Tipi di Ricerca: Ricerca per parole
Trova:
> autore_s:"Montale Eugenio"
Classici contemporanei ( Montale Eugenio , 1960 )
StampaQuotidiana ,
Venezia , 17 settembre - Nei due concerti che si sono susseguiti nella sala delle Colonne di Ca ' Giustinian , il primo ci ha fatto conoscere il famoso Quartetto Julliard , interprete di musiche di Gian Francesco Malipiero , Anton Webern ed Elliot Carter . I quattro strumentisti del quartetto , dei quali il programma non ci fa conoscere i nomi , sono davvero formidabili e la loro collaborazione dura dal tempo dei loro studi musicali . ( Julliard è il nome di un ' alta scuola di musica negli Stati Uniti . ) Un ' ottima impressione hanno destato i Rispetti e strambotti di Malipiero di una chiara linea melodica e anche i Cantari alla madrigalesca dello stesso autore , forse un po ' meno felici nella loro sovrabbondanza . Questi lavori risalgono rispettivamente al 1920 e al 1931 e appartengono alla migliore stagione dell ' arte malipieriana . I Julliard hanno poi eseguito il Secondo quartetto per archi di Elliot Carter , un americano nato a Nuova York nel 1908 . A questo lavoro è stato assegnato il premio Pulitzer nel '59 , data della sua composizione . Si tratta di una musica caotica , ispida , volutamente inespressiva , di una aridità che non è nemmeno sconcertante perché nessuno è più capace di meravigliarsi di nulla . Tanto il Carter è rumoroso quanto era invece rarefatto Anton Webern , nei Cinque movimenti per quartetto d ' archi ( 1909 ) . Questi movimenti che appartengono alla musica del silenzio , oggi molto in auge , ci portano alla frontiera del nulla assoluto non forse per la sapiente disgregazione del rapporto tonale ma per l ' insolito gioco dei rapporti di intervallo . Resta sorprendente che dopo il Webern si sia scritta altra musica nella stessa direzione . Eppure il culto di questo maestro avrebbe dovuto sconsigliarlo . Scarso il pubblico , entusiastico il successo personale dei meravigliosi strumentisti del Julliard . Il secondo concerto era dedicato ai classici contemporanei : Schönberg , Stravinskij , Hindemith e Bartók . Di Schönberg è stato eseguito il ben noto Pierrot lunaire ( 1912 ) in una insufficiente interpretazione vocale di Magda Laszlo . È per noi un mistero perché Schönberg abbia musicato poesie che ci riportano al tempo della « Scena Illustrata » di Pilade Pollazzi . Sebbene non si intendesse alcuna parola , un mutismo completo ci avrebbe permesso di gustare meglio il sottofondo armonico di questi 21 melodrammi in miniatura . Dell ' Opera 36 n . 4 di Hindemith ( Kammermusik n . 5 ) per viola e orchestra da camera ( 1927 ) , dell ' Ottetto per strumenti a fiato di Stravinskij ( 1933 ) e della Sonata per due pianoforti e percussione di Béla Bartók ( 1937 ) non c ' è che da lodare la vigorosa , vibrante sostanza sonora , carattere che rende ancor vive e attuali queste musiche di ieri . Ha diretto molto bene il Pierrot lunaire il pianista Piero Scarpini , assistito dagli strumentisti Gazzelloni , Gaudini , Fusco , Asciolla , Morselli . Ottimo direttore delle composizioni è stato Ettore Gracis . Da notare il violista Dino Asciolla , il duo pianistico Gorini - Lorenzi e i batteristi Torrebruno e Striano . Molto pubblico a questo secondo concerto e molti applausi .
Dodecafonici a Venezia ( Montale Eugenio , 1960 )
StampaQuotidiana ,
Venezia , 19 settembre - Sabato ci siamo trasferiti alla Fenice , felicemente riaperta , ma a quanto pare per quella sola serata , e abbiamo ascoltato musiche dodecafoniche , alcune nuove per l ' Italia , e una addirittura « novità assoluta » . Interpreti del programma l ' orchestra e il coro di Radio Colonia - un insieme eccellente - sotto la direzione di Bruno Maderna , il più accreditato specialista italiano di questo genere di musica . Si è cominciato con la Settima sinfonia di Karl Amadeus Hartmann , compositore di Monaco , oggi cinquantacinquenne , un lavoro che esprime la predilezione dell ' autore per la polifonia e le forme concertanti ; ma che non si alza mai dal grigiore del più convenzionale , anche se moderno , accademismo . Lo stesso può dirsi per l ' Aulodia per oboe e orchestra di Wolfgang Fortner , fastidioso elaborato di un tema di tre note rovesciate , retrogradate e invertite in modo da raggiungere il fatidico numero di dodici note . Sostituiva l ' aulos greco l ' oboe del poderoso solista Lothar Faber , acclamatissimo . Novità assoluta erano i Dialoghi per violoncello e orchestra di Luigi Dallapiccola , ultimo lavoro del maestro . Il maggior pregio di questi Dialoghi sta nell ' aver tolto allo strumento solista ogni possibilità di abbandonarsi a quel virtuosismo individuale che oggi rende poco sopportabili le composizioni del genere . Qui il solista parla senza esibirsi in una personale oratoria ; e non importa poi se parli con quei suoni afoni e smozzicati ( quando non siano duramente strappati ) che i nuovi asceti musicali prediligono . Il pubblico ha ascoltato con simpatia i diciotto minuti di musica dei Dialoghi e il maestro Dallapiccola è apparso due volte al proscenio ; anche alle precedenti composizioni dell ' Hartmann e del Fortner non erano mancati applausi , seppure poco convinti . Nuovo per l ' Italia , ma già apprezzato altrove , era il Canto sospeso per soprano , contralto , tenore , coro misto e orchestra di Luigi Nono , che si è servito di alcuni brani delle Lettere di condannati a morte della Resistenza europea , pubblicate da Einaudi . Il motivo psicologico fondamentale della vasta composizione , divisa in nove parti , non differisce da quello , espresso più sobriamente , del Diario polacco dello stesso Nono , ascoltato al festival dello scorso anno . Più che di polifonia o di contrappunto sembra che si debba parlare di aggregati di masse o strutture sonore , che delimitano larghe zone di angoscioso silenzio . Aggregati , s ' intende , nei quali i singoli strumenti sono impiegati ai limiti estremi delle loro possibilità di estensione e di timbro . Siamo portati , per quanto riguarda gli effetti timbrici , quasi ai confini della musica elettronica . Le parole non s ' intendono neppure nei brani affidati ai solisti , costretti ai consueti , difficili intervalli . La maggiore efficacia è quindi data dalla parte orchestrale e da quella corale ( questa , « a cappella » nel primo coro , più libera nel finale , con largo intervento di ottoni ) . Avremo occasione di riascoltare questo Canto sospeso , il quale ha ottenuto l ' effetto di suggestione al quale mirava , strappando calorose acclamazioni all ' autore e agli interpreti . Ha diretto il magnifico coro Bernhard Zimmerman ; solisti il soprano Hollweg , il contralto Bornemann , il tenore Lenz . Per concludere : la musica di estrema avanguardia può ottenere oggi i più trionfali successi da parte del pubblico borghese ; il che non poteva essere nelle sue profonde aspirazioni . C ' è qui , evidentemente , una contraddizione che stride .
«Gesualdo Monumentum» di Stravinskij ( Montale Eugenio , 1960 )
StampaQuotidiana ,
Venezia , 28 settembre - Il Festival musicale di Venezia ha sparato ieri sera il suo ultimo mortaretto con l ' atteso Gesualdo Monumentum di Stravinskij diretto dall ' autore . Domani al Teatro del Ridotto si avrà la serata di chiusura con Giro a vuoto n . 2 , canzoni di noti poeti e musicisti interpretate da Laura Berti . Assai maggiore l ' interesse del concerto di ieri sera , nel quale , oltre alla assoluta novità stravinskiana , abbiamo avuto una « retrospettiva » di Alban Berg comprendente i predodecafonici Cinque « Lieder » orchestrali su testi di cartoline illustrate di Peter Altenberg ( 1912 ) , l ' aria da concerto per soprano e orchestra Il vino , su testi di Baudelaire tradotti da George ( 1919 ) e due dei Tre pezzi per orchestra che risalgono al '14 . Di queste composizioni nessuna aveva carattere di novità , ma solo Il vino è spesso ascoltata nei festival . Il carattere fortemente espressionistico e letterario di quest ' aria - che precede e annunzia l ' incompiuta opera Lulu - è oggi facilmente accessibile a un pubblico abbastanza vasto . Molti applausi sono andati alle musiche berghiane , al direttore d ' orchestra Robert Craft e alla solista di canto Magda Laszlo . Ha invece diretto personalmente il Gesualdo Monumentum il venerando autore che non per la prima volta largisce , sia pure col contagocce , le sue novità al festival di Venezia . Questa è del '60 , freschissima . Il principe Gesualdo da Venosa , madrigalista vissuto a cavallo tra il Cinque e il Seicento , è posto da anni sugli altari , non solo perché fece trucidare la moglie , ma anche per la ricchezza armonica della sua scrittura vocale . Si vede in lui un sorprendente anticipatore del moderno cromatismo , sebbene egli si muova nell ' ambito di una ortodossa tonalità e rimanga pur sempre nel ritmo ( come dice Stravinskij ) , piuttosto « plump » . I tre madrigali che l ' autore del Sacre ha trascritto per gruppi di strumenti hanno offerto al grande maestro l ' occasione di scrivere alcune di quelle nugae ( musica scritta su altra musica , oppure composta à la maniere de ... ) che formano una notevole parte della sua recente produzione . Alterazioni ritmiche - a quanto dice il trascrittore - dovrebbero essercene poche , nei tre madrigali tolti dai libri V e VI di Gesualdo , ma è molto dubbio che sia conservato molto dell ' originario carattere vocale , inscindibile dall ' ispirazione di Gesualdo . Lo stesso Stravinskij , presentando questi sei minuti di musica ( i quattordici delle precedenti Lamentazioni di Geremia sembrano ora un Himalaya musicale ) , ha ammesso , del resto , che in una trascrizione del genere la parte originariamente vocale dev ' essere sentita come assolutamente nuova e diversa , tanto diversa da sopprimere ogni somiglianza col disegno e il carattere dell ' originale . E allora ? Non resta che da ammirare la scintillante trama sonora che il trascrittore , servendosi di strumenti di vario sesso , e persino « ermafroditi » come i corni , ha gettato sulle brevi e dopo tutto non troppo complesse melodie gesualdiane .
StampaQuotidiana ,
Venezia , 10 aprile - Nella grandiosa sala superiore della Scuola Grande di San Rocco ieri sera si è inaugurato il XXIV Festival musicale veneziano , quest ' anno diretto da Mario Labroca . La tradizione di cominciare con uno spettacolo teatrale è stata parzialmente rispettata , perché di teatro si può appena parlare per le due opere prescelte : Il diluvio di Noè di Britten è una sacra rappresentazione nuova per l ' Italia , mentre La via della Croce , « novità assoluta » di Ghedini su testi di Nicola Lisi , si può definire naturalmente come un « mistero » . Il diluvio di Noè è il rifacimento di una di quelle rappresentazioni bibliche del Chester Miracle che nel Cinquecento inglese venivano portate in giro da un assai primitivo carro di Tespi . Le esigenze sceniche erano minime . Britten ha scritto la sua opera per personaggi adulti e bambini e per un ' orchestra in cui accanto a professionisti figurano dilettanti che suonano violini , strumenti a percussione , campanelli a mano e trombe . In questi spettacoli medioevali il pubblico ( o meglio le congregazioni ) prendeva parte all ' azione e si univa al coro intonando il canto . Nulla di simile , naturalmente , ieri sera . Il coro era quello della Fenice istruito da Sante Zanon , e dello stesso teatro era l ' orchestra diretta da Ettore Gracis . Il testo è tradotto in italiano da Piero Nardi e l ' adattamento ritmico è opera del Nardi e di Raffaele Cumar . E già che ci siamo aggiungiamo i nomi del regista ( Giulio Pacuvio ) e dello scenografo ( Gianrico Becher ) . Il breve , intenso spettacolo , di un primitivismo anche musicalmente assai prezioso ci fa assistere alla costruzione dell ' arca di Noè dopo l ' annuncio divino , al diluvio , all ' imbarco di Noè e di sua moglie ( questa assai riluttante ) , nonché di Seni , Cam e Iafet e delle loro rispettive consorti . Non è dimenticata neppure una larga rappresentanza delle varie specie zoologiche , l ' arcobaleno , il volo della colomba che annuncia la fine del diluvio tornando all ' arca col ramoscello d ' olivo ; e ha grande rilievo la voce di Dio , affidata alla tonante recitazione di Annibale Ninchi . La musica di Britten , tempestosa nella descrizione del diluvio , onomatopeica quando riproduce le voci degli animali , talvolta umoristica nelle scene di carattere , è in complesso degna dell ' autore del Giro di vite , bilanciata com ' è tra il sacro e il profano . E il lavoro , assai poco adatto al salone che lo ospitava , è stato assai applaudito anche per merito degli interpreti : il basso Clabassi , il tenore Andreolli , e le signore Garazioti , Benetti , Eggenberger , Fornaro , Marangoni , Zuliani . Il secondo spettacolo ( se tale può chiamarsi La via della Croce ) è formato da testi di Nicola Lisi sul mistero della Passione affidati a molte voci recitanti . A sfondo sonoro di queste voci Giorgio Federico Ghedini ha posto canti gregoriani rituali della Settimana Santa per coro , inquadrando il tutto con musiche originali sue per archi e coro di donne . Anche qui il complesso d ' archi era diretto da Gracis e la minima regia necessaria era affidata a Giovanni Poli . Hanno contribuito ai cori La Fenice e i monaci benedettini di San Giorgio Maggiore . Malgrado l ' inevitabile monotonia della parte recitata , la musica del Ghedini è sembrata di elevata ispirazione , tale da concludere in un ' atmosfera di solenne religiosità e con pieno successo una serata inaugurale forse voluta tale per fare da contrappeso al nuovo lavoro scenico Intolleranza 1960 di Luigi Nono , che si rappresenterà giovedì prossimo e che sembra ispirato a un aperto laicismo « progressista » . Il festival si annuncia assai interessante , durerà sino alla fine del mese . Vi prenderanno parte l ' orchestra sinfonica della 1360 , l ' orchestra da camera di Cracovia ( mai apparsa al festival veneziano ) , l ' orchestra milanese della Radiotelevisione italiana , il gruppo Melos di Londra . Un concerto - profilo sarà dedicato a Hindemith , una intera serata ricorderà Respighi nel venticinquesimo anniversario della morte . Inoltre , da domani a tutto il giorno 13 , si svolgerà nel salone dell ' ala neoclassica dell ' isola di San Giorgio il Congresso internazionale di musica sperimentale . Ascolteremo molte musiche non tutte ultramoderne e saranno relatori Piene Schaeffer , Roman Vlad e Luigi Rognoni . Danno il loro contributo ben nove Studi di fonologia . Ma l ' apporto della Fondazione Cini a questo festival non si ferma qui . Sarà una sorpresa per tutti il concerto di musiche polifoniche di Ioseffo Zarlini ( 1517-1590 ) eseguite dal Monteverdi Chor di Amburgo . È un prezioso dono che solo la Fondazione Cini poteva darci .
«Intolleranza 1960» di Nono ( Montale Eugenio , 1961 )
StampaQuotidiana ,
Venezia , 14 aprile - La novità attesa con febbrile impazienza dagli ammiratori di Luigi Nono è apparsa stasera , alla Fenice , sotto la direzione di Bruno Maderna e col concorso dell ' orchestra della BBC . Il titolo è Intolleranza 1960 , autore del libretto lo slavista Angelo Maria Ripellino . Il testo originale del librettista ha subito una drastica potatura : da trentanove a nove pagine , accettando la definizione non di dramma , ma di « idea » , e il tutto si presenta come un ' azione scenica che molto richiede al gioco delle luci , alla lanterna magica e a effetti elettronici . Registrata in precedenza a Milano , perché ineseguibile direttamente , era la parte corale , diffusa poi da altoparlanti disposti in ogni parte della sala : il che dovrebbe produrre effetti spaziali , ma porta con sé anche fastidiosi strascichi di echi e rende problematica la sincronia del nastro con l ' orchestra . L ' impressione generale dello spettacolo è subito quella di una laboriosa macchina visivo - uditiva , dalla quale è quasi inevitabile che lo spettatore - auditore si ritragga con una certa diffidenza . Viene in mente la frase di Tolstoj : « Andreev vuole farci paura , ma noi non abbiamo paura » . Luigi Nono , invece , ci fa paura , ma non solo per il triste destino del suo personaggio : l ' Emigrante ; ci fa paura per il suo progressivo aderire a quell ' avanguardia industrializzata alla quale egli sacrifica il suo forte talento di musicista . Sacrificio , è inutile dirlo , compiuto in buona fede e con le più nobili intenzioni . Ma vediamo come si svolge lo spettacolo , perché non di altro si tratta . Sul palcoscenico è posto un corridoio di cavalli di frisia , verticale alla buca del suggeritore : sulle assi dei cavalletti si adagia una piattaforma che può avanzare e indietreggiare ; e su questa piattaforma si muovono , ma non sempre , i personaggi . Può accadere che l ' Emigrante protagonista sia sospeso su un ' altalena alta sulla piattaforma . Intorno , al disopra e ai lati di questa costruzione si alzano e si abbassano schermi mobili in forma di palloni o di triangoli o di strisce o di irregolari parallelepipedi ; e su tali lacerti di schermo la lanterna magica proietta senza risparmio immagini visive di Emilio Vedova e , talvolta , sullo schermo centrale , l ' intera opera sua , con innegabili effetti di suggestione ; e , anzi , per essere giusti , con uno straordinario effetto nella scena finale dell ' alluvione . Che cosa accade all ' Emigrante ? Lo sappiamo leggendo ciò che sopravvive del libretto , perché le sue parole e le parole di tutti , compreso il coro ed escluso qualche accento del basso Italo Tajo , restano incomprensibili . L ' Emigrante è dapprima minatore . Impreca al suo triste destino , respinge le proteste d ' amore di una sua donna e si mette in viaggio per tornare in patria . Nelle scene successive , egli si trova ad assistere a un comizio antinazista , viene arrestato , torturato e portato in un campo di concentramento dal quale riesce a fuggire . Il primo quadro finisce con un duetto tra il fuggiasco e un non meglio identificato « ribelle » . Nel secondo quadro , l ' Emigrante si aggira tra proiezioni , voci , mimi « simboleggianti le assurdità della vita contemporanea » . La scena culmina in una grande esplosione : la bomba di Hiroshima , commentata dal canto di una donna , la « compagna » dell ' Emigrante , che inneggia alla vita e all ' amore e alla fraternità , beni perduti dall ' uomo imbestiato . Ma la pronuncia della compagna , che dovrebbe farci sentire un canto di allegri rigogoli ( la signora Katherine Gayer , condannata a proibitivi intervalli ) ci lascia all ' oscuro di tutto . Seguono episodi di violenza , immagini di fanatismo razziale , contro cui l ' Emigrante e la compagna si scagliano . Infine , i due viaggiatori giungono a un gran fiume in piena , l ' inondazione dominando tutto e tutti , mentre la voce di uno speaker dice : « Il Governo ha provveduto , la colpa è del metano » . Si abbassa una saracinesca , sulla quale sono proiettate parole di Brecht : « Voi che siete immersi dai gorghi dove fummo travolti , pensate anche ai tempi bui da cui siete scampati . Andammo noi , più spesso cambiando paese che scarpe , attraverso guerre di classe , disperati , quando solo l ' ingiustizia c ' era . Voi , quando sarà venuta l ' ora che all ' uomo un aiuto sia l ' uomo , pensate a noi con indulgenza » . A dare un senso musicale al mutilato canovaccio ha provveduto Nono con una agghiacciante dovizia di mezzi timbrici , talvolta accresciuti dal concorso dell ' elettrofonia . E qui , in fatto di ricerche acustiche , egli raggiunge risultati impressionanti . Razionalmente condotto , seriale anche nelle strutture , l ' ordigno non risparmia nulla per riempire le nostre orecchie di una cosmico - politico - esistenziale desolazione . Ma l ' orecchio si abitua presto : apprezza al giusto la parte corale in cui le dissonanze si fondono in un blocco unico , ma poco dopo , quando entrano in scena personaggi che dovrebbero esprimere sentimenti umani , l ' orecchio è già « mitridatizzato » , l ' orrore fa posto alla curiosità e la curiosità è sostituita dal senso di assistere a una pura esercitazione accademica , rispettabile senza dubbio , destinata certamente ad avere libero corso in teatri stranieri di eccezione , ma pur sempre gravata dall ' equivoco di sollecitare l ' emozione poetica con la sola esasperazione del fatto tecnico inteso come produttore di stimoli fisici . È come se un poeta volesse integrare la lettura di un suo desolato testo infliggendoci alle membra un buon numero di nerbate : l ' effetto sarebbe certo , ma a quale spesa ! Con tutto questo , non neghiamo all ' azione scenica di Nono i suoi quarti di nobiltà , ma restiamo convinti che il suo innegabile talento meriti di approfondirsi e svolgersi senza l ' incubo del « sempre più difficile » : la peggiore di tutte le « alienazioni » , la sola che i « progressisti » professionisti si guardano bene dal deprecare . Esecuzione approssimativa della stupenda orchestra della BBC sotto la direzione di Bruno Maderna , il solo , secondo l ' autore , che possa dirigere la difficilissima opera . Regia espressionistica di Václav Svoboda , Coro polifonico di Milano diretto da Giulio Bertola , nastri elettronici dell ' Istituto milanese di fonologia , costumi e scene di Emilio Vedova . Cantanti , oltre ai già citati , Petre Munteanu , Heinz Rehfuss e Carla Henius , tutti condannati all ' impossibile . Un insieme che , dopo altre quaranta prove , potrebbe rendere di più . L ' esito è stato burrascoso , come poteva prevedersi , dato l ' argomento dell ' opera e le provocazioni della musica . I due atti sono arrivati in porto a stento , tra fischi , vociferazioni , alterchi e pioggia di manifestini fascisti dalle gallerie . Alla fine i superstiti spettatori hanno organizzato un polemico trionfo ai vari autori e responsabili dell ' immaturo spettacolo . Non è stata , purtroppo , la battaglia di Hernani . È stata una serata incivile che ha lasciato tutti a bocca amara .
Paul Hindemith ( Montale Eugenio , 1961 )
StampaQuotidiana ,
Venezia , 15 aprile - Un intero concerto di musiche per flauto rischia di annoiare mortalmente quando l ' esecutore non abbia la bravura di Severino Gazzelloni che si è presentato nel pomeriggio di ieri nelle sale Apollinee della Fenice con un nutrito programma . In breve egli ci ha dato un saggio dell ' evoluzione tecnica che ha subìto il suo strumento a partire dall ' Après - midi d ' un faune di Debussy . Abbiamo così ascoltato difficilissime musiche moderne e di estrema avanguardia . Di André Jolivet Cinque Incantesimi per flauto solo accompagnati da esoteriche didascalie ; del tedesco - americano Stefan Wolpe una Sonata per flauto e pianoforte ali ordinaria amministrazione seriale ; di Edgar Varèse Density 21 , 5 , un difficile brano che risale al '36 e che impone portentose acrobazie allo strumentista ; di Olivier Messiaen un massiccio Merlo nero per flauto e pianoforte , virtuosistico all ' eccesso e alquanto opprimente ; di Debussy l ' ormai classica Syrinx per flauto solo , un piccolo capolavoro ; di Franco Evangelisti alcune Proporzioni per flauto solo , di una soporifera aridità . Completavano il programma una Sonatine per flauto solo ali Pierre Boulez , seconda versione scritta per il Gazzelloni di un ' opera che fu composta nel '36 e che si può ascoltare disponendo di molta pazienza ; e un recente lavoro di Mario Peragallo , Vibrazioni per tre flauti , pianoforte e tiptofono : uno strumento che è una specie di carillon di percussioni d ' ogni tipo a intonazione indeterminata . Completano l ' insieme l ' ottavino , il flauto e un diapason a tasto . Nulla di eccezionale , ma un successo di stima . Il pubblico ha applaudito con entusiasmo il fenomenale Gazzelloni e il valente pianista Frederik Rzewski . Nel concerto serale , che si è tenuto nella Scuola Grande di San Rocco , Paul Hindemith , dirigendo l ' Orchestra della Fenice , ci ha fatto conoscere la sua Pittsburgh Symphony , da lui scritta per festeggiare il bicentenario di quella città . È un lavoro di ampie proporzioni , ma di troppo evidente carattere occasionale . Altre musiche da lui dirette : La grande fuga in si bemolle opera 133 per orchestra d ' archi di Beethoven ; le Variazioni di Blacher su un tema di Paganini ( opera 26 ) per orchestra ; la Sinfonia opera 21 di Webern per orchestra da camera che il programma annuncia come la bibbia dell ' ermetismo musicale e che per la sua brevità si ascolta ancora con piacere . Vivissimo il successo , scarso l ' interesse .
«Il franco cacciatore» di Weber ( Montale Eugenio , 1955 )
StampaQuotidiana ,
Charles Baudelaire nei suoi Fiori include anche Weber , appaiandolo , un po ' all ' ingrosso , col Delacroix : sotto un ciclo nel quale passano fanfare « comme un soupir étouffé de Weber » . Strane son queste fanfare che sospirano , e ben poco weberiane ; ma forse qui Weber c ' è entrato perché il poeta aveva bisogno di rimare col vert del cielo . Il Franco cacciatore è del '21 , i Fiori del male escono nel '57 . Poco più di un trentennio era dunque bastato a divulgare la gloria del barone Karl Maria von Weber , e , insieme , l ' equivoco che gravò sempre su di lui in Francia , dove il Freischütz subì esecuzioni - massacro benché si debba al Berlioz la musica dei recitativi , che nell ' intenzione del Weber dovevano essere parlati secondo il carattere del Singspiel tedesco . A questa forma , che è rituale in Germania , è ieri tornato il maestro Carlo Maria Giulini che per l ' occasione ha fatto ritradurre tutti i recitativi : e poiché stavolta i cantanti dovevano recitare in una lingua a essi familiare i risultati sono stati ben più soddisfacenti che nella Carniera . Si è detto che il Franco cacciatore è un ' opera tipicamente germanica e che solo un tedesco può amarla ; e il primo a esprimere questo giudizio fu Richard Wagner che al Weber dell ' Euryanthe deve , per il suo Lohengrin , più di qualcosa . Ma questa opinione , giustificata nel suo tempo , è ora difficilmente sostenibile . Un ' opera che avesse caratteri puramente nazionali sarebbe un ' opera da museo , non un ' opera viva : e in verità , anche senza voler fare un ingeneroso confronto tra Weber e Wagner , il Franco cacciatore ha , nei suoi limiti , una purezza di stile che invano si cercherebbe nelle opere romantiche del primo Wagner . È un frutto singolare , maturato al momento giusto : e poiché in arte non crediamo ai coups de dés , ai terni al lotto , dobbiamo ammettere che il musicista giunto al momento opportuno ( si chiami esso Weber o Bizet ) sia sempre e in ogni caso meritevole della propria fortuna . Karl Maria von Weber era un uomo nato nel Settecento , un tedesco di buona cultura non soltanto musicale , un uomo che a diciassette anni era già direttore del Teatro di Breslavía e che a vent ' anni poteva conversare con uomini come Goethe e Wieland . Se la sua educazione e la sua cultura lo portavano naturalmente a vagheggiare un tipo d ' opera in musica che fosse intensamente nazionale ( e in ciò la sua poetica concordava con quella dei romantici tedeschi ) quel molto di settecentesco che viveva in lui lo portava a mantener viva l ' unità del dramma musicale secondo gli schemi che nel Settecento ( il grande secolo dei musicisti viaggiatori e cosmopoliti ) avevano fruttato indiscutibili capolavori . Il problema generale era ( ed è tuttora ) quello di riempire gli schemi , non di distruggerli ; e il problema specifico di Weber era di trovare un testo , un libretto che gli permettesse di fondere insieme il senso del gotico e quello dell ' intimità familiare ( il gemütlich ) , il dramma feerico e la pastorale , la vivacità della kermesse e la bruma della leggenda . Trovò l ' argomento che gli occorreva nel canovaccio che un certo avvocato Friedrich Kind tolse dal Gespensterbuch di Apel e di Laun ; e su quello , servendosi di non molti temi espressivi e senza rinunciare affatto ai pezzi chiusi , alle arie , ai duetti e ai concertati , gettò la musica dei suoi corni e dei suoi clarinetti , l ' incanto di uno stile robusto e ingenuo , fiabesco e insieme fortemente naturale , che apparenta Weber ( e non so se il raffronto sia stato fatto mai ) con l ' arte di quel francese innamorato della Germania , Gérard de Nerval , di cui proprio due giorni fa ricorreva il centenario della morte . Ne è nata un ' opera che è anche un fatto di cultura , l ' uovo di Colombo del primo romanticismo . Il Freischütz non è opera che possa essere amata e compresa solo dai tedeschi ; ma è opera che richiede da parte dello spettatore non tedesco una certa iniziazione culturale : in difetto di questa ( e senza pretendere che il pubblico di ieri mancasse del viatico necessario ) è certo ch ' essa doveva essere presentata agli odierni spettatori in un quadro particolarmente appropriato . Compito non facile , eppure ieri risolto assai bene da un ' esecuzione che è complessivamente la più proporzionata ed equilibrata che si sia avuta alla Scala nella presente stagione . Non si giunge ai risultati ottenuti ieri da Carlo Maria Giulini senza molto studio e senza una squisita intelligenza e sensibilità . L ' esecuzione della stregonesca scena della Bocca del Lupo , dov ' è raccolto in nuce mezzo secolo di musica romantica ancora non nata , l ' introduzione , le danze , le arie e i concertati e l ' apoteosi finale hanno trovato nel Giulini quella fermezza , quell ' energia e insieme quella misura che solo un concertatore di prim ' ordine e ormai perfettamente maturo per le maggiori prove poteva dare . Sul palcoscenico - ed è fatto poco frequente alla Scala - non un artista che appaia una forza sprecata , un pesce fuor d ' acqua . Agata è Victoria de Los Angeles di cui sarebbe inutile fare l ' elogio dopo il ricordo che ha lasciato fra noi : ha mezzi di grande concertista , senso stilistico perfetto , « attacchi » e modulazione eccezionali . Come attrice non si spreca ma il suo portamento è sempre nobile . Una sorpresa piovuta dal cielo è Eugenia Ratti che in un mese è alla sua terza opera alla Scala : già franca e disinvolta , domina una voce estesa , ferma e brillante che autorizza le migliori speranze . Il tenore Picchi nella difficile parte dell ' ingenuo Max canta con molta quadratura e sicurezza brani che darebbero il mal di mare se eseguiti da artisti più celebri di lui . E il Rossi Lemeni raffigura con forte dizione e perfetta arte scenica la parte del diabolico Kaspar , che gli permette , nella scena della foresta , di ottenere un vero successo personale . Tutti gli altri : l ' Adani , il Montarsolo , il Sordello , lo Zaccaria e lo Zampieri sono pienamente all ' altezza della situazione . La regia di Josef Gielen è di molto effetto ma non ci sarebbe spiaciuto che il nero diavolo Samiel si facesse vedere di più : non abbiamo sentito odor di bruciaticcio nel primo e nell ' ultimo quadro . Vivacemente colorati , troppo a nostro gusto , i bozzetti e i figurini di Nicola Benois . La musica di Weber ha un colore d ' anima , non un colore visivo . E forse non era necessario costruire un autentico otto volante nella Valle dei Lupi . I cori , istruiti da Norberto Mola , hanno cantato assai bene , senza esagerare nelle rustiche intonazioni che sono necessarie in questa partitura . Luci c pirotecnica nell ' infernale scena della fusione del piombo maledetto sono state amministrate con grande effetto . Il pubblico ha applaudito con calore alla fine di ogni quadro e il maestro Giulini , il regista Gielen , il Benois e il maestro Mola sono stati chiamati più volte alla ribalta coi principali interpreti . Applausi a scena aperta alla Los Angeles e alla Ratti , e alla fine un ' ovazione per tutti .
«La Walchiria» di Wagner ( Montale Eugenio , 1955 )
StampaQuotidiana ,
Fino a una trentina d ' anni fa l ' Italia aveva assimilato Wagner a modo suo : riducendolo , con molti tagli , a proporzioni ragionevoli e rendendolo così eseguibile da ugole italiane , in genere migliori di quelle tedesche ma molto meno resistenti alla fatica . Si era così formata una classe di buoni cantanti wagneriani in lingua italiana , oggi dispersa o dimenticata . È un peccato , perché qualche onesta Brunilde nostrana avrebbe potuto , con un po ' di riposo , trasformarsi in una decente Norma e magari in una accettabile Minnie pucciniana ( se è vero che alla Scala hanno rinunziato quest ' anno alla Fanciulla del West non avendo a disposizione un ' interprete adeguata ) . E i tenori italiani capaci di esser Sigfrido o Walter , oggi che il repertorio moderno impone un estremo eclettismo , avrebbero potuto trovare impiego in altre parti . In ogni modo le cose sono andate come tutti sanno ; e oggi anche in città di provincia italiane è facile che Wagner si dia in tedesco , con artisti tedeschi e in edizioni più o meno integrali , ma sempre di lunga durata . Venuto meno il compromesso che si era formato ( stile press ' a poco tedesco ma voci italiane e un po ' di respiro al pubblico ) , alquanto diradato lo stuolo dei « bidelli del Walhalla » , dei wagneriani intransigenti che si recavano a teatro con la loro brava guida tematica e che trovavano « troppo corto » l ' interminabile duetto fra Ortruda e Telramondo , nel Lohengrin ; sparito o quasi il manipolo dei maniaci che giudicavano il poema dei Nibelunghi come la summa di tutta una tradizione orfico - teosofica dopo la quale a poeti e musicisti non sarebbe restato che il compito d ' incrociar le braccia e tacere per sempre ; resta ancora ai drammi wagneriani della Tetralogia la possibilità di trovare in Italia un pubblico nuovo . È un pubblico composto , in parte , da nemici del melodramma di tipo nostrano , da gente che detesta le stupide parole dei nostri libretti e le inverosimili , indecifrabili trame che Donizetti e Verdi rivestirono di note . A coloro per i quali la sola musica è quella di Bach , a chi crede che il nostro melodramma sia « una barba » , Wagner offre uno strano rimedio che consiste nell ' intensificazione degli assurdi lamentati : una serie di canovacci talmente incomprensibili che non comprendere diventa una condizione favorevole all ' immersione nell ' opera d ' arte . L ' ascoltatore attuale ( italiano ) di Wagner non intende né le parole né i fatti e il suo godimento è in proporzione diretta dell ' assurdità della situazione in cui si vede immerso . Wagner offre situazioni , musica e canto allo stato puro , incandescente : è antologico perché potreste prenderlo a spizzico e ogni sua pagina ha sempre valore di morceau choisi , ma è anche unitario perché il suo segno è uguale dovunque . Per diversi motivi di fronte a Wagner devono arrendersi tanto i sostenitori dell ' arte come totalità ( che spesso vuol dir noia ) quanto i fedeli del « pezzo » , della scintilla , dell ' ispirazione . Furore e pedantesca lentezza , raptus e istrionica ricerca degli effetti sono le componenti del genio wagneriano , un genio riassuntivo che liquida molte possibilità e chiude per sempre molte porte . Dopo di lui i migliori musicisti furono coloro che lottarono tutta la vita per « non fare del Wagner » , magari utilizzando e componendo in nuova sintesi qualche suo spicciolo , qualche suo aspetto secondario . Da Wagner , soprattutto da quello del Tristano , viene gran parte del cromatismo della musica contemporanea , in particolare quello della musica seriale , dei dodici suoni in libertà ( o in nuova servitù ) . Ma Wagner era anche un inventore di formidabili temi , un mistico che tirava al sodo e applicava a colpo sicuro un suo particolare montaggio , con l ' intelligenza un po ' fredda e applicata del grande uomo di teatro e del grande letterato . I suoi successori più o meno diretti ( escluso lo Strauss operista , che un giorno sarà certo rivalutato ) mancano di quel côté bête in difetto del quale è inutile affrontare opere di lunga lena . Ieri sera abbiamo risentito dunque Wagner cantato in tedesco e nella sua integrità , diretto da un maestro come Otto Ackermann che non è un astro di prima grandezza ma possiede l ' autorità necessaria e che in opere simili ( e anche nel genere della musica leggera ) ha sempre dimostrato di sapere il fatto suo ; e abbiamo ascoltato cantanti di valore molto ineguale , ma tutti in possesso di un ottimo stile wagneriano . Che effetto ci farebbero oggi le vecchie esecuzioni di Mascheroni e di Rodolfo Ferrari , del tenore Borgatti e di Teresina Burchi ? È quasi impossibile dirlo . I cantanti italiani sono obbligati , dalla nostra lingua , ai suoni rotondi , impostati , all ' intonazione precisa : qualità che in Wagner , escluso s ' intende il Lohengrin , sono richieste in misura secondaria . Wagner stanca terribilmente le ugole italiane ; ho memoria di un Parsifal in cui tre Gurnemanz dovettero cedere le armi dopo una sola rappresentazione . Wotan e Brunilde parlano e cantano insieme , nelle nostre opere canto e recitativo sono regolati da leggi assai diverse . Martha Moedl ( Brunilde ) è come un motore che abbia incredibili qualità di ripresa : quando sembra stanca e si direbbe che l ' « appoggio » sia caduto , la sua impennata si dispiega ancora e la voce torna a espandersi quasi in modo immateriale . È una grande cantante e una buona Brunilde , anche se non possiamo chiederle la tempestosa , ciclonica vocalità di una Flagstad . Senza troppe finezze ma sonora come una tromba è la voce di Leonie Rysanek ( Siglinde ) ; e in questa esecuzione Siglinde potrebbe essere Brunilde o viceversa . Manca forse il distacco necessario . Bellissima voce , fin troppo dolce ha Grace Hoffmann , soddisfacente Fricka . Hans Hotter è un Wotan potente ed espressivo , di una resistenza eccezionale ; Ludwig Weber , vecchia conoscenza , dà molto carattere alla parte del bieco Hunding . Meno persuasivo è il Siegmund di Wolfgang Windgassen , che pure sopporta bene una parte massacrante . Non tutte egualmente disciplinate le otto Walkirie , signore Mariella Angioletti , Luisa Villa , Elfriede Wild , Veronica Wolfram , Nelde Clavel , Martha Thompson , Hanna Ludwig e , ancora , Grace Hoffmann . L ' allestimento scenico , i bozzetti e i figurini sono quelli , già noti , di Nicola Benois ; la regia è di Mario Frigerio , come sempre misuratissimo e pieno di buon senso . In complesso un ' esecuzione non tutta di prim ' ordine , ma di sicura impronta artistica . Il pubblico - un pubblico , naturalmente , da « tutto esaurito » - l ' ha applaudita a lungo , evocando molte volte alla ribalta i principali interpreti e il maestro Ackermann , la cui ancor bruna zazzera , quando si vedeva emergere dal golfo mistico , non ha avuto un attimo di riposo .
Naufraghi del cielo ( Montale Eugenio , 1970 )
StampaQuotidiana ,
Mentre scrivo ( sono le ore 15 del 16 aprile ) non so ancora se gli astronauti dell ' Apollo 13 riusciranno ad ammarare felicemente ... in mare , ciò che sarebbe fatto assai raro perché di solito il verbo ammarare ( io preferisco la forma amarrare ) significa il raggiungimento della terraferma dal mare . L ' infelice esito del tredicesimo ludo apollineo non porrà certo fine ai viaggi spaziali , anzi sarà considerato come una « sfida » che bisogna accettare perché l ' onore della scienza non tollera smentite . Il « mirabil mostro » ( cfr. Vincenzo Monti , ode Al Signor di Montgolfier ) sarà certo sostituito da un altro che porterà un numero meno infausto e raggiungerà i previsti obiettivi . Ma messe a parte eventuali congratulazioni o condoglianze - e facciamo i debiti scongiuri - quel che vorrei sottolineare è il carattere illogico , irrazionale , di simili tentativi . Sembra un paradosso : le imprese dell ' uomo , le conquiste della tecnica sono da un lato il trionfo della mente umana , dall ' altro il fatto evidente che la scienza « non pensa » e non lo può costituzionalmente . Se la scienza pensasse si troverebbe di fronte all ' opzione tra il bene e il male , tra l ' utile e l ' inutile , tra la felicità e l ' infelicità : e dovrebbe trarne le debite conseguenze . Ma questo non avviene né risulta che sia mai avvenuto . La scienza non opta perché non conosce : la scienza agisce , confronta , trova ( e talvolta trova cose utilissime ) , ma la sorte dell ' uomo le è del tutto indifferente . In questo la scienza è un prolungamento della natura . E opinione assai diffusa che l ' ingegno dell ' uomo vinca e domini gli ostacoli dell ' avversa natura , ma non è così . Natura e scienza rivelano la loro profonda affinità per il fatto ch ' esse sono le sole e invincibili nemiche dell ' uomo . E ' molto strano ( anche se comprensibile ) che sorgano società per la protezione della natura . Io stesso inorridisco per la scomparsa degli alberi , per l ' insania dei parlamentari che permettono il barbaro aucupio con le reti ; io stesso mi commuovo pensando che Venezia sarà , un giorno , visitata solo da coraggiosi sommozzatori . Ma questo non toglie nulla all ' evidenza che la natura può fare a meno dell ' uomo e che l ' uomo ha qualche giustificazione quando tenta , con sporadici successi , di sopprimerla . Avversa la natura , neutra o agnostica la scienza , che cosa resta all ' uomo ? Certamente il pensiero , non il pensiero che crea il mondo e la storia ( idealismo , marxismo ecc . ) , ma il pensiero che l ' ignoranza è una forma del tutto oscura ed embrionale della conoscenza . La sola autentica , in ogni modo . Tutto il resto è vanità ; è astronautica , è riforma della scuola , riforma del clero , riforma della burocrazia ( figuriamoci ! ) , riforma delle riforme , di tutto ciò che aiuta a vivere perché con la verità non è neppure concepibile la vita . ( Postilla . E la vita stessa sarebbe dunque inutile ? No assolutamente , perché io credo che la vita sia una cosa meravigliosa . )
Il Diario di Mosca ( Montale Eugenio , 1970 )
StampaQuotidiana ,
Nel 1961 Enzo Bettiza , da quattro anni corrispondente da Vienna , fu trasferito a Mosca ; e non senza disappunto abbandonò il prezioso « fossile » che per cultura ed estrazione familiare gli era tanto caro . Nato a Spalato jugoslava , studente liceale nell ' italianissima Zara , figlio di un irredentista dalmata cittadino italiano e di una montenegrina , Bettiza si è sempre considerato un mitteleuropeo e più precisamente un Altósterreicher , sentimentalmente legato alla sua « defunta » capitale . Alla nuova residenza egli non giunge tuttavia impreparato . Ha una moglie goriziana , parla perfettamente la lingua slovena , conosce il serbo - croato e il tedesco , non gli è difficile impadronirsi del russo . Gli sarà perciò meno dura quella crisi di rigetto ch ' egli , confrontandosi con altri suoi colleghi italiani , ci descrive nel suo nuovo libro Il diario di Mosca ( Longanesi ) , rendiconto dei quattro anni da lui trascorsi in quella città e prima parte di un ' opera che avrà un seguito . Più che preparato Bettiza era vaccinato . Ha assistito all ' ingresso dei titoisti a Spalato , giovane comunista ha contemplato con un misto di desolazione e di esultanza l ' impoverimento della famiglia ; in seguito ha lasciato il partito , definitivamente immunizzato dal fideismo marxista . In che cosa poteva respingerlo la nuova sede ? L altro pericolo , l ' insabbiamento , a cui vanno soggetti gli stranieri che si stabiliscono in Russia fu da lui evitato studiando il fenomeno davvicino , nei giornalisti stranieri che vivono da molti anni in quella capitale . L ' immensa Russia ha una dimensione temporale diversa dalla nostra . La lentezza , la monotonia , l ' incolore opacità del mastodonte sovietico possono indurre chi vi soggiace ad una sorta di claustrofilia . Non vale la pena di uscirne , tutto il resto del mondo è un technicolor di cui si perde anche il desiderio . Quando Bettiza giunge a Mosca la destalinizzazione ha già compiuto molti passi e forse sta facendone qualcuno indietro . Tukacevski e quasi tutti i generali che Stalin ha mandato a morte sono stati riabilitati ; ma in altri settori non si avvertono veri mutamenti . Qualcuno trova che si esagera . Con Stalin , dichiara confidenzialmente un cremlinologo , si sapeva benissimo dove si andava a finire ; ma con Kruscev nulla è prevedibile . Dopo tutto Stalin non era per niente incolto , afferma un poeta che recita i suoi versi dinanzi a folle entusiaste . Narratori e teatranti godono di qualche maggiore libertà ma accettano i benevoli consigli della censura . La più nota gazzetta letteraria è meno prudente ma manca del tutto la stampa d ' informazione . Le notizie , se ci sono , si devono cercare tra le righe della « Pravda » . Quel che conta negli articoli di quel giornale non è il generico ottimismo ma quell '«eppure...», quel « tuttavia » che sarà il campanello d ' allarme di qualche alto funzionario periferico . Quel « tuttavia » permetterà ai cremlinologi ( nuovo ramo di una più vasta scienza , la sovietologia ) di tirare l ' oroscopo . Il comune lettore sorvola sul « tuttavia » che di solito appare nelle ultime righe dell ' articolo ; ma le vere notizie deve cercarle in qualche giornale straniero ( se lo trova o se riesce a leggerlo ) . Non c ' è stata vera riabilitazione neppure per Pasternak . Gli si riconoscono qualità di poeta ma si osserva che il romanzo non era pane per i suoi denti . La sua dacia non diventerà un museo nazionale . In un Paese dove la mummia di Lenin - tolta dal mausoleo quella di Stalin - è meta di un continuo e adorante pellegrinaggio , un senso d ' incombente mummificazione generale desta l ' attenzione del giornalista che voglia sfuggire al mortale invito . Bisogna sfuggire al primo click , dice Frane Barbieri , altro dalmata che è corrispondente di un giornale di Zagabria . Come si difendono gli stranieri ? I francesi vivono in un mondo a sé , distaccati . Gli inglesi sono più curiosi che interessati , non abbandonano mai il loro fondamentale empirismo , mentre i tedeschi sono irretiti , imprigionati da quel complesso di amore - odio per il mondo russo che non sarà una sorpresa per chi abbia letto il grande romanzo di Gonciarov e qualche altro classico della letteratura russa . In Oblomov il personaggio di Stolz , tedesco , è l ' eroe positivo , sebbene di una positività assai mediocre , e non mancano esempi in altri autori . Da Bielinski in poi , assai prima che il pensiero di Marx giungesse in Russia , la filosofia di Hegel ha fatto strage nell ' intelligenza slava ( molto prima che in Italia , sia detto tra parentesi ) . Nessuna inimicizia è così grande come quella che scoppia tra lontani parenti , tra affini . Ed è proprio su questo tema che Bettiza ci dà alcune delle sue pagine migliori , perché in lui l ' amore per le idee è di gran lunga superiore all ' amore per gli uomini . E non è , intendiamoci , ch ' egli non sia un attento osservatore degli uomini ; ma il fatto è che il color locale , la barzelletta , l ' aneddoto sono del tutto estranei ad un temperamento come il suo . Uno scrittore impressionistico avrebbe speso molte pagine per descriverci gli orrori di quell ' hotel Lux dove a migliaia di uomini furono inflitte mostruose torture per ottenere confessioni di inesistenti congiure , autoaccuse , delazioni ; dove quella « historia generai de la infamia » progettata dal Borges ha scritto una delle sue vette più ingloriose . Tre o quattro pagine sole , plumbee , dure , senza un filo di commozione , ma proprio per questo tanto più dure nel giudizio . Ne sanno qualcosa i giovanissimi russi di oggi ? Bettiza è incline a credere che non ne sappiano nulla , o meglio che non vogliano saperne nulla . D ' altronde , chi è meglio qualificato a descrivere i grandi eventi della storia ? Chi li ha vissuti o colui che li osserva da lontano , col cannocchiale , esperto del prima e del poi , delle cause e delle conseguenze ? Il non comprendere , il non voler comprendere ciò che ci sta davanti agli occhi non è specifico della mentalità slava , sebbene l ' immensa costellazione sovietica , tanto diversa nelle sue componenti , abbia avuto un comune destino : quello di saltare a piè pari almeno un secolo passando da un ' autocrazia feudale a un tipo di collettivismo anche più accentratore , non certo previsto da Marx che mai nascose la sua antipatia per il mondo russo . Né credo che in Marx agisse quell ' ambivalenza che Bettiza ha posto in luce con tanta precisione . Fabrizio del Dongo non si rese conto di essere coinvolto nella battaglia di Waterloo così come molti tedeschi e molti italiani non videro ciò che stava accadendo sotto i loro occhi . La storia che non si ripete mai , in questo si ripete sempre . Vede chi vuole e pochi sono nella condizione di volere . E sono certo che anche in Russia la pietà è di gran lunga più forte della ferocia . Un luogo comune , accettato da tutti coloro che conoscono la grande letteratura russa , è che in quei paesi sia vivo e ineliminabile il sentimento religioso . Su questo punto la testimonianza di Bettiza non suona discorde . Nella Russia d ' oggi la religiosità non è solo fuoco sotto la cenere ma assume anche forme spettacolari : non tali però da mettere in causa la solidità del regime . Non c ' è grande differenza tra quelli che ascoltano in massa le poesie di chitarristi stipendiati dallo Stato e coloro che affollano le cerimonie della Chiesa ortodossa e i culti non certo clandestini della seconda Chiesa russa , riconosciuta dallo Stato , quella dei Vecchi Credenti , non riconosciuta dall ' Ortodossia . Pare che all ' origine di questo scisma tardo - seicentesco sia un diverso modo di farsi il segno della croce . Con tre dita o con due ( a pizzico ) ? Poi sorsero altre divergenze dottrinali che ignoro . I Vecchi Credenti sono milioni , hanno le loro chiese , i loro preti , una loro organizzazione . E come ho già detto anche l ' orrendo teschio di Lenin esercita una morbosa attrazione mistica sui visitatori che sostano in fila per essere ammessi alla beatitudine . Lo spettacolo dev ' essere allucinante . Non è affatto prevedibile una futura mummificazione di Kruscev . Non lo era neppure nel '6l'62 , quando Bettiza scriveva questo suo diario . La prova secca , precisa , lineare di Bettiza non è quella del journal , non consente citazioni , estrapolazioni . Non vuol essere « prosa d ' arte » nel significato più dubbio della parola . D ' altronde Bettiza considera questo libro e i suoi precedenti ( tra gli altri quel Fantasma di Trieste che fu tradotto in molte lingue ) come il materiale che dovrebbe confluire in un futuro romanzo mitteleuropeo , globale , sinfonico , « completamente distaccato dagli umori passeggeri dello scrittore » . Ardua impresa in un tempo nel quale arte e scienza tendono piuttosto al micro che al macroscopico . Ma non è lecito porre limiti alle giuste ambizioni di uno scrittore tanto dotato . Può darsi che un giorno egli si avveda che il Diario di Mosca e quelli che eventualmente seguiranno sono già il romanzo ch ' egli , in astratto , vagheggiava . Un romanzo che ha un solo personaggio : l ' uomo , il Singolo di fronte alla Moltitudine . La scomparsa del singolo sarebbe la fine dell ' avventura umana ; e di questo la provvidenza ci ha dato già qualche annuncio ma non la sentenza definitiva . Può darsi che ce la risparmi , anche se non l ' abbiamo meritato .