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Il Palazzo e la Piazza ( Bobbio Norberto , 1986 )
StampaQuotidiana ,
La metafora del « palazzo » usata sempre più frequentemente nel linguaggio politico corrente , per indicare , con intenzione non benevola , coloro che ci governano , richiama , per contrapposizione , l ' analoga metafora della « piazza » , di cui ci si serve , con intenzione parimenti non benevola , per indicare la moltitudine di coloro che stanno fuori ( in basso ) e non hanno altro potere che quello di protestare o di applaudire : « analoga » , perché connota un insieme di persone mediante il luogo in cui si trovano , come « casa » per famiglia , « caserma » per truppa , « castello » per signore , « reggia » per monarca , e , passando dal nome astratto al nome proprio , « Farnesina » per corpo diplomatico italiano . A commento della manifestazione romana del marzo scorso , promossa da un sindacato contro una minacciata riduzione della scala mobile , il « Corriere della Sera » intitolò un suo articolo Il Parlamento e la « piazza » . Recentemente sulla « Stampa » il titolo annunciava Studenti in « piazza » e nel sottotitolo si leggeva : Palazzo Chigi risponde in tono pacato . Ancor più recentemente « La Repubblica » ha dato l ' annuncio che Carniti sarebbe diventato presidente della Rai in questo modo : Entra nel Palazzo un uomo di « piazza » . Per quanto la reiterazione della contrapposizione sia di questi ultimi anni ( e chi sa quanti altri esempi se ne potrebbero dare ) , dovuta a una celebre invettiva di Pasolini , l ' antitesi « palazzo - piazza » è antica e appartiene al linguaggio politico tradizionale . In un articolo del primo fascicolo della bella rivista dell ' Istituto italiano di cultura a Parigi , uscita in questi giorni col titolo «50 , rue de Varenne » , tutto dedicato al tema della « piazza » ( anche se prevalentemente dal punto di vista architettonico e quindi non nel suo significato metaforico ) , mi cade sottocchio un brano di uno dei Ricordi di Guicciardini , in cui si legge : « ... e spesso tra il palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o un muro sì grosso che ... tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa , quanto delle cose che si fanno in India » . Se una ricerca su questa contrapposizione , soprattutto sull ' uso di « piazza » nel suo significato politico , non fosse ancora stata fatta ( ma non si sa mai ) , varrebbe la pena che un giovane volenteroso vi si accingesse . Intanto non mi sembra inopportuna qualche osservazione generale . « Piazza » è uno di quei tanti termini che , nati nel linguaggio comune , diventati sempre più popolari attraverso il linguaggio dei giornali , possono offrire un interessante e nuovo campo d ' indagine anche allo studioso . Nelle espressioni più correnti , « manifestazione o dimostrazione di piazza » , « scendere o andare in piazza » , « fare appello alla piazza » , o addirittura proverbiali , come « pane in piazza e giustizia in palazzo » , la parola sta a indicare una moltitudine di persone che si riuniscono spontaneamente e volontariamente , o vengono convocate da chi ha voce per farsi ubbidire , allo scopo di manifestare , secondo un diverso grado d ' intensità , uno stato d ' animo , un ' opinione , una volontà politica , che possono essere tanto di protesta , come avviene di solito nei regimi democratici , in cui uno dei diritti costituzionalmente garantiti è il diritto di riunione in pubblico e di libera manifestazione del proprio pensiero anche attraverso il mezzo della riunione pacifica , quanto di consenso , com ' è avvenuto nel nostro paese con le famose « adunate » fasciste di piazza Venezia , dove la moltitudine vi confluiva , in parte di propria volontà , in parte perché inquadrata nelle organizzazioni di massa del regime . Le due maggiori caratteristiche che servono a definire la « piazza » come fenomeno politico sono , da un lato , la partecipazione ( o la mobilitazione secondo i casi ) di un numero molto alto di persone , e , dall ' altro , il luogo aperto della riunione . Sulla base di questi due elementi la « piazza » si distingue da altre sedi di riunione a scopo di protesta o di discussione politica , più ristrette e meno aperte , come il salotto o il caffè , l ' uno privato , l ' altro semipubblico , di cui soltanto si può disporre là dove le libertà civili non sono riconosciute . A differenza dei luoghi dove si possono riunire soltanto poche persone e al chiuso , la « piazza » non è sede di discussione , dove si vada per dibattere un problema e decidere di conseguenza . Coloro che vi confluiscono lo fanno perché hanno uno scopo comune , in qualche modo già prestabilito . Ascoltano gli oratori di parte se si tratta di una protesta , di una petizione , di una rivendicazione nei riguardi dei signori del palazzo ; oppure pendono dalle labbra del grande demagogo , che fissa le mete , dà ordini , indica il nemico da abbattere negli avversari del governo , e acclamano . A differenza dell ' agorà classica , la « piazza » tanto nei regimi autocratici , quanto nei regimi di democrazia indiretta o rappresentativa , non è neppure un luogo dove si prendano decisioni : le decisioni che contano o sono già prese dagli stessi partecipanti ( si manifesta perché si vuole un certo provvedimento o si contesta un provvedimento già preso ) , oppure dallo stesso dittatore ( e la folla parla per monosillabi : « Sì » , « No » , « A noi ! » ) . In un regime di democrazia rappresentativa , che è quello che c ' interessa , la « piazza » è la più visibile conseguenza del diritto di riunione illimitato rispetto al numero delle persone che possono esercitarlo insieme e contemporaneamente . Prima dell ' avvento dei regimi democratici la facoltà concessa ai cittadini di riunirsi per presentare petizioni era riservata a gruppi di pochi , non più di una decina . Altrimenti la riunione è illecita , ed è vietata come « assembramento » , o peggio come « tumulto » , nei casi estremi come « sedizione » . Non c ' è più esatta descrizione di come un accorrere di gente per protesta si trasformi in tumulto che quella offertaci da Manzoni nel capitolo XII dei Promessi sposi in cui si comincia a parlare di « piazze » e strade che « brulicavano di uomini , trasportati da una rabbia comune , predominati da un pensiero comune , conoscenti o estranei , senza essersi dati l ' intesa , quasi senza avvedersene , come gocciole sparse sullo stesso pendio » e si finisce con quel « trambusto » che « andava sempre crescendo » , perché « tutti coloro che gli pizzicavan le mani di far qualche bell ' impresa , correvan là , dove gli amici erano i più forti , e l ' impunità sicura » . « Palazzo » e « piazza » sono due espressioni polemiche per designare , rispettivamente , i governanti e i governati , soprattutto il loro rapporto d ' incomprensione reciproca , di estraneità , di rivalità , ancora oggi , come nel brano sopracitato di Guicciardini . E si richiamano a vicenda , negativamente : vista dal palazzo la piazza è il luogo della libertà licenziosa ; visto dalla piazza il palazzo è il luogo dell ' arbitrio del potere . Se cade l ' uno è destinato a cadere anche l ' altro .
La violenza oscura ( Bobbio Norberto , 1984 )
StampaQuotidiana ,
L ' anno finisce nel nostro paese sotto il segno della violenza più abietta . Mi vado sempre più convincendo che la violenza terroristica , specie quella rivolta non contro il personaggio rappresentativo di un potere che si vuole abbattere , ma quella che si scatena contro una folla ignara , scelta a caso , con assoluta indifferenza , sia violenza fine a se stessa . La violenza per la violenza . O per lo meno l ' enorme sproporzione tra il mezzo e il fine è tale che nessuna persona ragionevole riesce a far valere rispetto a tale atto la massima machiavellica del fine che giustifica i mezzi . Questa massima fondamentale dell ' etica politica , e non solamente dell ' etica politica ma di ogni etica che giudica l ' azione , qualsiasi azione , non in base a principi universali ma in base ai risultati , richiede per essere accettata tre condizioni . Primo : non qualsiasi fine giustifica qualsiasi mezzo . Il fine che giustifica il mezzo deve a sua volta essere giustificato . In altre parole , deve essere un fine buono . Ma in base a quale criterio si distinguono i fini buoni dai fini cattivi ? E chi giudica quali sono i fini buoni e i fini cattivi ? La massima machiavellica lascia questo problema completamente aperto . L ' etica dei risultati rinvia all ' etica dei principi in un circolo senza fine . Secondo : il fine deve essere non solo in qualche modo giustificabile ma anche con una certa probabilità raggiungibile . Nel dramma di Camus , I giusti , uno dei protagonisti , il rivoluzionario , proclama : « Noi uccidiamo per costruire un mondo ove più nessuno ucciderà » , applicando la massima secondo cui il fine giustifica i mezzi , e annunciando un fine che non può non essere universalmente riconosciuto come moralmente nobile . Ma la sua compagna lo interrompe : « E se così non fosse ? » Quante volte nella storia è stata compiuta un ' azione moralmente riprovevole con intenzione di perseguire uno scopo nobile , ma poi , « non è stato così » ? Terzo : pure ammesso che il fine sia nobile , il che vuol dire giustificabile con argomenti di carattere etico , e raggiungibile con una certa probabilità , il che vuol dire non arbitrario , non velleitario , non ingenuamente utopistico , i mezzi impiegati debbono essere tali da far presumere in base al senso comune che siano adeguati al fine , e se vengono giudicati in base allo stesso senso comune immorali , siano anche i soli mezzi capaci di ottenere quello scopo e pertanto siano non solo opportuni ma anche rigorosamente necessari . In un atto terroristico come quello compiuto la sera di domenica 23 dicembre , non si ritrova nessuna di queste tre condizioni . Anzitutto qual è il fine ? Impossibile il giudizio sulla bontà o non bontà del fine , se non si sa esattamente quale sia il fine dichiarato o presunto . Generalmente nell ' atto di terrorismo puro il fine non è dichiarato : a differenza del terrorista che colpisce un bersaglio preciso , il terrorista il cui obiettivo è unicamente quello di seminar panico in una folla inerme , può rivendicare il gesto ma non ne rivela mai lo scopo . Per dare un ' apparenza di giustificazione razionale a questa forma di terrorismo si è creduto , dalla strage di piazza Fontana in poi , che un fine più o meno preciso ma reale esistesse ( e in questo senso si può parlare di fine presunto ) e consistesse nella creazione di uno stato di cose cui è stato dato un nome : destabilizzazione . Ma che significa « destabilizzare » ? Si tratta di una delle tante parole del linguaggio politico che , essendo abitualmente usate nella conversazione quotidiana , si finisce di convincersi abbiano un significato preciso , mentre non appena si tenta di definirle ci si accorge che sono mobili , fluide , inafferrabili . Proviamo a intendere per « destabilizzare » il provocare , in una compagine sociale , uno stato di confusione tale da rendere praticamente impossibile il normale funzionamento di un sistema politico qualunque esso sia ( non è detto che solo i regimi democratici possano essere oggetto di un ' azione destabilizzante ) . Ma questo fine è raggiungibile ? Che una strage anche grandissima , in un solo punto del territorio nazionale , specie quando si tratti di un territorio vasto come quello italiano , possa avere conseguenze tali da creare le condizioni per un rivolgimento capace di mutare radicalmente lo stato di cose vigente , è poco credibile . Del resto le stragi sinora compiute non hanno avuto altro esito che quello di seminare panico , sollevare indignazione , provocare lutti le cui conseguenze private sono infinitamente superiori a quelle pubbliche e politiche . Il corso degli eventi sarebbe stato diverso nel nostro paese se le stragi non fossero avvenute ? Avremmo avuto governi più stabili , politici meno discussi , maggiore o minore inflazione , maggiore o minore disoccupazione ? Non dovrebbe essere allora altrettanto destabilizzante un terremoto ? In un naufragio non muoiono altrettante vittime innocenti ? Ma se il raggiungimento del fine , anche di quello presunto , è poco probabile , non si dovrà dedurre che i mezzi ( mi riferisco alla terza condizione ) sono di per sé palesemente inadeguati ? Le interpretazioni possibili di una simile azione sono due : o l ' attore è irrazionale oppure il mezzo si è convertito nel fine , non ha un fine perché è esso stesso il fine . Riguardo all ' azione del terrorismo puro , io propendo per questa seconda interpretazione . L ' unico fine della strage è la strage . So benissimo di correre sul filo del paradosso . Ma cerco di far capire e di capire io stesso che vi sono azioni umane di fronte alle quali si può parlare di malvagità assoluta . Se è vero , come io credo sia vero , che la moralità assoluta consista nel fare il bene con nessun altro scopo che quello di fare il bene , disinteressatamente , la immoralità assoluta dovrà consistere nel compiere un ' azione malvagia con nessun altro scopo che quello di fare il male . Il terrorista che fa esplodere la bomba in un treno è perfettamente consapevole del fatto che le vittime designate sono innocenti . Non sono neppure suoi nemici . Non sono neppure capri espiatori di un rito propiziatorio compiuto per placare un dio irato . Sono cose vili , oggetti di nessun conto ( e per questo l ' uno vale l ' altro ) , la cui distruzione egli affida al caso per mostrare la sua cieca volontà di potenza , la sua radicale indifferenza ad ogni fine che la trascenda .
La catena dei violenti ( Bobbio Norberto , 1986 )
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L ' impresa militare americana contro la Libia , presentata e giustificata come una risposta legittima a un atto di terrorismo , solleva ancora una volta l ' eterno problema del rapporto fra la morale comune o il diritto , suo fratello minore , e la violenza . Eterno , perché non mai risolto e probabilmente insolubile , se è vero , e io credo sia vero , quel che diceva Machiavelli : gli uomini « hanno ed ebbero sempre le stesse passioni » , ed è quindi naturale che ne derivino gli stessi effetti . La morale comune e il diritto , suo fratello minore , condannano in linea di principio la violenza e ammettono che l ' unica violenza legittima sia quella che risponde alla violenza dell ' altro , almeno in date circostanze , quando non è possibile diversa risposta . Detto altrimenti , la violenza di un soggetto , individuo o gruppo che sia , in linea di principio illecita , diventa lecita quando in una data situazione rappresenta il solo rimedio possibile alla violenza dell ' altro . Illecita è la violenza dell ' aggressore , o originaria , lecita la violenza di chi si difende , o derivata . Ma in un sistema in cui non esiste un giudice imparziale al di sopra delle parti , o se esiste non è tenuto in alcun conto , come accade nel sistema dei rapporti internazionali , chi decide quale sia la violenza originaria e quale quella derivata ? A questa domanda non è difficile dare una risposta sulla base della lezione dei fatti : la violenza originaria è sempre , per ognuno dei due contendenti , quella dell ' altro . Anche nel caso che l ' aggressione sia venuta palesemente da una delle parti : basta considerare l ' aggressione come una reazione preventiva a una violenza minacciata . Gli americani bombardano Tripoli per ritorsione contro la bomba di Berlino attribuita a Gheddafi come mandante . In tal modo la loro violenza viene giustificata come derivata . Ma il terrorista non si trova affatto in imbarazzo a replicare ( ed è infatti un suo argomento abituale ) che il terrorismo è l ' unico atto di guerra consentito ai piccoli contro i grandi ed è quindi l ' unica reazione possibile , ancorché spietata ( ma se non fosse spietata non sarebbe una risposta efficace ) , alla prepotenza di chi esercita ingiustamente ( almeno a suo giudizio ) un enorme potere . Dunque anche la sua violenza non è , dal suo punto di vista , originaria . Provate a cercare la violenza originaria , la violenza che in quanto originaria sia da considerarsi sicuramente illecita . Non la troverete . E non la trovate , non già perché non ci possa essere , ma perché nessuno dei due contendenti ammetterà mai che originaria sia la propria , derivata l ' altrui . E un giudice esterno , e presumibilmente imparziale , nel sistema internazionale non esiste . Esiste la pubblica opinione ma , come tutti possono constatare leggendo i giornali in questi giorni , è divisa . Ed è divisa anche perché non è in grado di conoscere esattamente le cose , come potrebbe conoscerle un giudice dopo aver esaminato tutti i pro e tutti i contro , e dopo aver avuto accesso a tutte le prove addotte da una parte e dall ' altra . Pur non dubitando della correttezza del governo americano , sta di fatto che , nel nostro caso , le prove vengono da una sola delle parti in causa . Quel che è peggio , siccome ogni atto violento per giustificarsi deve rinviare a un atto violento precedente , lo stato di violenza una volta cominciato ( anche se non si sa quando e per colpa di chi sia davvero cominciato ) è destinato a continuare . E nel continuare , la violenza cresce di intensità e di estensione . Avviene quel fenomeno che si chiama « spirale » della violenza . Avviene per una ragione molto semplice : come si legge in un altro grande scrittore politico del passato , è naturale che chi è giudice nella propria causa sia indotto o dall ' « indole cattiva » o dalle « passioni » o dallo « spirito di vendetta » ad andare troppo oltre nella reazione e a commettere a sua volta , anche nel caso che la sua risposta sia legittima , un ' ingiustizia . Se la reazione contenuta nei limiti dell ' entità dell ' offesa è una violenza derivata , per quella parte in cui eccede questi limiti diventa originaria . In quanto originaria , può provocare una ritorsione che diventa a sua volta derivata e quindi legittima . Anche il diritto penale interno stabilisce che nella legittima difesa la reazione deve essere proporzionata all ' offesa . Ma nei rapporti fra due nemici che non riconoscono al di sopra di loro un potere comune , chi decide se questa proporzione vi sia stata ? Siccome ancora una volta ognuno dei due contendenti darà probabilmente un giudizio opposto , considerando proporzionata la propria difesa , sproporzionata quella dell ' altro , sorgeranno di nuovo ottime ragioni da parte di entrambi per aggiungere nuovi anelli alla catena . Generalmente questa catena termina in un solo modo : con la sconfitta definitiva di una delle parti . Con la vittoria del più forte . Poiché non si è potuto fare in modo che quel che è giusto sia forte , diceva Pascal , si è fatto in modo che quel che è forte sia giusto . Credo che non sarà diversa la conclusione dell ' attuale conflitto . Le azioni politiche si giudicano dai risultati . La legge morale non c ' entra . Il giudizio sulle azioni politiche non le appartiene . Reagan lo ha detto più volte : il suo scopo è quello di reprimere e sopprimere , alla lunga , il terrorismo medio - orientale . Rispetto a questo unico metro di giudizio della sua azione , è troppo presto per emettere un verdetto . Se vi sarà una recrudescenza del terrorismo , si dirà che ha avuto torto . Se si attenuerà o cesserà del tutto , si dirà che ha avuto ragione . Indipendentemente dal fatto che la reazione sia stata proporzionata all ' offesa , ossia da ogni considerazione di principio . Il fine giustifica i mezzi . Ancora Machiavelli : faccia un principe in modo di vincere e i mezzi « saranno sempre giudicati onorevoli e da ciascuno lodati » .
È lecito uccidere il tiranno? ( Bobbio Norberto , 1986 )
StampaQuotidiana ,
È lecito uccidere il tiranno ? Era naturale che dopo l ' attentato a Pinochet si riproponesse ancora una volta , anche in Italia , l ' eterna domanda . Se la sono posta in questi giorni , tra gli altri , Rossana Rossanda sul « Manifesto » rispondendo di sì ma sollevando i dubbi di Adriano Sofri , e di Mieli sulla « Stampa » e di Giuliano Zincone sul « Corriere della Sera » . Il problema è vecchio e le diverse possibili soluzioni altrettanto . Per fare qualche esempio , in un ' epoca in cui le guerre di religione avevano favorito la nascita di dottrine che predicavano il tirannicidio , Hobbes collocava la massima « E lecito uccidere il tiranno » fra le teorie sediziose che in uno Stato ben ordinato avrebbero dovuto essere proibite ( nella repubblica hobbesiana l ' articolo di Rossana Rossanda sarebbe stato censurato , e l ' autore forse messo in prigione ) . Nell ' età della rivoluzione francese , in cui venivano celebrati in cattedrale feste e riti in onore di Bruto , Kant affermò che chiunque avesse anche il minimo senso dei diritti dell ' umanità non poteva non essere scosso da un « brivido d ' orrore » di fronte all ' esecuzione solenne di Carlo I in Inghilterra e di Luigi XVI in Francia . Come tutti i problemi morali , anche il problema della liceità del tirannicidio non è di facile soluzione . Anzi , non ha una soluzione che possa essere data e accolta una volta per sempre , perché ogni caso è diverso da tutti gli altri . La soluzione dipende dalle circostanze di luogo e di tempo , dalla persona contro cui l ' atto si dirige , dalle persone che lo compiono , dalla gravità delle colpe e dalla impossibilità di ricorrere ad altri rimedi . Avevano ragione o torto i cospiratori del 20 luglio 1944 nel tentare di uccidere Hitler ? Aveva le stesse ragioni l ' anarchico Bresci nell ' uccidere Umberto I ? Basta porre queste due domande , e se ne potrebbero porre infinite altre analoghe , per rendersi conto che sotto il nome generico di attentato , o di atto terroristico , si celano eventi totalmente diversi , che non possono essere giudicati con lo stesso metro . Il primo aveva un intento prevalentemente liberatorio , il secondo essenzialmente punitivo . Il problema è reso più complesso dal fatto che la stessa azione può essere sempre giudicata con due criteri diversi : o in base a regole precostituite che debbono essere osservate o in base ai risultati che si ritiene debbano essere raggiunti . I due giudizi non coincidono quasi mai : osservando le buone regole spesso si ottengono cattivi risultati ; cercando di ottenere buoni risultati , molte buone regole vengono coscientemente e tranquillamente calpestate . Se si giudica l ' attentato in base alle regole precostituite , è evidente che esso contravviene alla norma « Non uccidere » , che è una delle leggi fondamentali della morale di ogni popolo e in ogni tempo . Come tale dovrebbe essere condannato . Ma non vi è regola senza eccezione . Non è lecito uccidere il nemico in una guerra giusta ? Non è sempre stata riconosciuta come guerra giusta la guerra di difesa ? Non può allora essere estesa al tiranno considerato come nemico interno l ' eccezione prevista per il nemico esterno ? Sennonché , come in guerra l ' eccezione vien meno di fronte alle popolazioni civili , così l ' attentatore dovrebbe colpire soltanto il tiranno e risparmiare le persone , la scorta o i familiari , che si trovino accanto a lui . Ma oggi questa condizione è sempre più difficile da rispettare per il tipo di armi impiegato , come ha dimostrato l ' uccisione di alcune guardie del corpo nell ' attentato a Pinochet . Ciò rende la liceità del tirannicidio , giudicandola in base agli argomenti della filosofia pubblica tradizionale , sempre più problematica . Nel dramma I giusti , di Camus , il congiurato cui è stato affidato il compito di uccidere il Gran Duca torna senza aver eseguito l ' ordine perché sulla carrozza erano seduti accanto al personaggio due piccoli nipoti . Quando uno dei compagni lo rimprovera : « L ' Organizzazione ti aveva comandato di uccidere il Gran Duca » , risponde : « E ' vero , ma non mi aveva comandato di assassinare dei bambini » . Partendo dal punto di vista dei risultati , il giudizio non diventa né più facile né più limpido . Anzitutto il risultato deve essere se non certo altamente probabile . Non c ' è dubbio che nel caso dell ' attentato al generale cileno il non raggiungimento del risultato abbia contribuito a rafforzare il potere del dittatore sia nei riguardi di tutti quei cittadini ( e sono ancora molti ) che sarebbero disposti a liberarsi dalla dittatura in cambio di una democrazia moderata ma non a cambiare il regime di Pinochet con un regime comunista , sia nei riguardi degli Stati Uniti , che abbandoneranno del tutto il generale solamente quando saranno sicuri che al suo posto invece di un governo democratico all ' americana non venga istituito un governo guidato dal partito comunista . In secondo luogo , si deve prevedere che il risultato non solo sia perseguibile con un alto grado di probabilità , ma che , se raggiunto , sia tale da non lasciar adito a dubbi sulla sua convenienza o opportunità , nel senso che , messi sui due piatti della bilancia il male necessario ( nell ' uso di certi mezzi ) e il bene possibile , il secondo prevalga . Inutile dire quanto questa soluzione sia difficile . Nel caso dell ' attentato a Giovanni Gentile ( so di toccare un tasto dolente ) la sproporzione tra la morte di un uomo e le conseguenze che questa morte poteva avere sulla condotta della guerra era tale da renderci oggi molto dubbiosi sulla saggezza di quell ' atto ( anche se devo confessare che allora non mi ero posto il problema nello stesso modo ) . Nel caso dell ' attentato a Pinochet sospendo il giudizio : mi parrebbe di commettere un atto di prevaricazione nel sostituire la mia opinione a quella di coloro che vivono dentro a quella situazione . Durante l ' occupazione tedesca , quando assistevamo alla tortura e alla morte di tanti nostri compagni , come avrei giudicato un attentato a Mussolini ? Un uomo dell ' altezza morale di Calamandrei alla notizia della morte di Mussolini trascrive sul suo diario , unico commento all ' episodio , il famoso cantico di Alceo : « Ora bisogna bere ; I ubriacarsi bisogna ; I ora che Mirsilo è morto » . Completamente diverso e più semplice il giudizio sugli atti di terrorismo indiscriminati , come le stragi alla stazione di Bologna , nella sinagoga di Istanbul , nel grande magazzino di rue de Rennes . Prova ne sia che , mentre di fronte all ' attentato al dittatore cileno c ' interroghiamo sulla sua liceità , di fronte a quelle stragi restiamo inorriditi , incapaci di dare , nonché una giustificazione , una qualsiasi plausibile spiegazione .
La logica del terrorismo ( Bobbio Norberto , 1985 )
StampaQuotidiana ,
Ogni atto terroristico suscita un acceso e quasi sempre inconcludente dibattito circa i suoi scopi e i suoi effetti . Il dibattito nasce dal fatto che di ogni atto terroristico , sia di quello indiscriminato sia di quello rivolto verso un obiettivo specifico , è estremamente difficile stabilire gli scopi . Ed è estremamente difficile stabilirne gli scopi perché non è facile prevederne gli effetti . L ' assassinio del prof. Tarantelli è stato immediatamente collegato alla campagna in corso pro e contro il referendum . Ma a guardar bene questo collegamento è stato fatto nei modi più diversi . I problemi connessi col referendum sono due : a ) se si debba svolgere , secondo l ' indicazione della Corte costituzionale , o debba essere evitato ; b ) se una volta che sia stato deciso di lasciarlo svolgere , quale delle due parti in contrasto lo vincerà . Ebbene , rispetto a entrambi i problemi , credo che nessuno sia in grado di prevedere esattamente se l ' assassinio del prof. Tarantelli avrà delle conseguenze e quali saranno . Rispetto al primo problema l ' assassinio è destinato a favorire coloro che il nodo della scala mobile preferiscono tagliarlo con il ricorso al voto popolare oppure coloro che preferiscono scioglierlo attraverso un compromesso fra le parti in cui non dovrebbero esservi né vincitori né vinti ? Rispetto al secondo , questo « sangue » è destinato a far aumentare i voti del « sì » oppure i voti contrari ? Posto il problema degli scopi e degli effetti di questo nuovo atto di terrorismo , e non si vede come possa essere posto altrimenti , si capisce subito che le risposte possibili sono molte , e anche opposte fra loro . Di fatto , a giudicare dalla polemica subito sorta fra uomini politici delle diverse parti , ognuno dà una interpretazione diversa secondo il proprio punto di vista . Ciò dimostra ancora una volta che la logica dell ' atto terroristico non può essere giudicata alla stregua della logica dell ' azione politica comune , che mette in diretta connessione il mezzo col fine , e che di fronte a un ' azione in cui non riesce a cogliere il nesso mezzo - fine è tentata di considerarla irrazionale ( o folle ) . Una delle ragioni per cui è così difficile dare un giudizio politico su un atto di terrorismo è che ci si sofferma troppo poco sul suo aspetto meramente punitivo o vendicativo . Il terrorista è o crede di essere , prima di tutto , un giustiziere . Ciò che per noi che ci mettiamo dal punto di vista dell ' ordinamento delle leggi dello Stato è un assassinio , per il terrorista che non accetta l ' ordinamento dello Stato , che considera lo Stato il principale nemico da abbattere , è una condanna a morte . Di un atto di giustizia è perfettamente inutile cercare quali siano gli scopi e gli effetti ulteriori . In un atto di giustizia lo scopo dell ' atto che è il rendere giustizia , è intrinseco all ' atto stesso . L ' atto di giustizia non pone alcuna domanda che vada al di là dell ' atto perché è esso stesso una risposta , ed è una risposta che chiude un ciclo di azioni e reazioni , e non ne apre uno nuovo . Che ogni atto di giustizia , soprattutto poi quando è così spietato , possa avere anche lo scopo di costituire un atto d ' intimidazione e di avvertimento nei riguardi di futuri colpevoli , non si può escludere , sebbene uno scopo di questo genere sia molto più evidente nella giustizia di un ' istituzione regolata da norme generali e astratte com ' è l ' ordinamento giuridico dello Stato che in quella di un gruppo terroristico la cui organizzazione è labile , discontinua , e la cui azione futura è molto più incerta . Ma in ogni caso l ' eventuale effetto rispetto ad azioni future è secondario rispetto a quello primario ed essenziale della punizione di azioni passate . Ha dunque ben poco senso cercare una giustificazione politica di un atto che essendo compiuto come un atto di giustizia trova la propria giustificazione in se stesso , cioè esclusivamente nel fatto di essere un atto di giustizia , e che in quanto tale può avere paradossalmente una giustificazione etica ( se pure di un ' etica distorta ) e non ha niente a che fare con la politica . A questa prima osservazione se ne collega una seconda , a mio parere più importante . L ' unica cosa che un atto terroristico come l ' assassinio del prof. Tarantelli vuole politicamente dimostrare è che di fronte ai grandi conflitti sociali non vi può essere che un unico modo per risolverli : il ricorso alla violenza . In quanto tale esso è una sfida alla democrazia intesa come l ' insieme delle regole che permettono di risolvere i conflitti senza ricorrere all ' uso della violenza da parte dei gruppi in conflitto fra loro . I modi per risolvere democraticamente , senza ricorrere alla violenza , i conflitti d ' interesse sono principalmente due : la trattativa che conduce a un accordo di compromesso oppure il voto calcolato in base alla regola di maggioranza . Si osservi bene : si tratta dei due metodi attualmente in contrasto per la soluzione della controversia sulla scala mobile , e sui quali è in corso , con esito incerto , la discussione fra le varie parti . Anche da questo punto di vista , a me pare sia perfettamente inutile il litigio sui presunti scopi dell ' assassinio . In quanto esso applica il metodo della violenza in antitesi al metodo democratico essenzialmente non violento , si contrappone contemporaneamente tanto alle pratiche del compromesso che vorrebbero evitare il referendum quanto all ' attuazione del referendum che pretende di risolvere con un voto di maggioranza un conflitto che secondo il terrorista , che ha una idea rivoluzionaria del cambiamento storico , non può essere risolto con nessuno dei rimedi offerti da un governo democratico che voglia rispettare le regole del gioco . Il terrorista dice no tanto al compromesso quanto al referendum , tra i quali non può fare alcuna distinzione dal suo punto di vista . Anche in questo caso il gesto ha un valore puramente dimostrativo e pertanto ha un fine in se stesso , come l ' atto di giustizia , indipendentemente dai suoi effetti . Con questo non si vuol dire che non abbia effetti che vadano ben al di là delle intenzioni degli attori , anche se non sappiamo esattamente quali potranno essere . Ma non è l ' arzigogolare sugli effetti che possa in qualche modo offrirci una ragione dell ' atto , perché l ' atto ha le sue ragioni chiarissime a chi le voglia intendere , indipendentemente da essi . Resta una domanda angosciosa : perché nel nostro paese questa sfida alla democrazia sia più forte che altrove .
La virtù dei deboli ( Bobbio Norberto , 1986 )
StampaQuotidiana ,
Le recenti vicende che stanno travolgendo la popolarità di Ronald Reagan hanno sollevato un vasto dibattito che riguarda non soltanto la persona del presidente ma anche l ' istituzione stessa della presidenza della repubblica degli Stati Uniti , come si è venuta trasformando negli ultimi decenni . Per quanto possa sembrare paradossale , si va dicendo che il presidente degli Stati Uniti è insieme forte e vulnerabile , e addirittura tanto più vulnerabile quanto più forte . Il paradosso consiste nel fatto che la vulnerabilità è di solito considerata caratteristica di un potere debole . Nell ' ultimo saggio scritto prima della morte ( Autoritarismo , fascismo e classi sociali , Il Mulino , Bologna 1975 ) Gino Germani esprimeva il dubbio che i pochi governi democratici nel mondo attuale potessero sopravvivere in un universo di Stati in gran parte non democratici . Egli fondava questo dubbio sulla convinzione che i regimi democratici fossero più vulnerabili sia per ragioni interne - la frammentazione del potere che consente a piccoli gruppi organizzati di inferire colpi mortali alla società costretta per difendersi a violare le sue stesse regole - , sia per ragioni esterne - la crescente e inarrestabile dimensione universale della politica internazionale che avrebbe favorito i regimi autoritari più di quelli democratici . Entrambe le ragioni mettevano in relazione la vulnerabilità delle democrazie con la loro debolezza . Soprattutto per quel che riguarda la politica estera , la stessa tesi è stata sostenuta col solito vigore e furore polemici da Jean - François Revel nel libro Come finiscono le democrazie ( Rizzoli , Milano 1984 ) . Le democrazie sarebbero destinate a finire , e a rappresentare un episodio di breve durata nella storia del mondo , per l ' incapacità di difendersi dal loro grande avversario , il totalitarismo . Questa incapacità sarebbe dovuta in parte ai dissensi interni , in parte all ' eccesso di arrendevolezza di fronte all ' astuto , spietato , antagonista . Anche in questo caso la vulnerabilità è interpretata come il naturale effetto della debolezza . In che senso la vulnerabilità può essere fatta derivare piuttosto dall ' eccesso di forza che dall ' eccesso di debolezza ? La risposta è stata data per secoli dai classici del pensiero politico : tanto più grande il potere dei governanti tanto più forte è la tentazione che essi hanno di abusarne , vale a dire di esercitarlo violando o aggirando le norme stabilite per regolarlo e limitarlo . Tale risposta trova piena conferma nell ' affermazione di uno dei più illustri storici contemporanei degli Stati Uniti , Arthur Schlesinger , che in un ' intervista di questi giorni ha detto : « Gli scandali come il Watergate , oggi l ' Irangate , sono la risposta patologica alla patologia dell ' onnipotenza » . Naturalmente vi sono regimi in cui il potere è forte e insieme invulnerabile . Sono gli Stati dispotici ove chi governa non ha , come diceva Montesquieu , « né leggi né freni » . Vi sono regimi in cui leggi fondamentali esistono ma mancano gli organi di controllo della loro osservanza . Sono le autocrazie preliberali in cui il rispetto delle leggi fondamentali che dovrebbero limitare il potere sovrano è demandato allo stesso detentore di quel potere ( « autocrate » è letteralmente colui che governa se stesso ) . Vi sono infine regimi in cui non solo il potere deve essere sempre esercitato entro i limiti stabiliti da una costituzione formale , e oggi , nella maggior parte dei casi , anche rigida , ma è , o dovrebbe essere , di fatto sottoposto sempre a controlli esterni . Sono gli Stati democratici . Di questi controlli due sono i principali : quello derivato dalla libertà di stampa , che permette la formazione di un ' opinione pubblica ; quello derivato dall ' istituzione della divisione dei poteri da cui nasce il controllo del potere legislativo su quello governativo . Sono due istituti caratteristici dello Stato democratico , di cui siamo debitori alla tradizione del pensiero liberale , che ha avuto negli Stati Uniti una delle sue terre d ' elezione . Secondo la brillante tesi sostenuta recentemente da Michel Walzer , professore di scienze sociali all ' Institute for Advanced Studies di Princeton , lo spirito del liberalismo consiste nell ' « arte della separazione » , a cominciare dalla separazione dello Stato dalla Chiesa , della sfera privata dalla pubblica , della società civile dal sistema politico , per finire , all ' interno del sistema politico , a quella tra l ' uno e l ' altro dei massimi poteri . Tutte queste separazioni servono , come afferma Walzer , « a prevenire e a combattere l ' uso tirannico del potere » . In base a questa tesi è lecito sostenere che tanto la crisi della presidenza Nixon quanto quella della presidenza Reagan siano nate proprio dalla violazione del principio di separazione , vale a dire dalla pratica costante , e per un certo periodo di tempo incontrollata , della confusione , in primo luogo della confusione fra potere legale e potere personale , ovvero nell ' uso personale del potere legale . Si capisce quindi perché si possa parlare di vulnerabilità a proposito tanto di un governo debole quanto di un governo forte . Ma se ne parla in due sensi diversi . Il primo è vulnerabile per sua natura ; il secondo è tale in un contesto istituzionale in cui anche il supremo potere è limitato da regole giuridiche . Nel primo caso la vulnerabilità è un fatto negativo , e induce chi la denuncia a sostenere che la democrazia è impraticabile . Nel secondo è un fatto positivo , ed è anzi la riprova che i meccanismi di controllo del potere , propri dei regimi democratici , sono entrati , se pur talora tardivamente , in azione . Nel primo caso è un difetto , nel secondo il rimedio a un difetto . Un rimedio che dimostra se mai quanto sia difficile il pieno rispetto delle regole democratiche nei rapporti internazionali , in un sistema in cui la maggior parte degli Stati non sono democratici ed è esso stesso solo apparentemente democratico , in realtà ingovernabile . Sino a che uno Stato non democratico vive in una comunità cui appartengono Stati non democratici , ed è essa stessa non democratica , anche il regime degli Stati democratici sarà una democrazia incompiuta . L ' idea del vecchio Kant , per cui la condizione preliminare di una pace perpetua , diversa da quella dei cimiteri , fosse che tutti gli Stati avessero egual forma di governo , la forma repubblicana , quella forma di governo in cui per decidere della guerra occorre l ' assenso dei cittadini , non era il « sogno di un visionario » . Era una previsione fatta nella forma del « se allora » . Purtroppo quel « se » - « se tutti gli Stati fossero repubblicani » - può essere per ora soltanto l ' oggetto di un augurio .
Tentati dalla destra ( Bobbio Norberto , 1982 )
StampaQuotidiana ,
Nel recente convegno sulla nuova destra , svoltosi a Cuneo per iniziativa dell ' Istituto storico della Resistenza , qualcuno ha messo in dubbio che « destra » e « sinistra » siano ancora concetti adeguati a rappresentare le divisioni attuali tra dottrine e movimenti politici . Siamo stati invitati a riflettere sul fatto che da sinistra si riscoprono scrittori di destra , come Cari Schmitt , da destra , in particolare dalla nuova destra reazionaria , scrittori di sinistra come Gramsci . Negli stessi giorni in un ' intervista a « Panorama » Massimo Cacciari , intellettuale di sinistra , dichiarava di rifiutare « quella concezione assiale della politica che prevede una destra e una sinistra , intese come blocchi compatti e specularmente contrapposti » . In realtà questa confusione non è nuova né è senza giustificazione : estrema sinistra ed estrema destra hanno amori diversi ma odi comuni . Uno di questi odi è la democrazia , intesa come il regime in cui le sole decisioni collettive legittime sono quelle prese in base alla regola della maggioranza . Peraltro , le ragioni di questa avversione sono , da una parte e dall ' altra , opposte . Proprio tenendo conto di queste opposte ragioni si riesce ancora a cogliere il principale carattere distintivo dei due schieramenti in cui si divide tradizionalmente l ' universo politico . L ' opposizione consiste in questo : per l ' estrema sinistra la regola di maggioranza , per cui ogni cittadino conta per uno , assicura un ' eguaglianza puramente formale ma non riesce altrettanto bene a promuovere l ' eguaglianza sostanziale ; per l ' estrema destra la stessa regola della maggioranza , pareggiando se pure solo formalmente tutti i cittadini , finisce per disconoscere che gli uomini sono sostanzialmente diseguali . Come si vede , la divisione avviene sul diverso giudizio che l ' una e l ' altra parte danno sull ' eguaglianza e rispettivamente sulla diseguaglianza come ideale da perseguire . Questo diverso giudizio permette di tener ben distinte ideologie che tendono a una maggiore eguaglianza rispetto alla democrazia formale , e che chiamerò egualitarie , e ideologie che chiedono una maggiore diseguaglianza , sempre rispetto alla democrazia formale , e che chiamerò inegualitarie . Si tratta di una distinzione vecchia come il mondo , molto più vecchia della distinzione tra sinistra e destra , che risale alla rivoluzione francese . Ma dacché i due termini di sinistra e destra sono stati introdotti nel linguaggio politico , essi sono sempre stati adoperati per coprire la distinzione tra ideologie egualitarie e inegualitarie . Perciò sinché vi saranno dottrine e movimenti che si contrappongono sulla base del diverso valore dato al principio dell ' eguaglianza , l ' uso dei due termini è non solo legittimo ma utile . Il loro rifiuto è prova o di imperdonabile ignoranza o peggio dell ' illusione di cancellare insieme coi due nomi la realtà che essi designano . La contrapposizione fra egualitari e inegualitari è vecchia quanto il mondo per la semplice ragione che gli uomini sono tanto eguali quanto diseguali : sono eguali in quanto appartengono al genere umano distinto da altri generi come quello degli animali , ma sono diseguali considerati come individui , uno per uno . Le ideologie egualitarie mettono l ' accento soprattutto sull ' appartenenza di tutti gli uomini a un genere comune , quelle inegualitarie sulle osservabili e inconfutabili differenze tra l ' uno e l ' altro individuo . In altre parole , le prime danno più importanza a ciò che ci unisce , le seconde a ciò che ci divide . Tra le tante prove storiche che si possono addurre di questa contrapposizione , mi limito a quella che si può trarre dai due autori considerati a buon diritto i principali ispiratori dei due schieramenti : Rousseau e Nietzsche . Nel suo Discorso sull ' origine delle diseguaglianze fra gli uomini , Rousseau parte dalla considerazione che gli uomini sono nati fondamentalmente eguali ma la civiltà corrotta li ha resi diseguali . Nietzsche , al contrario , parte dalla considerazione che gli uomini sono per natura diseguali e soltanto la civiltà , con la sua morale del gregge , di cui è massimamente responsabile il cristianesimo , e di cui sono manifestazioni al tempo presente la democrazia e il socialismo , li ha resi ingiustamenti eguali . L ' ideale che si può trarre dalla interpretazione rousseauiana del corso storico è quello rivoluzionario dell ' abbattimento delle società storiche fondate sulla diseguaglianza sociale e della instaurazione di una nuova società in cui tutti siano a pari diritto cittadini ; l ' ideale che si può trarre dalla interpretazione nietzscheana , è al contrario quello reazionario della restaurazione di un ordine gerarchico la cui distruzione ha reso possibile il trionfo della quantità , dei « malriusciti » , del branco . Lo stesso Nietzsche ritorna sempre a Rousseau , il suo grande nemico , ogni qualvolta sfoga il proprio furore contro il principio dell ' eguaglianza e contro quell ' avvenimento storico , la rivoluzione francese , che avrebbe cercato di attuarlo : « Quello che odio - una citazione fra mille - è la rousseauiana moralità della rivoluzione francese ... La dottrina dell ' eguaglianza . Ma non c ' è tossico più velenoso ! » Mi si può obiettare che il criterio dell ' eguaglianza non è il solo a permettere di caratterizzare due ideologie opposte . C ' è anche quello della libertà in base al quale si distinguono ideologie libertarie e autoritarie . Rispondo che questo criterio di distinzione serve a distinguere , nell ' ambito della sinistra e della destra , l ' ala estrema dall ' ala moderata . Si può sostenere infatti che le due ali estreme sono autoritarie , quelle moderate libertarie . Di conseguenza , la linea su cui si collocano le diverse ideologie partendo da sinistra e procedendo verso destra si sviluppa attraverso queste quattro aree . All ' estrema sinistra stanno i movimenti che sono insieme egualitari e autoritari : l ' esempio classico è quello dei giacobini e dei loro tardi seguaci , i bolscevichi . Alla sinistra moderata appartengono i movimenti egualitari e libertari , il cui esempio al tempo attuale sono i partiti socialdemocratici che ricoprono una vasta area che si potrebbe chiamare opportunamente di « socialismo liberale » . Seguono i movimenti della destra moderata che sono insieme inegualitari e libertari . Infine c ' è l ' estrema destra in cui si collocano i movimenti che accompagnano l ' autoritarismo alla voglia ( o nostalgia ) di una società ordinata gerarchicamente . Certamente la realtà è più ricca di qualsiasi schema . Ma è sempre meglio uno schema qualsiasi che la confusione mentale da cui possono nascere soltanto comportamenti politicamente aberranti .
Chi brucia le legislature ( Bobbio Norberto , 1983 )
StampaQuotidiana ,
Che il voto di scambio aumenti a danno del voto di opinione , come ho scritto precedentemente , è , anche questa , una vecchia storia . In un discorso pronunciato alla Camera dei deputati il 27 gennaio 1848 , Tocqueville , lamentando la degenerazione dei costumi pubblici , per cui « alle opinioni , ai sentimenti , alle idee comuni si sostituiscono sempre più interessi particolari » , diceva , rivolto ai colleghi del Parlamento : « Mi permetterei di domandarvi se , per quanto ne sapete , in questi ultimi cinque , o dieci , o quindici anni , non sia cresciuto incessantemente il numero di coloro che vi votano per interessi personali o particolari ; e se il numero di chi vi vota sulla base di un ' opinione politica non decresca incessantemente » . Considerava questa tendenza espressione di « morale bassa e volgare » seguendo la quale chi gode dei diritti politici « ritiene di essere in dovere verso se stesso , i propri figli , la propria moglie , i propri genitori , di farne un uso personale nel proprio interesse » . Se la storia è così vecchia bisogna concluderne che la democrazia ideale e la democrazia « realizzata » ( per servirci della stessa espressione con cui si rappresenta la degenerazione del sistema sovietico rispetto all ' ideale ottocentesco del socialismo ) non sono la stessa cosa . Idealmente la democrazia è la forma di governo in cui esistono alcuni istituti , in special modo il diritto di voto distribuito a tutti , destinati a consentire ai governati di controllare i governanti . In realtà le cose sono un po ' più complicate . E ' vero che il potere dei governanti dipende in larga misura dal numero dei voti , ma è anche vero che il numero dei voti dipende dalla maggiore o minor capacità dei governanti di trovare i mezzi per soddisfare le richieste degli elettori . Tra elettore ed eletto si viene così a stabilire un rapporto di dipendenza reciproca . L ' eletto dipende dall ' elettore riguardo alla sua legittimazione a governare ; l ' elettore dipende dall ' eletto se vuole ottenere certi benefici di cui il presunto dispensatore è chi dispone di pubbliche risorse . In questo modo colui che dovrebbe essere il controllore diventa a sua volta il controllato . Si ponga mente alla espressione comune del linguaggio politico : « Quanti voti controlla quel tale deputato , quel tale consigliere comunale , quel tale leader politico nel proprio partito ? » Tocqueville credeva che l ' unico rimedio fosse nell ' elevazione della pubblica moralità . Era convinto che al buongoverno contribuissero più i costumi che le istituzioni , più gli uomini che le leggi . Diceva : « Questa malattia da cui bisogna guarire ad ogni costo e che , credetemi , ci colpirà tutti , tutti capite , se non faremo attenzione , è nello stato in cui si trovano lo spirito pubblico e i pubblici costumi » . Non diversamente , un altro grande scrittore politico dell ' Ottocento , John Stuart Mill , riconosceva che il buongoverno dipende dalle buone leggi , ma aggiungeva che le buone leggi abbisognano di buoni uomini per essere applicate : « A che servono le buone regole di procedura - si domandava - se le condizioni morali del popolo sono tali che i testimoni generalmente mentono e i giudici si lasciano corrompere ? » Distinguendo i cittadini in attivi e passivi , sosteneva che i governi dispotici si reggono sui secondi , i governi democratici hanno bisogno dei primi . Di fronte alla pubblica corruzione , precisava , i passivi dicono : « Bisogna aver pazienza » , gli attivi : « Che vergogna ! » Senza aver mai letto né Tocqueville né Mill molti italiani di oggi la pensano nello stesso modo . Ma le prediche morali purtroppo non servono . Si tratta di sapere se ci sono rimedi istituzionali o politici . Scartata come inefficace la norma costituzionale che vieta il mandato imperativo ovvero impone al rappresentante una volta eletto di non tener conto degli interessi particolari dei suoi elettori ( non vi sono soltanto prediche inutili ma anche leggi inutili ) , di rimedi istituzionali non ne vedo che uno : la durata prestabilita e non troppo breve della legislatura . Prestabilita , perché non deve essere alla mercè della maggioranza , e non troppo breve perché deve consentire alla maggioranza di svolgere il programma senza essere incalzata dall ' assillo dell ' approvazione immediata da parte del corpo elettorale . Non è difficile capire che il mandato imperativo e una legislatura la cui durata pluriennale è stabilita dalla costituzione sono incompatibili . Là dove una costituzione fissa in anticipo la scadenza della legislatura dopo un certo numero di anni , è segno che il mandato del rappresentante non può essere vincolato agli interessi particolari e contingenti dei suoi elettori . Si dirà che una costituzione come la nostra che prevede il divieto di mandato imperativo prevede pure la possibilità dello scioglimento anticipato del Parlamento . Sì , ma è una misura eccezionale . Una delle maggiori aberrazioni del nostro sistema politico nel suo reale funzionamento sta nel fatto che la fine immatura delle legislature è diventata una prassi tanto che ci stiamo abituando a considerare eccezionali quelle che muoiono di morte naturale . Ma l ' assuefazione all ' idea che la legislatura possa essere troncata anzi tempo secondo il beneplacito delle forze politiche dominanti è deleteria , perché impedisce ai rappresentanti del popolo di distogliere i loro sguardi dagli interessi immediati del partito e indirettamente degli elettori . I programmi a lunga scadenza possono venir presentati soltanto all ' inizio : invece la prassi delle legislature bruciate ha fatto sì che sull ' inizio incomba già la fine , sicché la campagna elettorale appena finita ricomincia ed è sempre potenzialmente aperta . Sotto questo aspetto la legislatura più disgraziata è quella tuttora in corso , che ogni sei mesi è stata data per morta . Si capisce che ogni volta che ne viene annunciata la fine , i « moribondi » che vogliono rivivere guardano con rinnovata sollecitudine agli elettori che sono la loro fonte di vita . Una legislatura che sopravvive sotto la continua minaccia di scioglimento , se non a primavera in autunno , se non in autunno alla primavera successiva , attraverso una lunga agonia , non solamente è inoperosa ma contraddice allo spirito della costituzione che intende mantenere le debite distanze tra il momento della designazione dei rappresentanti e il momento della formazione delle leggi . Che questo sia un problema di fondo lo ha capito benissimo il presidente Pertini , di cui non si può che lodare l ' ostinata e a parer mio salutare opposizione alle elezioni anticipate . Occorre interrompere una prassi infausta e ristabilire una buona volta il principio che la durata di cinque anni è la regola , lo scioglimento anticipato l ' eccezione . L ' estrema facilità con cui attori e osservatori politici parlano di elezioni imminenti dipende anche dal non tener conto delle conseguenze che ne derivano , prima fra tutte il venir meno di una remora , l ' unica remora , istituzionale , alla frammentazione delle domande dal basso e al corrispondente particolarismo delle pubbliche decisioni dall ' alto .
Quando il gioco è pesante ( Bobbio Norberto , 1987 )
StampaQuotidiana ,
Nell ' articolo L ' oggetto misterioso , pubblicato sulla « Stampa » il 30 aprile , Sergio Romano ci ha spiegato le ragioni per cui gli stranieri non riescono a capire il nostro sistema politico . Ma le ragioni addotte riguardano il rapporto fra governo e Parlamento , il regionalismo , l ' istituto del referendum abrogativo , non il modo e la forma della lotta politica . Sono tutti argomenti che interessano esclusivamente gli uomini politici , i giornalisti , gli esperti di diritto costituzionale . A me pare molto più preoccupante che disorientati siano i cittadini italiani . Basta ascoltare i loro commenti di questi giorni . La verità è che si è svolto sotto i loro occhi , specie in questi mesi di crisi , un gioco di potere , di cui conoscono poco le regole , che oltretutto sono , come in genere tutte le regole , troppo vaghe , interpretabili nei modi più diversi secondo gl ' interessi prevalenti dell ' una o dell ' altra parte . Ho anche l ' impressione che la maggior parte dei cittadini non abbia molto interesse a penetrare nel segreto delle regole di strategia , vale a dire delle regole che insegnano quale sia il modo migliore per condurre il gioco allo scopo di vincerlo . La prima volta che mi trovai ad assistere in una università degli Stati Uniti a una partita di football americano , di cui mi erano completamente ignote le regole del gioco e le regole di strategia , non riuscii assolutamente a capire che cosa stessero facendo quei giovanottoni corazzati che si accanivano intorno a una palla ovale che assomigliava a un uovo di struzzo , ora ammucchiandosi l ' uno sull ' altro ora disperdendosi e inseguendosi nel campo . Siccome non ero in grado di capire che cosa stesse succedendo e quale fosse lo scopo di tanto affaccendamento , non riuscii a divertirmi . L ' osservatore comune , come mi è accaduto di notare più volte , non ha neppure la più pallida idea della differenza tra regole del gioco che assegnano ai giocatori i diversi ruoli , imponendo obblighi e attribuendo diritti o poteri , e regole di strategia che suggeriscono le mosse più convenienti per battere l ' avversario . La regola che attribuisce al presidente della Repubblica il potere di nominare il presidente del Consiglio o quella che prevede che il governo debba presentarsi in Parlamento per ottenere la fiducia sono regole del gioco , le quali debbono essere accettate da tutti i giocatori affinché il gioco , qualunque ne sia l ' esito , che dipende dalle diverse strategie adottate , si possa svolgere . Le mosse che ogni partito compie per riuscire a far parte del governo o per appoggiarlo o per farlo cadere , per provocare la fiducia o la sfiducia , per convogliare il proprio voto verso l ' approvazione o la disapprovazione di un disegno di legge , per formare o disfare un ' alleanza , appartengono invece alla sfera dei comportamenti dai quali , nel rispetto delle regole del gioco che tutti sono tenuti a seguire , dipende che alla fine della partita ci sia un vincitore e un vinto . Nel gioco politico il fine del gioco è il potere , vale a dire una maggiore capacità , rispetto agli avversari , di ottenere gli effetti voluti . Ciò vuol dire che alla fine della partita si considera vincitore chi è riuscito ad acquistare maggiore potere , o in senso assoluto , nel senso cioè di essere il più potente , oppure in senso relativo , nel senso cioè di aver acquistato maggiore potere di quello che aveva prima . A differenza di quel che accade nelle forme di governo autocratico , in cui il maggiore o minore potere dipende soprattutto dal possesso della forza militare , dal peso della tradizione e dall ' alleanza di ristrette consorterie , la caratteristica essenziale del governo democratico è che il potere si misura in base al numero dei voti , anche se oltre il numero dei voti conta il collocamento lungo l ' arco dei partiti del sistema , il cosiddetto potere di coalizione . Ma la quantità dei voti è un elemento essenziale del potere democratico : necessaria se non sufficiente . Nella gara fra partiti , particolarmente intensa in periodi di competizione elettorale , lo scopo di ogni partito è , usando un ' espressione del linguaggio economico , « massimizzare » il numero dei voti . Questo spiega perché la campagna elettorale venga combattuta non solo proponendo un programma per il futuro ma anche presentando un rendiconto , il più possibile positivo , dell ' azione svolta durante gli anni della legislatura scaduta . Tutto ciò che il partito fa , tutto ciò che fanno gli eletti nei loro rispettivi collegi , è fatto in vista di quel rendiconto periodico finale , che avviene nel giorno del voto . Come nell ' arena di un sistema economico concorrenziale ogni mossa dei concorrenti è rivolta al procacciamento del maggior numero di consumatori , così nell ' arena politica di un sistema pluralistico com ' è quello democratico , e in quanto pluralistico concorrenziale , ogni atto di un singolo partito è rivolto , direttamente o indirettamente , a breve o a lunga scadenza , non solo negli ultimi giorni prima delle elezioni ma già sin dal primo giorno dopo la formazione del governo , a raccogliere il maggior numero di voti . I cittadini hanno un bell ' essere infastiditi , irritati , indignati dalla grande partita di cui dicono di non capir nulla perché sono « affari loro » , ma è un fatto che , al contrario , sono affari che li riguardano direttamente e dei quali sono , anzi , i veri protagonisti in quanto , come elettori , hanno il diritto di gettare nell ' urna una scheda e quindi di determinare con questo semplice gesto la maggiore o minore quantità di potere di cui ogni partito potrà godere dopo il voto , e in conseguenza del voto , rispetto a tutti gli altri . Sono loro , i cittadini infastiditi , irritati , indignati , i destinatari di questo gioco , coi loro diversi interessi , i loro sentimenti o umori , che i giocatori cercano d ' interpretare e rappresentare . Chi si è battuto per lo svolgimento dei referendum pensava a un pubblico desideroso di partecipare in prima persona a una decisione importante . Chi si è battuto per le elezioni anticipate , pensava , al contrario , di raccogliere il consenso di chi era ormai giunto alla convinzione che si dovesse voltar pagina al più presto . E così via e così via . Domandarsi oggi chi ha vinto e chi ha perso , non ha senso . Proprio perché i destinatari del gioco sono gli elettori , la vittoria degli uni o la sconfitta degli altri dipenderà esclusivamente da loro . I singoli giocatori possono aver sbagliato i loro calcoli , ma i calcoli sono sempre stati fatti avendo davanti agli occhi coloro che col loro voto sono i detentori del potere ultimo e decisivo in un governo democratico e permettono di stabilire alla fine chi ha sbagliato di più e chi meno . Resta il dubbio che il fastidio , l ' irritazione , l ' indignazione , possano avere per effetto , certamente non previsto e tanto meno voluto dai partiti in lizza , una considerevole diminuzione di partecipanti al voto o un altrettanto considerevole aumento di schede bianche o nulle . In questo caso nessuno avrebbe vinto , tutti avrebbero perduto . Avrebbe perso soprattutto la democrazia . Si sa che gli spettatori in genere non amano il gioco pesante , neppure quello della propria squadra .
Quale il rimedio? ( Bobbio Norberto , 1987 )
StampaQuotidiana ,
Affrontare la questione morale partendo dall ' osservazione realistica che la corruzione non viene sempre elettoralmente punita , quasi ci fosse una tacita intesa fra corrotto e corruttore , significa non limitarsi a fare delle prediche , che sono in questa materia tanto facili quanto inutili . E un invito a conoscere meglio il fenomeno , in tutte le sue manifestazioni e ramificazioni , perché solo conoscendolo si può più facilmente correggerlo . Sulla riforma costituzionale sono state scritte intere biblioteche , già in parte diventate carta da macero . Sulla corruzione politica , che per lo sviluppo delle nostre istituzioni democratiche è problema non meno importante , le ricerche e gli studi , nel nostro paese , si contano sulle punte delle dita . Vorrei almeno segnalare il saggio del prof. Belligni della nostra università , Corruzione e scienza politica , pubblicato recentemente sull ' ultimo numero della bella rivista nata da poco ma già affermata , « Teoria politica » . Questo saggio contiene un utile rendiconto degli scritti sull ' argomento , che vengono per la maggior parte dagli Stati Uniti , e molte osservazioni stimolanti per tutti coloro che in questi giorni , ripetendosi gli arresti di uomini politici e di amministratori per scandali , si domandano e ci domandano : « Perché Torino ? » o « Perché Firenze ? » , mentre farebbero meglio a porsi la domanda più generale : « Perché la corruzione ? » Siccome è chiaro , chiarissimo , e tutti lo sanno , anche coloro che a ogni arresto fingono di cascare dalle nuvole e riscoprono la questione morale , che la corruzione politica è dovuta in gran parte al finanziamento dei partiti , può essere utile questa seconda informazione : sin dall ' agosto 1984 esiste una proposta dell ' on. Valdo Spini , socialista , sulla disciplina dell ' attività e del finanziamento dei partiti , che al suo apparire ha avuto buone accoglienze da giuristi e politologi , è stata discussa in varie pubbliche riunioni , ma non ha mai avuto neppure un inizio di discussione nella sede propria che è il Parlamento . L ' on. Spini ha avuto un notevole successo elettorale , smentendo l ' opinione che la questione morale sia politicamente irrilevante . Probabilmente di questa proposta si dovrà tornare a parlare . L ' area della corruzione è vastissima . Perché ci sia corruzione politica , da distinguersi dalla corruzione in senso generale , occorre che almeno uno dei due soggetti del rapporto sia una persona investita di un potere politico o pubblico , vale a dire del diritto di esercitare il potere di prendere decisioni a nome e per conto della collettività nazionale . Due sono le situazioni in cui si osservano abitualmente rapporti di corruzione : quella in cui il soggetto politico agisce per conquistare o conservare o non perdere il potere , e quella in cui , una volta che l ' ha acquistato e lo tiene ben fermo nelle proprie mani , se ne serve per trarne vantaggi privati . Inutile dire che le due situazioni sono strettamente connesse perché nel mercato politico democratico il potere si conquista coi voti : uno dei modi di conquistare i voti è di acquistarli e uno dei modi per rifarsi delle spese è di servirsi del potere conquistato o acquistato per ottenere benefici anche pecuniari da coloro cui l ' uso di quel potere può procurare vantaggi . Il potere costa ma rende . Se costa deve rendere . Il gioco è rischioso : talora infatti costa più di quel che rende , quando il candidato non viene eletto ; ma spesso rende più di quel che costa . Le due situazioni sono connesse ma occorre distinguerle : nella prima l ' uomo politico agisce da corruttore , nella seconda da corrotto . Dall ' altra parte del rapporto c ' è , nella prima , l ' elettore che offre potere in cambio di un compenso ; nella seconda un gruppo d ' interesse , che offre un compenso in cambio di una prestazione che solo il detentore del potere può offrire . Considerata l ' arena politica come una forma di mercato , dove tutto è merce , cioè cosa vendibile e comprabile , l ' uomo politico si presenta , in un primo momento come compratore ( del voto ) , in un secondo come venditore ( delle risorse pubbliche di cui grazie al voto è diventato potenziale dispensatore ) . Questa distinzione è importante perché i due casi sono , moralmente e anche giuridicamente , di diversa gravità . Anche se negli studi sulla corruzione politica si fa rientrare di solito il fenomeno del clientelismo , vale a dire il procacciamento dei voti attraverso l ' offerta all ' elettore di vantaggi personali , anche pecuniari , questo deve essere considerato una forma di degenerazione del rapporto elettorale , che rientra , come la corruzione , nella categoria generale della « privatizzazione del pubblico » , ma non è una forma di corruzione strettamente intesa . Altro è corrompere , o istigare il compimento di atti che implicano l ' incitamento a compiere un atto illecito ; altro sedurre , tentare , promettere a vuoto , che è l ' arte del demagogo , non molto diversa da quella dell ' imbonitore . La differenza si rivela anche nel fatto che le varie forme di procacciamento della clientela si svolgono generalmente in pubblico e possono suscitare irritazione , deplorazione , indignazione , ma non vengono perseguite giuridicamente . Offendono più il costume che il diritto o la morale . Al contrario , l ' abuso del potere per ottenerne vantaggi personali , il cui esempio più comune è la « tangente » , non si può esercitare che in segreto . Una volta scoperto , cade , o dovrebbe cadere , sotto i rigori della legge . Tutti gli studi sulla corruzione politica tendono a mettere in rilievo la vastità del fenomeno anche negli Stati democratici , e la difficoltà di eliminarlo . Vi è una scuola di rassegnati , che , ispirandosi alle teorie funzionalistiche , ritengono che alla corruzione si debba attribuire una sorta di utilità sociale , una « funzione » appunto , che sarebbe quella , metaforicamente , di ungere le ruote di una macchina che altrimenti stenterebbe a mettersi in moto . Ma la constatazione che nella sua forma propria la corruzione non può svolgersi che in segreto , mostra , più di qualsiasi altra considerazione , la sua totale estraneità all ' etica della democrazia , cioè a quella forma di governo che richiede la pubblicità degli atti di governo , in quanto si fonda sulla regola fondamentale della controllabilità ad ogni istante di chi esercita il potere non in nome proprio ma in nome di tutti , e ha messo fine per sempre alla politica degli arcana imperii , propria degli Stati autoritari di un tempo e di quelli ancor oggi esistenti . In uno Stato democratico la pubblica moralità non è solo un obbligo morale o giuridico , ma anche un obbligo politico , anzi è l ' obbligo politico per eccellenza imposto dal principio stesso che regola la vita del governo democratico , e che lo contraddistingue da tutte le altre forme di governo sinora esistite , il principio del « potere in pubblico » .