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> anno_i:[1940 TO 1970}
Primo Carnera ( Vergani Orio , 1959 )
StampaQuotidiana ,
Carnera debutta a Milano nelle giostre ammaestrate della lotta libera , del catch . Mi dicono che abbia nuovamente fortuna . L ' ho conosciuto molti anni fa , a Barcellona , ed è probabile , è anzi sicuro , che egli non si ricordi affatto di me . Eppure , appunto perché egli mi fece tornare fanciullo , fui il suo profeta . Attorno a lui i grandi saggi , i grandi sapienti della scienza sportiva segretamente sghignazzavano . Essi lo avevano già visto a Milano , in una esibizione di pugilato al Palazzo dello Sport , lo avevano inquadrato dal basso in alto , arcuando scetticamente un sopracciglio , lo avevano scientificamente « soppesato » . Avevano guardato le vene varicose delle sue gambe affaticate per sostenere quella sua mole torreggiante : avevano detto che il suo pugno era lento come un « merci » ; gli negavano ogni intelligenza e ogni spirito combattivo . Davanti alle loro definizioni - « colosso dai piedi d ' argilla » , o , più popolarescamente , « sacco di patate » - io tremavo , prendendo il treno che , sul finire del novembre 1930 , mi portava in Spagna per assistere al suo incontro con Paolino Uzcudum . Avevo visto al lavoro , quattro o cinque anni prima , il « toro di Bilbao » . Contro l ' ex spaccalegna che aveva il torace ampio , quadrato , solido come una cassaforte cosa avrebbe fatto quel marmittone di gigantesco emigrato friulano ? Primo Camera , da ragazzino , aveva frequentato le scuole dei mosaicisti di Sequals , dove l ' arte delle « tessere » è tramandata , dicono , sin dai tempi di Aquileia . Mosaicista contro Spaccalegna . Chi avrebbe vinto ? Segretamente puntai sul Mosaicista . Emilio Colombo , mattatore bonariamente roboante del giornalismo sportivo , lo indovinò : e mi guardava con sorridente , amichevole pietà . Condannato io pure alla vecchia legge che impone al cronista sportivo il pronostico , dopo aver visto Carnera , dopo aver parlato con Carnera , scrissi : « Il Mosaicista batterà il Legnaiolo » . A Carnera chiesi : « Come va ? » . Mi rispose : «Così...» . Eravamo nella stanza di un albergo sulle Ramblas di Barcellona . Camera era disteso sul letto e un cinese lo massaggiava . Seduto vicino al letto stava il suo manager , il giornalista che lo aveva scoperto due o tre anni prima in un baraccone di lottatori da fiera . Il giornalista era un ometto piccolo che pesava cinquantacinque chili contro í centoventi del suo pupillo , e che aveva un accenno di baffi alla Menjou . Vigilava sul massaggio e vigilava , mi sembrò , anche sulle risposte del gigante , che , prima di parlare , lo guardava intimidito come fa un grande cane con il suo piccolo padrone . Sull ' attaccapanni era appesa la giacca di Carnera : vasta come un paltò . Di sotto il letto , spuntavano le famosissime scarpe del gigante , che per qualche tempo furono celebri come le scarpe di Charlot . I vetri erano socchiusi : l ' estate torrida . Il nudo colosso era depilato scrupolosamente : la mano untuosa del cinese correva sul torace , sul ventre , sulle cosce , sulle reni . La stanza era piccola : sembrava che i piedi del gigante la occupassero tutta . Sapevo la sua storia ed era inutile me la facessi ripetere . Al paese , un pane scarsissimo , come in tante case delle Prealpi friulane . A dodici anni , un biglietto di terza classe , l ' indirizzo di un cugino in un villaggio delle Lande francesi . Il colossale ragazzo friulano aveva ripercorso la strada che vent ' anni prima era stata familiare a Gabriele D ' Annunzio quando cantava press ' a poco così : « Ascolto il grido della procellaria / nel vento della Landa solitaria ... » . Ma il grido delle procellarie non interessava il ragazzo : egli non udiva altro che il grido , molto più insistente , dell ' appetito . Mosaicista , legnaiolo , manovale , muratore : nessun mestiere gli dava abbastanza da sfamarsi . Alla meglio , masticò qualche lenta parola di francese , con una voce cupa e gutturale . Aveva ossa colossali da uomo delle caverne : ma rivestite di poca carne . Il padrone di un baraccone disse . « A forza di zappa , lo farò ingrassare e ne farò un numero che sbalordirà tutti i villaggi delle Lande e della Guascogna » . Così , fiutando come un cane randagio un calderone di minestra , il ragazzo , vagabondo da un cantiere all ' altro , trova la sua strada che lo porta alle tende delle baracche e dei circhi . Alla sera , nelle luci dell ' acetilene , sta in fila con gli altri lottatori sulla pedana della baracca . soia a stando di due palmi tutti i compagni . In pochi mesi tocca i centotrenta chili e supera di parecchio i due metri di statura . Un futuro corazziere ? No . Non potrebbe farlo perché ha i piedi appiattiti dal peso che su essi sovrasta . A vedere quei torace , là , sul letto d ' albergo di Barcellona , non si poteva far a meno di dire : « Questo è certamente l ' uomo più forte del mondo » . Il Padreterno s ' era tolto il capriccio di fare venire al mondo una statua . Dalla cintola in su , Carnera era un capolavoro della creazione . Quel « sacco di patate » era degno di Fidia , di Giove , dei Ciclopi . Si deve a quel torace se il mondo ha avuto il « romanzo Carnera » , la sua strana storia di Tarzan tante volte gabbato dai piccoli uomini furbi , colossale e - dicevano i saggi - incapace di cattiveria , ibrido di semidio e di disgraziato , imbarcato sull ' altalena della vita che , una volta , lo portava verso la ricchezza e , un ' altra volta , giù nella miseria , costretto sempre a risalire faticosamente . Vinse a Barcellona . Rivinse Per lui , si mosse anche Mussolini . L ' Italia ebbe in questo emigrante friulano dalla voce gutturale e dal mento « senza grinta » , senza volontà in un tempo di « mascelle volitive » il suo unico campione del mondo . Poi , il ko , í lestofanti che lo abbandonano dopo aver fatto volatilizzare i suoi guadagni , persino un periodo di immobilità per una paralisi , e il lento , affranto risollevarsi e di nuovo la povertà del vagabondo che vende per le strade , davanti a un tavolino pieghevole , bustine di lamette da barba . Adesso , con il catch ammaestrato , pare abbia fatto nuovamente fortuna .
Gino Cervi ( Vergani Orio , 1959 )
StampaQuotidiana ,
Racconta un vecchio collega bolognese : « Me lo ricordo , come fosse adesso . Antonio Cervi era un uomo buono , cordiale , sempre di buon umore . Una vera eccezione , vederlo preoccupato . Per questo non mi sono passati di mente i giorni dell ' ultima settimana dell ' aprile del 1901 . Non si poteva dire che Antonio Cervi fosse di malumore , ma certamente non era il solito Cervi . Finalmente si sfogò con me . " Sto aspettando , di giorno in giorno , che mi nasca un bambino . Ora , maschio o femmina che sia , non vorrei che mi combinasse lo scherzo di nascere la sera di una ' prima ' ' . Lo so che è difficile farglielo capire , ma bisognerebbe che lo sapesse subito . Se uno è figlio di un critico drammatico , non si nasce mai la sera di una ' prima ' " » . Antonio Cervi - il suo pseudonimo era quello , un po ' misterioso , di Gace , che , secondo quanto ricorda il figlio Gino , ma che ignorano i dizionari , dovrebbe essere un personaggio della Mitologia - era critico drammatico del « Resto del Carlino » . Il piccolo Gino « obbedì » . Il 3 maggio del 1901 non c ' era nessuna « prima » né al Teatro Brunetti , né al Corso , ne al Contavalli , né al Nazionale che aveva proprio in quel tempo lasciato l ' antico bizzarro nome di Teatro della Nosadella , né all ' Arena del Sole . Antonio Cervi poté dunque restare a casa e ricevere dalla levatrice l ' annuncio : « È un bel maschio ! » . Gino Cervi è dunque l ' unico attore che sia figlio di un critico drammatico . Suo padre lo fu per trentaquattro anni , dal 1889 al 1923 . Rincasava nel pieno della notte , alle tre e alle quattro del mattino . Entrava in punta di piedi per non svegliare i bambini . Stava ancora un po ' sveglio , per leggere il giornale di cui aveva portato a casa una delle prime copie fresche di inchiostro . Alla mattina , erano i bambini , che per andare a scuola , dovevano uscire in punta di piedi . A mezzogiorno , all ' ora dei tortellini , il papà parlava di quanto aveva sentito a teatro la sera avanti : esprimeva certe opinioni che nel giornale erano state attenuate o velate . Per non rovinare le Compagnie , i critici dei giornali importanti non potevano divertirsi al gioco del massacro , mordendo e sbriciolando a destra e a sinistra . Anche allora si diceva che il teatro era « in crisi » . Le Compagnie primarie erano una quarantina , sempre con non meno di una trentina di attori scritturati ; quelle secondarie un ' ottantina e un centinaio quelle di terz ' ordine . L ' Italia aveva una popolazione viaggiante di 45 mila attori e attrici . Bologna era la loro segreta capitale , come si dice che Gonzaga , presso Mantova , sia quella degli zingari . Gino respirò sempre teatro . Subito dopo le aste - in quell ' anno fu portato in braccio a vedere i funerali di Carducci - imparò a leggere sulle colonne del « Resto del Carlino » , per la curiosità di sapere che cosa scrivesse suo padre . Imparò il significato di certe frasi : « reiterati applausi , recitazione incisiva , palesi segni di dissenso , bene gli altri » . Imparò presto alcuni nomi assai difficili : Shakespeare , Marivaux , Bjørnstjerne Bjørnson , Portoriche . Sognava i teatri come regge misteriose , con i palchetti dorati , con le poltrone di velluto rosso . In casa erano familiari i nomi di Panzacchi , di Lipparini , di Olindo Guerrini , di Testoni sulle cui ginocchia il piccolo Gino aveva ballato . Accompagnando il padre a spasso , Gino - polpacci nudi , giubba alla marinara col fischietto nel nodo della cravatta - entrava nella libreria di Zanichelli . Ogni tanto Antonio si fermava a parlare con un grosso uomo dall ' aspetto di timido campagnolo vestito di nero . Era Giovanni Pascoli . Di Carducci si parlava come di un Nume scomparso fra le nuvole ma sempre misteriosamente presente . Antonio Cervi , al cui cuore cordiale era stata sempre cara la parte del paciere , era riuscito a riconciliare Carducci con D ' Annunzio - non c ' erano mai stati veri attriti , ma certe diffidenze sì - nel famoso banchetto in cui , avendo Carducci offerto il vino a D ' Annunzio , questi aveva detto : « Grazie ... Non bevo mai ... » il Leone di Maremma aveva risposto un po ' bruscamente : « Io , sempre ! » . Bologna , era amica del teatro fin dal Seicento , quando ogni famiglia patrizia aveva un suo piccolo palcoscenico , in casa Zoppio , in casa Pepoli , in casa Casali , all ' accademia degli Ardenti o dei Riaccesi . Nel Settecento , c ' era stato un teatro persino nel Palazzo del Podestà . I patrizi avevano le loro sale da spettacolo anche nelle ville sui colli . Per quella privata della famiglia Albergati , che ospitava durante l ' estate tutto il patriziato bolognese , Goldoni scrisse cinque commedie , fra le quali Il cavaliere di spirito e l ' Osteria della Posta . Perché gli attori volevano bene a Bologna ? C ' erano camere , alloggi , locande a poco prezzo . Le padrone di casa erano cordiali , socievoli , aspettavano molto pazientemente l ' affitto , magari da un anno all ' altro . Le porzioni di fettuccine erano abbondantissime . La popolazione amava passeggiare fino a notte tarda , certi caffè erano aperti fino all ' alba . Alla legione degli attori , delle attrici , dei generici e delle attricette si aggiungevano gli innumerevoli filodrammatici . Ogni tanto questi ultimi organizzavano tournées nei centri anche più minuscoli della provincia , sino al Po e fino in Romagna , e rinforzavano il loro complesso chiamando a parteciparvi qualche attore di più larga esperienza . Anche Gino , mentre studiava greco al liceo - suo padre era stato inflessibile per il greco e per il latino - bazzicava la filodrammatica del Circolo degli impiegati civili . Fu l ' Arena del Sole il primo teatro dove , bambino , una domenica Gino Cervi debuttò come spettatore : uscendo , vide al caffè quel grande e melanconico vecchio attore , oscillante fra il genio e la follia , che fu Enrico Capelli : in gioventù Amleto quasi impareggiabile , e , in vecchiaia , ridotto a tale povertà e trasandatezza da tingersi i capelli con qualche spazzolata di lucido da scarpe . All ' Arena del Sole si assisteva agli spettacoli in maniche di camicia . Se una commedia non piaceva , i cuscini volavano dalle gradinate fino alla ribalta . Negli intervalli gli spettatori si passavano il fiasco di Sangiovese , la bottiglia di lambrusco , bevendo a canna . Fu in quel teatro che il « figlio del critico » , entrato con la tessera del padre , vide da ragazzo Zacconi e Ruggeri , come aveva visto nel 1914 , dal loggione del Brunetti , Sarah Bernhardt che recitava ancora ad onta di una gamba amputata . Studente universitario , Cervi avrebbe forse fatto l ' avvocato o sarebbe entrato un giorno o l ' altro al « Resto del Carlino » se la morte del padre nel 1923 non lo avesse lasciato libero di decidere del suo destino . Fu un altro attore bolognese che veniva lui pure dai filodrammatici , Nerio Bernardi - il cui vero nome era quello antico e dottorale di Irnerio - a dirgli , come si fa con chi deve imparare a nuotare : « Buttati ! » . E fu così che , seguendo quel consiglio , lo scolaro , cui Lipparini aveva fatto tante volte declamare al liceo l ' Ode al Clitumno e il Canto di un pastore errante , diventò attore , debuttando nella Vergine folle di Bataille , accanto ad Alda Borelli . Un anno dopo era a Roma , cercava sulla guida dove si trovasse una ignota via dove si stava aprendo un nuovo piccolo teatro , il primo dei futuri « Piccoli Teatri » d ' Italia . Trovò là dentro un gruppo di suoi coetanei che , già prima di iniziare gli spettacoli , si dibattevano in un labirinto di debiti : ma a capo di quei ragazzi c ' era un signore con la barbetta già quasi bianca che Cervi aveva già visto , una volta , come autore , alla ribalta dell ' Arena del Sole . Il vecchio signore era Luigi Pirandello . Quella attraverso la quale , in vicolo Odescalchi , entrava il giovane figlio del critico bolognese poteva sembrare una porta assai piccola . Cervi , figlio di un uomo che tanto intelligentemente aveva amato e servito il teatro , si accorse che era la porta grande di una intelligenza rinnovatrice .
Maurice Chevalier ( Vergani Orio , 1950 )
StampaQuotidiana ,
Ad un certo momento del suo « concerto » , si rivolge al pubblico e dice : « Non bisogna stupirsi se un uomo con i capelli grigi canta una canzone in onore della mamma ... » . Maurice Chevalier ha sessantadue anni , sua madre deve vivere da un pezzo nella pace del Signore , la buona donna di Menilmontant che aveva messo al mondo dieci figli di cui , quando nacque Maurice , tre soli erano vivi . La ribalta è tutta ornata di rose , di garofani , di violette . Sulla sagoma nera del grande pianoforte a coda spicca , posata lì dopo la prima canzone , l ' ormai storica paglietta dello chansonnier . Gli applausi sono fitti , molte le richieste di bis , molti i saluti ai refrains già noti e ritrovati come vecchi amici . Ma a me più di tutto , mentre Chevalier canta la Prière in onore della mamma , piace ricordare proprio la singolare infanzia di questo ultimo « birichino di Parigi » , degno di entrare in un romanzo di Louis - Henri Boussenard forse più che in uno dei foschi « documentari » di Zola . Straordinaria vita , un po ' dickensiana , quella del ragazzetto di Menilmontant che , finite le scuole elementari , è messo a faccia a faccia con la vita , fra gli ospedali dove viene ricoverata sua madre e gli artigiani dai quali dovrebbe apprendere un mestiere che una volta è quello dell ' elettricista , una volta quello del pittore di bambole e , infine , quello di operaio specializzato a fabbricare puntine da disegno . La madre la chiamavano la Louque e s ' era ridotta anche ad andare a servizio ad ore , nelle case dei vicini : i ragazzi cercavano di guadagnare qualcosa . Maurice pensò , con il fratello , di diventare acrobata , finché a dodici anni imparò a memoria qualche canzone . Storia forse non nuova , simile , probabilmente , a quella di tanti altri artisti , a cominciare , per dirne una , da quella del nostro Petrolini , garzone macellaio della romana piazza Guglielmo Pepe ; ma straordinaria sempre quando si stabilisca il rapporto tra il punto di partenza e il punto di arrivo , una conquista del pubblico che dura ormai da quasi mezzo secolo . Maurice ha i capelli grigi e quasi addirittura argentei ed è ancora la vedette numero uno del music - hall internazionale , in quella singolare costellazione del teatro minore dove la musica non è musica e dove l ' attore non è attore ma dove , talvolta , si va più in là del bel canto e della bella recitazione . Il suo stile è fatto di schiettezza , di franchezza , di disinvoltura . Chevalier è la negazione dell ' Uomo Fatale , del Bellissimo , dell ' Adone 1900 . Se si volesse trovargli un ' assomiglianza , egli si potrebbe identificare con quel tipo «1910» che sorprese la nostra infanzia dagli avvisi pubblicitari dei primi rasoi di sicurezza , quell ' antico giovanotto che si radeva allegramente davanti ad una finestra aperta e che suscitava l ' ammirazione di noi ragazzi , figli di una generazione che usava ancora , per quanto di nascosto , il piegabaffi e una pomata ungherese per appuntirli e profumarli . La sua carnagione ha il colorito sanguigno dei gaulois autentici : quello di Lucien Dietrich e del suo amico Dédé Leducq , maglia gialla del Tour 1931 . È francese ma non assomiglia a Menjou ; non ha nulla di untuoso , di gommoso , di cerimonioso : potrebbe esser tutto ( magari Fantomas ) , ma mai un cameriere o un danseur mondano cui mettere una mancia in mano . La sua vena guascone è sottilissima , il boulevard non lo ha corrotto . Chevalier si è presentato per la prima volta al pubblico a dodici anni , esattamente nel 1900 , con in testa un berrettuccio da ciclista , monello di periferia . Era un figlio del popolo , un ragazzo della strada , di una delle sperdute avenuer dove nasceva la Parigi industriale . Erano i tempi in cui Parigi era la regina del teatro , i tempi della Réjane , della Lavallière , di Guitry . Tristan Bernard aveva la barba nera , Alfred Capus il monocolo con il nastro di seta e Abel Hermant non aveva ancora scritto I Transatlantici . Erano i tempi della piena gloria degli chansonniers Mayol e Bruant : nelle boites di Montmartre si ricordavano ancora gli anni in , cui le parole per le canzonette venivano scritte da Maurice Donnay , l ' autore degli Amanti . Chevalier debutta con il secolo , con quel 1900 che oggi fa sorridere con il ricordo della sua Esposizione Universale . Mezzo secolo di vita teatrale è passato davanti agli occhi e al sorriso dell ' antico monello di Parigi , ultima incarnazione di Gavroche . Nel suo bagaglio di canzoni , stanno i canti vissuti fra due guerre , resistendo al jazz e opponendo le ruote dei mulini a vento di Montmartre alle sagome dei grattacieli americani . Queste canzoni parlano quasi tutte d ' amore come le novelle di Maupassant : per questo non invecchiano e non fanno invecchiare Maurice .
Gabriele D'Annunzio ( Vergani Orio , 1948 )
StampaQuotidiana ,
Il poeta è morto la sera del primo marzo del 1938 , alle 19.55 . Da un paio di giorni non si sentiva bene , ma non voleva riconoscerlo . Aveva settantacinque anni . L ' uomo aveva goduto di una salute di ferro , piccolo , magro , muscoloso , alieno dal vino e dal fumo . Una sola volta aveva provato a fumare , ad Arcachon , e si era sentito male . Ai liquori dava nomi pittoreschi ma non li beveva . Mangiava poco , aveva sempre mangiato poco . La sua tavola da pranzo , al Vittoriale , nel lato dell ' edificio costruito da Gian Carlo Maroni , ha una apparenza fastosissima , con una tovaglia lumeggiata d ' oro e coperta da infiniti ninnoli preziosi . Questa tavola non vide quasi mai il poeta a pranzo o a cena . I suoi digiuni non nascevano da un particolare ascetismo , ma dalla volontà di tenere il cervello sgombro , di non rendere opaca l ' intelligenza con le fatiche della digestione , che avevano , diceva , fatto appisolare persino gli Apostoli . Mangiava spesso nello studio dell ' ultimo piano , dove si chiudeva alle volte per intere settimane . Una cameriera , chiamata a seconda degli umori con il nome di « fante » o di « suora » , gli passava attraverso la porta un vassoietto e tornava di lì a poco a prenderlo , sempre attraverso lo spiraglio . Capitava spesso che non ci fosse nulla per l ' ospite arrivato all ' improvviso . Era dunque un uomo sano e ancora robusto per la sua età . Quando venne a Milano per correggere le bozze delle Faville , volle provarsi nella lotta greco - romana con un giovane giornalista che era andato a visitarlo . Il giovanotto sentì , sotto le sue mani , muscoli ancora pronti e forti . Molte chiacchiere erano state fatte su malattie di cui avrebbe dovuto soffrire . I suoi medici di Salò che lo sottoposero in varie occasioni ad analisi e radioscopie potevano testimoniare il contrario . Le sue radiografie e la sua cartella clinica esistono ancora , e certificano che il sangue era perfetto , il cuore perfetto , i polmoni perfetti . Era malato , se mai , del male della clausura : era il male della melanconia di un uomo che aveva trasformato in abitudine l ' antica volontà di isolarsi dal mondo per lavorare . Anche negli ultimi anni , quando il suo lavoro cessò di essere creativo , egli passava infinite ore allo scrittoio , in una atmosfera irrespirabile . Le sue stanze , d ' inverno , erano sempre riscaldate a trenta gradi , prima con grandi stufe di terracotta e infine con termosifoni , che si spegnevano solamente in maggio . Passava talvolta intere settimane e mesi senza uscire dalle sue stanze , dove nascondeva le sue irritazioni e le sue melanconie . Era triste anche di sentirsi invecchiare e di dover confessare , come aveva fatto in una nota del Notturno nel 1921 , che i suoi pensieri , come quelli di Michelangelo , erano tutti carichi di morte . Mentre in gioventù non aveva mai usato , per lavorare , altro eccitante che il digiuno , anche di caffè non aveva mai abusato , invecchiando non seppe evitare qualche eccitante che mani malevole gli porgevano . Un paio di anni prima di morire poté disintossicarsi del tutto . Fu più alacre e persino più lieto . Le visite si erano fatte ormai rare . D ' Annunzio non aveva voglia di farsi vedere invecchiato . Anche i suoi messaggi erano meno frequenti . Il telegrafo di Gardone lavorava sempre meno , il cannone della nave Puglia tuonava di rado e il mas di Buccari restava placidamente ancorato nella sua darsena . Leggere gli costava molta fatica , e si temeva anche che l ' unico occhio superstite si indebolisse definitivamente . D ' Annunzio era stato sempre un uomo di grande coraggio . Di una sola persona aveva paura : del dentista . Si può dire senza offendere la sua memoria , poiché non si parla dell ' adolescente bellissimo negli anni di Isaotta Guttadauro ma del vecchio settantacinquenne chiuso nella silenziosa villa di Gardone , che il mal di denti era stato uno dei fastidi maggiori della vecchiaia di D ' Annunzio . Un dentista di Salò era riuscito a preparare il calco per un apparecchio che gli avrebbe consentito di mangiare senza fatica - il poeta non mangiava mai alla presenza di ospiti perché non voleva mostrare come gli fosse faticoso masticare - ma l ' apparecchio non fu mai fatto perché D ' Annunzio dichiarò alla fine che non si sarebbe mai adattato a portarlo . La morte venne dunque improvvisa , preceduta solo da qualche lieve malessere al quale D ' Annunzio non volle dare importanza . Gian Carlo Maroni , l ' architetto del Vittoriale , aveva insistito inutilmente perché l ' amico si facesse visitare da un medico . D ' Annunzio aveva risposto chiudendosi in studio . Maroni , quelle notti , che furono le ultime di una convivenza e di una amicizia durata diciassette anni , le passava nella poltrona di una stanza adiacente alla camera da letto dove D ' Annunzio era agitato dall ' insonnia . Una cameriera era incaricata di vigilare durante il giorno , non vista , su quello che il poeta faceva . D ' Annunzio passò le ultime ore del pomeriggio del primo marzo nel grande studio al primo piano , quello del mappamondo , con le pareti coperte di libri fino al soffitto . Le finestre , al solito , erano oscurate . In quelle stanze si viveva sempre alla luce artificiale . Verso le sette , il poeta passò nello studiolo che precede la camera da letto . È una piccola stanza con grandi antichi armadi usati anche come guardaroba personale . C ' è un piccolo tavolo dove spesso D ' Annunzio si soffermava per qualche lavoro . Su quel tavolo c ' erano e ci sono ancora dei vasi pieni di penne , di matite e scatolette che contengono i sigilli di carta dorata a rilievo con i quali chiudeva le lettere . Nel cassetto di un armadietto sono ancora i rotoli dei nastri con i colori di Fiume , azzurri e rossi , che il poeta usava per i pacchi dei doni che amava fare agli ospiti . Non mancavano la carta assorbente e il calamaio . Al Vittoriale non era mai entrata , almeno per l ' uso personale del poeta , una macchina da scrivere . D ' Annunzio la odiava così come odiava il telefono . Una volta aveva dichiarato che considerava un ' ingiuria il consiglio di usare il dictaphon . Era contrario ad ogni forma di trascrizione meccanica della voce e non aveva quasi mai acconsentito che il cinema sonoro registrasse la sua parola . D ' Annunzio sedette al tavolo . Forse di lì a poco avrebbe chiamato la « fante » per farsi portare da mangiare . La « fante » , che lo « spiava » da una delle camere vicine lo vide con il braccio appoggiato al tavolino , in un atteggiamento che non dava adito ad alcuna preoccupazione . Su quel tavolino c ' era e c ' è ancora il vecchio lunario del Barbanera che D ' Annunzio , per il suo amore delle vecchie tradizioni abruzzesi , aveva voluto che , come ogni anno , fosse comprato all ' inizio del 1938 . Al primo marzo il lunario annunciava la morte di un grande uomo . Mancavano dieci minuti alle otto , quando la cameriera si sentì chiamare , D ' Annunzio voleva un bicchiere d ' acqua . Gli fu portato . Non disse nulla e bevve . La donna si accorse di qualcosa d ' insolito nell ' aspetto del « padrone » , come il senso di una grave fatica . Il respiro era basso e affannoso , Maroni accorse . Il poeta aveva reclinato la testa sul tavolo e stava per cadere dalla sedia . Fu sostenuto e portato sul letto della camera accanto . Maroni stesso gli fece immediatamente due iniezioni di olio canforato . Ma il cuore del poeta che aveva dato voce ad Aligi era già spento , senza dolore . Pochi minuti dopo l ' arciprete della chiesa di San Nicolò , don Fava , entrava al Vittoriale per dare l ' assoluzione alla spoglia del poeta . D ' Annunzio si era molte volte lamentato in vita che le campane della chiesa , a Gardone , suonavano troppo a lungo e aveva cercato di frenare gli scampanii con elemosine per i poveri . Alle otto in punto , il vecchio campanaro Valentino cominciò a suonare a morto .
Maria D'Annunzio ( Vergani Orio , 1954 )
StampaQuotidiana ,
Era di quasi un anno o forse di due superiore per età al suo futuro marito , la duchessina Maria di Gallese , quando conobbe Gabriele d ' Annunzio , che allora , in fatto di titoli araldici , aveva solamente quello del tutto immaginario di Duca Minimo con il quale firmava le note di cronaca mondana sulla appena nata « Tribuna » di Roma . La fama aveva già accarezzato la fronte , ancora aureolata di riccioli biondi , dell ' autore delle Novelle della Pescara e di Primo Vere , che distribuiva uno per uno i ricordi dei suoi giovanili amori romani , in parte veri e in parte immaginari , nei versi morbidissimi e qua e là lussuosamente torbidi di Isaotta Guttadauro . Gabriele era allora , soprattutto , poeta d ' amore , teso a spiare le veneri agresti d ' Abruzzo e quelle , vestite di raso e velluto , delle alcove eleganti di Roma . Piccolo di statura , ma bello nel volto , ornatissimo nella parola , e indicato già , nell ' età in cui gli altri giovani si affannano sui banchi dell ' università , come il poeta destinato a raccogliere lo scettro della poesia in Italia , i parenti di Maria di Gallese furono certamente imprudenti a sceglierlo per dare qualche lezione di letteratura italiana alla giovane e bellissima duchessina di cui si voleva completare l ' educazione . In pochi giorni , alternando la lettura dei classici del Trecento e del Cinquecento con qualche passeggiata fra le antichità di Roma , o alla quercia del Tasso o alla tomba di Cecilia Metella - si sa che le « passeggiate » sono state uno dei migliori punti di partenza per la poesia di D ' Annunzio - i due si trovarono romanticissimamente innamorati . Come in un romanzo , la giovane patrizia si era innamorata di un giovane , ricco solo della sua poesia e di qualche piccolo bene familiare a Pescara , severamente custodito dal padre Don Francesco e dalla madre Donna Luisa . Quella del poeta era una famiglia borghese , di piccoli proprietari terrieri e di armatori di paranze abruzzesi . La madre di Maria , dopo avere sposato un duca di Gallese che non le aveva dato figli , si era unita con un giovane ufficiale francese , venuto a Roma con gli Zuavi che Napoleone III aveva mandato a difendere Pio IX : l ' ufficiale si chiamava Hardouin . Lo stesso Pontefice si era interessato per la buona riuscita del secondo matrimonio . Maria apparteneva dunque a quella che si chiamava ancora l ' aristocrazia nera , papalina . La distanza sociale fra i due innamorati era grande . Gabriele , futuro sterminatore di cuori femminili , la superò di un balzo , come se si fosse trattato , per lui volontario di un anno in Cavalleria , di superare al galoppo una staccionata in una prateria dell ' Agro romano . Disse a Maria : « Fuggiamo ! » . Maria acconsentì e preparò la fuga . Allora non si fuggiva più a cavallo , né si poteva ancora fuggire in automobile . I due fidanzati segreti si trovarono in un treno fumoso , alla stazione Termini , su un vagone diretto a Firenze . Messa facilmente la polizia sulle loro tracce , furono scovati in una stanza d ' albergo con le finestre sull ' Arno . I Gallese sembra volessero far arrestare il rapitore ; ma si lasciarono indurre a consigli più miti e acconsentirono che la fuga , anche perché Maria era ormai maggiorenne , si concludesse con un matrimonio . Il primo figlio si chiamò Mario , il secondo Veniero , il terzo e ultimo - assomigliò più di tutti alla madre bellissima , ma ebbe dalla sorte un dono umano che era stato forse ' negato tanto al suo grande padre poeta quanto a sua madre , quello della mitezza mesta e melanconica dell ' animo - si chiamò Gabriellino . Maria Hardouin di Gallese , principessa di Montenevoso , non amava riandare al suo passato , al suo lontanissimo passato . Parlando di suo marito non diceva « mio marito » , ma « Gabriele » . Lo diceva con una voce apparentemente indifferente , straordinariamente fresca per la sua età , quasi avesse parlato di un estraneo . Probabilmente la figura del marito aveva voluto da moltissimi anni cancellarla dal ricordo : collocando al suo posto l ' immagine di un amico di cui aveva conosciuto , certamente come nessun ' altra , le virtù e i difetti . Gli anni dell ' unione giovanile non erano stati né felici né facili . Maria era donna tale da poter amare , ma non certamente da lasciarsi dominare da un uomo né per debolezza , né per vanità , né per tornaconto . Gabriele non aveva né la forza morale né la fedele schiettezza amorosa per essere totalmente un buon marito e un buon padre di famiglia : assomigliava troppo ai suoi personaggi per poter esserlo . Maria di Gallese era , invece , il contrario dei personaggi dannunziani : il suo sangue per metà francese , un sano sangue provinciale francese , la faceva fiera , sanamente realista , contraria alla retorica , più facile , anche negli ultimissimi anni , all ' ironia che alle pose di donna fatale . La sua eleganza era autentica , quanto forse era di dubbio gusto quella di Gabriele : anche l ' eleganza del suo spirito . Capì di non poter sbarrare il passo al marito , che correva dietro ad ogni tentazione , né voleva seguirlo , lei donna francesemente « pratica » , nelle sue esperienze economicamente pericolose di un po ' smemorato « signore delle lettere » . Gabriele non pensava , se non a tratti e con lunghe amnesie , all ' educazione dei figli . I suoi amori extraconiugali facevano parte delle cronache mondane d ' ogni giorno . Gli anni che la coppia di così differenti caratteri passò nella casa al numero 2 di via Gregoriana - in un appartamentino al quarto piano con un balcone che dominava il palazzotto dello Zuccari dove Gabriele immaginava vivesse il protagonista del Piacere - furono tormentati da una disillusione di cui Maria non fece forse mai colpa diretta al poeta quanto a se stessa , per essersi lasciata illudere . Il distacco avvenne gradualmente , senza esser mai totale dal punto di vista dell ' amicizia , che sopravvisse , se pur di lontano , se pure quasi solamente attraverso alle lettere , finché il poeta , vecchio , confermò , dopo tante esperienze , di voler avere vicino , come la più spiritualmente rispettata delle compagne , la donna cui , in lontanissimi tempi , aveva dato l ' amore dei venti anni . Di tutto questo Maria d ' Annunzio parlava poco : si può dire , anzi , che non parlasse mai . Non ignorava certamente che la sua vita non lieta di moglie del poeta era notissima . Le vicende sentimentali di suo marito appartengono alla storia letteraria e alla storia di una delle più singolari esperienze umane . Non era certamente il caso di conversare con lei di inganni grandi e piccoli per cercare di indovinare quali potevano essere state e quali potevano essere ancora le sue reazioni innanzi a certi nomi celeberrimi che , se non nel cuore , certo nella vita di Gabriele avevano pesato molto . Spostando la propria figura dal piedistallo di moglie a quello di amica così come aveva saputo signorilmente fare da moltissimi anni , essa poteva vivere indifferentemente fra le immagini , molte delle quali diventate poesia , di altre donne nelle quali , forse eternamente innamorato solo di se stesso , Gabriele , come Narciso , s ' era eternamente specchiato . Per questo aveva potuto serenamente incontrarsi con lui , quando egli l ' aveva chiamata al Vittoriale , e considerarsi , in una villa a lei destinata nel parco , la sua ospite amica che tutto sapeva e tutto , se non perdonato , aveva compatito . La sua vita , dopo il distacco dal marito , era stata per molto tempo difficile . A Roma aveva vissuto per molti anni in un piccolo appartamento di piazza di Spagna , mettendo a frutto , per vivere , la sua perizia nel ritrovare , scegliere e ordinare le belle cose antiche . Non aveva , Donna Maria , come del resto i figli , certamente gravato sui bilanci spesso disordinati del poeta . Solo dopo la morte di lui aveva ricevuto un vitalizio sui suoi diritti d ' autore e l ' usufrutto perenne della villa Mirabella entro il secondo recinto del Vittoriale . Aveva finito per lasciare anche la sua ultima dimora romana , una pensione in una traversa di via Veneto , per vivere la metà dell ' anno a Gardone e l ' altra metà a Parigi , dove suo figlio Veniero , con i suoi guadagni di ingegnere in America , le aveva comperato e donato un appartamentino vicino all ' Etoile . Ad onta della tardissima età viaggiava da sola e a Parigi viveva sola , dopo che le era morta , sotto ad un bombardamento , una fedele cameriera . Durante la occupazione tedesca non aveva voluto restare sul lago di Garda , preferendo , a ottant ' anni di parecchio passati , vivere in solitudine nella città dei suoi avi francesi . Al suo ritorno aveva saputo che la sua casa di Gardone era stata abitata da una tragica creatura : da Claretta Petacci , che di lì era partita per andare alla morte . Aveva detto : « È destino che io , senza romanzo , viva accanto ai romanzi ! » . Era stata bellissima , come testimoniava , alla Mirabella , un grande ritratto dipinto da La Gandara che D ' Annunzio vi aveva fatto collocare come per dire che quella casa era della donna che non aveva mai dimenticato . Aveva sorriso , la vegliarda infaticabile , quando le era stato mostrato un volume francese intitolato Paris , mon coeur nel quale quel ritratto era riprodotto per far conoscere il « tipo ormai classico della donna francese , dell ' elegante parigina dei tempi di Maurice Donnay e di Paul Bourget » . Pur nella tardissima età , sottile nella figura , rapida e leggera nel passo , con i capelli colorati di rosso e pettinati come quelli delle donne di Boldini , la si vedeva andar in su e in giù , a piedi , per i sentieri della collina del Vittoriale , veramente simile , nella figura , a quelle ormai tramontate immagini che ispiravano un tempo il concetto dell ' alta e scintillante aristocrazia . Attendeva da anni serenamente la morte , ma intanto parlava della vita come di un bene che non si sarebbe esaurito mai . Fissava convegni e viaggi a distanza di mesi e di anni , e intanto , fermandosi in un certo angolo del parco , pensava anche a quella che poteva essere la sua ultima dimora . Comprendeva , nella sua fierezza di gran dama , di non poter chiedere d ' essere seppellita vicino al marito , dopo tanti trascorsi che avevano per quarant ' anni annebbiata la loro unione . Aveva indicato , per sé , un angolo del parco e un sarcofago di pietra come quelli nei quali Gabriele aveva chiuso le spoglie dei suoi legionari : ma diceva che doveva essere ornato , a mosaico , con i profili di due pavoni . Amava viaggiare , ma ogni volta , quando partiva per Parigi o per Charleville , la patria del poeta Rimbaud , dove aveva parenti e amici fedeli , lasciava ad una persona fidata , confermando così il suo istinto di donna ordinata e pratica come sono quasi sempre le francesi , una busta con il denaro che considerava potesse essere all ' improvviso necessario per riportarla , morta , in patria . La sua vitalità era sempre stata straordinaria . Aveva una attenzione estrema nel non rivelare i suoi anni . Nel 1882 , quando conobbe il diciannovenne D ' Annunzio , sembra che la duchessina fosse già maggiorenne . Lo era già , in ogni modo , nel 1883 , quando si sposò . Per la sua età , dunque , bisognava tirare a indovinare , facendo oscillare il pendolo fra i novantadue delle opinioni ottimiste e i novantacinque dei « pessimisti » . La primavera scorsa , ospitata in una clinica di Riva del Garda , aveva dichiarato , in tono di celia , di avere sessantacinque anni : e nessuno aveva osato contraddirla perché le sue risposte potevano essere sferzanti . Sette anni or sono , mi aveva tenuto un po ' il broncio perché , scrivendo dopo la morte del figlio suo Gabriellino , avevo parlato di lei come di una « vecchia signora » . Doveva essere già allora vicino agli ottantasette anni .
Peppino De Filippo ( Vergani Orio , 1959 )
StampaQuotidiana ,
Ecco , davanti a me , un viso « da magistrato » , quello di Peppino De Filippo . Trent ' anni fa , il viso di un giovanissimo pretore di primissima nomina , che ha vinto pochi giorni prima il concorso . Poi , di anno in anno , ha fatto carriera : dal magistrato di Pretura è giunto al Tribunale , è arrivato alle Assise , si avvia verso la Cassazione : lo vedrò con la toga della Corte Costituzionale : sempre magistrato è . Il viso un po ' assorto , in cui appare ogni tanto , pungente , un elemento di arguzia : un viso di calma dignità e un poco timido : ogni tanto , nella vita , la sua voce è insidiata da un trepidare che può sembrar persino un impaccio d ' una breve parvenza di balbuzie . Un magistrato un po ' filosofo , che ha avuto l ' infanzia non sempre comoda di tanti napoletani : che ha avuto compagni di scuola molto poveri e che conosce a fondo , pietoso , le miserie dell ' umanità . Dice giustamente Peppino : « In fondo , io ripugno dal comico di mezza misura e sono tutto fuorché un " brillante " : io sto tutto nella farsa o tutto nella tragedia : e la farsa sta gomito a gomito con la tragedia ... » . Ecco un giudizio da magistrato che non riesce a dividere gli uomini in due rigorose categorie , angeli e demoni : pietoso per i loro peccati , sorridente e un po ' dubitoso per le loro virtù . Con questo spirito , il « magistrato » Peppino ha scritto una cinquantina di commedie , con centinaia di personaggi dell ' umanità grigia , « buoni » intrisi di astuzia , sciocchi con lampi di genio , straccioni con una speranza di eleganza , tristanzuoli con una scintilla d ' oro di poesia , prepotenti che se la fanno sotto , cornuti illuminati da una incancellabile fede nella purità : una giornata di pioggia , un desiderio di sole ; le manette pronte , ma un sogno di guanti bianchi . Attore dall ' età di sei anni - il debutto avvenne con la particina del bambino Peppiniello in Miseria e nobiltà - De Filippo potrebbe raccontare a non finire storie di allegra , ma non sempre allegra , povertà . Era il mondo dei poveri guitti girovaghi - aveva lasciato la Compagnia di Vincenzo Scarpetta - nelle province napoletane . Ogni tanto , la sorte portava ad avventurarsi fino nell ' Abruzzo e nelle Marche . Peppino faceva un po ' di tutto : prosa , varietà , macchiettista in miseri teatrucoli , pianista in cinematografi di campagna , pittore di manifesti - la sua vera passione era quella della pittura - trovarobe , corista di operette . Fu in quegli anni lontani , addirittura amministratore della piccola troupe . Erano arrivati nelle Marche a piedi , risalendo dalle spiagge abruzzesi : e si erano addentrati in una vallata verso Jesi . Lassù , erano rimasti incastrati in un paesello di collina . Avevano montato il loro teatrino ambulante in uno sterrato fuori le mura : era nato così un piccolo teatro con « comodo di fave » . Il fondale dava sulla campagna buia : in quel buio , gli attori avevano scoperto alcuni campi di fave . Fra un atto e l ' altro , scivolavano giù dal rustico palcoscenico , facevano una rapida scorpacciata di fave , e poi , rinfrancati tornavano alla ribalta a recitare . Quando si trattò di ripartire da quel paesello , Peppino scese verso Ancona , per trovare un teatrino che li ospitasse . Era lui , o no , l ' amministratore ? Ed ecco nella torrida estate , Peppino partire a piedi , accompagnato dal « segretario » che era totalmente calvo . Ma perché i due attori avevano sulle guance una folta barba ? Nera , Peppino , e bianca , fluente il « segretario » , con un paio di occhiali neri da povero cieco . Fu Peppino a inventare , per diminuire la fatica della marcia , il sistema che oggi si chiama dell ' autostop . Erano luoghi quasi deserti . Ogni tanto si vedeva arrivare un carretto tirato da un somaro . Il « segretario » si sosteneva al braccio di Peppino , marciando curvo sotto il solleone . Quando il carretto li raggiungeva , Peppino indicava pietosamente il vegliardo : « Ci potreste dare un passaggio ? » . Il contadino si impietosiva e li accompagnava sino alla prima svolta , seduti sulle fascine . Un altro miglio a piedi , e poi spuntava un altro carretto . Quando Peppino De Filippo non reciterà più Le metamorfosi di un suonatore ambulante , cercheremo di raccontare ai nostri figli e ai nostri nipoti la scenetta in cui , affamatissimo « posteggiatore » , cerca di vedere chiaro in un certo imbroglio per il quale è richiesta la sua complicità . Il suonatore è napoletano e , come tale , gesticola vivacemente : le sue mani sono in continuo movimento e , ogni tanto , si protendono e restano sospese a mezz ' aria . Gli interlocutori credono che egli abbia finito di parlare , che l ' affare sia concluso e che sia venuto il momento di salutarsi : afferrano la mano del suonatore e la stringono cordialmente . Il discorso , invece , non è affatto finito . Bisogna liberare quella mano e riprendere la conversazione interrotta . Gli altri sono sempre pronti a stringere , sul più bello , la mano dell ' ambulante che non può frenare la sua mimica partenopea e che , se non muove le mani , non può parlare . La graduazione della sorpresa , dell ' impaccio , dell ' inquietudine , che prende e quasi paralizza l ' eloquenza del suonatore ambulante , crea un « crescendo comico » forse ineguagliato in questi ultimi anni : certo il più sottile e trascinante . Quando cercheremo di riferire questa scenetta ai nostri figli e ai nostri nipoti stenteremo a farci capire , come non capivamo i nostri vecchi quando ci parlavano del « gioco del ferro da stiro » di Eleonora Duse nella Locandiera o della « scena del candeliere » di Ermete Novelli nella farsa Felice il cerimonioso . Sono scoperte , gioie , sorrisi di cui gode solamente « chi vede » : intraducibili per « sentito dire » . Per questo , il teatro è forse fatto di incantesimi paragonabili a quelli dell ' amore , bellissimi quando viviamo il nostro amore , mentre , se ci raccontano quelli degli altri , ci sono assolutamente indifferenti .
Antologie ( Salinari Carlo , 1960 )
StampaPeriodica ,
L ' Antologia della Voce , che ha fatto seguito a quella del Leonardo , dell ' Hermes e del Regno ( entrambe edite da Einaudi ) e a quella della Critica sociale ( edita da Feltrinelli ) , le annunciate antologie de Il Rinnovamento , Nova et vetera , L ' Anima , Lacerba , eccetera , che dovrebbero presto venire alla luce , testimoniano l ' interesse sempre più acuto delle nuove generazioni a ripercorrere il cammino della cultura e dello spirito pubblico del Novecento , per rintracciarvi le origini dei problemi che ancora ci assillano . Ed è naturale che , in questo ritorno alle origini , il decennio giolittiano - con i suoi fermenti e il suo vivace dibattito ideale - divenga il polo principale di attrazione . È troppo presto , forse , per tirare le somme e giudicare nel loro complesso codeste iniziative editoriali : per ora si può solo rilevare che le due antologie einaudiane sono molto ben fatte e sono introdotte con notevole intelligenza da Delia Frigessi e Angelo Romanò : che invece qualche incertezza presenta l ' antologia della Critica sociale nella parte politica ed economica , ma non nella parte culturale che qui più direttamente c ' interessa . Tuttavia , anche se non è possibile un quadro d ' insieme , si può fin d ' ora notare che le recenti ricerche hanno completamente capovolto i canoni d ' interpretazione di quel periodo che avevano dominato la cultura italiana fino all ' ultimo dopoguerra . Vediamo . La reazione antipositivistica era stata sempre considerata una caratteristica rinnovatrice del movimento culturale del primo decennio del secolo . Ora si è portati a capovolgere il giudizio . Non già perché si voglia difendere il positivismo negli aspetti grossolani che facilmente prestarono il fianco alla polemica ( e anche alla irrisione ) idealistica : la metafisica che tradiva il significato più profondo della grande esperienza delle scienze ; il determinismo che non lasciava posto « per l ' uomo , né per la storia dell ' uomo » ; il facile ottimismo o la superficialità con cui si parlava di progresso e si orecchiavano le conquiste scientifiche . Si tende , invece , a lasciare da parte - come poco importante - la parte sistematica del positivismo e a richiamare l ' attenzione su altri dati più interessanti : che il positivismo sorge come una sorta di nuovo illuminismo sulla base dell ' espansione della civiltà borghese dell ' Ottocento ; che esso , pur cedendo a sua volta alle tentazioni metafisiche , rappresenta il movimento di pensiero che fa della lotta contro la metafisica il punto cardine del suo programma ; che con esso si rilancia la fiducia nella ragione umana , soffocata dal movimento romantico ; che esso agisce sull ' orientamento ideale e sul costume di larghissimi strati d ' intellettuali , creando una mentalità laica , illuminata , aperta alle idee di progresso , chiusa alle superstizioni religiose , sicura delle possibilità dell ' uomo , amante della scienza e dei risultati della sua applicazione nei vari campi della vita civile ; che esso - proprio per le caratteristiche fin qui indicate - ha una funzione particolarmente progressiva nel nostro paese arretrato , tagliato fuori da alcuni secoli dalle grandi correnti di pensiero europee , insidiato dalla presenza del Vaticano . Il positivismo , cioè , si presenta oggi allo storico moderno come l ' aspetto più clamoroso di un profondo rinnovamento che si operò , dopo il 1860 e la " aggiunta unità , fra gl ' intellettuali e nella cultura italiana . Rinnovamento benefico - nonostante i pericoli e le esagerazioni - se esso veniva a consolidare e a confermare sulla base degli orientamenti della scienza e del pensiero europei il carattere prevalentemente laico della cultura italiana ( derivato dal modo stesso con cui si era formato lo Stato nazionale in opposizione alla Chiesa ) ; se contro l ' interiorità e il mito dei romantici ( l ' ideale staccato dal reale di cui parlava De Sanctis ) poneva il sapere scientifico come « l ' obiettiva coscienza del reale » ; se postulava una natura universale dell ' uomo a cui faceva corrispondere « un ' etica naturale , fondata su leggi psicologiche e sociali » e alla cui conquista sembrava impegnata la stessa storia che si presentava così conte indefinito progresso ; se sotto l ' Italia ideale sognata nelle battaglie del Risorgimento sapeva scoprire un ' Italia reale - fatta di bisogni concreti , di arretratezza , di miseria - e , quindi , faceva affiorare anche da noi la cosiddetta « questione sociale » ; se non si accontentava dell ' unità politica realizzata nm si rendeva conto dell ' esistenza di un problema del Mezzogiorno ; se aveva coscienza di quanta Arcadia fosse rimasta nel nostro romanticismo , di quanto fossimo rimasti indietro rispetto alle altre nazioni e operava il collegamento con un grande movimento di cultura europeo , aprendo le finestre , rinnovando l ' aria e liberandoci da pregiudizi , limiti provinciali e residui accademici . 1Int uguale capovolgimento di giudizio può notarsi , anche nei confronti della reazione antinaturalistica , nonostante che , in questo campo , sia stato proprio un critico marxista , il Lukács , a introdurre uno schema d ' interpretazione negativo : considerando il naturalismo come una corruzione in senso fotografico e descrittivo del grande realismo ottocentesco . Oggi si tende a considerare il naturalismo come un rinnovamento importante e benefico della nostra letteratura , come il più avanzato tentativo dl arte realistica compiuto nella nostra storia letteraria . Gli elementi di fondo di tale rinnovamento sono gli stessi già indicati per il positivismo e sono alla base della rivolta un po ' velleitaria degli Scapigliati ( e anche a guardar bene dell ' atteggiamento ribelle del primo Carducci ) e , soprattutto , della grande arte di Verga e della critica di Capuana . Giustamente è stato osservato come non sia stato per caso che la crisi letteraria si manifestasse a Milano prima e piuttosto che altrove . Perché « i primi effetti e i più appariscenti della trasformazione economica e sociale che era in atto , coi suoi urti , coi suoi contrasti interni e con i rivolgimenti di fortune e di opinioni che ne derivavano , si fecero sentire appunto in quella città che allora si avviava a essere , come poi si disse , la capitale morale d ' Italia , e cioè la capitale dei traffici e degli affari , uno dei centri più operosi e vitali della nuova borghesia e della nuova cultura » . E non fu un caso che essa trovasse i suoi maggiori interpreti in Verga e Capuana perché era necessario « un passionale deflusso dal centro alla periferia , dal Nord al Sud , dal vertice alla base , dal mondo della scioperatezza e degli sperperi al mondo della diffidenza e della parsimonia , dalla vita di lusso a quella dei bisogni elementari e primordiali » per individuare il contenuto più nuovo e tipico : « la vita del meridione , che nella struttura del nuovo stato unitario non era più un modo dl vita circoscritto e locale , ma assurgeva già al significato e all ' importanza di uno fra i più tormentosi e urgenti problemi nazionali » . Appunto sulla base di questo nuovo contenuto sorge l ' arte di Verga , nutrita essenzialmente dall ' analisi del molteplice giuoco di forze economiche e sociali che determinano i comportamenti , i sentimenti e il destino degli uomini . Ed è proprio il canone dell ' impersonalità , quello studiare le forme e le strutture sociali come lo scienziato studia il prodursi dei fenomeni naturali , proprio quel suo « ritrovare nella società umana non già i grandi problemi morali ma - come lo scienziato nella natura - solo le leggi del suo funzionamento » , proprio tutto questo che gli è stato rimproverato come un limite e un errore , consente invece al Verga di cogliere - al di là delle contingenze storiche e della euforia borghese - la legge fondamentale della società moderna , implacabile come il fato degli antichi greci , a cui si assoggettano i suoi personaggi esponendo la nuda e dolente verità della loro condizione umana . Del resto , indipendentemente dal Verga , per il quale è stato riconosciuto da tutti che l ' incontro con il verismo ebbe una funzione liberatrice , i canoni del naturalismo , che sono stati poi ferocemente criticati e derisi , l ' impersonalità e quindi il ritrarre direttamente dal vero , quasi in modo fotografico ; la scientificità , intesa come riduzione degli elementi umani soprattutto a quelli fisici e fisiologici , in particolare a quelli della ereditarietà e dell ' ambiente ; il dialetto o il gergo che dovevano rappresentare il modo reale di parlare dei personaggi , se valutati nel momento storico cui furono postulati e in rapporto con i nuovi contenuti che volevano esprimere , risultano , sul piano della poetica , non solo giustificati ma necessari . Da questi due giudizi radicalmente capovolti si possono ricavare molte conseguenze . Ci limiteremo ad accennarne una : l ' infondatezza della cosiddetta sprovincializzazione che - secondo i canoni più diffusi d ' interpretazione del Novecento - sarebbe il merito fondamentale dei movimenti culturali del decennio giolittiano . In realtà sia il positivismo che il naturalismo erano movimenti europei : il loro diffondersi in Italia aveva già rappresentato una rottura del nostro isolamento culturale . Ma il positivismo e il naturalismo ricevettero in Italia una elaborazione nazionale , mentre il famoso processo di europeizzazione dei Papini e dei Prezzolini avvenne attraverso forme di importazione a cui non corrispose un adeguato sforzo di elaborazione . Avvenne , cioè , in modo provinciale . Come si vede , la problematica sollevata da questi studi è di estremo interesse e modifica gli orizzonti tradizionali della nostra cultura . È inutile dire che tale sforzo ci appare benefico e che le prospettive verso le quali si muove ci trovano perfettamente consenzienti .
Di Giacomo Salvatore ( Vergani Orio , 1949 )
StampaQuotidiana ,
Cerco di ritrovare , per le vie di Napoli , la figura di Salvatore Di Giacomo . Mi dice un amico : « Sta nell 'aria...» . Si guarda attorno , fa un cenno , indica qualcosa con un gesto circolare . È vero . Sta nell ' aria , il suo monumento è la strada di Napoli , il vicolo di Napoli , è la « tavernella » , è il « munasterio » è il « funndeco » di Napoli : è il sole , è l ' acqua , è lo scoglio , è il pino di Napoli . Bellissima convinzione : un po ' retorica . Napoli non ha fatto molto per il suo poeta . Gli ha dedicato una strada verso Posillipo e una lapide sotto alla finestra di « Marechiare » in ricordo di quella canzone tanto bella , scritta a diciotto anni , e la cui fama , mi hanno detto , un po ' lo infastidiva . Le proposte per onorare Di Giacomo non sono mancate : intelligenti , affettuose , entusiastiche . Si partì dalla semplice idea di un busto , si arrivò a quella di dedicare al suo ricordo un boschetto o una esedra arborea sul colle di Posillipo . Altri propose che le sue spoglie fossero collocate accanto a quelle di Giacomo Leopardi ; e subito qualcuno ricordò , sia pure a bassa voce , i dubbi sull ' autenticità delle ossa di Leopardi , di quel povero scheletro cui mancherebbe addirittura la testa . Città , più dolorosa che lieta , mi pare Napoli , piena di crucci , di affanni , di disastri cui è difficile rimediare . Le perle e le melanconie dei vivi sono tante che forse non si ha tempo di pensare a quelle dei morti , che forse vivono già nell ' eterna serenità . Un anno dopo la morte del poeta una lapide , è vero , fu collocata sulla casa dove era nato . Poi venne la guerra e vennero le incursioni aeree . Quella casa è stata colpita , è crollata , per un miracolo era rimasto in piedi il pezzo di muro dove era collocata la lastra di marmo . In mezzo a quello sfacelo e sotto le altre incursioni , la lapide restava , alla meglio , appiccicata a quel rudere . Poi cadde anche lei ; sparì : non si sa , naturalmente , dove sia andata a finire . Anche al numero 107 di via Santa Lucia , dove abitò gli ultimi anni della sua vita , di fronte a quella chiesa della Madonna della Catena dove vanno a pregare tutte le donnette del quartiere , il cui nome ricorre in ogni poesia e in ogni canzone napoletana , non c ' è un segno di ricordo . Forse era fatale che fosse così . Non si possono trasformare in musei degli appartamenti piccolo - borghesi , come quello in cui visse Di Giacomo , come tutti gli altri scrittori del suo tempo e non solamente napoletani . Non avevano , quegli scrittori , ville , eremi , Capponcine e Vittoriali . In una casa con cento finestre , come si può « eternare » la finestra di un poeta ? Mi dicono : « È nell 'aria...» . Di Giacomo ha i suoi fedeli , che credo siano tutti , o quasi , gente fra i cinquanta e gli ottant ' anni , legati al suo ricordo , oltre che dalla grandezza della sua poesia , anche da una certa nostalgia per la Napoli della loro gioventù , la « vecchia Napoli » , la cui vita intellettuale dava ancora dei punti a quelle di tutte le altre città italiane . Leopardi l ' aveva esaltata , moribondo , con il canto della Ginestra : Francesco De Sanctis aveva fatto da Napoli il dono all ' Italia intera di quella Storia della letteratura che , all ' Italia unita da pochi anni , aveva fatto per la prima volta intendere l ' unità dello spirito italiano attraverso i secoli . A suo modo , l ' Ottocento intellettuale di Napoli assomigliava , nella varietà e nella fecondità dei suoi aspetti , all ' Ottocento di Parigi , a quello che fu chiamato lo « stupido » Ottocento ' e che era invece - ce ne accorgiamo adesso a metà del Novecento - il prodigioso Ottocento . È probabile che Di Giacomo debba essere spogliato di un suo fogliame ottocentesco , liberato da una sorta di macchiaiolismo per far venire in luce tutto ciò che giustamente di virgineo e di greco fu trovato nella sua arte ed in talune sue illuminate sillabazioni di fremiti e sussurri . Fatto il lavoro di cernita , spogliata l ' ammirazione per lui del fatto affettuoso , il poeta resterà , e certamente in molte parti grandissimo e di misura italiana fra le più nobili . Segno di questa sua vitalità e di questa sua insostituibilità è il fatto che , a Napoli , per chi arriva da fuori , il suo nome e la sua opera sono ancora il miglior punto di orientamento quando ci si accorge subito che , dopo di lui , non è più il caso di parlare di « poesia napoletana » , essendo ormai spenti anche tutti i suoi rivali e i suoi epigoni . È nell ' aria anche un ' eredità non raccolta nel paese dove i Russo , i Bovio , i Murolo non hanno avuto una discendenza , né si pretende che possano averla , poiché anche la poesia ha le sue stagioni e non si può farla rinverdire artificialmente . Quella cara stagione è finita , quel giardino è chiuso : ma lo sentite come , dietro al muricciolo , profumano ancora i fiori della poesia di Di Giacomo ? Sono andato , una sera dopo il tramonto , a salutare la vedova del poeta , donna Elisa Di Giacomo , nella sua casa affacciata sui giardini della Riviera di Ghiaia . Donna Elisa era di almeno vent ' anni più giovane del poeta - bibliotecario quando , studentessa di lettere , andò da lui , in biblioteca , per chiedergli alcuni consigli su una tesi di laurea . Fu lei che , furtiva , depose sul tavolo del poeta un mazzolino di viole o di ciclamini . Salvatore viveva con la madre , era un vecchio ragazzo sentimentale e inquieto , molto timido forse sotto il suo largo cappello alla guappa . La studentessa dovette attendere assai prima che il poeta riuscisse a compiere il gran passo . Passeggiavano al sole , per via Caracciolo . Ad una parete della stanza c ' è un ' istantanea in cui la signorina Elisa ha tutta la grazia di un tempo in cui il sorriso della donna che si teneva a braccio del suo futuro sposo aveva la luce di un sentimento che oggi può sembrare ottocentesco e che si chiama Fiducia . Prima di diventare la sposa , fu la donna della poesia di Don Salvatore , quella dei malinconici struggimenti e degli inquieti sospiri , quella che a maggio saliva alla tavernella ' ncopp ' Antignano . Stamno a na tavulclla / tutte e dduie . Chiavo chiano / s ' allunga sta manella / e m ' accarezza ' a mano ... Adesso la signorina Elisa di un tempo è Donna Elisa , la professoressa che è andata quest ' anno in pensione , sottile nella figura , arguta nel volto . Vive sola al secondo piano di uno dei tanti vecchi solenni palazzi nobili di Napoli che hanno tutti , nel cortile e negli scaloni semibui , non so quale aria conventuale . In un nobile silenzio , vive con le finestre aperte su questa Napoli molto affettuosa ma - penso io - un po ' distratta , la buona signora che si vide morire fra le braccia , con lunghi anni di malattia , il vecchio poeta intristito . Questa è la Madonna di Di Giacomo : e quello lì , in quel disegno a penna di Paolo Vietri , il genero di Morelli , è lui , come era a diciotto anni .
FILOSOFIA NOSTRA ( - , 1940 )
StampaPeriodica ,
Vittorio Frosini della Scuola Normale Superiore di Pisa , da Capodistria , a proposito della lettera di Goffredo Pistoni , ci scrive , fra l ' altro : " Non si può negare l ' importanza della filosofia , se non come necessità e grandezza dell ' umano pensiero , come importante contributo d ' un popolo alla civiltà . Non dimenticatevi che , in una recente crisi politica dell ' Europa centrale , un grande popolo ha vidimato la necessità ideale di un suo gesto di forza , con l ' affermazione d ' una superiore cultura e civiltà , nel cui campo rientrava tutta una serie di pensatori , di filosofi pur devoti ad un totale concettualismo . " Quel che s ' impone è dunque l ' esaltazione di una nostra filosofia , che risponda alle nostre tradizioni e caratteristiche di Popolo . " Coll ' appellarsi al nome di quelli che furono , al lor tempo , tra i più alti rappresentanti della cultura e della filosofia in Italia Vico e Leopardi non si combatte la Filosofia , ma si rafforza l ' autorità d ' una filosofia : la Nostra . "
Eleonora Duse ( Vergani Orio , 1954 )
StampaQuotidiana ,
Trent ' anni sono passati dalla sua morte e ormai , in questi tre decenni , sono andati scomparendo quasi tutti coloro che conobbero Eleonora e l ' ascoltarono nel tempo della sua più fervida stagione che , vista adesso nella prospettiva della storia , non sembra sia stata quella dannunziana , anche se questa fu la più folta di eventi e di cronaca . Nel teatro di D ' Annunzio , probabilmente , la Duse esaurì la sua forza vitale non tanto per le vicissitudini di una passione che ebbe molte illuminazioni , ma anche molti disinganni , quanto perché , prima di D ' Annunzio , nei testi che recitava c ' era sempre stata , bene o male , la vita , mentre , dal Sogno di un mattino di primavera in poi , il teatro di Gabriele le offrì più che altro perfettissime parole d ' oro . La Duse apparteneva - o la precedeva di poco - alla generazione del verismo venuta al mondo delle scene italiane quasi in reazione ai tragici paludamenti di Adelaide Ristori e al « velluto » e al « tuono » di Ernesto Rossi e di Tommaso Salvini . La famiglia da cui usciva era di attori dialettali , originariamente chioggiotti : figli cioè di una razza popolana in cui le tradizioni fondamentali sono quelle della povertà e della delusa melanconia . Agli attori dalle voci d ' oro e dai polmoni di bronzo che essa avrebbe dovuto considerare i suoi maestri , sembrò sempre una « nevrotica » , una creatura debole e inquieta . Essi erano abituati a dar voce ai giganti : a Ree Regine , e non a gente di tutti i giorni , i cui sentimenti non erano di misura « eroica » , ma , tutt ' al più , di drammaticità quotidiana . Tommaso Salvini , titano della scena ottocentesca , la collocava un gradino più in alto di Sarah Bernhardt , che egli considerava una « meticcia » perché , non figlia d ' arte , e come tale , quasi quasi , una grandissima dilettante . Alla Duse , anche come figlia d ' arte , riconosceva il diritto d ' esser considerata un ' attrice « di razza » , ammirevole in un preciso gruppo di caratteri , dai quali la consigliava di non uscire mai , ammirevole nell ' esprimere l ' amore contrastato , la gelosia , il dispetto , il rancore , la recriminazione repressa dei torti ricevuti , il rammarico o un intenso dolore , ma non adatta ai sentimenti « alteri , grandi , maestosi » . Attrice della realtà drammatica borghese e non della misura tragica , attrice che , spiritualmente e tecnicamente , precedeva il gusto del Théâtre Libre alla Antoine , l ' incontro con D ' Annunzio la convinse di aver trovato l ' approdo al porto di un superiore teatro di poesia . L ' inchiostro del giudizio di Tommaso Salvini , che contiene forse non pochi elementi di saggezza , era ancora fresco quando , nel 1898 , con il Sogno di un mattino di primavera , Eleonora pensò di salire un gradino più in alto del suo destino di interprete di anime « borghesi » . A trent ' anni dalla sua morte , gli spettatori contemporanei della sua grande stagione sono tutti scomparsi . Restano , fra i critici e gli storici del teatro , solo coloro stessi che l ' hanno udita quasi esclusivamente nel periodo dannunziano e hanno dovuto aspettare il suo ritorno alle scene nel 1921 , ormai stanca e canuta , per riscoprirla , dopo quattordici anni di « esilio » , negli accenti del dramma ibseniano e del realismo venato di patetico romanticismo di Praga . Nel tempo della riscoperta della Duse - e della sua scoperta per gli spettatori che avevano poco più di vent ' anni quando essa uscì dal suo lunghissimo silenzio - la sua leggenda era già formata . Da una parte , c ' era il gruppo degli anziani e dei vecchi che , pur ammirandola , l ' avevano definita « nevrotica » e « pososa » , dall ' altra quelli che , parteggiando per il suo lungo e dolente romanzo d ' amore e per il sacrificio ch ' essa aveva fatto al sogno di un teatro « di poesia » - termine su cui è difficilissimo intendersi - parlavano di lei come della « santa » e della « martire » . Solamente Santa Teresa di Lisieux , solamente Bernadette hanno avuto biografi esaltati e lagrimanti come lo furono , per la Duse , il francese Schneider e Matilde Serao . D ' Annunzio stesso , che per una fatalità di temperamenti l ' aveva così mal compresa , l ' aveva chiamata « la Divina » . Le ciocche dei capelli bianchi quasi incolte , la vita in ombra per tanti anni , una vaga aspirazione religiosa , il suo sognare di essere maestra di giovani , la sua povertà nomade dall ' uno all ' altro rifugio segreto , la sua dichiarazione , una volta , di voler recitare solamente invisibile , per dar voce alle marionette del Teatro dei Piccoli nella Tempesta di Shakespeare , la sua riluttanza a mostrare il volto all ' obbiettivo di Cenere perché per lo schermo dovevano bastare le sue sole mani , le sue lettere scritte in inchiostro viola , a velocità frenetica , disseminate di puntini di sospensione e di sottolineature , i veli quasi monastici e vagamente languidi dei suoi cappellini estivi , la sua gracilità , la sua tosse , la sua febbre erano tutti elementi della leggenda alla quale si affacciarono nel 1921 gli spettatori poco più che ventenni . Si andava a sentire una donna o una santa ? Dovevamo pensare al suo lontano passato di donna o dimenticarlo ? Dovevamo vederla solo come avesse avuto il capo coperto dalla cenere dei deludenti fuochi dannunziani ? La fortuna ci aiutò : la donna che , tra il 1895 e il 1921 , aveva dato se stessa , con l ' arte prima e poi con il silenzio , a D ' Annunzio , ci apparve senza le tracce e senza le cicatrici gloriose del suo sacrificio alla « bella parola » che tanto a lungo l ' aveva incantata . Ci apparve , nella Donna del mare e nella Porta chiusa , la donna che essa era stata nelle sue giovanili ore grandissime , tutta immersa nella Vita , in un suo trasumanato realismo . E non ci sembrò una semplice coincidenza che Eleonora fosse nata nel 1859 , tre anni dopo che Flaubert aveva messo al mondo Madame Bovary . Emma è del 1856 , Eleonora del 1859 . Si può imputare alla Duse d ' avere creduto , oltre che alla sua nativa realtà poetica , in una poesia al di fuori del « vero » che le sembrò più alta della prima , e di non aver inteso la differenza tra « cosa » e « parola » ? Non era caduto nello stesso errore Flaubert , scrivendo la rimbombante Salammbô e le Tentazioni di Sant ' Antonio ? La sua crisi e il suo dramma segreto furono una crisi e un dramma di valutazioni sbagliate sotto l ' impeto di un entusiasmo d ' amore . Figlia della grande generazione della Bovary , dobbiamo stupirci che essa , ad un certo momento , abbia creduto più nelle « atmosfere » di Francesca e della Città morta che in quelle del realismo e del naturalismo in cui , con reazione antiromantica , era nata ? Essa fu certamente l ' unica attrice degna di essere definita « flaubertiana » , la grande sorella italiana di Emma Bovary e , facendo un passo più avanti nel tempo , di Anna Karenina . Ebbe maestri ? Figlia di attori oscurissimi , sua prima maestra fu certamente la povertà dei nomadi che le dette la coscienza di quel dovere ch ' essa chiamò , umilmente , il lavoro . Forse , nell ' infanzia e nella prima adolescenza recitò anche diversamente da come le avrebbe comandato il suo istinto , così come volevano attorno a lei la voce e la cadenza dei compagni . Nessuno pensava che si avvicinasse il tramonto del tempo romantico , e fanciulla , dicendo quasi senza capirle le battute dei grandi testi d ' amore , un ' eco romantica passò nella sua voce . Nelle tragedie come la Francesca da Rimini di Silvio Pellico , giovinetta , declamò come poi non fece mai . La liberazione del suo istinto cominciò con le parole di Giulietta , nel dialogo d ' amore con Romeo , con una rosa sfogliata quasi ad ogni parola . La morte della madre le aveva aperto l ' anima alla verità del dolore . Negli anni del suo debutto , quella di Eleonora è una storia di stenti , di lunghe miserie , di molta autentica fame , di abiti poverissimi , di teatri squallidi , di inverni gelidi , di lunghi notturni estenuanti colpi di tosse . Era piccola , magra , bruna , fu detto , come una calabrese . Talvolta la sua gracile bellezza fioriva in un improvviso turgore dell ' adolescenza , ma poi già si velava d ' ombre , si scavava intensamente nelle guance dagli zigomi risentiti . L ' alto arco delle sopracciglia sembrava , sugli occhi vasti , profondi , un nido di interrogazioni . Ebbe in verità , come le maschere del Teatro Antico , due volti : l ' uno forte , sereno , anche ridente , perché non sempre la sua anima era solamente dolore ; l ' altro scolpito con i segni della delusione come in una cera scura , nella cera della sofferenza . Il volto della Locandiera il primo : quello della Signora delle camelie , il secondo . Illusione e delusione furono in modo sovrano le due espressioni dominanti di quel viso che diventò celebre in tutto il mondo ; reclinato e come concentrato sulla fiamma di un sorriso che dava un fremito alla bella bocca ampia : in alto nelle interrogazioni del dolore come sotto al soffio di un vento che volesse tutto rimodellarlo , in un sospiro o in un gemito . Diventò donna , e recitò tutto . Non poteva permettersi una scelta , né di compagni né di repertorio . Pareva dovesse restare sempre una genericuccia , dicevano che non aveva voce né scatto né energia di dizione : pareva non avesse mestiere , e tanto meno , davanti a sé , un destino . A Trieste il pubblico fu duro : chiese che venisse cancellata dalla locandina . Poi fu un primo passo avanti , recitando vicino al Belli - Blanes , a Giovanni Emanuel , a Giacinta Pezzana , a Cesare Rossi . A Napoli , una sera , il pubblico ebbe l ' impressione di vedere per la prima volta in scena la vera Ofelia che andava verso la morte . Rossi , Emanuel , Giacinta Pezzana sono i primi maestri , e subito la Duse diventa una loro pari . Eleonora è portata dalla sorte a non dovere più ripetere l ' accento dei vecchi modesti compagni che andavano orecchiando di maniera le intonazioni e il gesto dei grandi attori romantici come Salvini e la Ristori . Rossi , Emanuel e la grandissima Pezzana le confermano che il teatro ha una voce nuova , che cammina verso una verità più meditata , più acuta , più intensa . L ' attrice che reciterà Teresa Raquin scoprirà che il romanticismo è finito e che il « vero » sta arrivando alla ribalta . La sua ansia di verità non chiede altro . Scoperta la via , riconosce che è quella verso cui la portava il suo istinto e su cui la guida la sua giovanile meditazione . Viene l ' ora di quelle che saranno le prime grandi creazioni : cominciano gli anni vertiginosi della Principessa di Bagdad , della Moglie di Claudio , della Signora delle camelie . A ventitré anni qualcuno la paragonava già alla Bernhardt . Amò . Ma l ' uomo della leggenda era ancora un giovinetto e apparve quando già la giovinezza di Eleonora cominciava a sfiorire . Amò come ogni altra donna uomini della sua vita di tutti i giorni : un giornalista napoletano : la lasciò con un figlio in grembo che doveva morire nascendo . Fu sposa , ma senza torridi fuochi d ' amore , di un compagno d ' arte , Tebaldo Checchi . Amò , con un improvviso ardore , il compagno d ' arte Flavio Andò che recitava con lei nella Signora delle camelie . Per lui creò il grido « Armando ! Armando !...», che diventò leggenda . Ma di tutto questo , sia nelle illusioni che negli errori - come il distacco dal marito che lasciò a lei la cura della figlia Enrichetta - si parlava , a quei tempi , a bassa voce . La storia dei « palpiti » della giovane attrice , che sta già conquistando la sua celebrità nel mondo , non giunge che sommessamente al di là del sipario . Non diventa cronaca . Di amore , per lei , devono parlare palesemente al mondo solo i personaggi , ed ecco la Duse creare , come forse nessuno prima di lei aveva potuto , il personaggio a cento volti che sarà per tutta la vita quello della grande innamorata . La donna , insomma , in funzione della passione , della gelosia , del peccato , della espiazione , dell ' abbandono quasi allucinante del cuore e dei sensi : in funzione anche della perfidia , della civetteria , della crudeltà . Non più l ' eroismo modellato dalle grandi voci del romanticismo , ma quello della quotidiana verità della natura umana . Verismo o cosiddetto verismo ? In molti casi , si tratta di teatro borghese , adattamento « domenicale » della verità , in modo persino vieto e frusto . La Duse non amò le Odette e le Fernande . Ma essa sapeva essere più in alto dei testi che recitava , più forte delle « battute » e delle « scene madri » , perché il suo lavoro era fatto tutto di approfondimento nell ' interno del personaggio , o , come amava dire , nelle sue « fodere » . Cosa trovava là dentro ? Trovava se stessa , il suo io di donna sempre pronto a rivelarsi e a moltiplicarsi in cento aspetti . Non più adattamento da teatro domenicale , ma una sua verità che poteva assomigliare , appunto , a quella di Emma Bovary o di Anna Karenina . L ' ansia per un « vero » fatto di poesia e di meditazione l ' agita sempre più intensamente . Su questa strada arriverà a Ibsen , e sarà un giorno , a trent ' anni , l ' interprete di Casa di bambola . Aveva già amato un poeta . Ma l ' amore per Boito fu probabilmente l ' unione con un « compagno d ' intelligenza » . L ' attrice è celebre ormai in tutto il mondo quando incontra quello che sarà l ' uomo del suo destino . Per D ' Annunzio fu « obbedienza infiammata » . Non si vuole fare il processo al « superuomo » . Ella stessa non lo fece mai . Sognò per lui ogni impresa , affrontò ogni sacrificio , lo stimolò a creare , lo difese contro il pubblico , modificò il proprio stile per adattarlo alla sua parola , perdonò certe pagine del Fuoco che l ' avevano amareggiata . Per lui , più giovane di cinque anni , la Duse combatte la battaglia d ' amore della donna che sente già la propria giovinezza dileguare . Di volta in volta , si esalta e si rattrista e in segreto si umilia . Vuole amare le cose che egli ama , leggere i libri ch ' egli legge , prediligere le pitture , i luoghi , le spiagge che quel gran « cicerone » le fa conoscere . Anch ' egli l ' ama , ma non con devozione eguale . La Duse ha quarantacinque anni , quando D ' Annunzio scrive la Figlia di Jorio . Ma il canto disperato di Mila non sarà più per lei dal momento in cui l ' attrice scopre che il castello dell ' amore si è incenerito e che davanti all ' inganno bisogna uscirne come una donna velata . Sono , adesso , ancora nuove strade , nuovi viaggi , nuove esperienze nei nomi di Ibsen , di Maeterlinck , di Gor ' kij . Essa è sempre più « l ' attrice del mondo » , pallida malata , con un viso da esilio per un dolore di cui non parla mai . Si ritira . Comincia il grande silenzio . Quattordici anni e la povertà le dice : « Bisogna ritornare ... » . Ormai la sua salute è minata , un filo d ' aria fredda basta a ferirla . La sera del grande ritorno una specie di galleria di tela si dice la protegga dalle correnti d ' aria quando esce dal camerino per entrare in scena . Ha i capelli bianchi , non ha voluto nemmeno un filo di cipria « per non mentire » . I fiori saranno , da allora in poi , sempre per una chiesa . « Dammi , Signore , un cuore vigilante in modo che nessun pensiero estraneo mi porti lontano da te ... » , diceva una preghiera che le era cara . Ormai era tutta nella fede . Ancora l ' Europa , ancora l ' America , sempre più stanca , sempre più fragile , finché basta uno scroscio di pioggia , sulla porta chiusa del teatro di Pittsburgh , per spegnerla . Così basta poco per morire alle bambine malate del paese dei suoi avi sui canali di Chioggia battuti dal vento dell ' Adriatico , là nel paese dove , a quattro anni , aveva recitato la parte di Cosetta in una riduzione dei Miserabili .