StampaQuotidiana ,
Carnera
debutta
a
Milano
nelle
giostre
ammaestrate
della
lotta
libera
,
del
catch
.
Mi
dicono
che
abbia
nuovamente
fortuna
.
L
'
ho
conosciuto
molti
anni
fa
,
a
Barcellona
,
ed
è
probabile
,
è
anzi
sicuro
,
che
egli
non
si
ricordi
affatto
di
me
.
Eppure
,
appunto
perché
egli
mi
fece
tornare
fanciullo
,
fui
il
suo
profeta
.
Attorno
a
lui
i
grandi
saggi
,
i
grandi
sapienti
della
scienza
sportiva
segretamente
sghignazzavano
.
Essi
lo
avevano
già
visto
a
Milano
,
in
una
esibizione
di
pugilato
al
Palazzo
dello
Sport
,
lo
avevano
inquadrato
dal
basso
in
alto
,
arcuando
scetticamente
un
sopracciglio
,
lo
avevano
scientificamente
«
soppesato
»
.
Avevano
guardato
le
vene
varicose
delle
sue
gambe
affaticate
per
sostenere
quella
sua
mole
torreggiante
:
avevano
detto
che
il
suo
pugno
era
lento
come
un
«
merci
»
;
gli
negavano
ogni
intelligenza
e
ogni
spirito
combattivo
.
Davanti
alle
loro
definizioni
-
«
colosso
dai
piedi
d
'
argilla
»
,
o
,
più
popolarescamente
,
«
sacco
di
patate
»
-
io
tremavo
,
prendendo
il
treno
che
,
sul
finire
del
novembre
1930
,
mi
portava
in
Spagna
per
assistere
al
suo
incontro
con
Paolino
Uzcudum
.
Avevo
visto
al
lavoro
,
quattro
o
cinque
anni
prima
,
il
«
toro
di
Bilbao
»
.
Contro
l
'
ex
spaccalegna
che
aveva
il
torace
ampio
,
quadrato
,
solido
come
una
cassaforte
cosa
avrebbe
fatto
quel
marmittone
di
gigantesco
emigrato
friulano
?
Primo
Camera
,
da
ragazzino
,
aveva
frequentato
le
scuole
dei
mosaicisti
di
Sequals
,
dove
l
'
arte
delle
«
tessere
»
è
tramandata
,
dicono
,
sin
dai
tempi
di
Aquileia
.
Mosaicista
contro
Spaccalegna
.
Chi
avrebbe
vinto
?
Segretamente
puntai
sul
Mosaicista
.
Emilio
Colombo
,
mattatore
bonariamente
roboante
del
giornalismo
sportivo
,
lo
indovinò
:
e
mi
guardava
con
sorridente
,
amichevole
pietà
.
Condannato
io
pure
alla
vecchia
legge
che
impone
al
cronista
sportivo
il
pronostico
,
dopo
aver
visto
Carnera
,
dopo
aver
parlato
con
Carnera
,
scrissi
:
«
Il
Mosaicista
batterà
il
Legnaiolo
»
.
A
Carnera
chiesi
:
«
Come
va
?
»
.
Mi
rispose
:
«Così...»
.
Eravamo
nella
stanza
di
un
albergo
sulle
Ramblas
di
Barcellona
.
Camera
era
disteso
sul
letto
e
un
cinese
lo
massaggiava
.
Seduto
vicino
al
letto
stava
il
suo
manager
,
il
giornalista
che
lo
aveva
scoperto
due
o
tre
anni
prima
in
un
baraccone
di
lottatori
da
fiera
.
Il
giornalista
era
un
ometto
piccolo
che
pesava
cinquantacinque
chili
contro
í
centoventi
del
suo
pupillo
,
e
che
aveva
un
accenno
di
baffi
alla
Menjou
.
Vigilava
sul
massaggio
e
vigilava
,
mi
sembrò
,
anche
sulle
risposte
del
gigante
,
che
,
prima
di
parlare
,
lo
guardava
intimidito
come
fa
un
grande
cane
con
il
suo
piccolo
padrone
.
Sull
'
attaccapanni
era
appesa
la
giacca
di
Carnera
:
vasta
come
un
paltò
.
Di
sotto
il
letto
,
spuntavano
le
famosissime
scarpe
del
gigante
,
che
per
qualche
tempo
furono
celebri
come
le
scarpe
di
Charlot
.
I
vetri
erano
socchiusi
:
l
'
estate
torrida
.
Il
nudo
colosso
era
depilato
scrupolosamente
:
la
mano
untuosa
del
cinese
correva
sul
torace
,
sul
ventre
,
sulle
cosce
,
sulle
reni
.
La
stanza
era
piccola
:
sembrava
che
i
piedi
del
gigante
la
occupassero
tutta
.
Sapevo
la
sua
storia
ed
era
inutile
me
la
facessi
ripetere
.
Al
paese
,
un
pane
scarsissimo
,
come
in
tante
case
delle
Prealpi
friulane
.
A
dodici
anni
,
un
biglietto
di
terza
classe
,
l
'
indirizzo
di
un
cugino
in
un
villaggio
delle
Lande
francesi
.
Il
colossale
ragazzo
friulano
aveva
ripercorso
la
strada
che
vent
'
anni
prima
era
stata
familiare
a
Gabriele
D
'
Annunzio
quando
cantava
press
'
a
poco
così
:
«
Ascolto
il
grido
della
procellaria
/
nel
vento
della
Landa
solitaria
...
»
.
Ma
il
grido
delle
procellarie
non
interessava
il
ragazzo
:
egli
non
udiva
altro
che
il
grido
,
molto
più
insistente
,
dell
'
appetito
.
Mosaicista
,
legnaiolo
,
manovale
,
muratore
:
nessun
mestiere
gli
dava
abbastanza
da
sfamarsi
.
Alla
meglio
,
masticò
qualche
lenta
parola
di
francese
,
con
una
voce
cupa
e
gutturale
.
Aveva
ossa
colossali
da
uomo
delle
caverne
:
ma
rivestite
di
poca
carne
.
Il
padrone
di
un
baraccone
disse
.
«
A
forza
di
zappa
,
lo
farò
ingrassare
e
ne
farò
un
numero
che
sbalordirà
tutti
i
villaggi
delle
Lande
e
della
Guascogna
»
.
Così
,
fiutando
come
un
cane
randagio
un
calderone
di
minestra
,
il
ragazzo
,
vagabondo
da
un
cantiere
all
'
altro
,
trova
la
sua
strada
che
lo
porta
alle
tende
delle
baracche
e
dei
circhi
.
Alla
sera
,
nelle
luci
dell
'
acetilene
,
sta
in
fila
con
gli
altri
lottatori
sulla
pedana
della
baracca
.
soia
a
stando
di
due
palmi
tutti
i
compagni
.
In
pochi
mesi
tocca
i
centotrenta
chili
e
supera
di
parecchio
i
due
metri
di
statura
.
Un
futuro
corazziere
?
No
.
Non
potrebbe
farlo
perché
ha
i
piedi
appiattiti
dal
peso
che
su
essi
sovrasta
.
A
vedere
quei
torace
,
là
,
sul
letto
d
'
albergo
di
Barcellona
,
non
si
poteva
far
a
meno
di
dire
:
«
Questo
è
certamente
l
'
uomo
più
forte
del
mondo
»
.
Il
Padreterno
s
'
era
tolto
il
capriccio
di
fare
venire
al
mondo
una
statua
.
Dalla
cintola
in
su
,
Carnera
era
un
capolavoro
della
creazione
.
Quel
«
sacco
di
patate
»
era
degno
di
Fidia
,
di
Giove
,
dei
Ciclopi
.
Si
deve
a
quel
torace
se
il
mondo
ha
avuto
il
«
romanzo
Carnera
»
,
la
sua
strana
storia
di
Tarzan
tante
volte
gabbato
dai
piccoli
uomini
furbi
,
colossale
e
-
dicevano
i
saggi
-
incapace
di
cattiveria
,
ibrido
di
semidio
e
di
disgraziato
,
imbarcato
sull
'
altalena
della
vita
che
,
una
volta
,
lo
portava
verso
la
ricchezza
e
,
un
'
altra
volta
,
giù
nella
miseria
,
costretto
sempre
a
risalire
faticosamente
.
Vinse
a
Barcellona
.
Rivinse
Per
lui
,
si
mosse
anche
Mussolini
.
L
'
Italia
ebbe
in
questo
emigrante
friulano
dalla
voce
gutturale
e
dal
mento
«
senza
grinta
»
,
senza
volontà
in
un
tempo
di
«
mascelle
volitive
»
il
suo
unico
campione
del
mondo
.
Poi
,
il
ko
,
í
lestofanti
che
lo
abbandonano
dopo
aver
fatto
volatilizzare
i
suoi
guadagni
,
persino
un
periodo
di
immobilità
per
una
paralisi
,
e
il
lento
,
affranto
risollevarsi
e
di
nuovo
la
povertà
del
vagabondo
che
vende
per
le
strade
,
davanti
a
un
tavolino
pieghevole
,
bustine
di
lamette
da
barba
.
Adesso
,
con
il
catch
ammaestrato
,
pare
abbia
fatto
nuovamente
fortuna
.
StampaQuotidiana ,
Racconta
un
vecchio
collega
bolognese
:
«
Me
lo
ricordo
,
come
fosse
adesso
.
Antonio
Cervi
era
un
uomo
buono
,
cordiale
,
sempre
di
buon
umore
.
Una
vera
eccezione
,
vederlo
preoccupato
.
Per
questo
non
mi
sono
passati
di
mente
i
giorni
dell
'
ultima
settimana
dell
'
aprile
del
1901
.
Non
si
poteva
dire
che
Antonio
Cervi
fosse
di
malumore
,
ma
certamente
non
era
il
solito
Cervi
.
Finalmente
si
sfogò
con
me
.
"
Sto
aspettando
,
di
giorno
in
giorno
,
che
mi
nasca
un
bambino
.
Ora
,
maschio
o
femmina
che
sia
,
non
vorrei
che
mi
combinasse
lo
scherzo
di
nascere
la
sera
di
una
'
prima
'
'
.
Lo
so
che
è
difficile
farglielo
capire
,
ma
bisognerebbe
che
lo
sapesse
subito
.
Se
uno
è
figlio
di
un
critico
drammatico
,
non
si
nasce
mai
la
sera
di
una
'
prima
'
"
»
.
Antonio
Cervi
-
il
suo
pseudonimo
era
quello
,
un
po
'
misterioso
,
di
Gace
,
che
,
secondo
quanto
ricorda
il
figlio
Gino
,
ma
che
ignorano
i
dizionari
,
dovrebbe
essere
un
personaggio
della
Mitologia
-
era
critico
drammatico
del
«
Resto
del
Carlino
»
.
Il
piccolo
Gino
«
obbedì
»
.
Il
3
maggio
del
1901
non
c
'
era
nessuna
«
prima
»
né
al
Teatro
Brunetti
,
né
al
Corso
,
ne
al
Contavalli
,
né
al
Nazionale
che
aveva
proprio
in
quel
tempo
lasciato
l
'
antico
bizzarro
nome
di
Teatro
della
Nosadella
,
né
all
'
Arena
del
Sole
.
Antonio
Cervi
poté
dunque
restare
a
casa
e
ricevere
dalla
levatrice
l
'
annuncio
:
«
È
un
bel
maschio
!
»
.
Gino
Cervi
è
dunque
l
'
unico
attore
che
sia
figlio
di
un
critico
drammatico
.
Suo
padre
lo
fu
per
trentaquattro
anni
,
dal
1889
al
1923
.
Rincasava
nel
pieno
della
notte
,
alle
tre
e
alle
quattro
del
mattino
.
Entrava
in
punta
di
piedi
per
non
svegliare
i
bambini
.
Stava
ancora
un
po
'
sveglio
,
per
leggere
il
giornale
di
cui
aveva
portato
a
casa
una
delle
prime
copie
fresche
di
inchiostro
.
Alla
mattina
,
erano
i
bambini
,
che
per
andare
a
scuola
,
dovevano
uscire
in
punta
di
piedi
.
A
mezzogiorno
,
all
'
ora
dei
tortellini
,
il
papà
parlava
di
quanto
aveva
sentito
a
teatro
la
sera
avanti
:
esprimeva
certe
opinioni
che
nel
giornale
erano
state
attenuate
o
velate
.
Per
non
rovinare
le
Compagnie
,
i
critici
dei
giornali
importanti
non
potevano
divertirsi
al
gioco
del
massacro
,
mordendo
e
sbriciolando
a
destra
e
a
sinistra
.
Anche
allora
si
diceva
che
il
teatro
era
«
in
crisi
»
.
Le
Compagnie
primarie
erano
una
quarantina
,
sempre
con
non
meno
di
una
trentina
di
attori
scritturati
;
quelle
secondarie
un
'
ottantina
e
un
centinaio
quelle
di
terz
'
ordine
.
L
'
Italia
aveva
una
popolazione
viaggiante
di
45
mila
attori
e
attrici
.
Bologna
era
la
loro
segreta
capitale
,
come
si
dice
che
Gonzaga
,
presso
Mantova
,
sia
quella
degli
zingari
.
Gino
respirò
sempre
teatro
.
Subito
dopo
le
aste
-
in
quell
'
anno
fu
portato
in
braccio
a
vedere
i
funerali
di
Carducci
-
imparò
a
leggere
sulle
colonne
del
«
Resto
del
Carlino
»
,
per
la
curiosità
di
sapere
che
cosa
scrivesse
suo
padre
.
Imparò
il
significato
di
certe
frasi
:
«
reiterati
applausi
,
recitazione
incisiva
,
palesi
segni
di
dissenso
,
bene
gli
altri
»
.
Imparò
presto
alcuni
nomi
assai
difficili
:
Shakespeare
,
Marivaux
,
Bjørnstjerne
Bjørnson
,
Portoriche
.
Sognava
i
teatri
come
regge
misteriose
,
con
i
palchetti
dorati
,
con
le
poltrone
di
velluto
rosso
.
In
casa
erano
familiari
i
nomi
di
Panzacchi
,
di
Lipparini
,
di
Olindo
Guerrini
,
di
Testoni
sulle
cui
ginocchia
il
piccolo
Gino
aveva
ballato
.
Accompagnando
il
padre
a
spasso
,
Gino
-
polpacci
nudi
,
giubba
alla
marinara
col
fischietto
nel
nodo
della
cravatta
-
entrava
nella
libreria
di
Zanichelli
.
Ogni
tanto
Antonio
si
fermava
a
parlare
con
un
grosso
uomo
dall
'
aspetto
di
timido
campagnolo
vestito
di
nero
.
Era
Giovanni
Pascoli
.
Di
Carducci
si
parlava
come
di
un
Nume
scomparso
fra
le
nuvole
ma
sempre
misteriosamente
presente
.
Antonio
Cervi
,
al
cui
cuore
cordiale
era
stata
sempre
cara
la
parte
del
paciere
,
era
riuscito
a
riconciliare
Carducci
con
D
'
Annunzio
-
non
c
'
erano
mai
stati
veri
attriti
,
ma
certe
diffidenze
sì
-
nel
famoso
banchetto
in
cui
,
avendo
Carducci
offerto
il
vino
a
D
'
Annunzio
,
questi
aveva
detto
:
«
Grazie
...
Non
bevo
mai
...
»
il
Leone
di
Maremma
aveva
risposto
un
po
'
bruscamente
:
«
Io
,
sempre
!
»
.
Bologna
,
era
amica
del
teatro
fin
dal
Seicento
,
quando
ogni
famiglia
patrizia
aveva
un
suo
piccolo
palcoscenico
,
in
casa
Zoppio
,
in
casa
Pepoli
,
in
casa
Casali
,
all
'
accademia
degli
Ardenti
o
dei
Riaccesi
.
Nel
Settecento
,
c
'
era
stato
un
teatro
persino
nel
Palazzo
del
Podestà
.
I
patrizi
avevano
le
loro
sale
da
spettacolo
anche
nelle
ville
sui
colli
.
Per
quella
privata
della
famiglia
Albergati
,
che
ospitava
durante
l
'
estate
tutto
il
patriziato
bolognese
,
Goldoni
scrisse
cinque
commedie
,
fra
le
quali
Il
cavaliere
di
spirito
e
l
'
Osteria
della
Posta
.
Perché
gli
attori
volevano
bene
a
Bologna
?
C
'
erano
camere
,
alloggi
,
locande
a
poco
prezzo
.
Le
padrone
di
casa
erano
cordiali
,
socievoli
,
aspettavano
molto
pazientemente
l
'
affitto
,
magari
da
un
anno
all
'
altro
.
Le
porzioni
di
fettuccine
erano
abbondantissime
.
La
popolazione
amava
passeggiare
fino
a
notte
tarda
,
certi
caffè
erano
aperti
fino
all
'
alba
.
Alla
legione
degli
attori
,
delle
attrici
,
dei
generici
e
delle
attricette
si
aggiungevano
gli
innumerevoli
filodrammatici
.
Ogni
tanto
questi
ultimi
organizzavano
tournées
nei
centri
anche
più
minuscoli
della
provincia
,
sino
al
Po
e
fino
in
Romagna
,
e
rinforzavano
il
loro
complesso
chiamando
a
parteciparvi
qualche
attore
di
più
larga
esperienza
.
Anche
Gino
,
mentre
studiava
greco
al
liceo
-
suo
padre
era
stato
inflessibile
per
il
greco
e
per
il
latino
-
bazzicava
la
filodrammatica
del
Circolo
degli
impiegati
civili
.
Fu
l
'
Arena
del
Sole
il
primo
teatro
dove
,
bambino
,
una
domenica
Gino
Cervi
debuttò
come
spettatore
:
uscendo
,
vide
al
caffè
quel
grande
e
melanconico
vecchio
attore
,
oscillante
fra
il
genio
e
la
follia
,
che
fu
Enrico
Capelli
:
in
gioventù
Amleto
quasi
impareggiabile
,
e
,
in
vecchiaia
,
ridotto
a
tale
povertà
e
trasandatezza
da
tingersi
i
capelli
con
qualche
spazzolata
di
lucido
da
scarpe
.
All
'
Arena
del
Sole
si
assisteva
agli
spettacoli
in
maniche
di
camicia
.
Se
una
commedia
non
piaceva
,
i
cuscini
volavano
dalle
gradinate
fino
alla
ribalta
.
Negli
intervalli
gli
spettatori
si
passavano
il
fiasco
di
Sangiovese
,
la
bottiglia
di
lambrusco
,
bevendo
a
canna
.
Fu
in
quel
teatro
che
il
«
figlio
del
critico
»
,
entrato
con
la
tessera
del
padre
,
vide
da
ragazzo
Zacconi
e
Ruggeri
,
come
aveva
visto
nel
1914
,
dal
loggione
del
Brunetti
,
Sarah
Bernhardt
che
recitava
ancora
ad
onta
di
una
gamba
amputata
.
Studente
universitario
,
Cervi
avrebbe
forse
fatto
l
'
avvocato
o
sarebbe
entrato
un
giorno
o
l
'
altro
al
«
Resto
del
Carlino
»
se
la
morte
del
padre
nel
1923
non
lo
avesse
lasciato
libero
di
decidere
del
suo
destino
.
Fu
un
altro
attore
bolognese
che
veniva
lui
pure
dai
filodrammatici
,
Nerio
Bernardi
-
il
cui
vero
nome
era
quello
antico
e
dottorale
di
Irnerio
-
a
dirgli
,
come
si
fa
con
chi
deve
imparare
a
nuotare
:
«
Buttati
!
»
.
E
fu
così
che
,
seguendo
quel
consiglio
,
lo
scolaro
,
cui
Lipparini
aveva
fatto
tante
volte
declamare
al
liceo
l
'
Ode
al
Clitumno
e
il
Canto
di
un
pastore
errante
,
diventò
attore
,
debuttando
nella
Vergine
folle
di
Bataille
,
accanto
ad
Alda
Borelli
.
Un
anno
dopo
era
a
Roma
,
cercava
sulla
guida
dove
si
trovasse
una
ignota
via
dove
si
stava
aprendo
un
nuovo
piccolo
teatro
,
il
primo
dei
futuri
«
Piccoli
Teatri
»
d
'
Italia
.
Trovò
là
dentro
un
gruppo
di
suoi
coetanei
che
,
già
prima
di
iniziare
gli
spettacoli
,
si
dibattevano
in
un
labirinto
di
debiti
:
ma
a
capo
di
quei
ragazzi
c
'
era
un
signore
con
la
barbetta
già
quasi
bianca
che
Cervi
aveva
già
visto
,
una
volta
,
come
autore
,
alla
ribalta
dell
'
Arena
del
Sole
.
Il
vecchio
signore
era
Luigi
Pirandello
.
Quella
attraverso
la
quale
,
in
vicolo
Odescalchi
,
entrava
il
giovane
figlio
del
critico
bolognese
poteva
sembrare
una
porta
assai
piccola
.
Cervi
,
figlio
di
un
uomo
che
tanto
intelligentemente
aveva
amato
e
servito
il
teatro
,
si
accorse
che
era
la
porta
grande
di
una
intelligenza
rinnovatrice
.
StampaQuotidiana ,
Ad
un
certo
momento
del
suo
«
concerto
»
,
si
rivolge
al
pubblico
e
dice
:
«
Non
bisogna
stupirsi
se
un
uomo
con
i
capelli
grigi
canta
una
canzone
in
onore
della
mamma
...
»
.
Maurice
Chevalier
ha
sessantadue
anni
,
sua
madre
deve
vivere
da
un
pezzo
nella
pace
del
Signore
,
la
buona
donna
di
Menilmontant
che
aveva
messo
al
mondo
dieci
figli
di
cui
,
quando
nacque
Maurice
,
tre
soli
erano
vivi
.
La
ribalta
è
tutta
ornata
di
rose
,
di
garofani
,
di
violette
.
Sulla
sagoma
nera
del
grande
pianoforte
a
coda
spicca
,
posata
lì
dopo
la
prima
canzone
,
l
'
ormai
storica
paglietta
dello
chansonnier
.
Gli
applausi
sono
fitti
,
molte
le
richieste
di
bis
,
molti
i
saluti
ai
refrains
già
noti
e
ritrovati
come
vecchi
amici
.
Ma
a
me
più
di
tutto
,
mentre
Chevalier
canta
la
Prière
in
onore
della
mamma
,
piace
ricordare
proprio
la
singolare
infanzia
di
questo
ultimo
«
birichino
di
Parigi
»
,
degno
di
entrare
in
un
romanzo
di
Louis
-
Henri
Boussenard
forse
più
che
in
uno
dei
foschi
«
documentari
»
di
Zola
.
Straordinaria
vita
,
un
po
'
dickensiana
,
quella
del
ragazzetto
di
Menilmontant
che
,
finite
le
scuole
elementari
,
è
messo
a
faccia
a
faccia
con
la
vita
,
fra
gli
ospedali
dove
viene
ricoverata
sua
madre
e
gli
artigiani
dai
quali
dovrebbe
apprendere
un
mestiere
che
una
volta
è
quello
dell
'
elettricista
,
una
volta
quello
del
pittore
di
bambole
e
,
infine
,
quello
di
operaio
specializzato
a
fabbricare
puntine
da
disegno
.
La
madre
la
chiamavano
la
Louque
e
s
'
era
ridotta
anche
ad
andare
a
servizio
ad
ore
,
nelle
case
dei
vicini
:
i
ragazzi
cercavano
di
guadagnare
qualcosa
.
Maurice
pensò
,
con
il
fratello
,
di
diventare
acrobata
,
finché
a
dodici
anni
imparò
a
memoria
qualche
canzone
.
Storia
forse
non
nuova
,
simile
,
probabilmente
,
a
quella
di
tanti
altri
artisti
,
a
cominciare
,
per
dirne
una
,
da
quella
del
nostro
Petrolini
,
garzone
macellaio
della
romana
piazza
Guglielmo
Pepe
;
ma
straordinaria
sempre
quando
si
stabilisca
il
rapporto
tra
il
punto
di
partenza
e
il
punto
di
arrivo
,
una
conquista
del
pubblico
che
dura
ormai
da
quasi
mezzo
secolo
.
Maurice
ha
i
capelli
grigi
e
quasi
addirittura
argentei
ed
è
ancora
la
vedette
numero
uno
del
music
-
hall
internazionale
,
in
quella
singolare
costellazione
del
teatro
minore
dove
la
musica
non
è
musica
e
dove
l
'
attore
non
è
attore
ma
dove
,
talvolta
,
si
va
più
in
là
del
bel
canto
e
della
bella
recitazione
.
Il
suo
stile
è
fatto
di
schiettezza
,
di
franchezza
,
di
disinvoltura
.
Chevalier
è
la
negazione
dell
'
Uomo
Fatale
,
del
Bellissimo
,
dell
'
Adone
1900
.
Se
si
volesse
trovargli
un
'
assomiglianza
,
egli
si
potrebbe
identificare
con
quel
tipo
«1910»
che
sorprese
la
nostra
infanzia
dagli
avvisi
pubblicitari
dei
primi
rasoi
di
sicurezza
,
quell
'
antico
giovanotto
che
si
radeva
allegramente
davanti
ad
una
finestra
aperta
e
che
suscitava
l
'
ammirazione
di
noi
ragazzi
,
figli
di
una
generazione
che
usava
ancora
,
per
quanto
di
nascosto
,
il
piegabaffi
e
una
pomata
ungherese
per
appuntirli
e
profumarli
.
La
sua
carnagione
ha
il
colorito
sanguigno
dei
gaulois
autentici
:
quello
di
Lucien
Dietrich
e
del
suo
amico
Dédé
Leducq
,
maglia
gialla
del
Tour
1931
.
È
francese
ma
non
assomiglia
a
Menjou
;
non
ha
nulla
di
untuoso
,
di
gommoso
,
di
cerimonioso
:
potrebbe
esser
tutto
(
magari
Fantomas
)
,
ma
mai
un
cameriere
o
un
danseur
mondano
cui
mettere
una
mancia
in
mano
.
La
sua
vena
guascone
è
sottilissima
,
il
boulevard
non
lo
ha
corrotto
.
Chevalier
si
è
presentato
per
la
prima
volta
al
pubblico
a
dodici
anni
,
esattamente
nel
1900
,
con
in
testa
un
berrettuccio
da
ciclista
,
monello
di
periferia
.
Era
un
figlio
del
popolo
,
un
ragazzo
della
strada
,
di
una
delle
sperdute
avenuer
dove
nasceva
la
Parigi
industriale
.
Erano
i
tempi
in
cui
Parigi
era
la
regina
del
teatro
,
i
tempi
della
Réjane
,
della
Lavallière
,
di
Guitry
.
Tristan
Bernard
aveva
la
barba
nera
,
Alfred
Capus
il
monocolo
con
il
nastro
di
seta
e
Abel
Hermant
non
aveva
ancora
scritto
I
Transatlantici
.
Erano
i
tempi
della
piena
gloria
degli
chansonniers
Mayol
e
Bruant
:
nelle
boites
di
Montmartre
si
ricordavano
ancora
gli
anni
in
,
cui
le
parole
per
le
canzonette
venivano
scritte
da
Maurice
Donnay
,
l
'
autore
degli
Amanti
.
Chevalier
debutta
con
il
secolo
,
con
quel
1900
che
oggi
fa
sorridere
con
il
ricordo
della
sua
Esposizione
Universale
.
Mezzo
secolo
di
vita
teatrale
è
passato
davanti
agli
occhi
e
al
sorriso
dell
'
antico
monello
di
Parigi
,
ultima
incarnazione
di
Gavroche
.
Nel
suo
bagaglio
di
canzoni
,
stanno
i
canti
vissuti
fra
due
guerre
,
resistendo
al
jazz
e
opponendo
le
ruote
dei
mulini
a
vento
di
Montmartre
alle
sagome
dei
grattacieli
americani
.
Queste
canzoni
parlano
quasi
tutte
d
'
amore
come
le
novelle
di
Maupassant
:
per
questo
non
invecchiano
e
non
fanno
invecchiare
Maurice
.
StampaQuotidiana ,
Il
poeta
è
morto
la
sera
del
primo
marzo
del
1938
,
alle
19.55
.
Da
un
paio
di
giorni
non
si
sentiva
bene
,
ma
non
voleva
riconoscerlo
.
Aveva
settantacinque
anni
.
L
'
uomo
aveva
goduto
di
una
salute
di
ferro
,
piccolo
,
magro
,
muscoloso
,
alieno
dal
vino
e
dal
fumo
.
Una
sola
volta
aveva
provato
a
fumare
,
ad
Arcachon
,
e
si
era
sentito
male
.
Ai
liquori
dava
nomi
pittoreschi
ma
non
li
beveva
.
Mangiava
poco
,
aveva
sempre
mangiato
poco
.
La
sua
tavola
da
pranzo
,
al
Vittoriale
,
nel
lato
dell
'
edificio
costruito
da
Gian
Carlo
Maroni
,
ha
una
apparenza
fastosissima
,
con
una
tovaglia
lumeggiata
d
'
oro
e
coperta
da
infiniti
ninnoli
preziosi
.
Questa
tavola
non
vide
quasi
mai
il
poeta
a
pranzo
o
a
cena
.
I
suoi
digiuni
non
nascevano
da
un
particolare
ascetismo
,
ma
dalla
volontà
di
tenere
il
cervello
sgombro
,
di
non
rendere
opaca
l
'
intelligenza
con
le
fatiche
della
digestione
,
che
avevano
,
diceva
,
fatto
appisolare
persino
gli
Apostoli
.
Mangiava
spesso
nello
studio
dell
'
ultimo
piano
,
dove
si
chiudeva
alle
volte
per
intere
settimane
.
Una
cameriera
,
chiamata
a
seconda
degli
umori
con
il
nome
di
«
fante
»
o
di
«
suora
»
,
gli
passava
attraverso
la
porta
un
vassoietto
e
tornava
di
lì
a
poco
a
prenderlo
,
sempre
attraverso
lo
spiraglio
.
Capitava
spesso
che
non
ci
fosse
nulla
per
l
'
ospite
arrivato
all
'
improvviso
.
Era
dunque
un
uomo
sano
e
ancora
robusto
per
la
sua
età
.
Quando
venne
a
Milano
per
correggere
le
bozze
delle
Faville
,
volle
provarsi
nella
lotta
greco
-
romana
con
un
giovane
giornalista
che
era
andato
a
visitarlo
.
Il
giovanotto
sentì
,
sotto
le
sue
mani
,
muscoli
ancora
pronti
e
forti
.
Molte
chiacchiere
erano
state
fatte
su
malattie
di
cui
avrebbe
dovuto
soffrire
.
I
suoi
medici
di
Salò
che
lo
sottoposero
in
varie
occasioni
ad
analisi
e
radioscopie
potevano
testimoniare
il
contrario
.
Le
sue
radiografie
e
la
sua
cartella
clinica
esistono
ancora
,
e
certificano
che
il
sangue
era
perfetto
,
il
cuore
perfetto
,
i
polmoni
perfetti
.
Era
malato
,
se
mai
,
del
male
della
clausura
:
era
il
male
della
melanconia
di
un
uomo
che
aveva
trasformato
in
abitudine
l
'
antica
volontà
di
isolarsi
dal
mondo
per
lavorare
.
Anche
negli
ultimi
anni
,
quando
il
suo
lavoro
cessò
di
essere
creativo
,
egli
passava
infinite
ore
allo
scrittoio
,
in
una
atmosfera
irrespirabile
.
Le
sue
stanze
,
d
'
inverno
,
erano
sempre
riscaldate
a
trenta
gradi
,
prima
con
grandi
stufe
di
terracotta
e
infine
con
termosifoni
,
che
si
spegnevano
solamente
in
maggio
.
Passava
talvolta
intere
settimane
e
mesi
senza
uscire
dalle
sue
stanze
,
dove
nascondeva
le
sue
irritazioni
e
le
sue
melanconie
.
Era
triste
anche
di
sentirsi
invecchiare
e
di
dover
confessare
,
come
aveva
fatto
in
una
nota
del
Notturno
nel
1921
,
che
i
suoi
pensieri
,
come
quelli
di
Michelangelo
,
erano
tutti
carichi
di
morte
.
Mentre
in
gioventù
non
aveva
mai
usato
,
per
lavorare
,
altro
eccitante
che
il
digiuno
,
anche
di
caffè
non
aveva
mai
abusato
,
invecchiando
non
seppe
evitare
qualche
eccitante
che
mani
malevole
gli
porgevano
.
Un
paio
di
anni
prima
di
morire
poté
disintossicarsi
del
tutto
.
Fu
più
alacre
e
persino
più
lieto
.
Le
visite
si
erano
fatte
ormai
rare
.
D
'
Annunzio
non
aveva
voglia
di
farsi
vedere
invecchiato
.
Anche
i
suoi
messaggi
erano
meno
frequenti
.
Il
telegrafo
di
Gardone
lavorava
sempre
meno
,
il
cannone
della
nave
Puglia
tuonava
di
rado
e
il
mas
di
Buccari
restava
placidamente
ancorato
nella
sua
darsena
.
Leggere
gli
costava
molta
fatica
,
e
si
temeva
anche
che
l
'
unico
occhio
superstite
si
indebolisse
definitivamente
.
D
'
Annunzio
era
stato
sempre
un
uomo
di
grande
coraggio
.
Di
una
sola
persona
aveva
paura
:
del
dentista
.
Si
può
dire
senza
offendere
la
sua
memoria
,
poiché
non
si
parla
dell
'
adolescente
bellissimo
negli
anni
di
Isaotta
Guttadauro
ma
del
vecchio
settantacinquenne
chiuso
nella
silenziosa
villa
di
Gardone
,
che
il
mal
di
denti
era
stato
uno
dei
fastidi
maggiori
della
vecchiaia
di
D
'
Annunzio
.
Un
dentista
di
Salò
era
riuscito
a
preparare
il
calco
per
un
apparecchio
che
gli
avrebbe
consentito
di
mangiare
senza
fatica
-
il
poeta
non
mangiava
mai
alla
presenza
di
ospiti
perché
non
voleva
mostrare
come
gli
fosse
faticoso
masticare
-
ma
l
'
apparecchio
non
fu
mai
fatto
perché
D
'
Annunzio
dichiarò
alla
fine
che
non
si
sarebbe
mai
adattato
a
portarlo
.
La
morte
venne
dunque
improvvisa
,
preceduta
solo
da
qualche
lieve
malessere
al
quale
D
'
Annunzio
non
volle
dare
importanza
.
Gian
Carlo
Maroni
,
l
'
architetto
del
Vittoriale
,
aveva
insistito
inutilmente
perché
l
'
amico
si
facesse
visitare
da
un
medico
.
D
'
Annunzio
aveva
risposto
chiudendosi
in
studio
.
Maroni
,
quelle
notti
,
che
furono
le
ultime
di
una
convivenza
e
di
una
amicizia
durata
diciassette
anni
,
le
passava
nella
poltrona
di
una
stanza
adiacente
alla
camera
da
letto
dove
D
'
Annunzio
era
agitato
dall
'
insonnia
.
Una
cameriera
era
incaricata
di
vigilare
durante
il
giorno
,
non
vista
,
su
quello
che
il
poeta
faceva
.
D
'
Annunzio
passò
le
ultime
ore
del
pomeriggio
del
primo
marzo
nel
grande
studio
al
primo
piano
,
quello
del
mappamondo
,
con
le
pareti
coperte
di
libri
fino
al
soffitto
.
Le
finestre
,
al
solito
,
erano
oscurate
.
In
quelle
stanze
si
viveva
sempre
alla
luce
artificiale
.
Verso
le
sette
,
il
poeta
passò
nello
studiolo
che
precede
la
camera
da
letto
.
È
una
piccola
stanza
con
grandi
antichi
armadi
usati
anche
come
guardaroba
personale
.
C
'
è
un
piccolo
tavolo
dove
spesso
D
'
Annunzio
si
soffermava
per
qualche
lavoro
.
Su
quel
tavolo
c
'
erano
e
ci
sono
ancora
dei
vasi
pieni
di
penne
,
di
matite
e
scatolette
che
contengono
i
sigilli
di
carta
dorata
a
rilievo
con
i
quali
chiudeva
le
lettere
.
Nel
cassetto
di
un
armadietto
sono
ancora
i
rotoli
dei
nastri
con
i
colori
di
Fiume
,
azzurri
e
rossi
,
che
il
poeta
usava
per
i
pacchi
dei
doni
che
amava
fare
agli
ospiti
.
Non
mancavano
la
carta
assorbente
e
il
calamaio
.
Al
Vittoriale
non
era
mai
entrata
,
almeno
per
l
'
uso
personale
del
poeta
,
una
macchina
da
scrivere
.
D
'
Annunzio
la
odiava
così
come
odiava
il
telefono
.
Una
volta
aveva
dichiarato
che
considerava
un
'
ingiuria
il
consiglio
di
usare
il
dictaphon
.
Era
contrario
ad
ogni
forma
di
trascrizione
meccanica
della
voce
e
non
aveva
quasi
mai
acconsentito
che
il
cinema
sonoro
registrasse
la
sua
parola
.
D
'
Annunzio
sedette
al
tavolo
.
Forse
di
lì
a
poco
avrebbe
chiamato
la
«
fante
»
per
farsi
portare
da
mangiare
.
La
«
fante
»
,
che
lo
«
spiava
»
da
una
delle
camere
vicine
lo
vide
con
il
braccio
appoggiato
al
tavolino
,
in
un
atteggiamento
che
non
dava
adito
ad
alcuna
preoccupazione
.
Su
quel
tavolino
c
'
era
e
c
'
è
ancora
il
vecchio
lunario
del
Barbanera
che
D
'
Annunzio
,
per
il
suo
amore
delle
vecchie
tradizioni
abruzzesi
,
aveva
voluto
che
,
come
ogni
anno
,
fosse
comprato
all
'
inizio
del
1938
.
Al
primo
marzo
il
lunario
annunciava
la
morte
di
un
grande
uomo
.
Mancavano
dieci
minuti
alle
otto
,
quando
la
cameriera
si
sentì
chiamare
,
D
'
Annunzio
voleva
un
bicchiere
d
'
acqua
.
Gli
fu
portato
.
Non
disse
nulla
e
bevve
.
La
donna
si
accorse
di
qualcosa
d
'
insolito
nell
'
aspetto
del
«
padrone
»
,
come
il
senso
di
una
grave
fatica
.
Il
respiro
era
basso
e
affannoso
,
Maroni
accorse
.
Il
poeta
aveva
reclinato
la
testa
sul
tavolo
e
stava
per
cadere
dalla
sedia
.
Fu
sostenuto
e
portato
sul
letto
della
camera
accanto
.
Maroni
stesso
gli
fece
immediatamente
due
iniezioni
di
olio
canforato
.
Ma
il
cuore
del
poeta
che
aveva
dato
voce
ad
Aligi
era
già
spento
,
senza
dolore
.
Pochi
minuti
dopo
l
'
arciprete
della
chiesa
di
San
Nicolò
,
don
Fava
,
entrava
al
Vittoriale
per
dare
l
'
assoluzione
alla
spoglia
del
poeta
.
D
'
Annunzio
si
era
molte
volte
lamentato
in
vita
che
le
campane
della
chiesa
,
a
Gardone
,
suonavano
troppo
a
lungo
e
aveva
cercato
di
frenare
gli
scampanii
con
elemosine
per
i
poveri
.
Alle
otto
in
punto
,
il
vecchio
campanaro
Valentino
cominciò
a
suonare
a
morto
.
StampaQuotidiana ,
Era
di
quasi
un
anno
o
forse
di
due
superiore
per
età
al
suo
futuro
marito
,
la
duchessina
Maria
di
Gallese
,
quando
conobbe
Gabriele
d
'
Annunzio
,
che
allora
,
in
fatto
di
titoli
araldici
,
aveva
solamente
quello
del
tutto
immaginario
di
Duca
Minimo
con
il
quale
firmava
le
note
di
cronaca
mondana
sulla
appena
nata
«
Tribuna
»
di
Roma
.
La
fama
aveva
già
accarezzato
la
fronte
,
ancora
aureolata
di
riccioli
biondi
,
dell
'
autore
delle
Novelle
della
Pescara
e
di
Primo
Vere
,
che
distribuiva
uno
per
uno
i
ricordi
dei
suoi
giovanili
amori
romani
,
in
parte
veri
e
in
parte
immaginari
,
nei
versi
morbidissimi
e
qua
e
là
lussuosamente
torbidi
di
Isaotta
Guttadauro
.
Gabriele
era
allora
,
soprattutto
,
poeta
d
'
amore
,
teso
a
spiare
le
veneri
agresti
d
'
Abruzzo
e
quelle
,
vestite
di
raso
e
velluto
,
delle
alcove
eleganti
di
Roma
.
Piccolo
di
statura
,
ma
bello
nel
volto
,
ornatissimo
nella
parola
,
e
indicato
già
,
nell
'
età
in
cui
gli
altri
giovani
si
affannano
sui
banchi
dell
'
università
,
come
il
poeta
destinato
a
raccogliere
lo
scettro
della
poesia
in
Italia
,
i
parenti
di
Maria
di
Gallese
furono
certamente
imprudenti
a
sceglierlo
per
dare
qualche
lezione
di
letteratura
italiana
alla
giovane
e
bellissima
duchessina
di
cui
si
voleva
completare
l
'
educazione
.
In
pochi
giorni
,
alternando
la
lettura
dei
classici
del
Trecento
e
del
Cinquecento
con
qualche
passeggiata
fra
le
antichità
di
Roma
,
o
alla
quercia
del
Tasso
o
alla
tomba
di
Cecilia
Metella
-
si
sa
che
le
«
passeggiate
»
sono
state
uno
dei
migliori
punti
di
partenza
per
la
poesia
di
D
'
Annunzio
-
i
due
si
trovarono
romanticissimamente
innamorati
.
Come
in
un
romanzo
,
la
giovane
patrizia
si
era
innamorata
di
un
giovane
,
ricco
solo
della
sua
poesia
e
di
qualche
piccolo
bene
familiare
a
Pescara
,
severamente
custodito
dal
padre
Don
Francesco
e
dalla
madre
Donna
Luisa
.
Quella
del
poeta
era
una
famiglia
borghese
,
di
piccoli
proprietari
terrieri
e
di
armatori
di
paranze
abruzzesi
.
La
madre
di
Maria
,
dopo
avere
sposato
un
duca
di
Gallese
che
non
le
aveva
dato
figli
,
si
era
unita
con
un
giovane
ufficiale
francese
,
venuto
a
Roma
con
gli
Zuavi
che
Napoleone
III
aveva
mandato
a
difendere
Pio
IX
:
l
'
ufficiale
si
chiamava
Hardouin
.
Lo
stesso
Pontefice
si
era
interessato
per
la
buona
riuscita
del
secondo
matrimonio
.
Maria
apparteneva
dunque
a
quella
che
si
chiamava
ancora
l
'
aristocrazia
nera
,
papalina
.
La
distanza
sociale
fra
i
due
innamorati
era
grande
.
Gabriele
,
futuro
sterminatore
di
cuori
femminili
,
la
superò
di
un
balzo
,
come
se
si
fosse
trattato
,
per
lui
volontario
di
un
anno
in
Cavalleria
,
di
superare
al
galoppo
una
staccionata
in
una
prateria
dell
'
Agro
romano
.
Disse
a
Maria
:
«
Fuggiamo
!
»
.
Maria
acconsentì
e
preparò
la
fuga
.
Allora
non
si
fuggiva
più
a
cavallo
,
né
si
poteva
ancora
fuggire
in
automobile
.
I
due
fidanzati
segreti
si
trovarono
in
un
treno
fumoso
,
alla
stazione
Termini
,
su
un
vagone
diretto
a
Firenze
.
Messa
facilmente
la
polizia
sulle
loro
tracce
,
furono
scovati
in
una
stanza
d
'
albergo
con
le
finestre
sull
'
Arno
.
I
Gallese
sembra
volessero
far
arrestare
il
rapitore
;
ma
si
lasciarono
indurre
a
consigli
più
miti
e
acconsentirono
che
la
fuga
,
anche
perché
Maria
era
ormai
maggiorenne
,
si
concludesse
con
un
matrimonio
.
Il
primo
figlio
si
chiamò
Mario
,
il
secondo
Veniero
,
il
terzo
e
ultimo
-
assomigliò
più
di
tutti
alla
madre
bellissima
,
ma
ebbe
dalla
sorte
un
dono
umano
che
era
stato
forse
'
negato
tanto
al
suo
grande
padre
poeta
quanto
a
sua
madre
,
quello
della
mitezza
mesta
e
melanconica
dell
'
animo
-
si
chiamò
Gabriellino
.
Maria
Hardouin
di
Gallese
,
principessa
di
Montenevoso
,
non
amava
riandare
al
suo
passato
,
al
suo
lontanissimo
passato
.
Parlando
di
suo
marito
non
diceva
«
mio
marito
»
,
ma
«
Gabriele
»
.
Lo
diceva
con
una
voce
apparentemente
indifferente
,
straordinariamente
fresca
per
la
sua
età
,
quasi
avesse
parlato
di
un
estraneo
.
Probabilmente
la
figura
del
marito
aveva
voluto
da
moltissimi
anni
cancellarla
dal
ricordo
:
collocando
al
suo
posto
l
'
immagine
di
un
amico
di
cui
aveva
conosciuto
,
certamente
come
nessun
'
altra
,
le
virtù
e
i
difetti
.
Gli
anni
dell
'
unione
giovanile
non
erano
stati
né
felici
né
facili
.
Maria
era
donna
tale
da
poter
amare
,
ma
non
certamente
da
lasciarsi
dominare
da
un
uomo
né
per
debolezza
,
né
per
vanità
,
né
per
tornaconto
.
Gabriele
non
aveva
né
la
forza
morale
né
la
fedele
schiettezza
amorosa
per
essere
totalmente
un
buon
marito
e
un
buon
padre
di
famiglia
:
assomigliava
troppo
ai
suoi
personaggi
per
poter
esserlo
.
Maria
di
Gallese
era
,
invece
,
il
contrario
dei
personaggi
dannunziani
:
il
suo
sangue
per
metà
francese
,
un
sano
sangue
provinciale
francese
,
la
faceva
fiera
,
sanamente
realista
,
contraria
alla
retorica
,
più
facile
,
anche
negli
ultimissimi
anni
,
all
'
ironia
che
alle
pose
di
donna
fatale
.
La
sua
eleganza
era
autentica
,
quanto
forse
era
di
dubbio
gusto
quella
di
Gabriele
:
anche
l
'
eleganza
del
suo
spirito
.
Capì
di
non
poter
sbarrare
il
passo
al
marito
,
che
correva
dietro
ad
ogni
tentazione
,
né
voleva
seguirlo
,
lei
donna
francesemente
«
pratica
»
,
nelle
sue
esperienze
economicamente
pericolose
di
un
po
'
smemorato
«
signore
delle
lettere
»
.
Gabriele
non
pensava
,
se
non
a
tratti
e
con
lunghe
amnesie
,
all
'
educazione
dei
figli
.
I
suoi
amori
extraconiugali
facevano
parte
delle
cronache
mondane
d
'
ogni
giorno
.
Gli
anni
che
la
coppia
di
così
differenti
caratteri
passò
nella
casa
al
numero
2
di
via
Gregoriana
-
in
un
appartamentino
al
quarto
piano
con
un
balcone
che
dominava
il
palazzotto
dello
Zuccari
dove
Gabriele
immaginava
vivesse
il
protagonista
del
Piacere
-
furono
tormentati
da
una
disillusione
di
cui
Maria
non
fece
forse
mai
colpa
diretta
al
poeta
quanto
a
se
stessa
,
per
essersi
lasciata
illudere
.
Il
distacco
avvenne
gradualmente
,
senza
esser
mai
totale
dal
punto
di
vista
dell
'
amicizia
,
che
sopravvisse
,
se
pur
di
lontano
,
se
pure
quasi
solamente
attraverso
alle
lettere
,
finché
il
poeta
,
vecchio
,
confermò
,
dopo
tante
esperienze
,
di
voler
avere
vicino
,
come
la
più
spiritualmente
rispettata
delle
compagne
,
la
donna
cui
,
in
lontanissimi
tempi
,
aveva
dato
l
'
amore
dei
venti
anni
.
Di
tutto
questo
Maria
d
'
Annunzio
parlava
poco
:
si
può
dire
,
anzi
,
che
non
parlasse
mai
.
Non
ignorava
certamente
che
la
sua
vita
non
lieta
di
moglie
del
poeta
era
notissima
.
Le
vicende
sentimentali
di
suo
marito
appartengono
alla
storia
letteraria
e
alla
storia
di
una
delle
più
singolari
esperienze
umane
.
Non
era
certamente
il
caso
di
conversare
con
lei
di
inganni
grandi
e
piccoli
per
cercare
di
indovinare
quali
potevano
essere
state
e
quali
potevano
essere
ancora
le
sue
reazioni
innanzi
a
certi
nomi
celeberrimi
che
,
se
non
nel
cuore
,
certo
nella
vita
di
Gabriele
avevano
pesato
molto
.
Spostando
la
propria
figura
dal
piedistallo
di
moglie
a
quello
di
amica
così
come
aveva
saputo
signorilmente
fare
da
moltissimi
anni
,
essa
poteva
vivere
indifferentemente
fra
le
immagini
,
molte
delle
quali
diventate
poesia
,
di
altre
donne
nelle
quali
,
forse
eternamente
innamorato
solo
di
se
stesso
,
Gabriele
,
come
Narciso
,
s
'
era
eternamente
specchiato
.
Per
questo
aveva
potuto
serenamente
incontrarsi
con
lui
,
quando
egli
l
'
aveva
chiamata
al
Vittoriale
,
e
considerarsi
,
in
una
villa
a
lei
destinata
nel
parco
,
la
sua
ospite
amica
che
tutto
sapeva
e
tutto
,
se
non
perdonato
,
aveva
compatito
.
La
sua
vita
,
dopo
il
distacco
dal
marito
,
era
stata
per
molto
tempo
difficile
.
A
Roma
aveva
vissuto
per
molti
anni
in
un
piccolo
appartamento
di
piazza
di
Spagna
,
mettendo
a
frutto
,
per
vivere
,
la
sua
perizia
nel
ritrovare
,
scegliere
e
ordinare
le
belle
cose
antiche
.
Non
aveva
,
Donna
Maria
,
come
del
resto
i
figli
,
certamente
gravato
sui
bilanci
spesso
disordinati
del
poeta
.
Solo
dopo
la
morte
di
lui
aveva
ricevuto
un
vitalizio
sui
suoi
diritti
d
'
autore
e
l
'
usufrutto
perenne
della
villa
Mirabella
entro
il
secondo
recinto
del
Vittoriale
.
Aveva
finito
per
lasciare
anche
la
sua
ultima
dimora
romana
,
una
pensione
in
una
traversa
di
via
Veneto
,
per
vivere
la
metà
dell
'
anno
a
Gardone
e
l
'
altra
metà
a
Parigi
,
dove
suo
figlio
Veniero
,
con
i
suoi
guadagni
di
ingegnere
in
America
,
le
aveva
comperato
e
donato
un
appartamentino
vicino
all
'
Etoile
.
Ad
onta
della
tardissima
età
viaggiava
da
sola
e
a
Parigi
viveva
sola
,
dopo
che
le
era
morta
,
sotto
ad
un
bombardamento
,
una
fedele
cameriera
.
Durante
la
occupazione
tedesca
non
aveva
voluto
restare
sul
lago
di
Garda
,
preferendo
,
a
ottant
'
anni
di
parecchio
passati
,
vivere
in
solitudine
nella
città
dei
suoi
avi
francesi
.
Al
suo
ritorno
aveva
saputo
che
la
sua
casa
di
Gardone
era
stata
abitata
da
una
tragica
creatura
:
da
Claretta
Petacci
,
che
di
lì
era
partita
per
andare
alla
morte
.
Aveva
detto
:
«
È
destino
che
io
,
senza
romanzo
,
viva
accanto
ai
romanzi
!
»
.
Era
stata
bellissima
,
come
testimoniava
,
alla
Mirabella
,
un
grande
ritratto
dipinto
da
La
Gandara
che
D
'
Annunzio
vi
aveva
fatto
collocare
come
per
dire
che
quella
casa
era
della
donna
che
non
aveva
mai
dimenticato
.
Aveva
sorriso
,
la
vegliarda
infaticabile
,
quando
le
era
stato
mostrato
un
volume
francese
intitolato
Paris
,
mon
coeur
nel
quale
quel
ritratto
era
riprodotto
per
far
conoscere
il
«
tipo
ormai
classico
della
donna
francese
,
dell
'
elegante
parigina
dei
tempi
di
Maurice
Donnay
e
di
Paul
Bourget
»
.
Pur
nella
tardissima
età
,
sottile
nella
figura
,
rapida
e
leggera
nel
passo
,
con
i
capelli
colorati
di
rosso
e
pettinati
come
quelli
delle
donne
di
Boldini
,
la
si
vedeva
andar
in
su
e
in
giù
,
a
piedi
,
per
i
sentieri
della
collina
del
Vittoriale
,
veramente
simile
,
nella
figura
,
a
quelle
ormai
tramontate
immagini
che
ispiravano
un
tempo
il
concetto
dell
'
alta
e
scintillante
aristocrazia
.
Attendeva
da
anni
serenamente
la
morte
,
ma
intanto
parlava
della
vita
come
di
un
bene
che
non
si
sarebbe
esaurito
mai
.
Fissava
convegni
e
viaggi
a
distanza
di
mesi
e
di
anni
,
e
intanto
,
fermandosi
in
un
certo
angolo
del
parco
,
pensava
anche
a
quella
che
poteva
essere
la
sua
ultima
dimora
.
Comprendeva
,
nella
sua
fierezza
di
gran
dama
,
di
non
poter
chiedere
d
'
essere
seppellita
vicino
al
marito
,
dopo
tanti
trascorsi
che
avevano
per
quarant
'
anni
annebbiata
la
loro
unione
.
Aveva
indicato
,
per
sé
,
un
angolo
del
parco
e
un
sarcofago
di
pietra
come
quelli
nei
quali
Gabriele
aveva
chiuso
le
spoglie
dei
suoi
legionari
:
ma
diceva
che
doveva
essere
ornato
,
a
mosaico
,
con
i
profili
di
due
pavoni
.
Amava
viaggiare
,
ma
ogni
volta
,
quando
partiva
per
Parigi
o
per
Charleville
,
la
patria
del
poeta
Rimbaud
,
dove
aveva
parenti
e
amici
fedeli
,
lasciava
ad
una
persona
fidata
,
confermando
così
il
suo
istinto
di
donna
ordinata
e
pratica
come
sono
quasi
sempre
le
francesi
,
una
busta
con
il
denaro
che
considerava
potesse
essere
all
'
improvviso
necessario
per
riportarla
,
morta
,
in
patria
.
La
sua
vitalità
era
sempre
stata
straordinaria
.
Aveva
una
attenzione
estrema
nel
non
rivelare
i
suoi
anni
.
Nel
1882
,
quando
conobbe
il
diciannovenne
D
'
Annunzio
,
sembra
che
la
duchessina
fosse
già
maggiorenne
.
Lo
era
già
,
in
ogni
modo
,
nel
1883
,
quando
si
sposò
.
Per
la
sua
età
,
dunque
,
bisognava
tirare
a
indovinare
,
facendo
oscillare
il
pendolo
fra
i
novantadue
delle
opinioni
ottimiste
e
i
novantacinque
dei
«
pessimisti
»
.
La
primavera
scorsa
,
ospitata
in
una
clinica
di
Riva
del
Garda
,
aveva
dichiarato
,
in
tono
di
celia
,
di
avere
sessantacinque
anni
:
e
nessuno
aveva
osato
contraddirla
perché
le
sue
risposte
potevano
essere
sferzanti
.
Sette
anni
or
sono
,
mi
aveva
tenuto
un
po
'
il
broncio
perché
,
scrivendo
dopo
la
morte
del
figlio
suo
Gabriellino
,
avevo
parlato
di
lei
come
di
una
«
vecchia
signora
»
.
Doveva
essere
già
allora
vicino
agli
ottantasette
anni
.
StampaQuotidiana ,
Ecco
,
davanti
a
me
,
un
viso
«
da
magistrato
»
,
quello
di
Peppino
De
Filippo
.
Trent
'
anni
fa
,
il
viso
di
un
giovanissimo
pretore
di
primissima
nomina
,
che
ha
vinto
pochi
giorni
prima
il
concorso
.
Poi
,
di
anno
in
anno
,
ha
fatto
carriera
:
dal
magistrato
di
Pretura
è
giunto
al
Tribunale
,
è
arrivato
alle
Assise
,
si
avvia
verso
la
Cassazione
:
lo
vedrò
con
la
toga
della
Corte
Costituzionale
:
sempre
magistrato
è
.
Il
viso
un
po
'
assorto
,
in
cui
appare
ogni
tanto
,
pungente
,
un
elemento
di
arguzia
:
un
viso
di
calma
dignità
e
un
poco
timido
:
ogni
tanto
,
nella
vita
,
la
sua
voce
è
insidiata
da
un
trepidare
che
può
sembrar
persino
un
impaccio
d
'
una
breve
parvenza
di
balbuzie
.
Un
magistrato
un
po
'
filosofo
,
che
ha
avuto
l
'
infanzia
non
sempre
comoda
di
tanti
napoletani
:
che
ha
avuto
compagni
di
scuola
molto
poveri
e
che
conosce
a
fondo
,
pietoso
,
le
miserie
dell
'
umanità
.
Dice
giustamente
Peppino
:
«
In
fondo
,
io
ripugno
dal
comico
di
mezza
misura
e
sono
tutto
fuorché
un
"
brillante
"
:
io
sto
tutto
nella
farsa
o
tutto
nella
tragedia
:
e
la
farsa
sta
gomito
a
gomito
con
la
tragedia
...
»
.
Ecco
un
giudizio
da
magistrato
che
non
riesce
a
dividere
gli
uomini
in
due
rigorose
categorie
,
angeli
e
demoni
:
pietoso
per
i
loro
peccati
,
sorridente
e
un
po
'
dubitoso
per
le
loro
virtù
.
Con
questo
spirito
,
il
«
magistrato
»
Peppino
ha
scritto
una
cinquantina
di
commedie
,
con
centinaia
di
personaggi
dell
'
umanità
grigia
,
«
buoni
»
intrisi
di
astuzia
,
sciocchi
con
lampi
di
genio
,
straccioni
con
una
speranza
di
eleganza
,
tristanzuoli
con
una
scintilla
d
'
oro
di
poesia
,
prepotenti
che
se
la
fanno
sotto
,
cornuti
illuminati
da
una
incancellabile
fede
nella
purità
:
una
giornata
di
pioggia
,
un
desiderio
di
sole
;
le
manette
pronte
,
ma
un
sogno
di
guanti
bianchi
.
Attore
dall
'
età
di
sei
anni
-
il
debutto
avvenne
con
la
particina
del
bambino
Peppiniello
in
Miseria
e
nobiltà
-
De
Filippo
potrebbe
raccontare
a
non
finire
storie
di
allegra
,
ma
non
sempre
allegra
,
povertà
.
Era
il
mondo
dei
poveri
guitti
girovaghi
-
aveva
lasciato
la
Compagnia
di
Vincenzo
Scarpetta
-
nelle
province
napoletane
.
Ogni
tanto
,
la
sorte
portava
ad
avventurarsi
fino
nell
'
Abruzzo
e
nelle
Marche
.
Peppino
faceva
un
po
'
di
tutto
:
prosa
,
varietà
,
macchiettista
in
miseri
teatrucoli
,
pianista
in
cinematografi
di
campagna
,
pittore
di
manifesti
-
la
sua
vera
passione
era
quella
della
pittura
-
trovarobe
,
corista
di
operette
.
Fu
in
quegli
anni
lontani
,
addirittura
amministratore
della
piccola
troupe
.
Erano
arrivati
nelle
Marche
a
piedi
,
risalendo
dalle
spiagge
abruzzesi
:
e
si
erano
addentrati
in
una
vallata
verso
Jesi
.
Lassù
,
erano
rimasti
incastrati
in
un
paesello
di
collina
.
Avevano
montato
il
loro
teatrino
ambulante
in
uno
sterrato
fuori
le
mura
:
era
nato
così
un
piccolo
teatro
con
«
comodo
di
fave
»
.
Il
fondale
dava
sulla
campagna
buia
:
in
quel
buio
,
gli
attori
avevano
scoperto
alcuni
campi
di
fave
.
Fra
un
atto
e
l
'
altro
,
scivolavano
giù
dal
rustico
palcoscenico
,
facevano
una
rapida
scorpacciata
di
fave
,
e
poi
,
rinfrancati
tornavano
alla
ribalta
a
recitare
.
Quando
si
trattò
di
ripartire
da
quel
paesello
,
Peppino
scese
verso
Ancona
,
per
trovare
un
teatrino
che
li
ospitasse
.
Era
lui
,
o
no
,
l
'
amministratore
?
Ed
ecco
nella
torrida
estate
,
Peppino
partire
a
piedi
,
accompagnato
dal
«
segretario
»
che
era
totalmente
calvo
.
Ma
perché
i
due
attori
avevano
sulle
guance
una
folta
barba
?
Nera
,
Peppino
,
e
bianca
,
fluente
il
«
segretario
»
,
con
un
paio
di
occhiali
neri
da
povero
cieco
.
Fu
Peppino
a
inventare
,
per
diminuire
la
fatica
della
marcia
,
il
sistema
che
oggi
si
chiama
dell
'
autostop
.
Erano
luoghi
quasi
deserti
.
Ogni
tanto
si
vedeva
arrivare
un
carretto
tirato
da
un
somaro
.
Il
«
segretario
»
si
sosteneva
al
braccio
di
Peppino
,
marciando
curvo
sotto
il
solleone
.
Quando
il
carretto
li
raggiungeva
,
Peppino
indicava
pietosamente
il
vegliardo
:
«
Ci
potreste
dare
un
passaggio
?
»
.
Il
contadino
si
impietosiva
e
li
accompagnava
sino
alla
prima
svolta
,
seduti
sulle
fascine
.
Un
altro
miglio
a
piedi
,
e
poi
spuntava
un
altro
carretto
.
Quando
Peppino
De
Filippo
non
reciterà
più
Le
metamorfosi
di
un
suonatore
ambulante
,
cercheremo
di
raccontare
ai
nostri
figli
e
ai
nostri
nipoti
la
scenetta
in
cui
,
affamatissimo
«
posteggiatore
»
,
cerca
di
vedere
chiaro
in
un
certo
imbroglio
per
il
quale
è
richiesta
la
sua
complicità
.
Il
suonatore
è
napoletano
e
,
come
tale
,
gesticola
vivacemente
:
le
sue
mani
sono
in
continuo
movimento
e
,
ogni
tanto
,
si
protendono
e
restano
sospese
a
mezz
'
aria
.
Gli
interlocutori
credono
che
egli
abbia
finito
di
parlare
,
che
l
'
affare
sia
concluso
e
che
sia
venuto
il
momento
di
salutarsi
:
afferrano
la
mano
del
suonatore
e
la
stringono
cordialmente
.
Il
discorso
,
invece
,
non
è
affatto
finito
.
Bisogna
liberare
quella
mano
e
riprendere
la
conversazione
interrotta
.
Gli
altri
sono
sempre
pronti
a
stringere
,
sul
più
bello
,
la
mano
dell
'
ambulante
che
non
può
frenare
la
sua
mimica
partenopea
e
che
,
se
non
muove
le
mani
,
non
può
parlare
.
La
graduazione
della
sorpresa
,
dell
'
impaccio
,
dell
'
inquietudine
,
che
prende
e
quasi
paralizza
l
'
eloquenza
del
suonatore
ambulante
,
crea
un
«
crescendo
comico
»
forse
ineguagliato
in
questi
ultimi
anni
:
certo
il
più
sottile
e
trascinante
.
Quando
cercheremo
di
riferire
questa
scenetta
ai
nostri
figli
e
ai
nostri
nipoti
stenteremo
a
farci
capire
,
come
non
capivamo
i
nostri
vecchi
quando
ci
parlavano
del
«
gioco
del
ferro
da
stiro
»
di
Eleonora
Duse
nella
Locandiera
o
della
«
scena
del
candeliere
»
di
Ermete
Novelli
nella
farsa
Felice
il
cerimonioso
.
Sono
scoperte
,
gioie
,
sorrisi
di
cui
gode
solamente
«
chi
vede
»
:
intraducibili
per
«
sentito
dire
»
.
Per
questo
,
il
teatro
è
forse
fatto
di
incantesimi
paragonabili
a
quelli
dell
'
amore
,
bellissimi
quando
viviamo
il
nostro
amore
,
mentre
,
se
ci
raccontano
quelli
degli
altri
,
ci
sono
assolutamente
indifferenti
.
StampaPeriodica ,
L
'
Antologia
della
Voce
,
che
ha
fatto
seguito
a
quella
del
Leonardo
,
dell
'
Hermes
e
del
Regno
(
entrambe
edite
da
Einaudi
)
e
a
quella
della
Critica
sociale
(
edita
da
Feltrinelli
)
,
le
annunciate
antologie
de
Il
Rinnovamento
,
Nova
et
vetera
,
L
'
Anima
,
Lacerba
,
eccetera
,
che
dovrebbero
presto
venire
alla
luce
,
testimoniano
l
'
interesse
sempre
più
acuto
delle
nuove
generazioni
a
ripercorrere
il
cammino
della
cultura
e
dello
spirito
pubblico
del
Novecento
,
per
rintracciarvi
le
origini
dei
problemi
che
ancora
ci
assillano
.
Ed
è
naturale
che
,
in
questo
ritorno
alle
origini
,
il
decennio
giolittiano
-
con
i
suoi
fermenti
e
il
suo
vivace
dibattito
ideale
-
divenga
il
polo
principale
di
attrazione
.
È
troppo
presto
,
forse
,
per
tirare
le
somme
e
giudicare
nel
loro
complesso
codeste
iniziative
editoriali
:
per
ora
si
può
solo
rilevare
che
le
due
antologie
einaudiane
sono
molto
ben
fatte
e
sono
introdotte
con
notevole
intelligenza
da
Delia
Frigessi
e
Angelo
Romanò
:
che
invece
qualche
incertezza
presenta
l
'
antologia
della
Critica
sociale
nella
parte
politica
ed
economica
,
ma
non
nella
parte
culturale
che
qui
più
direttamente
c
'
interessa
.
Tuttavia
,
anche
se
non
è
possibile
un
quadro
d
'
insieme
,
si
può
fin
d
'
ora
notare
che
le
recenti
ricerche
hanno
completamente
capovolto
i
canoni
d
'
interpretazione
di
quel
periodo
che
avevano
dominato
la
cultura
italiana
fino
all
'
ultimo
dopoguerra
.
Vediamo
.
La
reazione
antipositivistica
era
stata
sempre
considerata
una
caratteristica
rinnovatrice
del
movimento
culturale
del
primo
decennio
del
secolo
.
Ora
si
è
portati
a
capovolgere
il
giudizio
.
Non
già
perché
si
voglia
difendere
il
positivismo
negli
aspetti
grossolani
che
facilmente
prestarono
il
fianco
alla
polemica
(
e
anche
alla
irrisione
)
idealistica
:
la
metafisica
che
tradiva
il
significato
più
profondo
della
grande
esperienza
delle
scienze
;
il
determinismo
che
non
lasciava
posto
«
per
l
'
uomo
,
né
per
la
storia
dell
'
uomo
»
;
il
facile
ottimismo
o
la
superficialità
con
cui
si
parlava
di
progresso
e
si
orecchiavano
le
conquiste
scientifiche
.
Si
tende
,
invece
,
a
lasciare
da
parte
-
come
poco
importante
-
la
parte
sistematica
del
positivismo
e
a
richiamare
l
'
attenzione
su
altri
dati
più
interessanti
:
che
il
positivismo
sorge
come
una
sorta
di
nuovo
illuminismo
sulla
base
dell
'
espansione
della
civiltà
borghese
dell
'
Ottocento
;
che
esso
,
pur
cedendo
a
sua
volta
alle
tentazioni
metafisiche
,
rappresenta
il
movimento
di
pensiero
che
fa
della
lotta
contro
la
metafisica
il
punto
cardine
del
suo
programma
;
che
con
esso
si
rilancia
la
fiducia
nella
ragione
umana
,
soffocata
dal
movimento
romantico
;
che
esso
agisce
sull
'
orientamento
ideale
e
sul
costume
di
larghissimi
strati
d
'
intellettuali
,
creando
una
mentalità
laica
,
illuminata
,
aperta
alle
idee
di
progresso
,
chiusa
alle
superstizioni
religiose
,
sicura
delle
possibilità
dell
'
uomo
,
amante
della
scienza
e
dei
risultati
della
sua
applicazione
nei
vari
campi
della
vita
civile
;
che
esso
-
proprio
per
le
caratteristiche
fin
qui
indicate
-
ha
una
funzione
particolarmente
progressiva
nel
nostro
paese
arretrato
,
tagliato
fuori
da
alcuni
secoli
dalle
grandi
correnti
di
pensiero
europee
,
insidiato
dalla
presenza
del
Vaticano
.
Il
positivismo
,
cioè
,
si
presenta
oggi
allo
storico
moderno
come
l
'
aspetto
più
clamoroso
di
un
profondo
rinnovamento
che
si
operò
,
dopo
il
1860
e
la
"
aggiunta
unità
,
fra
gl
'
intellettuali
e
nella
cultura
italiana
.
Rinnovamento
benefico
-
nonostante
i
pericoli
e
le
esagerazioni
-
se
esso
veniva
a
consolidare
e
a
confermare
sulla
base
degli
orientamenti
della
scienza
e
del
pensiero
europei
il
carattere
prevalentemente
laico
della
cultura
italiana
(
derivato
dal
modo
stesso
con
cui
si
era
formato
lo
Stato
nazionale
in
opposizione
alla
Chiesa
)
;
se
contro
l
'
interiorità
e
il
mito
dei
romantici
(
l
'
ideale
staccato
dal
reale
di
cui
parlava
De
Sanctis
)
poneva
il
sapere
scientifico
come
«
l
'
obiettiva
coscienza
del
reale
»
;
se
postulava
una
natura
universale
dell
'
uomo
a
cui
faceva
corrispondere
«
un
'
etica
naturale
,
fondata
su
leggi
psicologiche
e
sociali
»
e
alla
cui
conquista
sembrava
impegnata
la
stessa
storia
che
si
presentava
così
conte
indefinito
progresso
;
se
sotto
l
'
Italia
ideale
sognata
nelle
battaglie
del
Risorgimento
sapeva
scoprire
un
'
Italia
reale
-
fatta
di
bisogni
concreti
,
di
arretratezza
,
di
miseria
-
e
,
quindi
,
faceva
affiorare
anche
da
noi
la
cosiddetta
«
questione
sociale
»
;
se
non
si
accontentava
dell
'
unità
politica
realizzata
nm
si
rendeva
conto
dell
'
esistenza
di
un
problema
del
Mezzogiorno
;
se
aveva
coscienza
di
quanta
Arcadia
fosse
rimasta
nel
nostro
romanticismo
,
di
quanto
fossimo
rimasti
indietro
rispetto
alle
altre
nazioni
e
operava
il
collegamento
con
un
grande
movimento
di
cultura
europeo
,
aprendo
le
finestre
,
rinnovando
l
'
aria
e
liberandoci
da
pregiudizi
,
limiti
provinciali
e
residui
accademici
.
1Int
uguale
capovolgimento
di
giudizio
può
notarsi
,
anche
nei
confronti
della
reazione
antinaturalistica
,
nonostante
che
,
in
questo
campo
,
sia
stato
proprio
un
critico
marxista
,
il
Lukács
,
a
introdurre
uno
schema
d
'
interpretazione
negativo
:
considerando
il
naturalismo
come
una
corruzione
in
senso
fotografico
e
descrittivo
del
grande
realismo
ottocentesco
.
Oggi
si
tende
a
considerare
il
naturalismo
come
un
rinnovamento
importante
e
benefico
della
nostra
letteratura
,
come
il
più
avanzato
tentativo
dl
arte
realistica
compiuto
nella
nostra
storia
letteraria
.
Gli
elementi
di
fondo
di
tale
rinnovamento
sono
gli
stessi
già
indicati
per
il
positivismo
e
sono
alla
base
della
rivolta
un
po
'
velleitaria
degli
Scapigliati
(
e
anche
a
guardar
bene
dell
'
atteggiamento
ribelle
del
primo
Carducci
)
e
,
soprattutto
,
della
grande
arte
di
Verga
e
della
critica
di
Capuana
.
Giustamente
è
stato
osservato
come
non
sia
stato
per
caso
che
la
crisi
letteraria
si
manifestasse
a
Milano
prima
e
piuttosto
che
altrove
.
Perché
«
i
primi
effetti
e
i
più
appariscenti
della
trasformazione
economica
e
sociale
che
era
in
atto
,
coi
suoi
urti
,
coi
suoi
contrasti
interni
e
con
i
rivolgimenti
di
fortune
e
di
opinioni
che
ne
derivavano
,
si
fecero
sentire
appunto
in
quella
città
che
allora
si
avviava
a
essere
,
come
poi
si
disse
,
la
capitale
morale
d
'
Italia
,
e
cioè
la
capitale
dei
traffici
e
degli
affari
,
uno
dei
centri
più
operosi
e
vitali
della
nuova
borghesia
e
della
nuova
cultura
»
.
E
non
fu
un
caso
che
essa
trovasse
i
suoi
maggiori
interpreti
in
Verga
e
Capuana
perché
era
necessario
«
un
passionale
deflusso
dal
centro
alla
periferia
,
dal
Nord
al
Sud
,
dal
vertice
alla
base
,
dal
mondo
della
scioperatezza
e
degli
sperperi
al
mondo
della
diffidenza
e
della
parsimonia
,
dalla
vita
di
lusso
a
quella
dei
bisogni
elementari
e
primordiali
»
per
individuare
il
contenuto
più
nuovo
e
tipico
:
«
la
vita
del
meridione
,
che
nella
struttura
del
nuovo
stato
unitario
non
era
più
un
modo
dl
vita
circoscritto
e
locale
,
ma
assurgeva
già
al
significato
e
all
'
importanza
di
uno
fra
i
più
tormentosi
e
urgenti
problemi
nazionali
»
.
Appunto
sulla
base
di
questo
nuovo
contenuto
sorge
l
'
arte
di
Verga
,
nutrita
essenzialmente
dall
'
analisi
del
molteplice
giuoco
di
forze
economiche
e
sociali
che
determinano
i
comportamenti
,
i
sentimenti
e
il
destino
degli
uomini
.
Ed
è
proprio
il
canone
dell
'
impersonalità
,
quello
studiare
le
forme
e
le
strutture
sociali
come
lo
scienziato
studia
il
prodursi
dei
fenomeni
naturali
,
proprio
quel
suo
«
ritrovare
nella
società
umana
non
già
i
grandi
problemi
morali
ma
-
come
lo
scienziato
nella
natura
-
solo
le
leggi
del
suo
funzionamento
»
,
proprio
tutto
questo
che
gli
è
stato
rimproverato
come
un
limite
e
un
errore
,
consente
invece
al
Verga
di
cogliere
-
al
di
là
delle
contingenze
storiche
e
della
euforia
borghese
-
la
legge
fondamentale
della
società
moderna
,
implacabile
come
il
fato
degli
antichi
greci
,
a
cui
si
assoggettano
i
suoi
personaggi
esponendo
la
nuda
e
dolente
verità
della
loro
condizione
umana
.
Del
resto
,
indipendentemente
dal
Verga
,
per
il
quale
è
stato
riconosciuto
da
tutti
che
l
'
incontro
con
il
verismo
ebbe
una
funzione
liberatrice
,
i
canoni
del
naturalismo
,
che
sono
stati
poi
ferocemente
criticati
e
derisi
,
l
'
impersonalità
e
quindi
il
ritrarre
direttamente
dal
vero
,
quasi
in
modo
fotografico
;
la
scientificità
,
intesa
come
riduzione
degli
elementi
umani
soprattutto
a
quelli
fisici
e
fisiologici
,
in
particolare
a
quelli
della
ereditarietà
e
dell
'
ambiente
;
il
dialetto
o
il
gergo
che
dovevano
rappresentare
il
modo
reale
di
parlare
dei
personaggi
,
se
valutati
nel
momento
storico
cui
furono
postulati
e
in
rapporto
con
i
nuovi
contenuti
che
volevano
esprimere
,
risultano
,
sul
piano
della
poetica
,
non
solo
giustificati
ma
necessari
.
Da
questi
due
giudizi
radicalmente
capovolti
si
possono
ricavare
molte
conseguenze
.
Ci
limiteremo
ad
accennarne
una
:
l
'
infondatezza
della
cosiddetta
sprovincializzazione
che
-
secondo
i
canoni
più
diffusi
d
'
interpretazione
del
Novecento
-
sarebbe
il
merito
fondamentale
dei
movimenti
culturali
del
decennio
giolittiano
.
In
realtà
sia
il
positivismo
che
il
naturalismo
erano
movimenti
europei
:
il
loro
diffondersi
in
Italia
aveva
già
rappresentato
una
rottura
del
nostro
isolamento
culturale
.
Ma
il
positivismo
e
il
naturalismo
ricevettero
in
Italia
una
elaborazione
nazionale
,
mentre
il
famoso
processo
di
europeizzazione
dei
Papini
e
dei
Prezzolini
avvenne
attraverso
forme
di
importazione
a
cui
non
corrispose
un
adeguato
sforzo
di
elaborazione
.
Avvenne
,
cioè
,
in
modo
provinciale
.
Come
si
vede
,
la
problematica
sollevata
da
questi
studi
è
di
estremo
interesse
e
modifica
gli
orizzonti
tradizionali
della
nostra
cultura
.
È
inutile
dire
che
tale
sforzo
ci
appare
benefico
e
che
le
prospettive
verso
le
quali
si
muove
ci
trovano
perfettamente
consenzienti
.
StampaQuotidiana ,
Cerco
di
ritrovare
,
per
le
vie
di
Napoli
,
la
figura
di
Salvatore
Di
Giacomo
.
Mi
dice
un
amico
:
«
Sta
nell
'aria...»
.
Si
guarda
attorno
,
fa
un
cenno
,
indica
qualcosa
con
un
gesto
circolare
.
È
vero
.
Sta
nell
'
aria
,
il
suo
monumento
è
la
strada
di
Napoli
,
il
vicolo
di
Napoli
,
è
la
«
tavernella
»
,
è
il
«
munasterio
»
è
il
«
funndeco
»
di
Napoli
:
è
il
sole
,
è
l
'
acqua
,
è
lo
scoglio
,
è
il
pino
di
Napoli
.
Bellissima
convinzione
:
un
po
'
retorica
.
Napoli
non
ha
fatto
molto
per
il
suo
poeta
.
Gli
ha
dedicato
una
strada
verso
Posillipo
e
una
lapide
sotto
alla
finestra
di
«
Marechiare
»
in
ricordo
di
quella
canzone
tanto
bella
,
scritta
a
diciotto
anni
,
e
la
cui
fama
,
mi
hanno
detto
,
un
po
'
lo
infastidiva
.
Le
proposte
per
onorare
Di
Giacomo
non
sono
mancate
:
intelligenti
,
affettuose
,
entusiastiche
.
Si
partì
dalla
semplice
idea
di
un
busto
,
si
arrivò
a
quella
di
dedicare
al
suo
ricordo
un
boschetto
o
una
esedra
arborea
sul
colle
di
Posillipo
.
Altri
propose
che
le
sue
spoglie
fossero
collocate
accanto
a
quelle
di
Giacomo
Leopardi
;
e
subito
qualcuno
ricordò
,
sia
pure
a
bassa
voce
,
i
dubbi
sull
'
autenticità
delle
ossa
di
Leopardi
,
di
quel
povero
scheletro
cui
mancherebbe
addirittura
la
testa
.
Città
,
più
dolorosa
che
lieta
,
mi
pare
Napoli
,
piena
di
crucci
,
di
affanni
,
di
disastri
cui
è
difficile
rimediare
.
Le
perle
e
le
melanconie
dei
vivi
sono
tante
che
forse
non
si
ha
tempo
di
pensare
a
quelle
dei
morti
,
che
forse
vivono
già
nell
'
eterna
serenità
.
Un
anno
dopo
la
morte
del
poeta
una
lapide
,
è
vero
,
fu
collocata
sulla
casa
dove
era
nato
.
Poi
venne
la
guerra
e
vennero
le
incursioni
aeree
.
Quella
casa
è
stata
colpita
,
è
crollata
,
per
un
miracolo
era
rimasto
in
piedi
il
pezzo
di
muro
dove
era
collocata
la
lastra
di
marmo
.
In
mezzo
a
quello
sfacelo
e
sotto
le
altre
incursioni
,
la
lapide
restava
,
alla
meglio
,
appiccicata
a
quel
rudere
.
Poi
cadde
anche
lei
;
sparì
:
non
si
sa
,
naturalmente
,
dove
sia
andata
a
finire
.
Anche
al
numero
107
di
via
Santa
Lucia
,
dove
abitò
gli
ultimi
anni
della
sua
vita
,
di
fronte
a
quella
chiesa
della
Madonna
della
Catena
dove
vanno
a
pregare
tutte
le
donnette
del
quartiere
,
il
cui
nome
ricorre
in
ogni
poesia
e
in
ogni
canzone
napoletana
,
non
c
'
è
un
segno
di
ricordo
.
Forse
era
fatale
che
fosse
così
.
Non
si
possono
trasformare
in
musei
degli
appartamenti
piccolo
-
borghesi
,
come
quello
in
cui
visse
Di
Giacomo
,
come
tutti
gli
altri
scrittori
del
suo
tempo
e
non
solamente
napoletani
.
Non
avevano
,
quegli
scrittori
,
ville
,
eremi
,
Capponcine
e
Vittoriali
.
In
una
casa
con
cento
finestre
,
come
si
può
«
eternare
»
la
finestra
di
un
poeta
?
Mi
dicono
:
«
È
nell
'aria...»
.
Di
Giacomo
ha
i
suoi
fedeli
,
che
credo
siano
tutti
,
o
quasi
,
gente
fra
i
cinquanta
e
gli
ottant
'
anni
,
legati
al
suo
ricordo
,
oltre
che
dalla
grandezza
della
sua
poesia
,
anche
da
una
certa
nostalgia
per
la
Napoli
della
loro
gioventù
,
la
«
vecchia
Napoli
»
,
la
cui
vita
intellettuale
dava
ancora
dei
punti
a
quelle
di
tutte
le
altre
città
italiane
.
Leopardi
l
'
aveva
esaltata
,
moribondo
,
con
il
canto
della
Ginestra
:
Francesco
De
Sanctis
aveva
fatto
da
Napoli
il
dono
all
'
Italia
intera
di
quella
Storia
della
letteratura
che
,
all
'
Italia
unita
da
pochi
anni
,
aveva
fatto
per
la
prima
volta
intendere
l
'
unità
dello
spirito
italiano
attraverso
i
secoli
.
A
suo
modo
,
l
'
Ottocento
intellettuale
di
Napoli
assomigliava
,
nella
varietà
e
nella
fecondità
dei
suoi
aspetti
,
all
'
Ottocento
di
Parigi
,
a
quello
che
fu
chiamato
lo
«
stupido
»
Ottocento
'
e
che
era
invece
-
ce
ne
accorgiamo
adesso
a
metà
del
Novecento
-
il
prodigioso
Ottocento
.
È
probabile
che
Di
Giacomo
debba
essere
spogliato
di
un
suo
fogliame
ottocentesco
,
liberato
da
una
sorta
di
macchiaiolismo
per
far
venire
in
luce
tutto
ciò
che
giustamente
di
virgineo
e
di
greco
fu
trovato
nella
sua
arte
ed
in
talune
sue
illuminate
sillabazioni
di
fremiti
e
sussurri
.
Fatto
il
lavoro
di
cernita
,
spogliata
l
'
ammirazione
per
lui
del
fatto
affettuoso
,
il
poeta
resterà
,
e
certamente
in
molte
parti
grandissimo
e
di
misura
italiana
fra
le
più
nobili
.
Segno
di
questa
sua
vitalità
e
di
questa
sua
insostituibilità
è
il
fatto
che
,
a
Napoli
,
per
chi
arriva
da
fuori
,
il
suo
nome
e
la
sua
opera
sono
ancora
il
miglior
punto
di
orientamento
quando
ci
si
accorge
subito
che
,
dopo
di
lui
,
non
è
più
il
caso
di
parlare
di
«
poesia
napoletana
»
,
essendo
ormai
spenti
anche
tutti
i
suoi
rivali
e
i
suoi
epigoni
.
È
nell
'
aria
anche
un
'
eredità
non
raccolta
nel
paese
dove
i
Russo
,
i
Bovio
,
i
Murolo
non
hanno
avuto
una
discendenza
,
né
si
pretende
che
possano
averla
,
poiché
anche
la
poesia
ha
le
sue
stagioni
e
non
si
può
farla
rinverdire
artificialmente
.
Quella
cara
stagione
è
finita
,
quel
giardino
è
chiuso
:
ma
lo
sentite
come
,
dietro
al
muricciolo
,
profumano
ancora
i
fiori
della
poesia
di
Di
Giacomo
?
Sono
andato
,
una
sera
dopo
il
tramonto
,
a
salutare
la
vedova
del
poeta
,
donna
Elisa
Di
Giacomo
,
nella
sua
casa
affacciata
sui
giardini
della
Riviera
di
Ghiaia
.
Donna
Elisa
era
di
almeno
vent
'
anni
più
giovane
del
poeta
-
bibliotecario
quando
,
studentessa
di
lettere
,
andò
da
lui
,
in
biblioteca
,
per
chiedergli
alcuni
consigli
su
una
tesi
di
laurea
.
Fu
lei
che
,
furtiva
,
depose
sul
tavolo
del
poeta
un
mazzolino
di
viole
o
di
ciclamini
.
Salvatore
viveva
con
la
madre
,
era
un
vecchio
ragazzo
sentimentale
e
inquieto
,
molto
timido
forse
sotto
il
suo
largo
cappello
alla
guappa
.
La
studentessa
dovette
attendere
assai
prima
che
il
poeta
riuscisse
a
compiere
il
gran
passo
.
Passeggiavano
al
sole
,
per
via
Caracciolo
.
Ad
una
parete
della
stanza
c
'
è
un
'
istantanea
in
cui
la
signorina
Elisa
ha
tutta
la
grazia
di
un
tempo
in
cui
il
sorriso
della
donna
che
si
teneva
a
braccio
del
suo
futuro
sposo
aveva
la
luce
di
un
sentimento
che
oggi
può
sembrare
ottocentesco
e
che
si
chiama
Fiducia
.
Prima
di
diventare
la
sposa
,
fu
la
donna
della
poesia
di
Don
Salvatore
,
quella
dei
malinconici
struggimenti
e
degli
inquieti
sospiri
,
quella
che
a
maggio
saliva
alla
tavernella
'
ncopp
'
Antignano
.
Stamno
a
na
tavulclla
/
tutte
e
dduie
.
Chiavo
chiano
/
s
'
allunga
sta
manella
/
e
m
'
accarezza
'
a
mano
...
Adesso
la
signorina
Elisa
di
un
tempo
è
Donna
Elisa
,
la
professoressa
che
è
andata
quest
'
anno
in
pensione
,
sottile
nella
figura
,
arguta
nel
volto
.
Vive
sola
al
secondo
piano
di
uno
dei
tanti
vecchi
solenni
palazzi
nobili
di
Napoli
che
hanno
tutti
,
nel
cortile
e
negli
scaloni
semibui
,
non
so
quale
aria
conventuale
.
In
un
nobile
silenzio
,
vive
con
le
finestre
aperte
su
questa
Napoli
molto
affettuosa
ma
-
penso
io
-
un
po
'
distratta
,
la
buona
signora
che
si
vide
morire
fra
le
braccia
,
con
lunghi
anni
di
malattia
,
il
vecchio
poeta
intristito
.
Questa
è
la
Madonna
di
Di
Giacomo
:
e
quello
lì
,
in
quel
disegno
a
penna
di
Paolo
Vietri
,
il
genero
di
Morelli
,
è
lui
,
come
era
a
diciotto
anni
.
StampaPeriodica ,
Vittorio
Frosini
della
Scuola
Normale
Superiore
di
Pisa
,
da
Capodistria
,
a
proposito
della
lettera
di
Goffredo
Pistoni
,
ci
scrive
,
fra
l
'
altro
:
"
Non
si
può
negare
l
'
importanza
della
filosofia
,
se
non
come
necessità
e
grandezza
dell
'
umano
pensiero
,
come
importante
contributo
d
'
un
popolo
alla
civiltà
.
Non
dimenticatevi
che
,
in
una
recente
crisi
politica
dell
'
Europa
centrale
,
un
grande
popolo
ha
vidimato
la
necessità
ideale
di
un
suo
gesto
di
forza
,
con
l
'
affermazione
d
'
una
superiore
cultura
e
civiltà
,
nel
cui
campo
rientrava
tutta
una
serie
di
pensatori
,
di
filosofi
pur
devoti
ad
un
totale
concettualismo
.
"
Quel
che
s
'
impone
è
dunque
l
'
esaltazione
di
una
nostra
filosofia
,
che
risponda
alle
nostre
tradizioni
e
caratteristiche
di
Popolo
.
"
Coll
'
appellarsi
al
nome
di
quelli
che
furono
,
al
lor
tempo
,
tra
i
più
alti
rappresentanti
della
cultura
e
della
filosofia
in
Italia
Vico
e
Leopardi
non
si
combatte
la
Filosofia
,
ma
si
rafforza
l
'
autorità
d
'
una
filosofia
:
la
Nostra
.
"
StampaQuotidiana ,
Trent
'
anni
sono
passati
dalla
sua
morte
e
ormai
,
in
questi
tre
decenni
,
sono
andati
scomparendo
quasi
tutti
coloro
che
conobbero
Eleonora
e
l
'
ascoltarono
nel
tempo
della
sua
più
fervida
stagione
che
,
vista
adesso
nella
prospettiva
della
storia
,
non
sembra
sia
stata
quella
dannunziana
,
anche
se
questa
fu
la
più
folta
di
eventi
e
di
cronaca
.
Nel
teatro
di
D
'
Annunzio
,
probabilmente
,
la
Duse
esaurì
la
sua
forza
vitale
non
tanto
per
le
vicissitudini
di
una
passione
che
ebbe
molte
illuminazioni
,
ma
anche
molti
disinganni
,
quanto
perché
,
prima
di
D
'
Annunzio
,
nei
testi
che
recitava
c
'
era
sempre
stata
,
bene
o
male
,
la
vita
,
mentre
,
dal
Sogno
di
un
mattino
di
primavera
in
poi
,
il
teatro
di
Gabriele
le
offrì
più
che
altro
perfettissime
parole
d
'
oro
.
La
Duse
apparteneva
-
o
la
precedeva
di
poco
-
alla
generazione
del
verismo
venuta
al
mondo
delle
scene
italiane
quasi
in
reazione
ai
tragici
paludamenti
di
Adelaide
Ristori
e
al
«
velluto
»
e
al
«
tuono
»
di
Ernesto
Rossi
e
di
Tommaso
Salvini
.
La
famiglia
da
cui
usciva
era
di
attori
dialettali
,
originariamente
chioggiotti
:
figli
cioè
di
una
razza
popolana
in
cui
le
tradizioni
fondamentali
sono
quelle
della
povertà
e
della
delusa
melanconia
.
Agli
attori
dalle
voci
d
'
oro
e
dai
polmoni
di
bronzo
che
essa
avrebbe
dovuto
considerare
i
suoi
maestri
,
sembrò
sempre
una
«
nevrotica
»
,
una
creatura
debole
e
inquieta
.
Essi
erano
abituati
a
dar
voce
ai
giganti
:
a
Ree
Regine
,
e
non
a
gente
di
tutti
i
giorni
,
i
cui
sentimenti
non
erano
di
misura
«
eroica
»
,
ma
,
tutt
'
al
più
,
di
drammaticità
quotidiana
.
Tommaso
Salvini
,
titano
della
scena
ottocentesca
,
la
collocava
un
gradino
più
in
alto
di
Sarah
Bernhardt
,
che
egli
considerava
una
«
meticcia
»
perché
,
non
figlia
d
'
arte
,
e
come
tale
,
quasi
quasi
,
una
grandissima
dilettante
.
Alla
Duse
,
anche
come
figlia
d
'
arte
,
riconosceva
il
diritto
d
'
esser
considerata
un
'
attrice
«
di
razza
»
,
ammirevole
in
un
preciso
gruppo
di
caratteri
,
dai
quali
la
consigliava
di
non
uscire
mai
,
ammirevole
nell
'
esprimere
l
'
amore
contrastato
,
la
gelosia
,
il
dispetto
,
il
rancore
,
la
recriminazione
repressa
dei
torti
ricevuti
,
il
rammarico
o
un
intenso
dolore
,
ma
non
adatta
ai
sentimenti
«
alteri
,
grandi
,
maestosi
»
.
Attrice
della
realtà
drammatica
borghese
e
non
della
misura
tragica
,
attrice
che
,
spiritualmente
e
tecnicamente
,
precedeva
il
gusto
del
Théâtre
Libre
alla
Antoine
,
l
'
incontro
con
D
'
Annunzio
la
convinse
di
aver
trovato
l
'
approdo
al
porto
di
un
superiore
teatro
di
poesia
.
L
'
inchiostro
del
giudizio
di
Tommaso
Salvini
,
che
contiene
forse
non
pochi
elementi
di
saggezza
,
era
ancora
fresco
quando
,
nel
1898
,
con
il
Sogno
di
un
mattino
di
primavera
,
Eleonora
pensò
di
salire
un
gradino
più
in
alto
del
suo
destino
di
interprete
di
anime
«
borghesi
»
.
A
trent
'
anni
dalla
sua
morte
,
gli
spettatori
contemporanei
della
sua
grande
stagione
sono
tutti
scomparsi
.
Restano
,
fra
i
critici
e
gli
storici
del
teatro
,
solo
coloro
stessi
che
l
'
hanno
udita
quasi
esclusivamente
nel
periodo
dannunziano
e
hanno
dovuto
aspettare
il
suo
ritorno
alle
scene
nel
1921
,
ormai
stanca
e
canuta
,
per
riscoprirla
,
dopo
quattordici
anni
di
«
esilio
»
,
negli
accenti
del
dramma
ibseniano
e
del
realismo
venato
di
patetico
romanticismo
di
Praga
.
Nel
tempo
della
riscoperta
della
Duse
-
e
della
sua
scoperta
per
gli
spettatori
che
avevano
poco
più
di
vent
'
anni
quando
essa
uscì
dal
suo
lunghissimo
silenzio
-
la
sua
leggenda
era
già
formata
.
Da
una
parte
,
c
'
era
il
gruppo
degli
anziani
e
dei
vecchi
che
,
pur
ammirandola
,
l
'
avevano
definita
«
nevrotica
»
e
«
pososa
»
,
dall
'
altra
quelli
che
,
parteggiando
per
il
suo
lungo
e
dolente
romanzo
d
'
amore
e
per
il
sacrificio
ch
'
essa
aveva
fatto
al
sogno
di
un
teatro
«
di
poesia
»
-
termine
su
cui
è
difficilissimo
intendersi
-
parlavano
di
lei
come
della
«
santa
»
e
della
«
martire
»
.
Solamente
Santa
Teresa
di
Lisieux
,
solamente
Bernadette
hanno
avuto
biografi
esaltati
e
lagrimanti
come
lo
furono
,
per
la
Duse
,
il
francese
Schneider
e
Matilde
Serao
.
D
'
Annunzio
stesso
,
che
per
una
fatalità
di
temperamenti
l
'
aveva
così
mal
compresa
,
l
'
aveva
chiamata
«
la
Divina
»
.
Le
ciocche
dei
capelli
bianchi
quasi
incolte
,
la
vita
in
ombra
per
tanti
anni
,
una
vaga
aspirazione
religiosa
,
il
suo
sognare
di
essere
maestra
di
giovani
,
la
sua
povertà
nomade
dall
'
uno
all
'
altro
rifugio
segreto
,
la
sua
dichiarazione
,
una
volta
,
di
voler
recitare
solamente
invisibile
,
per
dar
voce
alle
marionette
del
Teatro
dei
Piccoli
nella
Tempesta
di
Shakespeare
,
la
sua
riluttanza
a
mostrare
il
volto
all
'
obbiettivo
di
Cenere
perché
per
lo
schermo
dovevano
bastare
le
sue
sole
mani
,
le
sue
lettere
scritte
in
inchiostro
viola
,
a
velocità
frenetica
,
disseminate
di
puntini
di
sospensione
e
di
sottolineature
,
i
veli
quasi
monastici
e
vagamente
languidi
dei
suoi
cappellini
estivi
,
la
sua
gracilità
,
la
sua
tosse
,
la
sua
febbre
erano
tutti
elementi
della
leggenda
alla
quale
si
affacciarono
nel
1921
gli
spettatori
poco
più
che
ventenni
.
Si
andava
a
sentire
una
donna
o
una
santa
?
Dovevamo
pensare
al
suo
lontano
passato
di
donna
o
dimenticarlo
?
Dovevamo
vederla
solo
come
avesse
avuto
il
capo
coperto
dalla
cenere
dei
deludenti
fuochi
dannunziani
?
La
fortuna
ci
aiutò
:
la
donna
che
,
tra
il
1895
e
il
1921
,
aveva
dato
se
stessa
,
con
l
'
arte
prima
e
poi
con
il
silenzio
,
a
D
'
Annunzio
,
ci
apparve
senza
le
tracce
e
senza
le
cicatrici
gloriose
del
suo
sacrificio
alla
«
bella
parola
»
che
tanto
a
lungo
l
'
aveva
incantata
.
Ci
apparve
,
nella
Donna
del
mare
e
nella
Porta
chiusa
,
la
donna
che
essa
era
stata
nelle
sue
giovanili
ore
grandissime
,
tutta
immersa
nella
Vita
,
in
un
suo
trasumanato
realismo
.
E
non
ci
sembrò
una
semplice
coincidenza
che
Eleonora
fosse
nata
nel
1859
,
tre
anni
dopo
che
Flaubert
aveva
messo
al
mondo
Madame
Bovary
.
Emma
è
del
1856
,
Eleonora
del
1859
.
Si
può
imputare
alla
Duse
d
'
avere
creduto
,
oltre
che
alla
sua
nativa
realtà
poetica
,
in
una
poesia
al
di
fuori
del
«
vero
»
che
le
sembrò
più
alta
della
prima
,
e
di
non
aver
inteso
la
differenza
tra
«
cosa
»
e
«
parola
»
?
Non
era
caduto
nello
stesso
errore
Flaubert
,
scrivendo
la
rimbombante
Salammbô
e
le
Tentazioni
di
Sant
'
Antonio
?
La
sua
crisi
e
il
suo
dramma
segreto
furono
una
crisi
e
un
dramma
di
valutazioni
sbagliate
sotto
l
'
impeto
di
un
entusiasmo
d
'
amore
.
Figlia
della
grande
generazione
della
Bovary
,
dobbiamo
stupirci
che
essa
,
ad
un
certo
momento
,
abbia
creduto
più
nelle
«
atmosfere
»
di
Francesca
e
della
Città
morta
che
in
quelle
del
realismo
e
del
naturalismo
in
cui
,
con
reazione
antiromantica
,
era
nata
?
Essa
fu
certamente
l
'
unica
attrice
degna
di
essere
definita
«
flaubertiana
»
,
la
grande
sorella
italiana
di
Emma
Bovary
e
,
facendo
un
passo
più
avanti
nel
tempo
,
di
Anna
Karenina
.
Ebbe
maestri
?
Figlia
di
attori
oscurissimi
,
sua
prima
maestra
fu
certamente
la
povertà
dei
nomadi
che
le
dette
la
coscienza
di
quel
dovere
ch
'
essa
chiamò
,
umilmente
,
il
lavoro
.
Forse
,
nell
'
infanzia
e
nella
prima
adolescenza
recitò
anche
diversamente
da
come
le
avrebbe
comandato
il
suo
istinto
,
così
come
volevano
attorno
a
lei
la
voce
e
la
cadenza
dei
compagni
.
Nessuno
pensava
che
si
avvicinasse
il
tramonto
del
tempo
romantico
,
e
fanciulla
,
dicendo
quasi
senza
capirle
le
battute
dei
grandi
testi
d
'
amore
,
un
'
eco
romantica
passò
nella
sua
voce
.
Nelle
tragedie
come
la
Francesca
da
Rimini
di
Silvio
Pellico
,
giovinetta
,
declamò
come
poi
non
fece
mai
.
La
liberazione
del
suo
istinto
cominciò
con
le
parole
di
Giulietta
,
nel
dialogo
d
'
amore
con
Romeo
,
con
una
rosa
sfogliata
quasi
ad
ogni
parola
.
La
morte
della
madre
le
aveva
aperto
l
'
anima
alla
verità
del
dolore
.
Negli
anni
del
suo
debutto
,
quella
di
Eleonora
è
una
storia
di
stenti
,
di
lunghe
miserie
,
di
molta
autentica
fame
,
di
abiti
poverissimi
,
di
teatri
squallidi
,
di
inverni
gelidi
,
di
lunghi
notturni
estenuanti
colpi
di
tosse
.
Era
piccola
,
magra
,
bruna
,
fu
detto
,
come
una
calabrese
.
Talvolta
la
sua
gracile
bellezza
fioriva
in
un
improvviso
turgore
dell
'
adolescenza
,
ma
poi
già
si
velava
d
'
ombre
,
si
scavava
intensamente
nelle
guance
dagli
zigomi
risentiti
.
L
'
alto
arco
delle
sopracciglia
sembrava
,
sugli
occhi
vasti
,
profondi
,
un
nido
di
interrogazioni
.
Ebbe
in
verità
,
come
le
maschere
del
Teatro
Antico
,
due
volti
:
l
'
uno
forte
,
sereno
,
anche
ridente
,
perché
non
sempre
la
sua
anima
era
solamente
dolore
;
l
'
altro
scolpito
con
i
segni
della
delusione
come
in
una
cera
scura
,
nella
cera
della
sofferenza
.
Il
volto
della
Locandiera
il
primo
:
quello
della
Signora
delle
camelie
,
il
secondo
.
Illusione
e
delusione
furono
in
modo
sovrano
le
due
espressioni
dominanti
di
quel
viso
che
diventò
celebre
in
tutto
il
mondo
;
reclinato
e
come
concentrato
sulla
fiamma
di
un
sorriso
che
dava
un
fremito
alla
bella
bocca
ampia
:
in
alto
nelle
interrogazioni
del
dolore
come
sotto
al
soffio
di
un
vento
che
volesse
tutto
rimodellarlo
,
in
un
sospiro
o
in
un
gemito
.
Diventò
donna
,
e
recitò
tutto
.
Non
poteva
permettersi
una
scelta
,
né
di
compagni
né
di
repertorio
.
Pareva
dovesse
restare
sempre
una
genericuccia
,
dicevano
che
non
aveva
voce
né
scatto
né
energia
di
dizione
:
pareva
non
avesse
mestiere
,
e
tanto
meno
,
davanti
a
sé
,
un
destino
.
A
Trieste
il
pubblico
fu
duro
:
chiese
che
venisse
cancellata
dalla
locandina
.
Poi
fu
un
primo
passo
avanti
,
recitando
vicino
al
Belli
-
Blanes
,
a
Giovanni
Emanuel
,
a
Giacinta
Pezzana
,
a
Cesare
Rossi
.
A
Napoli
,
una
sera
,
il
pubblico
ebbe
l
'
impressione
di
vedere
per
la
prima
volta
in
scena
la
vera
Ofelia
che
andava
verso
la
morte
.
Rossi
,
Emanuel
,
Giacinta
Pezzana
sono
i
primi
maestri
,
e
subito
la
Duse
diventa
una
loro
pari
.
Eleonora
è
portata
dalla
sorte
a
non
dovere
più
ripetere
l
'
accento
dei
vecchi
modesti
compagni
che
andavano
orecchiando
di
maniera
le
intonazioni
e
il
gesto
dei
grandi
attori
romantici
come
Salvini
e
la
Ristori
.
Rossi
,
Emanuel
e
la
grandissima
Pezzana
le
confermano
che
il
teatro
ha
una
voce
nuova
,
che
cammina
verso
una
verità
più
meditata
,
più
acuta
,
più
intensa
.
L
'
attrice
che
reciterà
Teresa
Raquin
scoprirà
che
il
romanticismo
è
finito
e
che
il
«
vero
»
sta
arrivando
alla
ribalta
.
La
sua
ansia
di
verità
non
chiede
altro
.
Scoperta
la
via
,
riconosce
che
è
quella
verso
cui
la
portava
il
suo
istinto
e
su
cui
la
guida
la
sua
giovanile
meditazione
.
Viene
l
'
ora
di
quelle
che
saranno
le
prime
grandi
creazioni
:
cominciano
gli
anni
vertiginosi
della
Principessa
di
Bagdad
,
della
Moglie
di
Claudio
,
della
Signora
delle
camelie
.
A
ventitré
anni
qualcuno
la
paragonava
già
alla
Bernhardt
.
Amò
.
Ma
l
'
uomo
della
leggenda
era
ancora
un
giovinetto
e
apparve
quando
già
la
giovinezza
di
Eleonora
cominciava
a
sfiorire
.
Amò
come
ogni
altra
donna
uomini
della
sua
vita
di
tutti
i
giorni
:
un
giornalista
napoletano
:
la
lasciò
con
un
figlio
in
grembo
che
doveva
morire
nascendo
.
Fu
sposa
,
ma
senza
torridi
fuochi
d
'
amore
,
di
un
compagno
d
'
arte
,
Tebaldo
Checchi
.
Amò
,
con
un
improvviso
ardore
,
il
compagno
d
'
arte
Flavio
Andò
che
recitava
con
lei
nella
Signora
delle
camelie
.
Per
lui
creò
il
grido
«
Armando
!
Armando
!...»,
che
diventò
leggenda
.
Ma
di
tutto
questo
,
sia
nelle
illusioni
che
negli
errori
-
come
il
distacco
dal
marito
che
lasciò
a
lei
la
cura
della
figlia
Enrichetta
-
si
parlava
,
a
quei
tempi
,
a
bassa
voce
.
La
storia
dei
«
palpiti
»
della
giovane
attrice
,
che
sta
già
conquistando
la
sua
celebrità
nel
mondo
,
non
giunge
che
sommessamente
al
di
là
del
sipario
.
Non
diventa
cronaca
.
Di
amore
,
per
lei
,
devono
parlare
palesemente
al
mondo
solo
i
personaggi
,
ed
ecco
la
Duse
creare
,
come
forse
nessuno
prima
di
lei
aveva
potuto
,
il
personaggio
a
cento
volti
che
sarà
per
tutta
la
vita
quello
della
grande
innamorata
.
La
donna
,
insomma
,
in
funzione
della
passione
,
della
gelosia
,
del
peccato
,
della
espiazione
,
dell
'
abbandono
quasi
allucinante
del
cuore
e
dei
sensi
:
in
funzione
anche
della
perfidia
,
della
civetteria
,
della
crudeltà
.
Non
più
l
'
eroismo
modellato
dalle
grandi
voci
del
romanticismo
,
ma
quello
della
quotidiana
verità
della
natura
umana
.
Verismo
o
cosiddetto
verismo
?
In
molti
casi
,
si
tratta
di
teatro
borghese
,
adattamento
«
domenicale
»
della
verità
,
in
modo
persino
vieto
e
frusto
.
La
Duse
non
amò
le
Odette
e
le
Fernande
.
Ma
essa
sapeva
essere
più
in
alto
dei
testi
che
recitava
,
più
forte
delle
«
battute
»
e
delle
«
scene
madri
»
,
perché
il
suo
lavoro
era
fatto
tutto
di
approfondimento
nell
'
interno
del
personaggio
,
o
,
come
amava
dire
,
nelle
sue
«
fodere
»
.
Cosa
trovava
là
dentro
?
Trovava
se
stessa
,
il
suo
io
di
donna
sempre
pronto
a
rivelarsi
e
a
moltiplicarsi
in
cento
aspetti
.
Non
più
adattamento
da
teatro
domenicale
,
ma
una
sua
verità
che
poteva
assomigliare
,
appunto
,
a
quella
di
Emma
Bovary
o
di
Anna
Karenina
.
L
'
ansia
per
un
«
vero
»
fatto
di
poesia
e
di
meditazione
l
'
agita
sempre
più
intensamente
.
Su
questa
strada
arriverà
a
Ibsen
,
e
sarà
un
giorno
,
a
trent
'
anni
,
l
'
interprete
di
Casa
di
bambola
.
Aveva
già
amato
un
poeta
.
Ma
l
'
amore
per
Boito
fu
probabilmente
l
'
unione
con
un
«
compagno
d
'
intelligenza
»
.
L
'
attrice
è
celebre
ormai
in
tutto
il
mondo
quando
incontra
quello
che
sarà
l
'
uomo
del
suo
destino
.
Per
D
'
Annunzio
fu
«
obbedienza
infiammata
»
.
Non
si
vuole
fare
il
processo
al
«
superuomo
»
.
Ella
stessa
non
lo
fece
mai
.
Sognò
per
lui
ogni
impresa
,
affrontò
ogni
sacrificio
,
lo
stimolò
a
creare
,
lo
difese
contro
il
pubblico
,
modificò
il
proprio
stile
per
adattarlo
alla
sua
parola
,
perdonò
certe
pagine
del
Fuoco
che
l
'
avevano
amareggiata
.
Per
lui
,
più
giovane
di
cinque
anni
,
la
Duse
combatte
la
battaglia
d
'
amore
della
donna
che
sente
già
la
propria
giovinezza
dileguare
.
Di
volta
in
volta
,
si
esalta
e
si
rattrista
e
in
segreto
si
umilia
.
Vuole
amare
le
cose
che
egli
ama
,
leggere
i
libri
ch
'
egli
legge
,
prediligere
le
pitture
,
i
luoghi
,
le
spiagge
che
quel
gran
«
cicerone
»
le
fa
conoscere
.
Anch
'
egli
l
'
ama
,
ma
non
con
devozione
eguale
.
La
Duse
ha
quarantacinque
anni
,
quando
D
'
Annunzio
scrive
la
Figlia
di
Jorio
.
Ma
il
canto
disperato
di
Mila
non
sarà
più
per
lei
dal
momento
in
cui
l
'
attrice
scopre
che
il
castello
dell
'
amore
si
è
incenerito
e
che
davanti
all
'
inganno
bisogna
uscirne
come
una
donna
velata
.
Sono
,
adesso
,
ancora
nuove
strade
,
nuovi
viaggi
,
nuove
esperienze
nei
nomi
di
Ibsen
,
di
Maeterlinck
,
di
Gor
'
kij
.
Essa
è
sempre
più
«
l
'
attrice
del
mondo
»
,
pallida
malata
,
con
un
viso
da
esilio
per
un
dolore
di
cui
non
parla
mai
.
Si
ritira
.
Comincia
il
grande
silenzio
.
Quattordici
anni
e
la
povertà
le
dice
:
«
Bisogna
ritornare
...
»
.
Ormai
la
sua
salute
è
minata
,
un
filo
d
'
aria
fredda
basta
a
ferirla
.
La
sera
del
grande
ritorno
una
specie
di
galleria
di
tela
si
dice
la
protegga
dalle
correnti
d
'
aria
quando
esce
dal
camerino
per
entrare
in
scena
.
Ha
i
capelli
bianchi
,
non
ha
voluto
nemmeno
un
filo
di
cipria
«
per
non
mentire
»
.
I
fiori
saranno
,
da
allora
in
poi
,
sempre
per
una
chiesa
.
«
Dammi
,
Signore
,
un
cuore
vigilante
in
modo
che
nessun
pensiero
estraneo
mi
porti
lontano
da
te
...
»
,
diceva
una
preghiera
che
le
era
cara
.
Ormai
era
tutta
nella
fede
.
Ancora
l
'
Europa
,
ancora
l
'
America
,
sempre
più
stanca
,
sempre
più
fragile
,
finché
basta
uno
scroscio
di
pioggia
,
sulla
porta
chiusa
del
teatro
di
Pittsburgh
,
per
spegnerla
.
Così
basta
poco
per
morire
alle
bambine
malate
del
paese
dei
suoi
avi
sui
canali
di
Chioggia
battuti
dal
vento
dell
'
Adriatico
,
là
nel
paese
dove
,
a
quattro
anni
,
aveva
recitato
la
parte
di
Cosetta
in
una
riduzione
dei
Miserabili
.