StampaPeriodica ,
Venezia
,
agosto
-
La
sortita
più
brillante
del
movimento
neorealista
italiano
fu
quando
Renato
Guttuso
piantò
,
alla
Biennale
del
'52
,
il
suo
telone
storico
della
Battaglia
al
Ponte
dell
'
Ammiraglio
,
che
regge
ancora
alla
distanza
per
la
viva
memoria
di
quei
suoi
toni
di
forte
agrume
e
la
macchina
ben
oliata
,
ma
strepitante
,
dell
'
azione
in
corso
.
C
'
era
da
credere
che
un
grosso
colpo
fosse
stato
inferto
alle
schiere
avversarie
;
da
prevedere
che
molti
astrattisti
si
sarebbero
convinti
di
aver
giocato
abbastanza
e
che
il
seguito
si
sarebbe
visto
due
anni
dopo
.
Ma
in
questa
XXVII
Biennale
è
invece
l
'
astrattismo
che
sembra
aver
ripreso
fiato
,
mentre
il
realismo
è
piuttosto
in
giacenza
.
A
sentir
le
lamentazioni
dei
realisti
,
sarebbe
stato
proprio
il
Moloch
della
Biennale
a
divorarselo
,
falcidiando
inviti
,
limitando
talune
presenze
al
bianco
e
nero
,
disgiungendone
altre
in
sale
diverse
e
recondite
.
Difficile
crederlo
,
perché
se
può
lamentarsi
l
'
assenza
,
come
pittore
,
di
un
Treccani
(
che
,
col
suo
Ritorno
a
Fragalà
,
avrebbe
sicuramente
sollevato
il
tono
delle
due
salette
«
realistiche
»
)
,
o
la
collocazione
sbadata
di
un
Omiccioli
o
di
un
Mafai
(
che
però
s
'
indugia
in
area
stranamente
depressa
)
,
è
duro
immaginare
i
vantaggi
della
eventuale
compresenza
di
un
Sassu
o
di
tanti
altri
fra
cui
la
scelta
non
è
punto
stimolante
;
mentre
,
fra
í
molti
disegnatori
,
non
vedo
che
cosa
mai
altri
nomi
avrebbero
aggiunto
alla
quota
dei
presenti
(
da
Zancanaro
ad
Attardi
,
da
Muccini
a
De
Stefano
,
dalla
Salvatore
a
Vespignani
)
.
Non
sarà
poi
imputabile
a
malizia
degli
organizzatori
se
la
data
della
Biennale
s
'
è
trovata
a
combinarsi
con
la
mostra
ciclica
di
Guttuso
in
paesi
remoti
;
non
restando
così
agli
svaghi
veneziani
che
il
dubbio
Boogie
-
Woogie
:
dove
il
bellissimo
spunto
satirico
contro
il
dipinto
eponimo
di
Mondrian
non
è
sorretto
abbastanza
dalla
parte
autografa
,
troppo
torbidamente
accarezzata
(
ma
mi
rifiuto
di
credere
che
un
uomo
della
intelligenza
,
non
dico
«
intellighentsia
»
,
di
Guttuso
sia
caduto
nel
tranello
tesogli
dall
'
amico
suo
Berenson
,
pubblicando
fra
i
caravaggeschi
la
Cafeteria
di
Cadmus
)
.
Oppure
,
che
c
'
entra
la
Biennale
se
le
figurine
di
uno
Zigaina
,
ancora
scattanti
nel
'52
,
sono
,
quest
'
anno
,
peste
e
filacciose
?
Se
il
Pizzinato
si
ostina
a
respingere
troppo
energicamente
ogni
appoggio
della
sua
cultura
giovanile
;
se
il
Migneco
seguita
a
fingersi
un
coreano
invaghito
di
lingue
occidentali
;
e
il
Brindisi
svolta
improvvisamente
verso
un
«
liberty
»
folcloristico
?
La
ostentazione
poi
con
cui
i
critici
di
sinistra
mostrano
di
puntare
sulla
«
antologica
»
del
Levi
rende
anche
più
ingrata
una
discussione
proficua
sul
già
famoso
«
taccuino
di
Lucania
»
.
«
Preferisco
i
suoi
quadri
antelucani
»
diceva
pacatamente
un
vecchio
amico
torinese
del
pittore
,
uscendo
dalla
sala
.
A
parte
la
involontaria
freddura
,
è
proprio
vero
che
il
gruppo
dei
dipinti
più
antichi
,
fino
al
'35
,
rientrano
nel
coerente
ordine
mentale
di
una
cultura
europea
,
movente
a
quegli
anni
,
tra
postimpressionismo
ed
espressionismo
.
Tutto
il
resto
(
salvandone
il
ritratto
di
Rocco
Scotellaro
,
proprio
perché
,
eccezionalmente
,
si
riaggancia
ai
modi
di
quindici
vent
'
anni
prima
)
è
cronaca
spenta
,
opaca
;
come
se
anche
il
Levi
,
che
fu
pure
dei
«
Sei
»
di
Torino
,
partecipi
della
opinione
,
tanto
diffusa
quanto
storta
,
decisa
a
negare
ogni
radice
«
realistica
»
alla
civiltà
dell
'
impressionismo
;
e
così
condannarla
in
blocco
.
Su
questo
punto
,
per
fortuna
,
è
possibile
trovare
qualche
appiglio
di
confutazione
anche
ritornando
nelle
due
salette
«
realistiche
»
.
Il
primo
ce
l
'
offre
proprio
un
torinese
,
il
Martina
,
che
,
riandando
sulle
tracce
non
ingloriose
del
gruppo
dei
«
Sei
»
,
mostra
di
credere
,
come
credo
anch
'
io
,
che
la
verità
sia
da
ripescarsi
sul
lato
opposto
.
E
me
ne
conforta
,
subito
dopo
,
un
caso
anche
più
semplice
e
,
quasi
,
commovente
.
Salvo
errore
,
Alberto
Ziveri
,
che
pochi
in
Italia
conoscono
,
pochissimi
sanno
collocare
sul
piano
che
gli
tocca
,
è
il
«
realista
più
realizzato
»
della
Biennale
di
quest
'
anno
.
Le
sue
«
cupole
di
Roma
»
,
quasi
abbacinate
entro
la
luce
d
'
azzurro
-
acciaio
,
i
due
Paesaggi
francesi
,
così
teneri
e
densi
,
la
polpa
del
Nudino
di
modella
nello
studio
sono
,
per
maturità
di
visione
,
la
più
grata
sorpresa
del
padiglione
italiano
.
Già
Ziveri
non
ha
aspettato
sollecitazioni
esterne
o
programmatiche
per
riguardarsi
Daumier
,
Courbet
,
Daubigny
,
Corot
;
l
'
ha
fatto
da
sempre
.
E
può
essere
che
,
un
tantino
,
lo
immobilizzi
una
siffatta
cultura
,
vagante
,
di
regola
,
fra
i11830
e
il
'70;
ma
chi
l
'
ascolti
più
attentamente
avvertirà
presto
il
gocciolare
del
filtro
personale
.
Ora
,
per
chi
non
si
creda
votato
alle
esigenze
di
un
gusto
soltanto
(
quanto
è
più
moderno
,
tanto
più
destinato
a
durare
meno
di
un
foglietto
di
calendario
)
,
Ziveri
può
servire
come
caso
esemplare
nel
contesto
della
discussione
sul
«
contenuto
»
e
sulla
scelta
di
una
«
tradizione
»
plausibile
.
Voglio
dire
che
,
ai
daddoli
critici
sulla
superfluità
della
mostra
di
Courbet
a
Venezia
,
la
confutazione
può
venire
naturalmente
proprio
dal
caso
Ziveri
.
Quanto
può
reggere
,
insomma
,
la
cordata
storica
di
una
tradizione
?
Nessuno
è
in
grado
di
prevederlo
,
perché
il
più
della
faccenda
dipende
dalla
solidità
dell
'
aggancio
personale
.
O
,
passando
ai
«
contenuti
»
,
che
dicono
di
fronte
ai
«
paesaggi
»
di
Ziveri
i
negatori
in
blocco
delle
grandi
scoperte
,
in
quel
campo
,
degli
impressionisti
?
E
che
cosa
gli
estensori
di
liste
di
«
contenuti
popolari
»
con
l
'
anticipo
fisso
?
Che
,
nel
variare
dell
'
impasto
storico
,
certi
nuovi
argomenti
s
'
affaccino
con
insistenza
e
chieggano
di
essere
in
qualche
modo
raffigurati
,
è
avvenuto
sempre
.
Più
difficile
è
che
,
affacciandosi
,
abbiano
di
già
un
volto
«
formalmente
»
riconoscibile
.
Ora
è
proprio
la
scarsa
riconoscibilità
formale
di
molti
fra
questi
primi
esperimenti
a
lasciar
dubbi
non
già
sulle
intenzioni
,
ma
proprio
sul
sentimento
,
sull
'
animo
che
le
dovrebbe
reggere
.
Queste
schierature
di
disegni
dove
lavoratori
,
soli
o
in
comitiva
,
per
lo
più
si
riposano
nelle
soste
dalla
giornaliera
fatica
,
sudano
dormendo
o
si
espongono
di
malavoglia
negli
abiti
più
dimessi
,
non
sono
che
un
'
inversione
programmatica
,
non
già
un
superamento
,
della
vecchia
joie
de
vivre
dell
'
impressionismo
ed
ultra
.
Ciò
che
vi
manca
,
e
sarebbe
invece
essenziale
ai
fini
che
vi
si
propongono
,
è
proprio
la
polemica
,
il
contrasto
in
corso
fra
le
due
parti
.
Qui
,
non
se
ne
vede
che
una
.
Il
Levi
stesso
,
nel
suo
Taccuino
di
Lucania
,
dove
ha
lasciato
i
proprietari
,
la
borghesia
,
la
Celere
,
i
vecchi
fascisti
,
e
tutto
il
resto
?
Se
è
vero
che
Grassano
è
come
Gerusalemme
(
è
proprio
il
titolo
di
un
suo
quadro
)
dove
sono
i
pubblicani
,
gli
scribi
,
i
farisei
?
Così
anche
scavalcato
,
come
si
conveniva
,
il
gusto
della
modernità
ad
ogni
costo
,
mi
ridomando
se
in
codesti
artisti
non
intervenga
una
sfiducia
di
fondo
nel
linguaggio
,
lato
sensu
,
impressionistico
,
ritenuto
inadatto
a
narrare
,
ad
illustrare
fatti
umani
,
a
chiarirli
nella
polemica
con
l
'
altera
pars
.
Per
chi
conosca
la
forza
aggressiva
degli
illustratori
satirici
sul
principio
di
questo
nostro
secolo
,
e
rammenti
come
riuscissero
ad
esprimerla
perfettamente
,
col
migliore
linguaggio
artistico
dei
tempi
loro
,
torna
vero
il
contrario
.
Non
sono
dunque
Induno
o
Morelli
che
i
nostri
zelanti
disegnatori
dovrebbero
ristudiarsi
,
ma
,
anche
senza
uscir
di
casa
,
la
tradizione
che
va
dal
Matarelli
,
grande
illustratore
del
Giusti
,
a
quel
Ratalanga
che
veniva
infatti
accolto
alla
pari
,
cinquant
'
anni
fa
,
tra
gli
eccellenti
disegnatori
satirici
della
parigina
Assiette
au
Beurre
.
Mi
chiedo
se
forse
non
li
conoscano
meglio
alcuni
dei
nostri
registi
,
buoni
maneggiatori
di
immagini
,
e
che
pure
non
sembrano
aver
fruttato
ancor
nulla
,
neppur
essi
,
per
i
nostri
giovani
illustratori
.