immaginazioni . Lo Stato democratico deve essere ripristinato nella sua integrità . Il potere occulto deve essere snidato ovunque si annidi , inflessibilmente . Non ci possono essere due Stati . Lo Stato italiano è uno solo , quello della Costituzione repubblicana . Al di fuori non c ' è che l ' antistato che deve essere abbattuto cominciando dal tetto ed arrivando , se mai sarà possibile , alle fondamenta .
Perché mai il referendum? ( Bobbio Norberto , 198 )
StampaQuotidiana ,
Per giudicare della bontà di una causa , nulla è meglio che vagliare la maggiore o minore forza degli argomenti che entrambe le parti impiegano per difenderla e dei controargomenti di cui si servono per combattere gli argomenti dell ' avversario . Sgombero subito il campo da un falso argomento addotto ripetutamente dai fautori del « sí » : l ' appello al principio « la legge è eguale per tutti » . Che la legge debba essere eguale per tutti non significa affatto che tutti debbano essere trattati in modo eguale . Sarebbe un ' insensatezza . L ' unico significato certo attribuibile alla massima , che si vede scritta sui frontoni di tutti i tribunali , è che la legge , qualsiasi legge , deve essere applicata imparzialmente a tutti , ricchi e poveri , nobili e plebei . Ciò che la cosiddetta « regola di giustizia » richiede è che siano trattati egualmente gli eguali e disegualmente i diseguali . Sono forse i giudici eguali agli altri cittadini rispetto all ' estensione della responsabilità civile ? Anche i fautori del « sí » riconoscono che non lo sono : qualunque sia l ' esito del voto , la responsabilità dei giudici sarà ad ogni modo diversa da quella dei singoli cittadini . Nell ' attuale disputa la massima non c ' entra assolutamente nulla . L ' invocarla come una buona ragione per indurre a votare « sí » è uno sproposito . Atteniamoci dunque agli argomenti razionali , vale a dire alle ragioni pro o contro , addotte sulla base di giudizi di fatto controllabili , sia rispetto alle premesse sia rispetto alle conseguenze . Nonostante il profluvio di parole che si è rovesciato in questi giorni sui giornali , questi argomenti sono sempre gli stessi . Chi vada a leggere ciò che si scrisse nella primavera del 1986 quando ebbe inizio la campagna per la raccolta delle firme , si renderà conto facilmente di quel che sto dicendo , anche se possono essere cambiati alcuni interlocutori , e identici interlocutori possono oggi sostenere tesi diverse da quelle di ieri . A ragion veduta si può dire che gli argomenti addotti da una parte e dall ' altra ruotano intorno a due temi fondamentali : i ) se il quesito posto sia conforme allo scopo , che sarebbe per i promotori una giustizia più giusta ; 2 ) ammesso che il quesito sia conforme allo scopo , se a sua volta sia conforme allo scopo lo strumento adottato per risolverlo , il referendum . I fautori del « no » sostengono che ci troviamo di fronte a un caso davvero singolare di un metodo sbagliato usato per risolvere una questione mal posta . Sul primo punto alle persone di buon senso è parso sin dall ' inizio incomprensibile perché dal gran mazzo di problemi insoluti relativi alla giustizia si sia estratto il problema della responsabilità civile . Tanto più che due dei proponenti facevano parte del governo , e di governi che non erano mai stati troppo zelanti nel cercare di risolvere gli altri problemi . Sinora i fautori del « sí » non hanno fatto nulla per aiutarci a capire . Attribuire la responsabilità dei malanni della giustizia ai giudici , sarebbe come far ricadere i malanni della scuola sui professori , della sanità sui medici e , perché no ? , tutti i guai del paese soltanto sulla classe politica . Che sia utile ridiscutere il problema della responsabilità civile dei giudici , non è ancora un buon argomento per considerarlo il problema principale , da risolvere prima di tutti gli altri . Si capisce come sia potuto nascere il sospetto che la funzione del referendum fosse unicamente quella di dare una lezione ai giudici troppo inframettenti . Non è il caso di fare il processo alle intenzioni . Ma siamo proprio sicuri che non gli attribuiscano questa funzione la maggior parte dei cittadini che voteranno « sí » ? Giorni fa un tassista , che si accalorava parlandomi di una lite scoppiata tra gruppi rivali di conduttori , mi disse che il Tar aveva dato loro ragione ma gli altri erano ricorsi al Consiglio di Stato . Però , aggiunse , siccome la sentenza sarà emanata dopo il referendum , « se ci danno torto gliela faremo pagare » . Un cittadino , non sprovveduto , riteneva dunque in buona fede che dopo la « valanga » dei « sí » , chi ha torto potrà d ' ora innanzi procedere non per far rivedere la sentenza ma per punire il giudice . Rinunciamo pure a fare il processo alle intenzioni dei promotori . Ma non siamo del tutto tranquilli sulle intenzioni dei bravi cittadini che risponderanno all ' appello del « sí » . Se ne rendono conto coloro che hanno variamente contribuito a costruire questa macchina di guerra contro la magistratura italiana ? E rendendosene conto , che cosa rispondono ? Quanto al secondo punto , l ' idoneità del referendum come strumento , l ' argomento contrario è fortissimo . All ' argomento secondo cui il problema della responsabilità civile del giudice non può essere risolto con un « sí » e con un « no » , non può essere data nessuna risposta convincente , tanto è vero che neppure i fautori del « sí » cercano di darla . Dopo l ' abrogazione tutti sanno che bisognerà ricominciare da capo . Il solo argomento addotto dai promotori è stato che lo scopo del referendum non era quello di decidere ciò che un referendum non può decidere ma quello di « stimolare » il legislatore a decidere . Che il nostro Parlamento abbia bisogno di stimoli per agire , come un individuo in stato di depressione permanente , è desolante . Ma lasciamo andare . Ora che lo stimolo sembra abbia prodotto il suo effetto , e più o meno tutti , compresa la maggior parte dei magistrati , sono d ' accordo sulla riforma , tanto che nella passata legislatura pareva che il « vuoto » stesse per essere colmato prima che si formasse , che necessità c ' è che la stimolazione continui ? Anche a questa domanda non sono riuscito a trovare che risposte vaghe , forse sarebbe meglio dire nessuna risposta . Il referendum da strumento diventa fine a se stesso . Il referendum per il referendum . Ovvero : perché il referendum ? Perché sì . Concludendo : chi ritiene non sia stata sufficientemente giustificata la scelta del quesito , dovrebbe rispondere « no » . Chi invece ritiene non sia stata sufficientemente giustificata la scelta del mezzo per risolverlo dovrebbe non andare a votare . Chi ritiene che non siano state sufficientemente giustificate entrambe può scegliere di votare « no » o di non votare .
Il paradosso della riforma ( Bobbio Norberto , 1987 )
StampaQuotidiana ,
Da qualche tempo si parla della riforma costituzionale con un fervore senza precedenti . Sono intervenute nel dibattito , forse per la prima volta contemporaneamente , le più alte autorità dello Stato , a cominciare dal presidente della Repubblica , che , con espressione felice , ha auspicato al paese una « democrazia più matura » . La discussione è nata circa una decina d ' anni fa , ha attraversato due legislature , l ' ottava e la nona , e ora si riaffaccia all ' inizio della decima . Sono stati scritti sull ' argomento migliaia di articoli , sono state date migliaia d ' interviste , sono stati pubblicati decine di libri di esperti . Sotto la direzione di Gianfranco Miglio si era costituito alcuni anni fa un gruppo di studio per la « nuova Costituzione » da cui sono usciti nel 1983 tre o quattro volumi molto commentati alla loro apparizione . Per ben due volte si è detto : questa sarà la legislatura della grande riforma . Ora è la terza . Eppure sinora la grande riforma non ha mosso neppure il primo passo . Né la grande né la piccola . Neppure la piccolissima , quella dei regolamenti parlamentari . Perché ? La spiegazione più semplice di cui tutti sono consapevoli ma che fingono d ' ignorare , è la seguente . L ' esigenza di cambiare la Costituzione nasce dalla constatazione , diventata ormai quasi ossessiva , che il nostro sistema politico è inefficiente . Ma è proprio l ' inefficienza del sistema che sinora ha reso difficile , se non impossibile , il cambiamento . La funzione del sistema politico è quella di produrre decisioni ovvero regole imperative per risolvere conflitti d ' interesse fra individui e fra gruppi al fine di renderne possibile la pacifica convivenza . Si dice che un sistema politico funziona bene quando riesce a prendere decisioni opportune nel più breve tempo possibile e con il minor dispendio di energie da parte dei decisori . Sotto questo aspetto il nostro sistema avrebbe dimostrato di non essere un buon sistema . Di qua l ' esigenza di riformarlo sveltendone le procedure . La maggior parte delle proposte sinora fatte convergono verso questo scopo , dalla modificazione del sistema bicamerale alla riforma dei regolamenti delle Camere , dall ' attribuzione di maggiore autorità al presidente del Consiglio al cambiamento della legge elettorale per diminuire il numero dei partiti e rendere meno affollate le coalizioni di governo . Queste proposte per essere attuate debbono trasformarsi in decisioni . Ma chi deve prendere queste decisioni ? Naturalmente gli stessi organi dello Stato di cui si chiede a gran voce la riforma perché decidono male . Con un ' aggravante in più : che le decisioni in materia costituzionale sono regolate da norme che le rendono più difficili . Il paradosso della riforma costituzionale , il paradosso che spiega la paralisi , è tutto qui : per riformare la Costituzione occorrono condizioni , per lo più aggravate , dalla cui mancanza è nata l ' esigenza di riformare la Costituzione . In altre parole , le condizioni che rendono necessaria la riforma sono quelle stesse che sinora l ' hanno resa impossibile . Se la riforma della Costituzione fosse un ' operazione facile , vorrebbe dire che il nostro sistema funziona bene . Ma se funzionasse bene , che bisogno ci sarebbe della riforma ? Siamo in un circolo vizioso , da cui non si sa bene come uscire . Ho voluto forzare un po ' il ragionamento unicamente per mostrare la reale difficoltà dell ' operazione , e per cercare di capire perché , nonostante la montagna di parole , non ne sia venuto fuori in tanti anni neppure il topolino di un fatto concreto . La discussione è ancora ferma ai preliminari : è meglio cominciare dalle grandi riforme e procedere verso le piccole o partire dalle piccole per salire a poco a poco alle grandi ? Conviene dare la precedenza alla Costituzione vera e propria oppure al sistema elettorale ? La prima alternativa sembra ormai risolta : si poteva cominciare dalle piccole riforme subito , ma ora , dopo tanti rinvii e tante aspettative deluse , non si può cominciare se non da qualche azione clamorosa . Dare una risposta alla seconda alternativa è più difficile , perché , se ci sono convergenze rispetto alla prima , rispetto a questa ogni partito va per conto suo e cerca di tirar l ' acqua al proprio mulino . E si capisce : non esiste una procedura elettorale da cui possano trarre vantaggio tutti i partiti . C ' è una sola procedura che a rigore renda a ciascuno il suo ed è la proporzionale pura con il minimo di correttivi . Ma , guarda caso , questa è proprio una delle cause del difetto del sistema per quel che riguarda la sua capacità operativa . Di qua un altro paradosso : il procedimento più equo dal punto di vista del modo di comporre il Parlamento è anche quello meno conveniente dal punto di vista del suo buon funzionamento . Si può mettere il problema anche in questo modo : i due organi più importanti per la formazione delle decisioni sono il Parlamento e il Governo . La proporzionale è la procedura migliore per la composizione del Parlamento che , se deve essere un organo rappresentativo , deve rispecchiare con la massima precisione gli orientamenti del paese . Per la capacità operativa del Governo , invece , occorre la drastica riduzione dei gruppi politici , che si può ottenere soltanto abolendo o correggendo la proporzionale . Queste difficoltà sono sotto gli occhi di tutti . Oggi rese se mai più gravi dal fatto che il naturale inizio di un serio dibattito avrebbe potuto essere una commissione parlamentare . Ma questo espediente è stato ormai bruciato durante la nona legislatura con la Commissione presieduta dall ' on. Bozzi , composta da alcuni dei più bravi giuristi italiani . Il risultato del lavoro della Commissione è stato una bella relazione , diventata rapidamente un documento d ' archivio , se non addirittura carta da macero . Nessuno oggi pensa di proporre la ripetizione della prova . Si parla d ' incontri bilaterali . Ma che cosa s ' intende ? Se s ' intende l ' incontro di un partito , per esempio quello di maggioranza relativa , con i principali partiti di governo e di opposizione , la cosa sarebbe possibile ma non sarebbe giusta . Se s ' intende l ' incontro di ogni partito con tutti gli altri , come si dovrebbe intendere alla lettera , ne verrebbe fuori una bella confusione . Dopo quasi dieci anni insomma sembra che si debba cominciare da capo . Ma ormai non si può più tornare indietro . La grande riforma è diventata una sfida per la nostra classe politica . Una sfida che essa deve vincere se non vuol perdere un ' altra parte della sua credibilità . A furia di fare della Costituzione il capro espiatorio di tutti i guai della repubblica , si è finito per screditarla . Non si può più tornare indietro ma non si può neppure fallire . Il fallimento sarebbe un ulteriore segno della crisi irreversibile del sistema democratico , che solleva più problemi di quelli che sia in grado di risolvere , e non riuscendo a risolvere i piccoli se ne pone di sempre più grandi . Come il giocatore che punta somme via via più alte per rifarsi delle perdite precedenti e alla fine perde tutto : oltre la camicia , anche l ' onore .