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Corrado Alvaro ( Vergani Orio , 1956 )
StampaQuotidiana ,
È morto Corrado Alvaro . Il mio primo ricordo di lui risale al tempo in cui - sradicato dalla nativa Calabria , ventenne , mutilato sul Carso , fatto esperto da una prima esperienza giornalistica al « Carlino » di Bologna e poi al « Corriere della Sera » - arrivò a Roma . Doveva essere fra il '19 e il '20 . Le date precise non contano , nel ricordo : ma il colore del . tempo , la stagione della storia . Erano giorni decisivi , nel senso morale , soprattutto per la generazione dei giovani e per il maturare o per il doloroso frangersi o corrompersi delle loro intelligenze e delle loro speranze . Giorni decisivi anche per l ' arte e per la letteratura , e non solamente in Italia . Per quanto Marinetti fosse di parere contrario , il futurismo era già da tempo avviato al tramonto . Non si considerava possibile il rinascere dei movimenti fiorentini della « Voce » di « Lacerba » . « La Ronda » parlava di un ritorno all ' ordine , riunendo nelle sue pagine le prose di alta solennità di Cardarelli , i saggi teatrali di Riccardo Bacchelli , la tempesta immaginifica del grande « barocco » di Bruno Barilli . Era una stagione molto singolare . D ' Annunzio aveva trovato una nuova clausura fra gli ulivi del lago di Garda . Grazia Deledda scriveva con regolarità i suoi romanzi , lavorando dalle nove alle undici del mattino in una modesta villetta impiegatizia di via Porto Maurizio , sulla stessa tavola dove avrebbe poi steso la tovaglia per la colazione della sua famiglia . Luigi Pirandello era ancora catalogato fra i cosiddetti « scrittori ameni » . Federigo Tozzi entrava da Aragno solo per uscirne in preda a un violento corruccio . Odiava - e lo dichiarava - le chiacchiere . Fra i ragazzi di quegli anni - che forse davano un po ' presuntuosamente del « tu » a tutti - il giovane Alvaro era già « qualcuno » . Le sue poesie di ispirazione militare - le Poesie grigioverdi , stampate da un libraio editore che aveva bottega a due passi da Aragno in via delle Convertite - lo avevano reso noto . Quei versi erano stati scritti nella corsia di un ospedale militare , a Bologna , dove il sottotenente Alvaro - bel nome romantico e spagnolesco - era andato a rieducare alla meglio le mani mutilate . Si era curiosi , quando il giovanotto arrivò a Roma , di vedere da quale parte si sarebbe indirizzato , in quale « scuola » si sarebbe irreggimentato , quale « capo » avrebbe scelto . Così si ragionava a diciotto e a diciannove anni . Quello che vedemmo era un giovane che non sorrideva mai , o pochissimo , che aveva rare conoscenze e non desiderava forse di averne . Accompagnato talvolta dalla giovane moglie , sedeva a un tavolino appartato del famoso caffè letterario , dove non c ' era giornalista che non entrasse per dare un ' occhiata . Era piuttosto piccolo di statura : un vero fante , un vero « soldato meridionale » come quelli che aveva avuto vicini in guerra : ma dei « meridionali » , almeno come li immaginano i « manieristi » , non aveva certamente il volto . Della sua terra dell ' Aspromonte , la faccia custodiva un ' antica , silente melanconia : i suoi lineamenti erano in modo singolare assomiglianti a quelli di un mugik russo , forse di un piccolo fante russo . Il suo viso sembrava modellato dallo stesso pollice che aveva plasmato il volto di Massimo Gorkij . Spesso « il volto è l ' uomo » , è modellato dall ' anima dell ' uomo . Ce ne accorgemmo quando ci accadde di leggere i primi racconti firmati da Alvaro . La melanconia , la mestizia , la desolazione non hanno paesi precisi . Il dolore umano è uguale nella steppa slava e sui monti di Calabria . Alvaro veniva dal grande ceppo del « regionalismo » italiano . Solamente le acque dello stretto di Messina lo separavano da Giovanni Verga . Era dello stesso sangue , letterariamente , di Federigo Tozzi , così duramente radicato fra le « crete » senesi e i vicoli foschi della sua Siena . Erano tempi , in sede europea , di narrativa cosmopolita . Ma su Alvaro non operavano gli incantesimi delle metropoli e delle terre lontane . Il suo cuore era rimasto ancorato ai monti di Calabria come quello di Grazia Deledda ai sughereti e alla « tanca » della sua Sardegna . Si trattava di una fedeltà poetica : la fedeltà ai segreti miti tragici della povera gente nelle ultime , contorte vallate dell ' Appennino . In quel cerchio di ricordi del mondo esplorato e vissuto durante la prima giovinezza , Alvaro doveva compiere i suoi schietti , profondi , sicuri approdi di scrittore . Nei romanzi - in quell ' Uomo nel labirinto , che resta fra gli esemplari della sua generazione , e in quell ' Uomo e forte pubblicato molti anni dopo - la sua indagine si svolse in più profonde psicologie , in più folte tenebre , in più complesse angosce . Ma il suo « mondo » trovò la sua definizione completa in quei racconti della sua terra che concludono , in una misura degna del maestro e della tradizione , il tempo che si iniziò con Verga e che ebbe il suo ultimo fiorire con Tozzi e con Alvaro . Giornalista fu sempre , anche se negli ultimi anni aveva potuto raccogliersi e risparmiarsi in pagine e fatiche meno rapidamente professionali , sostando anche sui piani di un suo meditare che si volgeva all ' intimità di quella « condizione umana » che con termine più facile viene chiamato il problema delle nuove società . Era stato - negli anni della giovinezza - a Parigi : e più tardi in Russia . Non si può dimenticare ciò che egli seppe vedere allora con il suo sguardo apparentemente lento e quasi immoto . Le sue emozioni di viaggiatore in mondi lontani erano tutte in rapporto a una facoltà meditativa che pareva derivasse dal fondo greco che sta alla base di ogni uomo nato in vista del Mediterraneo . Per tutta la vita , fu un « uomo in disparte » chiuso negli stessi silenzi , rotti da poche parole e da improvvisi affetti , che da ragazzi conoscemmo al terzo piano della sua casa in via Sistina dove abitava quasi di fronte alle finestre dietro alle quali aveva vissuto Gogol ' . La vita non gli era stata facile , era stata talvolta dura e anche di alto dolore . Dissentiva dal fascismo , ma non ebbe , alla sua caduta , rancori o ironie . Del suo paese soffrì la tragedia . Era un animo nobile : un solitario .
Bruno Barilli ( Vergani Orio , 1952 )
StampaQuotidiana ,
Costretto a vivere in uno studio da pittore , di quelli all ' antica con la luce che piove verticale e accademica dall ' alto , attraverso ai vetri di un lucernario sul quale passa l ' ombra volante dei piccioni e delle rondini , Bruno Barilli s ' addormentava con la luna e le stelle che gli « battevano » in faccia . Rincasava a tarda ora , arrivando alto e spettrale da via del Babuino e da piazza del Popolo , dove non c ' era altra voce al di fuori di quella delle fontane attorno all ' obelisco : si inselvava in un parco cintato che fiancheggiava Villa Borghese , dove un vecchio signore olandese , dalla barba e dai silenzi simili a quelli di un mago , aveva costruito certi padiglioni a forma di baita per affittarli , in cambio di pochissima moneta , agli artisti che avessero voluto vivere in una specie di labirinto arboreo , lontani dai rumorosi selci delle strade di Roma e dal vocio dei vetturini e dei cocomerari . L ' arredamento dello studio era costituito da un materasso buttato su due trespoli , i vestiti si attaccavano a quattro chiodi , la biancheria stava per terra , fra due fogli di giornale . Nelle notti di estate , nella stagione degli amori , arrivavano fra gli alberi il ruggito dei leoni e l ' urlo delle tigri chiusi nelle gabbie del vicino Giardino Zoologico . All ' alba il sole illuminava il letto sfatto , la grande figura del dormiente e il lungo volto ossuto traversato , all ' altezza degli occhi , da una larga benda di seta nera . Barilli - in quello scenario da Fantasma dell ' Opera - usava le sue precauzioni per difendersi dalla luce . Sul pavimento un tappeto balcanico , avanzo dei ricordi di antichi viaggi , pareva , con le sue ruvide lane rosse , una larga traccia di sangue . Questo è un ricordo vecchissimo , quasi antico : risale al tempo in cui , se ritroviamo la loro immagine , gli uomini sono ancora vestiti in costume , con la bombetta , con le ghette , con grande sciupio di amido per i colletti e i polsini . Le donne si tingevano gli occhi con una ditata di cerone azzurro e le adultere , nascoste sotto al mantice di tela cerata delle carrozzelle , riparavano il viso sotto velette fiorate . Se prestavi l ' orecchio , sulla dirittura del Corso pareva di udire ancora l ' eco delle corse dei « barberi » e per via Gregoriana il passo di Andrea Sperelli . Ogni tanto sfilava qualche gruppetto di arditi , con il fez nero dal lungo fiocco , che parevano usciti da una stampa del Callot . Era , insomma , il tempo fra il 1918 e il 1920 , quando i sottosegretari dei governi non avevano ancora a disposizione l ' automobile , ma una vasta carrozza foderata di panno verde . Bruno Barilli , scrittore di musica , violoncellista , figlio di uno scenografo del Regio di Parma , marito di una nipote del re Pietro di Serbia , erede di una duplice assomiglianza con Berlioz e con Niccolò Paganini , rosso nei capelli cespugliosi , scavato nel volto come il personaggio di un disegno di Gustavo Doré , povero in canna , lungo come un flauto , avvolto in larghi abiti di serge blu , il candido colletto floscio sventolante con i due pizzi sotto alle lunghe mascelle , sembrava arrivare dritto dritto dalla soffitta dove vivevano i personaggi dei racconti di Hoffmann , di Poe , di Gérard de Nerval . Quando , nel 1924 , gli fu offerto di raccogliere le sue prose in un volumetto , che ebbe per titolo Delirama e che segnò un punto preciso come libro essenziale della letteratura italiana di questo primo mezzo secolo , Barilli si era guardato attorno lieto e impacciato . Dove , come ritrovare i suoi scritti ? Ne aveva disseminati nelle « terze pagine » , non li aveva mai conservati . Solo la buona volontà di Emilio Cecchi poteva compiere il miracolo di recuperare quelle settanta - ottanta preziose paginette . Di qualcuna che non era possibile scovare da nessuna parte , Bruno trovò la traccia a lapis su vecchi programmi del Costanzi e dell ' Augusteo o nel rovescio di qualche biglietto d ' ingresso . Anche di correggere le bozze si incaricò Cecchi , perché Barilli non lo sapeva fare e perché , come al solito , doveva partire . La vita di Barilli fu effettivamente una continua partenza . Era incapace di avere una casa , un recapito , un indirizzo . Viaggiava , lasciava la valigia con il frac al giornale , arrivava trafelato , si cambiava in redazione , si cibava durante lo spettacolo con un cartoccetto di bucce d ' arancia candite , prendeva le sue note al buio appoggiando il taccuino sul ginocchio ossuto . Non c ' è da stupirsi che i suoi libri e i suoi articoli uscissero a urlo di lupo . La povertà , la melanconia , la difficoltà di farsi capire come musicista , un orgoglio leonino e un animo di fanciullo sperduto , l ' incapacità agli accomodamenti e alle alleanze , le lunghe amnesie , le ansie e i triboli di una vita solitaria disperdevano la sua vita come quella di un esiliato . Compiuti gli studi a Parma assieme a Ildebrando Pizzetti , il figlio del pittore Cecrope Barilli è diviso fra la creazione musicale , l ' estro letterario e la vocazione per la vita nomade . Prima della Grande Guerra è a Parigi che resterà spiritualmente , dopo Parma , la sua seconda patria . Il suo animo illuminato e stoico gli permette di vivere con quasi nulla , gli consente i più duri adattamenti . Viaggia qua e là per l ' Europa . La prima guerra balcanica lo sorprende in Serbia . Invece di tornare in Italia - non vuole , perché si è innamorato di una nipote di re Pietro , e , contro la volontà del sovrano , finirà per sposarla e per avere da lei una figlia , Milena - telegrafa al « Corriere della Sera » offrendosi come inviato al fronte . Aveva già scritto per « La Tribuna » . L ' offerta è accettata dagli Albertini . Barilli però non è tipo di adattarsi a un giornalismo rigoroso che finirebbe a non lasciargli tempo per la musica : per scriverne e soprattutto per pensarla e amarla . Ritorna a Parigi e si sfama e sfama la piccola Milena suonando il violoncello nelle orchestrine dei caffè . Suona anche il pianoforte in qualche cinematografo di periferia . Conosce il russo . Si lega d ' amicizia con i musicisti e con le ballerine della prima troupe di Diaghilev quando questi cala a Parigi . Sono i tempi in cui impara a cibarsi di valenciennc ' e di acqua . Il richiamo della sua classe lo riporta in patria , con un berrettuccio da ufficiale calcato sui capelli rossi . Riappare a Parma e a Roma . È uno strano ufficiale che pretende di farsi la barba con un paio di forbicine da unghie . Questa è un ' abitudine che gli resta per tutta la vita : le sue forbicine lavorano al caffè , in strada , in tutti i momenti in cui Barilli naviga tra le sue fantasie . Sono gli anni in cui , dopo avere scritto Medusa , compone 1'Emiral . Dove ? In quello studio da pittore di villa Strohl - Fern , non c ' è l ' ombra di un pianoforte . Barilli non può permettersi di noleggiarne uno e si fa assumere come pianista in un piccolo cinema dalle parti del Vaticano . Deve accompagnare i film muti . Nelle ore del primo pomeriggio , quando in sala ci sono soltanto due , tre coppie di innamorati che non fanno attenzione né al film né alla musica , Barilli , tranquillo come se fosse nel proprio studio , lavora all ' Emiral . Gli amici della « Ronda » sono curiosi di conoscere l ' opera . Barilli invita tutti al cinematografo e , durante la proiezione di un film di Tom Mix , la suona . Fa tutti i mestieri , solo perché si è promesso di non fare « musica di mestiere » . Per pagarsi questo lusso , diventa comparsa nei film muti . Diventa anche attore . Caramba gli fa interpretare la parte di Virgilio , in una specie di fantasia sulla Divina Commedia , e Arnaldo Fratelli , che in quegli anni è regista , lo sceglie per protagonista della Rosa , il primo film tratto da una novella di Pirandello . Barilli recita bene , puntuale , disciplinato . Rifiuta solo una sequenza dove deve figurare in terra , morto , con vicino una candela . Per scaramanzia ? No . Perché gli pareva fa scena della morte di Scarpia e , come musicista , quella scena della ' rosea non gli piaceva . La sua carriera è stroncata da un atto di sincerità artistica nel quale sa di giocare tutte le sue già tanto precarie fortune di operista . Dopo la prima del Nerone , a Milano , scrive in un giornale romano una fiammeggiante bellissima pagina di prosa nella quale Boito , Mefistofele compreso , è fatto in briciole . L ' industria del teatro d ' opera non gli perdonerà mai quell ' articolo che , dal punto di vista critico , è perfetto . Non si può più ascoltare Boito senza ricordare la stroncatura di Barilli . Ma sono gesti che pesano : lo scrittore di musica è messo al bando dai giornali benpensanti che non amano le « grane » . Se vuole mangiare , Barilli deve trasformarsi in scrittore di viaggi . Dal suo periplo dell ' Africa , nasce il più bel libro italiano su quel continente . La poesia melanconica , la cupa segreta disperazione di Barilli si riflettono nell ' Africa e negli occhi delle sue umili genti come in uno specchio nero . Al termine del viaggio , si ammala e resta per tre mesi in fin di vita , al Cairo . La sua fine è segnata . Le sue capacità di lavoro - un lavoro lento , fatto di raccoglimento e di lunghissime osservazioni - diminuiscono . Vive solitario in una stanzuccia d ' albergo a Roma , sorretto da un solo entusiasmo . Sua figlia Milena , che è emigrata negli Stati Uniti , si è fatta un buon nome come pittrice , e aiuta il suo strano papà mandandogli in dono quadri da vendere . Bruno si intenerisce e , invece di venderli , attacca i quadri alle pareti della sua camera . Vive poveramente , dignitosamente chiuso nei suoi vecchi vestiti azzurri , scrivendo ogni tanto , a fatica , qualche elzeviro . Sembra che abbia dimenticato di essere un musicista . Un giorno , un telegramma dall ' America gli annuncia che Milena è morta cadendo da cavallo . Bruno si avvia al naufragio . Continua a vivere in silenzio a tazze di tè , di grissini , di valenciennes . Perde uno alla volta i denti . Si riconosce alla fine nello specchio come un triste vecchio sdentato . I suoi scritti non sono ormai che la tragica storia di una decadenza . Una sera , trova in albergo l ' avviso di andare alla stazione a prendere un pacco in arrivo da New York . È la cassettina con l ' urna che contiene le ceneri di Milena . Tutti sapevano quanto la prosa italiana - e non solamente la prosa , perché il riflesso dell ' arte di Barilli ha agito in vari modi a cominciare , per esempio , dalle composizioni pittoriche e dal clima fantastico del pittore Scipione - doveva a Bruno Barilli : ma da questo ad avere per lui un segno fattivo di riconoscenza il passo è stato lungo e incompiuto . Sembra fosse stato firmato un decreto che , nominandolo ispettore musicale di un istituto cinematografico , gli avrebbe assicurato il pane . Il decreto è arrivato quando , in clinica , Barilli già vaneggiava e dal fondo del suo letto come chiamando una amica , ripeteva con voce ancora ferma : « Avanti , Morte ! » .
Luigi Barzini senior ( Vergani Orio , 1959 )
StampaQuotidiana ,
La storia del mondo voltava pagina . Quando Luigi Barzini , ragazzo di Orvieto , scese a Roma , arruolato in un modesto giornale , che mescolava i piccoli entrefilets con i « pupazzetti » nel genere di quelli di Vamba e di Gandolin , e fu scovato da Luigi Albertini e spedito a Londra come corrispondente del « Corriere della Sera » , erano , senza che molti se ne rendessero conto , anni di avvenimenti favolosi . Dalla lanterna magica si passava alle pellicole dei Lumière , la Patti e Tamagno incidevano i loro primi « cilindri di cera » per il fonografo , Marconi studiava il telegrafo senza fili , l ' uomo si ostinava a tentare di volare affidato ad un paio d ' ali simili a quelle di un pipistrello . Molto cambiava nel mondo . Al corredo dei soldati giapponesi sarebbe stata aggiunta di lì a poco una zappetta per scavare , idea difensiva del tutto nuova , una trincea . Barzini aveva ventidue anni al tempo di Adua , dove cadde ucciso il primo inviato speciale italiano . Il suo spirito di italiano rimase per tutta la vita , per quel ricordo , legato al problema di una dignità da salvare . Il giornalismo al cui servizio lo chiamò Luigi Albertini - Barzini aveva ventiquattro anni , Albertini ventotto - sarebbe stato del tutto diverso da quello dei Bottero , dei Bersezio , dei Mercatelli , dei Gobbi - Belcredi , dei Roux e del principe Sciarra . Fosse rimasto a Roma , Barzini sarebbe probabilmente naufragato nelle cronache , nei pettegolezzi e fra i « pupazzetti » di Montecitorio . Albertini mandava Ugo Ojetti , altro coetaneo , a conoscere le terre d ' oltre Adriatico da cui sarebbe giunta in Italia la bellissima Principessa Elena e , subito dopo , lo mandava in Calabria sulle tracce del brigante Musolino . A Barzini , alto , magro , pettinato con una riga in mezzo , Albertini consegnò le chiavi del mondo ad un ' età in cui , mentre l ' Ottocento tramontava , era ancora difficile che si affidassero ai ragazzi le chiavi di casa . Negli uffici del « Corriere » Barzini non ebbe mai una propria scrivania . A casa , per vari anni , non ebbe il telefono , in una Milano che nel 1906 aveva solamente mille apparecchi . Il figlio non ci racconta se suo padre « batteva » a macchina . La stilografica era appena nata ed era una novità addirittura entusiasmante , tanto che certi giornalisti intitolavano Stilografiche le loro rubriche . Gli articoli di viaggio e le corrispondenze si chiamavano Lettere da Londra o Lettere dalla Russia o addirittura , più tardi , Lettere dal fronte perché erano proprio delle lettere da porto doppio , impostate con francobolli da 15 centesimi . Milano non toccava il mezzo milione di abitanti . Barzini andava in terre lontane : e , nelle terre lontane , viaggiava ancora a cavallo . Nei conti che , al ritorno , consegnava all ' amministratore Eugenio Balzan , c ' erano « voci » che oggi sanno di favola : cavallo , stalla , striglia , avena , carrube . La Cina per la guerra dei Boxers ; la Siberia vista dalla Transiberiana ; la tragica epopea della guerra russo - giapponese fino alla battaglia di Mukden ; infine i 16 mila chilometri di viaggio in automobile da Pechino a Parigi : sono i sette anni stupefacenti di Barzini , scrittore lento , pieno di dubbi e di tormenti , infaticabile nello sforzo di raggiungere una « limpidità » che fino allora , salvo per De Amicis , sembrava negata alla nostra prosa non solamente giornalistica . Per chi conosce i suoi predecessori , la differenza di tono appare evidente . Barzini non amoreggia con i crepuscolari : non è un seguace del « naturalismo » e , soprattutto , non si lascia prendere nemmeno con la punta del mignolo nelle tagliole del dannunzianesimo . Sempre salvo da ogni contagio , è probabile che leggesse assai poco i suoi contemporanei . Era tutto teso a « vedere » , si fidava più della memoria visiva che non del taccuino . Collega di due grossi bibliofili come Ojetti e Simoni , in casa - salii una volta , a vent ' anni , al suo quarto piano - non aveva vistose librerie . I libri erano quasi tutti , probabilmente , di sua moglie , ch ' era buona scrittrice : e per quanto io guardassi attorno sulle pareti e sugli scaffali e persino nei corridoi , non aveva souvenirs de voyage non , come avevo immaginato , selle arabe , fucili dal calcio intarsiato di madreperla , tappeti , gualdrappe di cammelli , paraventi cinesi , ventagli giapponesi . Anche le sue pagine di viaggio nel mondo delle geishe , o nella vecchia Pechino , o nelle città czariste , non convogliano in sé colori di rigatteria o di esotismo turistico , per esempio alla Pierre Loti o alla Claude Farrère . Barzini tornava a casa con un bagaglio leggerissimo , sempre pronto a ripartire all ' indomani . Egli credeva , penso , solamente nel filtro della memoria e nel potere , che chiamerei epistolare , del suo stile . Di qui la chiarezza del suo colloquio con il lettore , una parola senza riboboli e senza barocchismi , un disegno descrittivo netto , e mai il fiato corto o il fiato grosso , e mai il compiacimento del « pezzo » che strizza l ' occhio sul virtuosismo e dice : « Guardate quanto son bravo ! » . Un intuito infallibile negli « attacchi » - chi fa il nostro mestiere sa che nelle prime righe si mette tutto in gioco - , nessun crescendo retorico , mai troppa spinta nel premere il pedale . Dopo quasi sessant ' anni la prosa di queste « avventure » non ha forfora , non ha chiazze di sopraggiunta calvizie , non ha rughe o zampe di gallina , non ci appare , mai in « costume » , non denuncia un « gusto » . La sua lezione è ancora valida , dopo che tre generazioni si sono lustrate le maniche sul tavolo a buttar fuori prosa che faccia velocemente girare la rotativa .
Harry Belafonte ( Vergani Orio , 1958 )
StampaQuotidiana ,
Su un fondo rosso tempestato di grosse stelle , un manifesto porta a grandi maiuscole il nome di Harry Belafonte . Nelle vetrine della galleria da cui si accede al milanese Teatro Nuovo , le custodie di cartoncino dei dischi microsolco ripetono il suo nome . Ed ecco in altri manifesti il suo viso , il suo viso di bel giovanotto dalla bocca ridente e dagli occhi lievemente tristi , segnati da un enigmatico lampo di intesa . Al proscenio si presenta molto confidenzialmente in maniche di camicia : prima parte del concerto , camicia cilestrina di un tono che varia d ' intensità sotto ai riflessi delle « gelatine » di riflettori e bilance ; seconda parte , una camicia color rosso geranio ; terza parte , una camicia bianca fittamente rigata . Attorno alla vita una cintura di pelle nera con un fregio d ' argento di cui gli spettatori miopi non possono dire il disegno . Teatro esauritissimo . Ecco l ' uomo che a quanto si dice guadagna ventidue milioni la settimana cantando e soprattutto vendendo a centinaia di migliaia di copie ogni edizione dei suoi dischi e toccando talvolta il record del milione di copie . Ecco il re del Calypso , nome omerico leggermente magico , emigrato laggiù fra le isole e sulle coste d ' oltreoceano , addirittura - se si volesse credere agli studi classici - dall ' Odissea e dalla leggenda di Ulisse e della ninfa Calypso , che incantò d ' amore il grande naufrago per sette anni e non lo lasciò partire finché non lo ordinò Zeus . Ecco l ' uomo di trent ' anni che si è scoperto cantante quasi per caso dopo avere tentato in un primo tempo di affermarsi come attore all ' Arnerican Negro Theater . Ecco un uomo tipico della « leggenda americana » , venuto su dal nulla , dopo aver lavorato - quando sul suo destino musicale c ' era pochissimo da contare - in una industria di abbigliamento e dopo aver gestito un piccolo ristorante nel Greenwich Village . Venire su dal nulla sottintende una vita di fatiche , mestieri umili , l ' amarezza del ragazzo « colorato » che incontra sempre motivo di melanconia nei rapporti razziali di quella che pure è la sua terra natale . Eccolo davanti a noi , celebre e acclamatissimo . Le fortune sono cominciate nel 1950 : il ragazzo , che cantava in coro con gli avventori della trattoria al Greenwich Village , batte pochi anni dopo tutti i primati di incassi della musica leggera . Adesso è qui , per la prima volta approdato in Europa , al centro del palcoscenico sgombro , contro un fondale che muta tono sotto ai diffusori di luci colorate . Gli sta davanti il microfono che gli stampa sulla camicia un ' ombra come l ' emblema araldico del suo destino . Attore , cantante , narratore sui toni di elegia , di melanconia , di ironia fanciullesca , di patetico pianto e di accorato lamento sull ' onda di note , di motivi che direttamente arrivano dall ' accorato , trasognato folclore delle genti di colore , Belafonte dà il senso che la musica gli si sia tutta affinata nel cuore e nei nervi : una straordinaria spontaneità che farebbe pensare ad una sorta di poetica improvvisazione , ad una specie di istintiva confessione fatta a se stesso quasi in segreto .
Vincenzo Cardarelli ( Vergani Orio , 1959 )
StampaQuotidiana ,
Tarquinia , quando vi nacque il primo maggio del 1887 Vincenzo Cardarelli , si chiamava ancora come ai tempi dello Stato di Santa Romana Chiesa , con il bonario nome agricolo di Corneto perché nei suoi poggi solitari cresceva spontaneamente l ' arbusto del corniolo che copre tutto l ' alto Lazio con quella vegetazione cui si dà il nome di « macchia » , propizia un tempo ai briganti che sulle strade dirette verso Roma aspettavano di far pagare duri pedaggi alle diligenze . Cardarelli nacque da madre marchigiana e da padre « etrusco » , come egli amò sempre dire . Il cognome di famiglia era Caldarelli , il bambino fu battezzato con un nome assai diffuso in tutta quella che adesso è la provincia di Viterbo : Nazareno . Nella adolescenza vissuta a Roma , quel Caldarelli , adattandosi alla pronuncia romana che trasforma coltello in cortello e caldo in cardo , diventò Cardarelli . In quanto a Nazareno , nome non molto adatto per un giovane letterato che vantava idee vagamente sovversive , fu cambiato con quello di Vincenzo , che era il secondo di battesimo . La famiglia di Cardarelli conduceva al paese una vita umile . Se non sbagliammo su quanto lasciava intendere , ma senza troppe precisazioni , il poeta dei Prologhi quando , ragazzi , lo conoscemmo a Roma , il padre aveva cercato inutilmente di assicurarsi una vita pacifica conducendo un ' osteria nei pressi della stazione di Corneto . Anche Cardarelli era dunque figlio di un oste , come lo era stato a Siena , Federigo Tozzi . Nel ricordo , o , per meglio dire , nel mondo di favola epica che Cardarelli costruì sulle memorie del paese della sua infanzia , il posto della madre è minore di quello del padre . Tra l ' ascendenza marchigiana e quella etrusca , Cardarelli scelse e sostenne sempre la seconda . Egli era infatti sceso a Roma con tutti i complessi di inferiorità del ragazzo di provincia e addirittura di campagna , senza titoli di studio e con le tasche imbottite solamente di volumetti della Universale Sonzogno . Dichiarandosi etrusco , egli iniziava quella che gli sembrava dovesse essere la sua lunga e ininterrotta polemica fra due civiltà . Arrivò a Roma nei primi anni del Novecento , in una città ancora intellettualmente infatuata di D ' Annunzio e del tutto assomigliante a quella descritta nei capitoli del Piacere . Campava di piccoli impieghi : fu , tra l ' altro , segretario di una cooperativa socialista di scalpellini , di quei « selciaioli » che lastricavano Roma con blocchetti quadrati di granito . La povertà e una naturale tendenza al disdegno , tipica quasi sempre dei timidi , lo tenevano lontano dal pur ristretto mondo intellettuale romano dei Diego Angeli , dei Domenico Gnoli , dei Fausto Salvatori e da quello dialettale e ironico di Trilussa . Entrato come cronista all ' « Avanti ! » di Leonida Bissolati , cominciò a pubblicare qualche breve prosa firmata con lo pseudonimo dannunzianeggiante di Simonetto . Diventò , come giornalista , frequentatore della terza saletta di Aragno : ma forse più che altro perché i suoi guadagni , molto aleatori e sottili , non gli permettevano spesso di nutrirsi altro che di caffellatte . Oltretutto , Aragno era l ' evasione dal chiuso delle piccole camere in qualche modesta pensione di famiglia dove era obbligato a vivere , spesso con un tavolino traballante come tutta scrivania . Sui tavolini di marmo del caffè , nei pomeriggi solitari , quando i giornalisti si trasferivano nella tribuna stampa di Montecitorio o nella sala al pianoterra del palazzo delle Poste a San Silvestro dove avevano i loro uffici di corrispondenza , Cardarelli scriveva le sue prime prose e lungamente le correggeva e le limava , sino a impararle addirittura a memoria . Aragno fu per molti anni la sua « casa » , il luogo delle sue « declamazioni » e delle sue indispettite rampogne . Da Aragno conobbe il giovanissimo pittore Amerigo Bartoli , che gli fu amico fedelissimo per tutta la vita , e che a lui e agli amici letterati del tempo della « Ronda » doveva dedicare il quadro degli Amici al caffè . Vi appariva abitualmente alle due del pomeriggio perché si alzava molto tardi per evitare la spesa di una colazione regolare , e si tratteneva quasi l ' intera giornata , spesso ne era l ' ultimo cliente nottambulo . I camerieri , cominciando dal vecchio Forina che sembra avesse fatto , in gioventù , qualche piccolo prestito a D ' Annunzio e dall ' eternamente biondo Leonetti che teneva chilometrici conti di tazze di caffè pagate con lunghi ritardi , avevano per lui , per quanto ancora ignoto , un singolare affettuoso rispetto . Era , fisicamente , uno di quegli uomini che le donne definiscono « interessanti » . Pallido , quasi esangue in volto , assomigliava vagamente a Ruggero Ruggeri . Vestito poveramente ma , con un aggettivo che gli piacque , sempre in modo « decente » anche se il suo guardaroba fu spesso composto solamente di abiti smessi dai suoi amici , nascondeva con un fiero pudore una sua menomazione fisica : aveva un braccio rinsecchito e quasi paralizzato da un attacco di poliomielite che da fanciullo l ' aveva portato vicino alla morte . Questo problema fisico aveva forse influito su certe asprezze del suo carattere e acuito in lui un senso di difesa che poteva essere affidato solamente alla parola , e alla polemica talvolta bruciante . Parlava con una bella voce lievemente velata , talvolta come trasognato , talvolta irridente e tagliente : per l ' eleganza della parola e per la lucidità della sua polemica , lo chiamavano scherzosamente « l ' incantatore di serpenti » . I suoi primi amici letterari - al tempo della giovinezza dei poco più che ventenni Antonio Baldini e Umberto Fracchia e degli incontri con Emilio Cecchi e con Armando Spadini - furono conquistati , forse più che dai suoi rarissimi scritti , dal misterioso incantesimo della sua parola . È probabile - nella sua camera ammobiliata aveva ben pochi libri , gettati alla rinfusa in un cassetto del comò con la sua scarsa biancheria - che la sua cultura di autodidatta fosse racchiusa nella lettura di poche opere , che lo fecero vivere nel clima di Nietzsche e soprattutto in quello di Leopardi : quando fondò « La Ronda » , lo indicò come il maggiore fra quelli che la rivista , indicando i maestri dell ' alto stile italiano , chiamava i « convitati di pietra » . Cultura non molto diffusa , in una intelligenza però assai profonda . Gran parte di lui si esauriva nei suoi colloqui con gli amici , e soprattutto in quella specie di lungo monologo che fu la sua vita . Le sue prime prose - le pagine liriche che intitolò poi I Prologhi - apparvero poco prima della Grande Guerra nella rivista « Lirica » , in cui debuttarono con lui giovani scrittori come Antonio Baldíni , Fracchia , Rosso di San Secondo . La rivista doveva durare pochi numeri : il conflitto portò alla sua sospensione . Cardarelli rimase quasi del tutto solo a Roma , nel caffè Aragno reso deserto dalla mobilitazione . Il dannunzianesimo letterario decadeva nell ' interesse dei giovani , il Futurismo non aveva avuto una particolare risonanza romana . Cardarelli era rimasto appartato nei confronti dei movimenti di « Lacerba » e della « Voce » . Scrittore lentissimo , componeva le poesie che più tardi sarebbero state riunite in sottili volumi e finalmente raccolte tutte da Mondadori . La salute sempre malferma , qualche vicissitudine d ' amore - nel piccolo mondo delle Lettere certe sue giovanili passioni rimasero , per così dire , storiche - l ' inquietudine di uno spirito inappagabile lo portarono a viaggiare verso climi più propizi di quello degli inverni romani , a Venezia e in Riviera . Tentò anche un soggiorno milanese : ma la nostalgia di A ragno gli fece ben presto riprendere il treno . Egli era , in verità , assai simile all ' enfant malade apparentemente cinico e crudele , sostanzialmente melanconico , caro a certi romanzieri crepuscolari francesi . L ' uomo era affascinante ; per lui il mecenatismo nasceva spontaneo anche e soprattutto da parte di gente non ricca . Cardarelli ebbe sempre amici segretamente pronti , e affettuosi , anche se il suo carattere era assai difficile . Appartenendo alla razza dei déracinés o dei poètes maudits , si comprendeva che la sua apparente infingardaggine derivava da latenti stati di depressioni melanconiche . Le donne che lo amarono lo considerarono appartenente alla razza degli « angeli caduti » , lievemente demoniaci . Diventava vanitoso come un fanciullo , quando una famosa diva del « muto » lo mandava a prendere con una carrozza padronale a due cavalli per conversare con lui di letteratura nelle poltrone di un albergo romano a via Veneto . Poi capitava di vederlo silenzioso e assorto quando , al crepuscolo o alla notte , percorreva il lungotevere per soffermarsi a tentar di declamare a qualche venere vagante il Canto del pastore di Leopardi , con una aspirazione tolstoiana di redenzione attraverso alla poesia . Per qualche tempo , fu critico drammatico del « Tempo » , chiamato da Giovanni Papini che al giornale di Filippo Naldi aveva voluto Bruno Barilli e Ardengo Soffici . La rapida scrittura notturna , mentre la tipografia attendeva impaziente le cartelle , gli riusciva penosa : presto interruppe quel lavoro , dopo aver però scritto alcuni saggi assai acuti su Shakespeare , Ibsen , Shaw e sul primo Pirandello . La fine della guerra gli restituì i suoi amici . Il conte Aurelio Saffi , nipote del « quadrumviro » della repubblica romana , si fece finanziatore di una rivista che si intitolò « La Ronda » . La rivista aveva un ufficio vicino all ' Altare della Patria : Cardarelli ebbe finalmente una poltrona , una scrivania , uno stipendio . Da Bologna arrivava Riccardo Bacchelli , da Verona Lorenzo Montano : Baldini giungeva in tram da via dei Serpenti , Emilio Cecchi da corso Italia , Bruno Barilli dal parco di Villa Strolfen , Armando Spadini dalla villetta sul colle dei Parioli ancora non conquistato dal pubblico dei « quartieri alti » . « La Ronda » ebbe un ' importanza formativa per le generazioni che seguivano quella « vociana » ; Bacchellí scriveva le tragedie di Spartaco e di Amleto o saggi di politica liberale . Barilli vi pubblicava le sue prose barocche che dovevano influire persino sulla pittura di Scipione . Comparvero sulla « Ronda » i primi scritti di Savinio . Cardarelli vi esercitava la sua predicazione leopardiana e , cercando di frenare i suoi umori polemici verso gli amici , visse comunque la sua stagione letterariamente più intensa . I giovani lo guardavano come un caposcuola . Fu il tempo più felice della sua non felice esistenza . Il giovane Malaparte sospirava per sedere al suo tavolo . Il ragazzo Longanesi lo ascoltava in silenzio . Cardarelli diventava persino gioviale : con gli amici , si concedeva qualche cenetta nelle osterie fuori porta e davanti ad un piatto di fave e pecorino parlava dei pastori del suo paese . Sono di quel tempo le sue prose più belle , quelle che probabilmente meglio affideranno il suo nome alla storia letteraria del Novecento : contenute in un primo tempo in un piccolo quaderno della Terza pagina con il titolo di Terra genitrice e riprese poi quasi integralmente in un volume edito dal giovane Leo Longanesi con il nuovo titolo de Il sole a picco ; prose dedicate alle memorie , quasi favolose , del paese della sua infanzia , evocazioni di quelle terre dove aveva sostato qualche anno prima , ignoto viaggiatore , lo scrittore inglese D.H. Lawrence . Cardarelli aveva trentasette anni : con quel volumetto longanesiano ebbe l ' affettuoso alloro del premio Bagutta di cui Cardarelli attese nervosamente il piccolo vaglia a Roma . A Milano le edizioni di Bottega di Poesia stamparono i suoi « Canti » , uno dei quali cominciava : « Domani ho quarant 'anni...» . « La Ronda » morì presto . Cardarelli fece un breve viaggio in Russia e tentò di nuovo il giornalismo che tanto lo affaticava . Era evidente che a soli quarant ' anni le scarse forze della sua gioventù andavano già spegnendosi . Preso nel cerchio di una inquietudine amara , la sola forza che gli restava era quella della sua malinconica eloquenza , delle sue ire improvvise . Più che scrivere pagine nuove , andava ripubblicando quelle vecchie , che pur non erano molte . Andava stentatamente d ' accordo con i vecchi amici , nessuno dei quali però lo abbandonò . Segretamente aveva paura della povertà , ora che una precoce vecchiaia andava avvicinandosi . Aspettò la nomina ad Accademico d ' Italia , e non l ' ebbe . Viveva in un « letto di famiglia » in casa di un cameriere di Aragno . La vita gli si mostrò sempre più squallida . La guerra del '40 aprì nel suo cuore di malato alti sgomenti . Roma stessa non assomigliava più a quella della sua giovinezza . Ogni tanto i compaesani lo volevano con loro a Tarquinia per celebrare in lui quello che ormai era considerato l ' ultimo poeta della Etruria . Sotto ad una apparente albagia , ammalato , incapace ormai d ' ogni lavoro , il dopoguerra lo vide trasferito in una pensione di via Veneto , per cercare un po ' di sole sul marciapiede di destra che sembra la « Riviera di Roma » . Per qualche tempo , riuscì ad attraversare la strada per raggiungere i banchi della Libreria Rossetti dove aveva gli ultimi contatti con la letteratura vecchia e giovane . Riceveva un piccolo stipendio per dare il suo nome di direttore alla « Fiera letteraria » . Da Milano gli erano arrivati aiuti affettuosi . Non ancora del tutto vecchio , Cardarelli viveva nel timore della povertà assoluta se la vecchiaia si fosse prolungata e se la memoria della sua breve stagione di poesia si fosse spenta . Accettava umilmente anche doni segreti di vestiario , di biancheria , di maglie , di scialli . La sua malattia , che lo portava lentamente all ' immobilità , gli gelava le vene . In piena estate , con tre cappotti addosso , durante lo scirocco romano , Cardarelli aveva freddo come in Siberia . Quando , in un torrido settembre partenopeo , ricevette , assieme a Dino Buzzati , il Premio Napoli , volle in albergo una stufa elettrica e dormì senza levarsi da dosso i pastrani per non morire , diceva , assiderato . Due amici lo portarono in braccio su per le scale e attraverso i saloni del Palazzo Reale per la consegna del Premio . La voce gli si era fatta fioca ma aveva ancora qualche soffocato accento di disagio e di polemica se non addirittura d ' ira caparbia . A sentire che non poteva più reggersi in piedi , gli occhi alteri si riempivano di malfrenate lagrime . Bisogna dire che la morte ha avuto alla fine pietà di lui , per lasciare a noi che lo ascoltammo , che lo leggemmo , che lo amammo , il puro acquetato e limpido ricordo della sua anima di poeta , lampeggiante nel mesto profilo di un ' esistenza amara e melanconica come di chi avesse troppo a lungo respirato l ' aura mortale delle tombe trimillenarie delle genti etrusche .
Primo Carnera ( Vergani Orio , 1959 )
StampaQuotidiana ,
Carnera debutta a Milano nelle giostre ammaestrate della lotta libera , del catch . Mi dicono che abbia nuovamente fortuna . L ' ho conosciuto molti anni fa , a Barcellona , ed è probabile , è anzi sicuro , che egli non si ricordi affatto di me . Eppure , appunto perché egli mi fece tornare fanciullo , fui il suo profeta . Attorno a lui i grandi saggi , i grandi sapienti della scienza sportiva segretamente sghignazzavano . Essi lo avevano già visto a Milano , in una esibizione di pugilato al Palazzo dello Sport , lo avevano inquadrato dal basso in alto , arcuando scetticamente un sopracciglio , lo avevano scientificamente « soppesato » . Avevano guardato le vene varicose delle sue gambe affaticate per sostenere quella sua mole torreggiante : avevano detto che il suo pugno era lento come un « merci » ; gli negavano ogni intelligenza e ogni spirito combattivo . Davanti alle loro definizioni - « colosso dai piedi d ' argilla » , o , più popolarescamente , « sacco di patate » - io tremavo , prendendo il treno che , sul finire del novembre 1930 , mi portava in Spagna per assistere al suo incontro con Paolino Uzcudum . Avevo visto al lavoro , quattro o cinque anni prima , il « toro di Bilbao » . Contro l ' ex spaccalegna che aveva il torace ampio , quadrato , solido come una cassaforte cosa avrebbe fatto quel marmittone di gigantesco emigrato friulano ? Primo Camera , da ragazzino , aveva frequentato le scuole dei mosaicisti di Sequals , dove l ' arte delle « tessere » è tramandata , dicono , sin dai tempi di Aquileia . Mosaicista contro Spaccalegna . Chi avrebbe vinto ? Segretamente puntai sul Mosaicista . Emilio Colombo , mattatore bonariamente roboante del giornalismo sportivo , lo indovinò : e mi guardava con sorridente , amichevole pietà . Condannato io pure alla vecchia legge che impone al cronista sportivo il pronostico , dopo aver visto Carnera , dopo aver parlato con Carnera , scrissi : « Il Mosaicista batterà il Legnaiolo » . A Carnera chiesi : « Come va ? » . Mi rispose : «Così...» . Eravamo nella stanza di un albergo sulle Ramblas di Barcellona . Camera era disteso sul letto e un cinese lo massaggiava . Seduto vicino al letto stava il suo manager , il giornalista che lo aveva scoperto due o tre anni prima in un baraccone di lottatori da fiera . Il giornalista era un ometto piccolo che pesava cinquantacinque chili contro í centoventi del suo pupillo , e che aveva un accenno di baffi alla Menjou . Vigilava sul massaggio e vigilava , mi sembrò , anche sulle risposte del gigante , che , prima di parlare , lo guardava intimidito come fa un grande cane con il suo piccolo padrone . Sull ' attaccapanni era appesa la giacca di Carnera : vasta come un paltò . Di sotto il letto , spuntavano le famosissime scarpe del gigante , che per qualche tempo furono celebri come le scarpe di Charlot . I vetri erano socchiusi : l ' estate torrida . Il nudo colosso era depilato scrupolosamente : la mano untuosa del cinese correva sul torace , sul ventre , sulle cosce , sulle reni . La stanza era piccola : sembrava che i piedi del gigante la occupassero tutta . Sapevo la sua storia ed era inutile me la facessi ripetere . Al paese , un pane scarsissimo , come in tante case delle Prealpi friulane . A dodici anni , un biglietto di terza classe , l ' indirizzo di un cugino in un villaggio delle Lande francesi . Il colossale ragazzo friulano aveva ripercorso la strada che vent ' anni prima era stata familiare a Gabriele D ' Annunzio quando cantava press ' a poco così : « Ascolto il grido della procellaria / nel vento della Landa solitaria ... » . Ma il grido delle procellarie non interessava il ragazzo : egli non udiva altro che il grido , molto più insistente , dell ' appetito . Mosaicista , legnaiolo , manovale , muratore : nessun mestiere gli dava abbastanza da sfamarsi . Alla meglio , masticò qualche lenta parola di francese , con una voce cupa e gutturale . Aveva ossa colossali da uomo delle caverne : ma rivestite di poca carne . Il padrone di un baraccone disse . « A forza di zappa , lo farò ingrassare e ne farò un numero che sbalordirà tutti i villaggi delle Lande e della Guascogna » . Così , fiutando come un cane randagio un calderone di minestra , il ragazzo , vagabondo da un cantiere all ' altro , trova la sua strada che lo porta alle tende delle baracche e dei circhi . Alla sera , nelle luci dell ' acetilene , sta in fila con gli altri lottatori sulla pedana della baracca . soia a stando di due palmi tutti i compagni . In pochi mesi tocca i centotrenta chili e supera di parecchio i due metri di statura . Un futuro corazziere ? No . Non potrebbe farlo perché ha i piedi appiattiti dal peso che su essi sovrasta . A vedere quei torace , là , sul letto d ' albergo di Barcellona , non si poteva far a meno di dire : « Questo è certamente l ' uomo più forte del mondo » . Il Padreterno s ' era tolto il capriccio di fare venire al mondo una statua . Dalla cintola in su , Carnera era un capolavoro della creazione . Quel « sacco di patate » era degno di Fidia , di Giove , dei Ciclopi . Si deve a quel torace se il mondo ha avuto il « romanzo Carnera » , la sua strana storia di Tarzan tante volte gabbato dai piccoli uomini furbi , colossale e - dicevano i saggi - incapace di cattiveria , ibrido di semidio e di disgraziato , imbarcato sull ' altalena della vita che , una volta , lo portava verso la ricchezza e , un ' altra volta , giù nella miseria , costretto sempre a risalire faticosamente . Vinse a Barcellona . Rivinse Per lui , si mosse anche Mussolini . L ' Italia ebbe in questo emigrante friulano dalla voce gutturale e dal mento « senza grinta » , senza volontà in un tempo di « mascelle volitive » il suo unico campione del mondo . Poi , il ko , í lestofanti che lo abbandonano dopo aver fatto volatilizzare i suoi guadagni , persino un periodo di immobilità per una paralisi , e il lento , affranto risollevarsi e di nuovo la povertà del vagabondo che vende per le strade , davanti a un tavolino pieghevole , bustine di lamette da barba . Adesso , con il catch ammaestrato , pare abbia fatto nuovamente fortuna .
Gino Cervi ( Vergani Orio , 1959 )
StampaQuotidiana ,
Racconta un vecchio collega bolognese : « Me lo ricordo , come fosse adesso . Antonio Cervi era un uomo buono , cordiale , sempre di buon umore . Una vera eccezione , vederlo preoccupato . Per questo non mi sono passati di mente i giorni dell ' ultima settimana dell ' aprile del 1901 . Non si poteva dire che Antonio Cervi fosse di malumore , ma certamente non era il solito Cervi . Finalmente si sfogò con me . " Sto aspettando , di giorno in giorno , che mi nasca un bambino . Ora , maschio o femmina che sia , non vorrei che mi combinasse lo scherzo di nascere la sera di una ' prima ' ' . Lo so che è difficile farglielo capire , ma bisognerebbe che lo sapesse subito . Se uno è figlio di un critico drammatico , non si nasce mai la sera di una ' prima ' " » . Antonio Cervi - il suo pseudonimo era quello , un po ' misterioso , di Gace , che , secondo quanto ricorda il figlio Gino , ma che ignorano i dizionari , dovrebbe essere un personaggio della Mitologia - era critico drammatico del « Resto del Carlino » . Il piccolo Gino « obbedì » . Il 3 maggio del 1901 non c ' era nessuna « prima » né al Teatro Brunetti , né al Corso , ne al Contavalli , né al Nazionale che aveva proprio in quel tempo lasciato l ' antico bizzarro nome di Teatro della Nosadella , né all ' Arena del Sole . Antonio Cervi poté dunque restare a casa e ricevere dalla levatrice l ' annuncio : « È un bel maschio ! » . Gino Cervi è dunque l ' unico attore che sia figlio di un critico drammatico . Suo padre lo fu per trentaquattro anni , dal 1889 al 1923 . Rincasava nel pieno della notte , alle tre e alle quattro del mattino . Entrava in punta di piedi per non svegliare i bambini . Stava ancora un po ' sveglio , per leggere il giornale di cui aveva portato a casa una delle prime copie fresche di inchiostro . Alla mattina , erano i bambini , che per andare a scuola , dovevano uscire in punta di piedi . A mezzogiorno , all ' ora dei tortellini , il papà parlava di quanto aveva sentito a teatro la sera avanti : esprimeva certe opinioni che nel giornale erano state attenuate o velate . Per non rovinare le Compagnie , i critici dei giornali importanti non potevano divertirsi al gioco del massacro , mordendo e sbriciolando a destra e a sinistra . Anche allora si diceva che il teatro era « in crisi » . Le Compagnie primarie erano una quarantina , sempre con non meno di una trentina di attori scritturati ; quelle secondarie un ' ottantina e un centinaio quelle di terz ' ordine . L ' Italia aveva una popolazione viaggiante di 45 mila attori e attrici . Bologna era la loro segreta capitale , come si dice che Gonzaga , presso Mantova , sia quella degli zingari . Gino respirò sempre teatro . Subito dopo le aste - in quell ' anno fu portato in braccio a vedere i funerali di Carducci - imparò a leggere sulle colonne del « Resto del Carlino » , per la curiosità di sapere che cosa scrivesse suo padre . Imparò il significato di certe frasi : « reiterati applausi , recitazione incisiva , palesi segni di dissenso , bene gli altri » . Imparò presto alcuni nomi assai difficili : Shakespeare , Marivaux , Bjørnstjerne Bjørnson , Portoriche . Sognava i teatri come regge misteriose , con i palchetti dorati , con le poltrone di velluto rosso . In casa erano familiari i nomi di Panzacchi , di Lipparini , di Olindo Guerrini , di Testoni sulle cui ginocchia il piccolo Gino aveva ballato . Accompagnando il padre a spasso , Gino - polpacci nudi , giubba alla marinara col fischietto nel nodo della cravatta - entrava nella libreria di Zanichelli . Ogni tanto Antonio si fermava a parlare con un grosso uomo dall ' aspetto di timido campagnolo vestito di nero . Era Giovanni Pascoli . Di Carducci si parlava come di un Nume scomparso fra le nuvole ma sempre misteriosamente presente . Antonio Cervi , al cui cuore cordiale era stata sempre cara la parte del paciere , era riuscito a riconciliare Carducci con D ' Annunzio - non c ' erano mai stati veri attriti , ma certe diffidenze sì - nel famoso banchetto in cui , avendo Carducci offerto il vino a D ' Annunzio , questi aveva detto : « Grazie ... Non bevo mai ... » il Leone di Maremma aveva risposto un po ' bruscamente : « Io , sempre ! » . Bologna , era amica del teatro fin dal Seicento , quando ogni famiglia patrizia aveva un suo piccolo palcoscenico , in casa Zoppio , in casa Pepoli , in casa Casali , all ' accademia degli Ardenti o dei Riaccesi . Nel Settecento , c ' era stato un teatro persino nel Palazzo del Podestà . I patrizi avevano le loro sale da spettacolo anche nelle ville sui colli . Per quella privata della famiglia Albergati , che ospitava durante l ' estate tutto il patriziato bolognese , Goldoni scrisse cinque commedie , fra le quali Il cavaliere di spirito e l ' Osteria della Posta . Perché gli attori volevano bene a Bologna ? C ' erano camere , alloggi , locande a poco prezzo . Le padrone di casa erano cordiali , socievoli , aspettavano molto pazientemente l ' affitto , magari da un anno all ' altro . Le porzioni di fettuccine erano abbondantissime . La popolazione amava passeggiare fino a notte tarda , certi caffè erano aperti fino all ' alba . Alla legione degli attori , delle attrici , dei generici e delle attricette si aggiungevano gli innumerevoli filodrammatici . Ogni tanto questi ultimi organizzavano tournées nei centri anche più minuscoli della provincia , sino al Po e fino in Romagna , e rinforzavano il loro complesso chiamando a parteciparvi qualche attore di più larga esperienza . Anche Gino , mentre studiava greco al liceo - suo padre era stato inflessibile per il greco e per il latino - bazzicava la filodrammatica del Circolo degli impiegati civili . Fu l ' Arena del Sole il primo teatro dove , bambino , una domenica Gino Cervi debuttò come spettatore : uscendo , vide al caffè quel grande e melanconico vecchio attore , oscillante fra il genio e la follia , che fu Enrico Capelli : in gioventù Amleto quasi impareggiabile , e , in vecchiaia , ridotto a tale povertà e trasandatezza da tingersi i capelli con qualche spazzolata di lucido da scarpe . All ' Arena del Sole si assisteva agli spettacoli in maniche di camicia . Se una commedia non piaceva , i cuscini volavano dalle gradinate fino alla ribalta . Negli intervalli gli spettatori si passavano il fiasco di Sangiovese , la bottiglia di lambrusco , bevendo a canna . Fu in quel teatro che il « figlio del critico » , entrato con la tessera del padre , vide da ragazzo Zacconi e Ruggeri , come aveva visto nel 1914 , dal loggione del Brunetti , Sarah Bernhardt che recitava ancora ad onta di una gamba amputata . Studente universitario , Cervi avrebbe forse fatto l ' avvocato o sarebbe entrato un giorno o l ' altro al « Resto del Carlino » se la morte del padre nel 1923 non lo avesse lasciato libero di decidere del suo destino . Fu un altro attore bolognese che veniva lui pure dai filodrammatici , Nerio Bernardi - il cui vero nome era quello antico e dottorale di Irnerio - a dirgli , come si fa con chi deve imparare a nuotare : « Buttati ! » . E fu così che , seguendo quel consiglio , lo scolaro , cui Lipparini aveva fatto tante volte declamare al liceo l ' Ode al Clitumno e il Canto di un pastore errante , diventò attore , debuttando nella Vergine folle di Bataille , accanto ad Alda Borelli . Un anno dopo era a Roma , cercava sulla guida dove si trovasse una ignota via dove si stava aprendo un nuovo piccolo teatro , il primo dei futuri « Piccoli Teatri » d ' Italia . Trovò là dentro un gruppo di suoi coetanei che , già prima di iniziare gli spettacoli , si dibattevano in un labirinto di debiti : ma a capo di quei ragazzi c ' era un signore con la barbetta già quasi bianca che Cervi aveva già visto , una volta , come autore , alla ribalta dell ' Arena del Sole . Il vecchio signore era Luigi Pirandello . Quella attraverso la quale , in vicolo Odescalchi , entrava il giovane figlio del critico bolognese poteva sembrare una porta assai piccola . Cervi , figlio di un uomo che tanto intelligentemente aveva amato e servito il teatro , si accorse che era la porta grande di una intelligenza rinnovatrice .
Maurice Chevalier ( Vergani Orio , 1950 )
StampaQuotidiana ,
Ad un certo momento del suo « concerto » , si rivolge al pubblico e dice : « Non bisogna stupirsi se un uomo con i capelli grigi canta una canzone in onore della mamma ... » . Maurice Chevalier ha sessantadue anni , sua madre deve vivere da un pezzo nella pace del Signore , la buona donna di Menilmontant che aveva messo al mondo dieci figli di cui , quando nacque Maurice , tre soli erano vivi . La ribalta è tutta ornata di rose , di garofani , di violette . Sulla sagoma nera del grande pianoforte a coda spicca , posata lì dopo la prima canzone , l ' ormai storica paglietta dello chansonnier . Gli applausi sono fitti , molte le richieste di bis , molti i saluti ai refrains già noti e ritrovati come vecchi amici . Ma a me più di tutto , mentre Chevalier canta la Prière in onore della mamma , piace ricordare proprio la singolare infanzia di questo ultimo « birichino di Parigi » , degno di entrare in un romanzo di Louis - Henri Boussenard forse più che in uno dei foschi « documentari » di Zola . Straordinaria vita , un po ' dickensiana , quella del ragazzetto di Menilmontant che , finite le scuole elementari , è messo a faccia a faccia con la vita , fra gli ospedali dove viene ricoverata sua madre e gli artigiani dai quali dovrebbe apprendere un mestiere che una volta è quello dell ' elettricista , una volta quello del pittore di bambole e , infine , quello di operaio specializzato a fabbricare puntine da disegno . La madre la chiamavano la Louque e s ' era ridotta anche ad andare a servizio ad ore , nelle case dei vicini : i ragazzi cercavano di guadagnare qualcosa . Maurice pensò , con il fratello , di diventare acrobata , finché a dodici anni imparò a memoria qualche canzone . Storia forse non nuova , simile , probabilmente , a quella di tanti altri artisti , a cominciare , per dirne una , da quella del nostro Petrolini , garzone macellaio della romana piazza Guglielmo Pepe ; ma straordinaria sempre quando si stabilisca il rapporto tra il punto di partenza e il punto di arrivo , una conquista del pubblico che dura ormai da quasi mezzo secolo . Maurice ha i capelli grigi e quasi addirittura argentei ed è ancora la vedette numero uno del music - hall internazionale , in quella singolare costellazione del teatro minore dove la musica non è musica e dove l ' attore non è attore ma dove , talvolta , si va più in là del bel canto e della bella recitazione . Il suo stile è fatto di schiettezza , di franchezza , di disinvoltura . Chevalier è la negazione dell ' Uomo Fatale , del Bellissimo , dell ' Adone 1900 . Se si volesse trovargli un ' assomiglianza , egli si potrebbe identificare con quel tipo «1910» che sorprese la nostra infanzia dagli avvisi pubblicitari dei primi rasoi di sicurezza , quell ' antico giovanotto che si radeva allegramente davanti ad una finestra aperta e che suscitava l ' ammirazione di noi ragazzi , figli di una generazione che usava ancora , per quanto di nascosto , il piegabaffi e una pomata ungherese per appuntirli e profumarli . La sua carnagione ha il colorito sanguigno dei gaulois autentici : quello di Lucien Dietrich e del suo amico Dédé Leducq , maglia gialla del Tour 1931 . È francese ma non assomiglia a Menjou ; non ha nulla di untuoso , di gommoso , di cerimonioso : potrebbe esser tutto ( magari Fantomas ) , ma mai un cameriere o un danseur mondano cui mettere una mancia in mano . La sua vena guascone è sottilissima , il boulevard non lo ha corrotto . Chevalier si è presentato per la prima volta al pubblico a dodici anni , esattamente nel 1900 , con in testa un berrettuccio da ciclista , monello di periferia . Era un figlio del popolo , un ragazzo della strada , di una delle sperdute avenuer dove nasceva la Parigi industriale . Erano i tempi in cui Parigi era la regina del teatro , i tempi della Réjane , della Lavallière , di Guitry . Tristan Bernard aveva la barba nera , Alfred Capus il monocolo con il nastro di seta e Abel Hermant non aveva ancora scritto I Transatlantici . Erano i tempi della piena gloria degli chansonniers Mayol e Bruant : nelle boites di Montmartre si ricordavano ancora gli anni in , cui le parole per le canzonette venivano scritte da Maurice Donnay , l ' autore degli Amanti . Chevalier debutta con il secolo , con quel 1900 che oggi fa sorridere con il ricordo della sua Esposizione Universale . Mezzo secolo di vita teatrale è passato davanti agli occhi e al sorriso dell ' antico monello di Parigi , ultima incarnazione di Gavroche . Nel suo bagaglio di canzoni , stanno i canti vissuti fra due guerre , resistendo al jazz e opponendo le ruote dei mulini a vento di Montmartre alle sagome dei grattacieli americani . Queste canzoni parlano quasi tutte d ' amore come le novelle di Maupassant : per questo non invecchiano e non fanno invecchiare Maurice .
Gabriele D'Annunzio ( Vergani Orio , 1948 )
StampaQuotidiana ,
Il poeta è morto la sera del primo marzo del 1938 , alle 19.55 . Da un paio di giorni non si sentiva bene , ma non voleva riconoscerlo . Aveva settantacinque anni . L ' uomo aveva goduto di una salute di ferro , piccolo , magro , muscoloso , alieno dal vino e dal fumo . Una sola volta aveva provato a fumare , ad Arcachon , e si era sentito male . Ai liquori dava nomi pittoreschi ma non li beveva . Mangiava poco , aveva sempre mangiato poco . La sua tavola da pranzo , al Vittoriale , nel lato dell ' edificio costruito da Gian Carlo Maroni , ha una apparenza fastosissima , con una tovaglia lumeggiata d ' oro e coperta da infiniti ninnoli preziosi . Questa tavola non vide quasi mai il poeta a pranzo o a cena . I suoi digiuni non nascevano da un particolare ascetismo , ma dalla volontà di tenere il cervello sgombro , di non rendere opaca l ' intelligenza con le fatiche della digestione , che avevano , diceva , fatto appisolare persino gli Apostoli . Mangiava spesso nello studio dell ' ultimo piano , dove si chiudeva alle volte per intere settimane . Una cameriera , chiamata a seconda degli umori con il nome di « fante » o di « suora » , gli passava attraverso la porta un vassoietto e tornava di lì a poco a prenderlo , sempre attraverso lo spiraglio . Capitava spesso che non ci fosse nulla per l ' ospite arrivato all ' improvviso . Era dunque un uomo sano e ancora robusto per la sua età . Quando venne a Milano per correggere le bozze delle Faville , volle provarsi nella lotta greco - romana con un giovane giornalista che era andato a visitarlo . Il giovanotto sentì , sotto le sue mani , muscoli ancora pronti e forti . Molte chiacchiere erano state fatte su malattie di cui avrebbe dovuto soffrire . I suoi medici di Salò che lo sottoposero in varie occasioni ad analisi e radioscopie potevano testimoniare il contrario . Le sue radiografie e la sua cartella clinica esistono ancora , e certificano che il sangue era perfetto , il cuore perfetto , i polmoni perfetti . Era malato , se mai , del male della clausura : era il male della melanconia di un uomo che aveva trasformato in abitudine l ' antica volontà di isolarsi dal mondo per lavorare . Anche negli ultimi anni , quando il suo lavoro cessò di essere creativo , egli passava infinite ore allo scrittoio , in una atmosfera irrespirabile . Le sue stanze , d ' inverno , erano sempre riscaldate a trenta gradi , prima con grandi stufe di terracotta e infine con termosifoni , che si spegnevano solamente in maggio . Passava talvolta intere settimane e mesi senza uscire dalle sue stanze , dove nascondeva le sue irritazioni e le sue melanconie . Era triste anche di sentirsi invecchiare e di dover confessare , come aveva fatto in una nota del Notturno nel 1921 , che i suoi pensieri , come quelli di Michelangelo , erano tutti carichi di morte . Mentre in gioventù non aveva mai usato , per lavorare , altro eccitante che il digiuno , anche di caffè non aveva mai abusato , invecchiando non seppe evitare qualche eccitante che mani malevole gli porgevano . Un paio di anni prima di morire poté disintossicarsi del tutto . Fu più alacre e persino più lieto . Le visite si erano fatte ormai rare . D ' Annunzio non aveva voglia di farsi vedere invecchiato . Anche i suoi messaggi erano meno frequenti . Il telegrafo di Gardone lavorava sempre meno , il cannone della nave Puglia tuonava di rado e il mas di Buccari restava placidamente ancorato nella sua darsena . Leggere gli costava molta fatica , e si temeva anche che l ' unico occhio superstite si indebolisse definitivamente . D ' Annunzio era stato sempre un uomo di grande coraggio . Di una sola persona aveva paura : del dentista . Si può dire senza offendere la sua memoria , poiché non si parla dell ' adolescente bellissimo negli anni di Isaotta Guttadauro ma del vecchio settantacinquenne chiuso nella silenziosa villa di Gardone , che il mal di denti era stato uno dei fastidi maggiori della vecchiaia di D ' Annunzio . Un dentista di Salò era riuscito a preparare il calco per un apparecchio che gli avrebbe consentito di mangiare senza fatica - il poeta non mangiava mai alla presenza di ospiti perché non voleva mostrare come gli fosse faticoso masticare - ma l ' apparecchio non fu mai fatto perché D ' Annunzio dichiarò alla fine che non si sarebbe mai adattato a portarlo . La morte venne dunque improvvisa , preceduta solo da qualche lieve malessere al quale D ' Annunzio non volle dare importanza . Gian Carlo Maroni , l ' architetto del Vittoriale , aveva insistito inutilmente perché l ' amico si facesse visitare da un medico . D ' Annunzio aveva risposto chiudendosi in studio . Maroni , quelle notti , che furono le ultime di una convivenza e di una amicizia durata diciassette anni , le passava nella poltrona di una stanza adiacente alla camera da letto dove D ' Annunzio era agitato dall ' insonnia . Una cameriera era incaricata di vigilare durante il giorno , non vista , su quello che il poeta faceva . D ' Annunzio passò le ultime ore del pomeriggio del primo marzo nel grande studio al primo piano , quello del mappamondo , con le pareti coperte di libri fino al soffitto . Le finestre , al solito , erano oscurate . In quelle stanze si viveva sempre alla luce artificiale . Verso le sette , il poeta passò nello studiolo che precede la camera da letto . È una piccola stanza con grandi antichi armadi usati anche come guardaroba personale . C ' è un piccolo tavolo dove spesso D ' Annunzio si soffermava per qualche lavoro . Su quel tavolo c ' erano e ci sono ancora dei vasi pieni di penne , di matite e scatolette che contengono i sigilli di carta dorata a rilievo con i quali chiudeva le lettere . Nel cassetto di un armadietto sono ancora i rotoli dei nastri con i colori di Fiume , azzurri e rossi , che il poeta usava per i pacchi dei doni che amava fare agli ospiti . Non mancavano la carta assorbente e il calamaio . Al Vittoriale non era mai entrata , almeno per l ' uso personale del poeta , una macchina da scrivere . D ' Annunzio la odiava così come odiava il telefono . Una volta aveva dichiarato che considerava un ' ingiuria il consiglio di usare il dictaphon . Era contrario ad ogni forma di trascrizione meccanica della voce e non aveva quasi mai acconsentito che il cinema sonoro registrasse la sua parola . D ' Annunzio sedette al tavolo . Forse di lì a poco avrebbe chiamato la « fante » per farsi portare da mangiare . La « fante » , che lo « spiava » da una delle camere vicine lo vide con il braccio appoggiato al tavolino , in un atteggiamento che non dava adito ad alcuna preoccupazione . Su quel tavolino c ' era e c ' è ancora il vecchio lunario del Barbanera che D ' Annunzio , per il suo amore delle vecchie tradizioni abruzzesi , aveva voluto che , come ogni anno , fosse comprato all ' inizio del 1938 . Al primo marzo il lunario annunciava la morte di un grande uomo . Mancavano dieci minuti alle otto , quando la cameriera si sentì chiamare , D ' Annunzio voleva un bicchiere d ' acqua . Gli fu portato . Non disse nulla e bevve . La donna si accorse di qualcosa d ' insolito nell ' aspetto del « padrone » , come il senso di una grave fatica . Il respiro era basso e affannoso , Maroni accorse . Il poeta aveva reclinato la testa sul tavolo e stava per cadere dalla sedia . Fu sostenuto e portato sul letto della camera accanto . Maroni stesso gli fece immediatamente due iniezioni di olio canforato . Ma il cuore del poeta che aveva dato voce ad Aligi era già spento , senza dolore . Pochi minuti dopo l ' arciprete della chiesa di San Nicolò , don Fava , entrava al Vittoriale per dare l ' assoluzione alla spoglia del poeta . D ' Annunzio si era molte volte lamentato in vita che le campane della chiesa , a Gardone , suonavano troppo a lungo e aveva cercato di frenare gli scampanii con elemosine per i poveri . Alle otto in punto , il vecchio campanaro Valentino cominciò a suonare a morto .
Maria D'Annunzio ( Vergani Orio , 1954 )
StampaQuotidiana ,
Era di quasi un anno o forse di due superiore per età al suo futuro marito , la duchessina Maria di Gallese , quando conobbe Gabriele d ' Annunzio , che allora , in fatto di titoli araldici , aveva solamente quello del tutto immaginario di Duca Minimo con il quale firmava le note di cronaca mondana sulla appena nata « Tribuna » di Roma . La fama aveva già accarezzato la fronte , ancora aureolata di riccioli biondi , dell ' autore delle Novelle della Pescara e di Primo Vere , che distribuiva uno per uno i ricordi dei suoi giovanili amori romani , in parte veri e in parte immaginari , nei versi morbidissimi e qua e là lussuosamente torbidi di Isaotta Guttadauro . Gabriele era allora , soprattutto , poeta d ' amore , teso a spiare le veneri agresti d ' Abruzzo e quelle , vestite di raso e velluto , delle alcove eleganti di Roma . Piccolo di statura , ma bello nel volto , ornatissimo nella parola , e indicato già , nell ' età in cui gli altri giovani si affannano sui banchi dell ' università , come il poeta destinato a raccogliere lo scettro della poesia in Italia , i parenti di Maria di Gallese furono certamente imprudenti a sceglierlo per dare qualche lezione di letteratura italiana alla giovane e bellissima duchessina di cui si voleva completare l ' educazione . In pochi giorni , alternando la lettura dei classici del Trecento e del Cinquecento con qualche passeggiata fra le antichità di Roma , o alla quercia del Tasso o alla tomba di Cecilia Metella - si sa che le « passeggiate » sono state uno dei migliori punti di partenza per la poesia di D ' Annunzio - i due si trovarono romanticissimamente innamorati . Come in un romanzo , la giovane patrizia si era innamorata di un giovane , ricco solo della sua poesia e di qualche piccolo bene familiare a Pescara , severamente custodito dal padre Don Francesco e dalla madre Donna Luisa . Quella del poeta era una famiglia borghese , di piccoli proprietari terrieri e di armatori di paranze abruzzesi . La madre di Maria , dopo avere sposato un duca di Gallese che non le aveva dato figli , si era unita con un giovane ufficiale francese , venuto a Roma con gli Zuavi che Napoleone III aveva mandato a difendere Pio IX : l ' ufficiale si chiamava Hardouin . Lo stesso Pontefice si era interessato per la buona riuscita del secondo matrimonio . Maria apparteneva dunque a quella che si chiamava ancora l ' aristocrazia nera , papalina . La distanza sociale fra i due innamorati era grande . Gabriele , futuro sterminatore di cuori femminili , la superò di un balzo , come se si fosse trattato , per lui volontario di un anno in Cavalleria , di superare al galoppo una staccionata in una prateria dell ' Agro romano . Disse a Maria : « Fuggiamo ! » . Maria acconsentì e preparò la fuga . Allora non si fuggiva più a cavallo , né si poteva ancora fuggire in automobile . I due fidanzati segreti si trovarono in un treno fumoso , alla stazione Termini , su un vagone diretto a Firenze . Messa facilmente la polizia sulle loro tracce , furono scovati in una stanza d ' albergo con le finestre sull ' Arno . I Gallese sembra volessero far arrestare il rapitore ; ma si lasciarono indurre a consigli più miti e acconsentirono che la fuga , anche perché Maria era ormai maggiorenne , si concludesse con un matrimonio . Il primo figlio si chiamò Mario , il secondo Veniero , il terzo e ultimo - assomigliò più di tutti alla madre bellissima , ma ebbe dalla sorte un dono umano che era stato forse ' negato tanto al suo grande padre poeta quanto a sua madre , quello della mitezza mesta e melanconica dell ' animo - si chiamò Gabriellino . Maria Hardouin di Gallese , principessa di Montenevoso , non amava riandare al suo passato , al suo lontanissimo passato . Parlando di suo marito non diceva « mio marito » , ma « Gabriele » . Lo diceva con una voce apparentemente indifferente , straordinariamente fresca per la sua età , quasi avesse parlato di un estraneo . Probabilmente la figura del marito aveva voluto da moltissimi anni cancellarla dal ricordo : collocando al suo posto l ' immagine di un amico di cui aveva conosciuto , certamente come nessun ' altra , le virtù e i difetti . Gli anni dell ' unione giovanile non erano stati né felici né facili . Maria era donna tale da poter amare , ma non certamente da lasciarsi dominare da un uomo né per debolezza , né per vanità , né per tornaconto . Gabriele non aveva né la forza morale né la fedele schiettezza amorosa per essere totalmente un buon marito e un buon padre di famiglia : assomigliava troppo ai suoi personaggi per poter esserlo . Maria di Gallese era , invece , il contrario dei personaggi dannunziani : il suo sangue per metà francese , un sano sangue provinciale francese , la faceva fiera , sanamente realista , contraria alla retorica , più facile , anche negli ultimissimi anni , all ' ironia che alle pose di donna fatale . La sua eleganza era autentica , quanto forse era di dubbio gusto quella di Gabriele : anche l ' eleganza del suo spirito . Capì di non poter sbarrare il passo al marito , che correva dietro ad ogni tentazione , né voleva seguirlo , lei donna francesemente « pratica » , nelle sue esperienze economicamente pericolose di un po ' smemorato « signore delle lettere » . Gabriele non pensava , se non a tratti e con lunghe amnesie , all ' educazione dei figli . I suoi amori extraconiugali facevano parte delle cronache mondane d ' ogni giorno . Gli anni che la coppia di così differenti caratteri passò nella casa al numero 2 di via Gregoriana - in un appartamentino al quarto piano con un balcone che dominava il palazzotto dello Zuccari dove Gabriele immaginava vivesse il protagonista del Piacere - furono tormentati da una disillusione di cui Maria non fece forse mai colpa diretta al poeta quanto a se stessa , per essersi lasciata illudere . Il distacco avvenne gradualmente , senza esser mai totale dal punto di vista dell ' amicizia , che sopravvisse , se pur di lontano , se pure quasi solamente attraverso alle lettere , finché il poeta , vecchio , confermò , dopo tante esperienze , di voler avere vicino , come la più spiritualmente rispettata delle compagne , la donna cui , in lontanissimi tempi , aveva dato l ' amore dei venti anni . Di tutto questo Maria d ' Annunzio parlava poco : si può dire , anzi , che non parlasse mai . Non ignorava certamente che la sua vita non lieta di moglie del poeta era notissima . Le vicende sentimentali di suo marito appartengono alla storia letteraria e alla storia di una delle più singolari esperienze umane . Non era certamente il caso di conversare con lei di inganni grandi e piccoli per cercare di indovinare quali potevano essere state e quali potevano essere ancora le sue reazioni innanzi a certi nomi celeberrimi che , se non nel cuore , certo nella vita di Gabriele avevano pesato molto . Spostando la propria figura dal piedistallo di moglie a quello di amica così come aveva saputo signorilmente fare da moltissimi anni , essa poteva vivere indifferentemente fra le immagini , molte delle quali diventate poesia , di altre donne nelle quali , forse eternamente innamorato solo di se stesso , Gabriele , come Narciso , s ' era eternamente specchiato . Per questo aveva potuto serenamente incontrarsi con lui , quando egli l ' aveva chiamata al Vittoriale , e considerarsi , in una villa a lei destinata nel parco , la sua ospite amica che tutto sapeva e tutto , se non perdonato , aveva compatito . La sua vita , dopo il distacco dal marito , era stata per molto tempo difficile . A Roma aveva vissuto per molti anni in un piccolo appartamento di piazza di Spagna , mettendo a frutto , per vivere , la sua perizia nel ritrovare , scegliere e ordinare le belle cose antiche . Non aveva , Donna Maria , come del resto i figli , certamente gravato sui bilanci spesso disordinati del poeta . Solo dopo la morte di lui aveva ricevuto un vitalizio sui suoi diritti d ' autore e l ' usufrutto perenne della villa Mirabella entro il secondo recinto del Vittoriale . Aveva finito per lasciare anche la sua ultima dimora romana , una pensione in una traversa di via Veneto , per vivere la metà dell ' anno a Gardone e l ' altra metà a Parigi , dove suo figlio Veniero , con i suoi guadagni di ingegnere in America , le aveva comperato e donato un appartamentino vicino all ' Etoile . Ad onta della tardissima età viaggiava da sola e a Parigi viveva sola , dopo che le era morta , sotto ad un bombardamento , una fedele cameriera . Durante la occupazione tedesca non aveva voluto restare sul lago di Garda , preferendo , a ottant ' anni di parecchio passati , vivere in solitudine nella città dei suoi avi francesi . Al suo ritorno aveva saputo che la sua casa di Gardone era stata abitata da una tragica creatura : da Claretta Petacci , che di lì era partita per andare alla morte . Aveva detto : « È destino che io , senza romanzo , viva accanto ai romanzi ! » . Era stata bellissima , come testimoniava , alla Mirabella , un grande ritratto dipinto da La Gandara che D ' Annunzio vi aveva fatto collocare come per dire che quella casa era della donna che non aveva mai dimenticato . Aveva sorriso , la vegliarda infaticabile , quando le era stato mostrato un volume francese intitolato Paris , mon coeur nel quale quel ritratto era riprodotto per far conoscere il « tipo ormai classico della donna francese , dell ' elegante parigina dei tempi di Maurice Donnay e di Paul Bourget » . Pur nella tardissima età , sottile nella figura , rapida e leggera nel passo , con i capelli colorati di rosso e pettinati come quelli delle donne di Boldini , la si vedeva andar in su e in giù , a piedi , per i sentieri della collina del Vittoriale , veramente simile , nella figura , a quelle ormai tramontate immagini che ispiravano un tempo il concetto dell ' alta e scintillante aristocrazia . Attendeva da anni serenamente la morte , ma intanto parlava della vita come di un bene che non si sarebbe esaurito mai . Fissava convegni e viaggi a distanza di mesi e di anni , e intanto , fermandosi in un certo angolo del parco , pensava anche a quella che poteva essere la sua ultima dimora . Comprendeva , nella sua fierezza di gran dama , di non poter chiedere d ' essere seppellita vicino al marito , dopo tanti trascorsi che avevano per quarant ' anni annebbiata la loro unione . Aveva indicato , per sé , un angolo del parco e un sarcofago di pietra come quelli nei quali Gabriele aveva chiuso le spoglie dei suoi legionari : ma diceva che doveva essere ornato , a mosaico , con i profili di due pavoni . Amava viaggiare , ma ogni volta , quando partiva per Parigi o per Charleville , la patria del poeta Rimbaud , dove aveva parenti e amici fedeli , lasciava ad una persona fidata , confermando così il suo istinto di donna ordinata e pratica come sono quasi sempre le francesi , una busta con il denaro che considerava potesse essere all ' improvviso necessario per riportarla , morta , in patria . La sua vitalità era sempre stata straordinaria . Aveva una attenzione estrema nel non rivelare i suoi anni . Nel 1882 , quando conobbe il diciannovenne D ' Annunzio , sembra che la duchessina fosse già maggiorenne . Lo era già , in ogni modo , nel 1883 , quando si sposò . Per la sua età , dunque , bisognava tirare a indovinare , facendo oscillare il pendolo fra i novantadue delle opinioni ottimiste e i novantacinque dei « pessimisti » . La primavera scorsa , ospitata in una clinica di Riva del Garda , aveva dichiarato , in tono di celia , di avere sessantacinque anni : e nessuno aveva osato contraddirla perché le sue risposte potevano essere sferzanti . Sette anni or sono , mi aveva tenuto un po ' il broncio perché , scrivendo dopo la morte del figlio suo Gabriellino , avevo parlato di lei come di una « vecchia signora » . Doveva essere già allora vicino agli ottantasette anni .