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> anno_i:[1940 TO 1970}
StampaPeriodica ,
[ Oriana Fallaci , ferita mercoledì 2 ottobre a Città del Messico , durante i gravissimi incidenti di piazza delle Tre Culture , ci ha fatto giungere il suo racconto della stanza dell ' ospedale in cui era ricoverata . Lo stato in cui si trovava , dopo le ferite e l ' operazione subita , le ha impedito di mettersi alla macchina da scrivere . Essa ha però voluto ugualmente farci avere la propria testimonianza sui fatti di cui è stata anche protagonista : ha inciso su nastri tutto il racconto . La registrazione che è giunta da Città del Messico dura due ore e mezzo , con le inevitabili ripetizioni , gli indugi , e le interruzioni di una testimonianza resa a viva voce da una persona ancora sotto choc del rischio mortale che ha corso . Oriana Fallaci ci ha inviato i nastri raccomandandoci di usare la sua narrazione per ricavarne un servizio su ciò che era accaduto il 2 ottobre in Messico . Noi , dopo aver ascoltato queste bobine , abbiamo deciso di trascrivere esattamente ciò che vi è detto , senza cambiare niente . Nessun servizio avrebbe potuto essere più vivo , più drammatico di questo racconto fatto con la sua voce viva . Ogni tanto il discorso è interrotto da qualche lamento , da medici e infermieri che entrano ad escono dalla stanza , da pause di stanchezza della nostra collega . Il servizio di Oriana Fallaci che pubblichiamo è più di un racconto : è un eccezionale documento giornalistico ] . ( All ' inizio del nastro si sentono voci , c ' è gente nella stanza d ' ospedale dove si trova Oriana Fallaci . Un ' infermiera le ordina , in spagnolo , di non agitarsi . Poi comincia il racconto di Oriana Fallaci . ) Mi sento male , ho ancora la testa confusa . Vedi , c ' è qualcosa che mi fa più male del dolore , di questo dolore tremendo alla spalla , al polmone , al ginocchio , alla gamba , mi fa più male del dolore fisico : mi fa male questo incubo che ritorna , che mi ossessiona . Il dolore fisico si sopporta ma l ' incubo no . Non è l ' incubo della guerra del Vietnam , io nel Vietnam ho visto delle cose spaventose , ho seguito delle battaglie tremende , dei pericoli allucinanti , ma era diverso , perché sapevo di andare alla guerra . Uno va in Vietnam e sa che va alla guerra e la guerra è una cosa dove ci sono dei signori armati da una parte e degli altri signori armati dall ' altra : sai anche che si spara da tutte e due le parti . Ma quello che è successo là la sera in cui sono stata ferita non era una guerra . Era atroce perché non era la battaglia di Dak - To , non era la battaglia ai confini con la Cambogia o che diavolo . E non aveva niente a che vedere con le guerre che più o meno tutti , facendo questo mestiere , abbiamo visto come corrispondenti . Capisci ? Non era una guerra . E non doveva essere una notte si sangue . Se insisto su questo punto è perché voglio cercare di spiegare quest ' incubo che mi torna e mi ritorna la notte . La storia dell ' altra sera è questa : poi andrò indietro e ti racconterò il perché , come siamo arrivati a questo . Mercoledì alle cinque era stata indetta una manifestazione nella piazza delle Tre Culture a Città del Messico . Questa piazza , che credo sia una delle più grandi di Città del Messico e anche una delle più note , si chiama delle Tre Culture perché riunisce in un certo senso , simbolicamente , le tre culture del paese : quella azteca , quella spagnola , quella moderna : c ' è una chiesa spagnola del 1500 , c ' è la base di una piramide azteca e ci sono gli edifici moderni , quelli costruiti ora . Gli studenti l ' hanno sempre scelta per le loro manifestazioni , non soltanto perché si trova nel quartiere di Tlatelolco , vale a dire abbastanza vicino alla loro università , ma anche perché è molto grande , ha molte vie d ' accesso e molte vie di fuga : è facile arrivarci ed è facile uscirne . E in questo paese è sempre meglio riunirsi in luoghi dove fai presto ad arrivare e fai presto a scappare . Io ero già stata testimone di una manifestazione del genere nella piazza delle Tre Culture , esattamente il giorno dopo in cui ero arrivata in Messico . Era lì infatti , in una manifestazione del genere , nella piazza delle Tre Culture , che avevo conosciuto i capi degli studenti e avevo cominciato a intervistarli . Ero arrivata la notte tra il giovedì e il venerdì , e al venerdì ci fu subito questa manifestazione . Era la prima alla quale assistevo , e mi fece subito un effetto profondo . Mi avevano impressionata queste grandi migliaia di ragazzi , perché sono ragazzi , sai , tredici , quattordici , sedici diciotto , al massimo ventitré o ventiquattro anni . Ragazzi poveri poi , perché degli studenti messicani solo una piccola parte sono figli di borghesi . La massima parte sono figlioli di contadini , di operai e appartengono in maggioranza al Politecnico . Al Politecnico ci vanno i figli degli operai , dei contadini : allora tu vedi questi ragazzini , che non sono come i nostri studenti , con le camicie pulite , il golf stirato di fresco , le scarpe pulite , ma sono brutti e sembrano i contadini che alla domenica vanno al villaggio , come si vedevano in Italia venti o trent ' anni fa e forse anche oggi . E un po ' timidi , come sono i contadini . Mi ero commossa a vederli lì tutti ordinati , tutti insieme . Questi ragazzi s ' erano riuniti nella piazza delle Tre Culture , quello scorso venerdì , per commemorare i loro morti , perché avevano già avuto dei morti , un centinaio credo , dal ventisei luglio , il giorno in cui sono incominciate le repressioni della polizia . Quel venerdì c ' era la polizia , soltanto la polizia , non l ' esercito ; era riunita però sulla terrazza della Scuola numero 7 , ancora occupata dalla truppe governative . Questa scuola si affaccia proprio sulla piazza delle Tre Culture . Dalla parte moderna della piazza i ragazzi erano arrivati , con i loro cartelli , erano intervervenute le madri dei ragazzi ammazzati dalla polizia . Avevo conosciuto in quell ' occasione alcuni capi del Comitato della huelga , il comitato dello sciopero , e li avevo intervistati . I discorsi erano tenuti ( questo è importante perché è lì che poi è successo il disastro ieri l ' altro ) dalla terrazza di un edificio , una specie di grattacielo popolare , che guarda proprio la piazza delle Tre Culture . A ogni piano di questo edificio che si chiama Chihuahua Building , c ' è una grande terrazza con una balaustra abbastanza bassa e lì i ragazzi mettevano degli altoparlanti e parlavano . Era stata una manifestazione , ripeto , commovente perché ad un certo punto c ' era stata la commemorazione dei morti : pioveva , e tutti questi ragazzi stavano immobili sotto la pioggia , e le madri dei ragazzi morti stavano immobili sotto la pioggia . Finita la manifestazione , anzi durante il minuto di raccoglimento per i morti , qualcuno aveva acceso un accendino , poi un altro , un altro ancora e poi un altro ancora e s ' eran formati in tutta questa piazza come dei fuochi , piccoli fuochi fatui , dappertutto c ' erano queste fiammelle : fiammelle e fiammelle e fiammelle , di accendini e di fiammiferi che finivano per bruciarsi sulle dita . Finchè qualcuno aveva avuto l ' idea di arrotolare dei giornali e farne delle fiaccole e allora tutti si erano messi ad arrotolare giornali e fare fiaccole e la manifestazione s ' era sciolta oserei dire pacificamente con questa grande fiaccolata . Capisci , avevano arrotolato i giornali , erano andati via uno a uno , una fila lunga lunga verso il ponte , queste torce accese , cantando le canzoni degli studenti . Le canzoni dicono : « Goya , Goya . Cachu , cachu rara , cachu cachu rara , Goya Goya Universidad » . Non vuole dire niente , sono dei suoni da bambini , questa è la canzone dell ' università ; la canzone del Politecnico è : « Gueu , Gloria a la cachi cachi porra , a la cachi cachi porra Gueu pin pon porra Politecnico Politecnico gloria » . Pensa un po ' che canzoni pericolose . E cantando « pin pon porra cachu rara » questi ragazzi , con la loro fiaccolata , si allontanarono e questa era la pericolosa manifestazione che avrebbe dovuto mettere in pericolo la stabilità e l ' attuazione delle Olimpiadi . Dopo questa manifestazione il governo messicano decise di togliere le truppe dall ' università , che poi fu un ' evacuazione parziale , gli studenti mercoledì indissero un ' altra manifestazione , sempre nella piazza delle Tre Culture ; gli studenti mi dissero che questa era una manifestazione importante e sarebbe stato bene se io l ' avessi vista , e ci andai . ( A questo punto nella registrazione si inserisce la voce di un medico che domanda a Oriana Fallaci come si sente . La risposta è : « Mal , doctor , muy mal . Mi duole tutta la schiena » . Il medico dice che le farà un ' iniezione per la notte . Il racconto riprende . ) La manifestazione doveva avvenire alle cinque . A un quarto alle cinque io ero lì nella piazza delle Tre Culture e la piazza era già piena a metà . Nelle varie terrazze di questo edificio popolare che guarda la piazza , c ' erano già vari capi degli studenti ma una gran parte si erano riuniti nella terrazza del terzo piano dove c ' erano gli altoparlanti con le bandiere , le bandiere messicane e le bandierine dello sciopero che sono rosse e nere . Sono per noi colori anarchici , per loro no . Per i messicani la bandiera dello sciopero è una bandiera rossa e nera ; non è né anarchica né non anarchica : è la bandiera dello sciopero . Gli operai quando sono in sciopero innalzano questa bandiera rossa e nera . Non sono anarchici più di quanto siano comunisti o cattolici , liberali o che altro . A un quarto alle cinque la piazza era già piena a metà , io sono arrivata , sono salita sulla terrazza del terzo piano e ho trovato Guevara che è uno dei capi , ho trovato Manuel un altro capo , un ragazzo che studia biologia ed è figlio di un contadino . Ho trovato Manuel che è figlio di un musicista e studia al Conservatorio , ho trovato Socrates , un altro dei capi , e ho trovato Maribilla una ragazza che studia , mi pare , medicina . Ho chiesto come si mettevano le cose , se c ' era la polizia intorno , se si aspettavano un attacco e mi hanno detto di no , sembrava che la manifestazione fosse tranquilla . In realtà dalla terrazza della Scuola numero 7 , dove la settimana avanti , durante l ' altra manifestazione , quella della fiaccolata , avevo visto per tutto il tempo i granaderos con i mitra puntati , non c ' era niente , non c ' erano neanche i granaderos . Intanto la piazza si riempiva in un modo incredibile : guarda , nel giro di dieci minuti io credo che siano arrivate tremila , quattromila persone , perché ad un certo punto c ' erano almeno seimila persone . Mentre la piazza si riempiva è arrivato Angel , un altro ragazzo dei capi del Comitato generale dello sciopero ; sembrava molto turbato e mi ha detto : « Sai , sono in ritardo perché quasi tutta la piazza a tre o quattro chilometri da qui è circondata di autoblindo e di camion : a un certo punto c ' è una strada sbarrata , mi sembra che fosse la strada Manuel Gonzales , sbarrata con ben trenta camion carichi di soldati con le mitragliatrici e non lasciano passare nessuno . Ho dovuto fare un lungo giro e per questo sono arrivato in ritardo » . Ora sono confusa , faccio male il racconto . Dopo la manifestazione i ragazzi volevano andare a una delle scuole del Politecnico che è ancora occupata dall ' esercito , capito ? Volevano andare a fare una manifestazione lì . Quando Angel è arrivato , dicendo che c ' era l ' esercito e la polizia schierata dappertutto , i ragazzi tra di loro si sono riuniti e hanno deciso di non andare più perché , hanno detto , se andiamo tutti lì dove ci stanno aspettando con i bazooka sembra che vogliamo provocarli . Al che io gli ho detto per carità non andate , non lo fate , lasciate perdere , è inutile , è una bravata superflua , non ci andate . Allora il Socrates è andato al microfono , in questa piazza che continuava a riempirsi , e ha detto : « Compañeros , abbiamo cambiato idea , volevamo andare a manifestare davanti alla scuola . Non ci andiamo più , perché l ' esercito ci sta aspettando con le autoblindo , con i bazooka . Andarci è una provocazione inutile , per cui mi raccomando , compañeros , appena la nostra riunione sarà conclusa disperdetevi e andate alle nostre case » . La folla , i ragazzi rumoreggiavano un po ' : erano un po ' delusi ; ma era evidente che avevano deciso di rinunciare alla sfilata in direzione della scuola , mi pare fosse la scuola di Economia e Commercio . Hanno incominciato la riunione vera e propria . I discorsi sono stati aperti dalla ragazzina Maribilla la qualche ha detto : « L ' esercito ha evacuato la nostra lotta fino all ' applicazione di tutti i sei punti » . La Maribilla è una ragazzina di circa diciotto anni , graziosina , un po ' sciupata da un labbro leporino , gentile , un po ' timida , parlava con una vocina che sembrava un uccellino : anche con l ' altoparlante non si sentiva niente . Dopo ha preso la parola Socrates , che sembra un bambino coi baffi , ha la faccia di un bambino , come quella di Emiliano Zapata , ha diciotto - diciannove anni e questi immensi baffi che è tutto quello che gli è rimasto dei capelloni lunghi perché i ragazzi fino all ' agosto scorso avevano i capelli lunghi , non perché volessero fare gli hippies , non perché volessero imitare i Beatles , ma perché c ' è una tradizione al Messico che i rivoluzionari hanno i capelli lunghi . Così fino a poco tempo fa , i ragazzi portavano tutti i capelli lunghi . Quando la polizia ha cominciato a fotografarli , a seguirli , ad arrestarli , c ' è stata una ecatombe di capelli lunghi e di baffoni e l ' unico che non ha voluto rinunciare ai baffi è stato il Socrates , poveretto , che con i suoi baffoni è andatati lì al microfono e ha detto : « Compagni , questa è una manifestazione pacifica , noi oggi l ' abbiamo indetta innanzitutto per festeggiare l ' evacuazione della nostra università da parte delle truppe governative , poi per chiedere che il resto delle scuole secondarie vengano anch ' esse liberate dalla presenza dei soldati e infine per indurre i compañeros a cominciare , a partire da lunedì , uno sciopero della fame , per dimostrare che noi non vogliamo attaccare nessuno . Cerchiamo d ' ora innanzi dei sistemi pacifici . Lunedì cominceremo , chiunque vorrà partecipare a questo sciopero della fame si sistemerà nella città universitaria dinnanzi alla piscina olimpica … che farà lo sciopero della fame fino alla fine delle Olimpiadi » . Socrates aveva appena finito di parlare , che un elicottero ha cominciato a volare sopra la piazza , un elicottero verde dell ' esercito , in cerchi concentrici , sempre più bassi , sempre più bassi . Io mi sono preoccupata e ho detto a Manuel : che cos ' è questa storia ? Lui mi ha risposto di non preoccuparmi ; i ragazzi non erano eccitati , erano tranquilli , quieti . Mentre si discuteva della presenza dell ' elicottero , l ' elicottero ha lanciato due bengala verdi . Ora , venendo dal Vietnam , so benissimo che tutte le volte che un elicottero o un aereo butta giù un bengala , è perché vuole localizzare il punto da colpire . Allora io mi sono preoccupata e ho detto subito a questi ragazzi : guardate che sta buttando i bengala , se butta giù i bengala vuol dire che hanno intenzione di sparare . Ma loro non mi hanno preso sul serio . Siccome sapevano che ero stata in Vietnam hanno detto : « Eh , tù ves las cosas come en Vietnam » . Non avevano finito di parlare che si è sentito un gran fracasso , un grande rumore di camion e di carri armati e la piazza è stata letteralmente circondata dalle quattro parti , perché l ' edificio dove eravamo noi , questo terzo piano dove c ' erano gli studenti , guarda la piazza , quindi da qualsiasi parte si guardasse , si vedevano arrivare camion e autoblindo . Sul fondo , di fronte all ' edificio , c ' è una specie di cavalcavia e si sono piantati su questo cavalcavia . I camion si sono aperti , cioè la parte posteriore dei camion , i soldato si sono buttati giù sparando . Ma non sparando in aria , sparando in basso , i fucili non li tenevano in alto , li tenevano in basso . Per due o tre minuti siamo rimasti sbalorditi , allibiti quasi , per questa cosa ; questa cosa era un incubo , era al di là dell ' assurdo perché non era successo niente che potesse giustificare l ' arrivo di queste truppe . Stavano dicendo che volevano indire lo sciopero della fame lunedì ! I ragazzi hanno cominciato a scappare . Socrates , non essendosi ancora reso conto che stavano sparando veramente alla folla , è andato al microfono e ha detto : « Compañeros , compañeros , calma calma calma , es una provocaciòn , es una provocaciòn ! » . Ma loro continuavano a scappare , volevano venire in avanti , E ad un tratto ho cominciato a vederli cadere , sai quando vai a caccia e le lepri corrono , come fanno le lepri quando le colpisci , fanno una specie di capriola e poi restano lì . Da lontano si vedevano piccoli , e si vedevano queste lepri , che correvano e facevano una capriola , bom ! E restavano in terra . Io ero immobilizzata , letteralmente immobilizzata al balcone e guardavo la confusione violenta , tremenda che era scoppiata e sentivo Socrates che stava raccomandando alla folla la calma : ma non so che razza di calma potesse raccomandare a questo punto perché erano già cominciati a cadere i primi morti . Davanti a me c ' era la piazza , la grande piazza rettangolare che dalla nostra parte , dove eravamo noi , finisce in una grande scalinata . Ora c ' è una cosa ti voglio spiegare , ti ricordi nel film della corazzata Potiomkin quella scena della folla che scappa per quella scalinata e restano quelle donne , quei bambini , tutti ciondoloni , ecco sembrava la corazzata Potiomkin , questa scalinata ripida dove restavano tutti in giù , a testa in giù , era una cosa spaventosa . Noi eravamo chiusi in trappola , ci eravamo resi conto benissimo che stavano puntando verso di noi , verso il terzo « piso » , il terzo piano , dove c ' erano gli altoparlanti , ma ho capito anche che non c ' era nulla da fare . Voglio dire ho fatto il movimento di andare verso l ' ascensore , ma l ' ascensore era stato bloccato , capisci , nello stesso momento la Maribilla che era scesa giù , è arrivata gridando , chiamando Angel , e Angel è sceso giù al piano terreno e quando è sceso giù al piano terreno ha trovato decine , decine , decine di poliziotti in borghese che hanno cominciato a gridare « figlio de chingada » , « hijo de puta » , « figlio di cane » , « donde vas hijo de chingada » , allora Angel e gli altri dicevano « Abajo , abajo ! » e allora loro hanno detto « Arriva , arriba ! » e li hanno mandati su . Io mi sono girata voltando le spalle al massacro che era cominciato nella piazza e ho visto piombare , come nei film , una quarantina , una cinquantina prima , poi una sessantina di uomini di mezza età in borghese , in camicia , avevano tutti la camicia bianca , la mano sinistra dentro un guanto bianco , oppure fasciata in un fazzoletto bianco , era per riconoscersi , perché erano in borghese . Sono entrati sparando , hanno cominciato a sparare con queste rivoltelle dappertutto , non addosso alla gente , devo dire , ma per terra dappertutto , e agguantando la gente . Socrates è scomparso , io non l ' ho più visto Socrates , Angel era già scomparso prima , quando la Maribilla era venuta a dire che c ' erano i poliziotti . Io mi sono ritrovata insieme a Moises , che è un ragazzino del Politecnico , figlio di un contadino , a Manuel , un amico mio , e ho guardato i poliziotto venire avanti , in uno stato di totale stupore , anche se per stupire me ce ne vuole parecchio e per stupirmi dopo che avevo visto quello che stava succedendo nella piazza , quel piombare senza ragione , ce ne voleva ancora di più . Ma era talmente pazzo il piombare di questi qua , che li guardavo sbalordita . Una guardia mi ha preso pei capelli , io ho i capelli lunghi , mi ha agguantata per i capelli , sai come nelle vignette dell ' uomo delle caverne che agguanta la donna per i capelli , e prendendomi pei capelli ( io credo che gliene siano rimasti un bel po ' in mano ) , mi ha fatto fare mulinello , mi ha letteralmente scaraventata contro il muro . Sono rimasta qualche secondo stordita , naturalmente . Non so se avete capito com ' era la terrazza . C ' è questa terrazza grande , con le scale dalle parti , poi c ' è il muro con i due ascensori e poi c ' è la balaustra . Lui m ' ha buttato contro il muro dalla parte dove ci sono gli ascensori . Quando mi sono ripresa mi sono trovata da Moises e Manuel , gli altri erano spariti , nello sfondo c ' erano altri , giornalisti tedeschi , olandesi , c ' era un giapponese , dei francesi , eccetera . E questo qui che gridava « Detenidos , detenidos , detenidos ! » , cioè arrestati , arrestati , arrestati . Io sono rimasta in piedi . Intanto continuava la sparatoria nella piazza , ma non era ancora una sparatoria violenta . Io ho detto una parola : « Yo italiana » . Chissà perché ho detto italiana , mi è venuto così per istinto di sopravvivenza , non lo so . Quello ha preso e mi ha messo la rivoltella alla tempia . A questo punto , ti dico la verità , io avrei voluto dire periodista , giornalista , ma non sono riuscita a dirlo , con quella pistola puntata alla tempia e col pensiero che se avessi voluto tentare di dimostrarlo , non avrei neanche potuto , perché far vedere un documento , soltanto mettere la mano nella tasca della giacchetta ( avevo i pantaloni e la giacchetta ) e tirar fuori un documento voleva dire farti sparare , perché si dovevano tenere le mani quelli lì facevano partire un colpo . Ci hanno fatto mettere … Dunque sta ' a sentire : loro ci hanno fatto mettere al muro . Devo dire che fino a quel momento , malgrado la tremenda sparatoria fosse già cominciata , io non ero spaventata , un po ' perché c ' era Manuel , questo ragazzo che continuava a dire : « Lo fanno per ragioni psicologiche » , un po ' perché ero andata a intervistare il capo della polizia , quel generale Queto di cui gli studenti chiedono le dimissioni insieme allo scioglimento del corpo dei granaderos . Ero stata ricevuta da questo signore nel suo bellissimo ufficio ed egli aveva incominciato a intrattenermi a lungo sui vini italiani , sul fatto che a lui piace il Bardolino e il Chianti meno , che c ' è un ristorante che si chiama Mamma Roma , Mamma Maria , non mi ricordo come a New York . Quando poi gli avevo posto delle domande precise , gli avevo chiesto spiegazioni sul fatto che la polizia attaccava gli studenti , sparava sulla popolazione , con aria tranquilla mi aveva detto : « Ma no , ma nada , no pasa nada , no pasa nada nunca , mentira , mentira » . E aveva aggiunto : « Lei ha visto che anche l ' ultima volta vi è stata la manifestazione alla piazza delle Tre Culture , non è successo niente » . Ed era vero che non era successo niente , capisci . Così io non ero eccessivamente spaventata . Il capo stesso della polizia mi aveva rassicurata . La mia sola preoccupazione era data , devo dire , dalla presenza di questi poliziotti in borghese con il guanto bianco per riconoscersi , con le pistole puntate . Intanto la sparatoria si era fatta ancora più intensa . Le raffiche partivano dalle mitragliatrici delle autoblindo , che circondavano la piazza , e dai mitragliatori e dai fucili automatici dell ' esercito , e dai granaderos , i granatieri che qui chiamano granaderos , e infine da questo elicottero che si abbassava sempre di più , capisci , e sparava sulla folla ormai sparsa per tutta la piazza e sulla terrazza dove eravamo noi . Ho spiegato che su questa terrazza l ' unico punto in cui si poteva cercare un pochino di protezione era sotto la balaustra , sotto il muricciolo , e sotto il muricciolo si sono messi tutti questi poliziotti col guanto bianco e le rivoltelle in pugno , puntate contro di noi e noi , che eravamo i detenidos , gli arrestati , siamo stati messi invece dalla parte del muro . Così eravamo un bellissimo bersaglio per quelli che sparavano dalla piazza , dall ' elicottero , eravamo un bersaglio per tutti . ( A questo punto la voce di Oriana Fallaci si interrompe . Quando si riprende dice : « Scusami , ferma un momento il magnetofono che mi sento male , molto male . Mi sento morire … » ) Ecco , riprendiamo . Vedi , quando io dico che era peggio che nel Vietnam , voglio dire che nel Vietnam , quando sei dentro una battaglia , cerchi di ripararti , di salvarti , ti butti in un buco , ti butti in un bunker , ti ripari dietro qualche cosa e mentre fai questo non c ' è mica un poliziotto con la rivoltella spianata che te lo impedisce . E non potevi trovare nessun rifugio , non potevi entrare in nessun buco , non c ' era nessun bunker nel quale ti potevi rifugiare e tutte le volte che cercavi di muoverti di un millimetro da quel muro maledetto che costituiva il bersaglio principale e contro il quale ci avevano messi e cercavi di andare un pochino più in là dove c ' era il muricciolo , questi poliziotti distesi per terra ti sparavano addosso , capisci ? Sparavano contro il muro . Hanno sparato due o tre volte nel muro ! Hanno sparato nell ' ascensore due o tre volte . In questa sparatoria tremenda , mi cadevano i bossoli tutto d ' intorno . A un certo punto io ho detto : « Por favor , por favor quiero me haga venir , me haga venir cerca , cerca ! » , gliel ' ho detto anche in inglese : « Please , please let me come there , please please here is too dangerous , too bad , please » : per favore qui è troppo pericoloso , lasciatemi venire lì . Ma loro mi rispondevano puntandomi l ' arma contro e sparando nel muro . Quindi io non mi potevo muovere , comprendi , non mi potevo muovere assolutamente . L ' incubo per cui io alla notte mi sveglio come impazzita è questo , è un incubo da racconto di Poe . C ' è il fuoco da tutte le parti , sei inseguito come uno scorpione circondato dal fuoco , che non soltanto ti sparano da tutte le parti ma non puoi neanche metterti in salvo perché quando fai un movimento per metterti in salvo te lo impediscono e ti sparano addosso . Poi qualcuno deve avermi dato l ' ispirazione per togliermi da quella posizione terribile , lì in piedi , a fare da bersaglio . A un bel momento ho finto di svenire , sicché sono calata giù come uno straccio , gli altri hanno fatto lo stesso e quelli ci hanno lasciato fare . Allora siamo rimasti in quel modo sdraiati a pancia a terra . Io mi trovavo fra questi due studenti , questo Moises e questo Manuel : Moises è rimasto subito ferito alla mano perché ho visto che la mano era tutta insanguinata . Manuel cercava di proteggermi e quando la polizia si è accorta che lui cercava di proteggermi un poliziotto ha incominciato a gridare perché ci staccassimo . Per quanto possibile cercava di proteggermi , mi teneva le mani sulla testa , e mi tenevo anch ' io le mani sulla testa . La polizia allora , sempre puntando le rivoltelle , ha ordinato a lui di staccarsi e a tutti e due e anche a Moises di alzare le mani in modo che non ci potevamo neanche proteggere la testa dalle schegge . Niente , capisci : è questa la cosa meravigliosa . Quando Manuel si è staccato da me e Moises si è staccato , io centimetro per centimetro , perché stavo tutta distesa bocconi sullo stomaco , perché mi sentivo più sicura , ho cominciato a scivolare lungo il muro e sono riuscita a spostarmi di un metro indietro mentre questo poliziotto gridava e mi puntava la rivoltella . Questo movimento è stato quello che mi ha salvato , perché se no la pallottola mi sarebbe arrivata nella testa anziché nelle spalle . La sparatoria era ininterrotta , ho detto che sparavano da tutte le parti mentre noi eravamo sempre sotto le rivoltelle della polizia . A un certo punto l ' elicottero si è abbassato , si è sentita una grande raffica e io ho avvertito come due o tre pezzi di sasso che si abbattevano sopra di me e un coltello che mi entrava nella schiena . Il coltello era la scheggia della pallottola dell ' elicottero che si è fermata a pochi millimetri dalla colonna vertebrale . Un ' altra scheggia è entrata nel ginocchio sinistro e mi ha squarciato tutta la gamba in quel punto , però ho avuto questa fortuna incredibile che il professor Viale ha definito una fortuna scandalosa perché è andata a incastrarsi tra l ' arteria principale e tutti i legamenti nervosi e la vena , senza tagliare né l ' una né l ' altra . Un ' altra ancora è entrata nella coscia . È entrata da una parte ed è uscita educatamente da quell ' altra , senza fare nulla , lasciando solo due o tre schegge che risultano dalla radiografia ma che non possono togliere . Resteranno sempre lì tanto non mi danno noia e io le tengo come ricordo .
Gli studenti e la sinistra ( Scalfari Eugenio , 1968 )
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Gli studenti italiani protestano . Ormai non passa giorno senza che la cronaca non registri l ' occupazione d ' una facoltà , la sospensione d ' un corso di studi , le dimissioni d ' un rettore o d ' un preside , gli scontri con la polizia . Vogliono la riforma dell ' università . Vogliono che finisca la guerra in Vietnam . Vogliono il potere studentesco . Vogliono la rivoluzione . Sono contro l ' America , contro la civiltà dei consumi , contro i partiti ( comunisti compresi ) , contro il governo , contro il sistema : soprattutto contro il sistema . La loro e una " contestazione globale del sistema " . Da almeno un paio danni questi fermenti agitavano le masse studentesche , ma negli ultimi tre mesi sono esplosi . Prima si poteva anche fingere che non stesse succedendo niente all ' università . Oggi non si può più . E d ' altra parte il fenomeno non è isolato : quello che accade nelle università italiane non è che la ripetizione puntuale di quanto avviene a Berkeley , a Berlino , a Parigi , a Bruxelles , a Madrid , e perfino , a Praga e a Mosca . Per non parlar di Pechino . In ogni paese con spunti diversi , con occasioni diverse , ma con un unico obbiettivo , che è appunto di " contestare il sistema " . Ciascuno contesta il proprio , il che fai sì che questi giovani siano , in ogni paese , all ' opposizione , senza compromessi , senza mezze misure . E soprattutto senza indulgenze , il che li porta a rifiutare solidarietà non richieste , e qualche volta offerte più per amore della moda che per convinta adesione . Quando il movimento , in autunno , entrò nella sua fase acuta , le autorità ( e cioè i rettori , i professori , i genitori , e poi il governo e i partiti ) tentarono da prima di blandire questi ragazzi riottosi . « Certo » dicevano i più illuminati « gli studenti hanno ragione . La scuola italiana è vecchia di cent ' anni . I metodi son poco meno che borbonici , le attrezzature insufficienti , la mancanza di spazio paurosa , l ' assenteismo di molti insegnanti indecoroso . Le rivendicazioni ali questi ragazzi sono sacrosante . Bisogna stare dalla loro parte , aiutarli a vincere » . Poi s ' è visto che il metodo " blando " non serviva a niente , se lo scopo di chi lo usava era quello di " costituzionalizzare " il movimento , perché il movimento cresceva d ' intensità e si diffondeva sempre di più , e perché gli studenti passavano rapidamente dalle rivendicazioni settoriali a temi di protesta assai più generali . È accaduto allora che , da una parte e dall ' altra , le distanze crescessero e le possibilità di comprendersi diminuissero fino a ridursi rapidamente a zero . Fin quando , negli ultimi tempi , la protesta studentesca è arrivata a mettere in discussione l ' intera struttura economica , culturale e ideologica della società italiana , scontrandosi addirittura col partito comunista , accusato di " gradualismo " , ed eleggendo Mao e Guevara ad unici capi spirituali del movimento . Ormai sono assai pochi quei professori ( anche tra i più aperti ) disposti a far proprie le tesi dei comitati di agitazione studentesca , e sono pochissimi gli studenti " rivoluzionari " disposti a dar credito all ' intellettuale di " sinistra " , anche se questi abbia alle sue spalle un passato che parla per lui ( il caso di Moravia e il dibattito da noi pubblicato la scorsa settimana tra lui e un gruppo di studenti sono significativi di questa situazione , impensabile fino a sei mesi fa ) . Il movimento studentesco è isolato . S ' è radicalizzato , si è esteso , ha individuato con chiarezza i suoi obbiettivi , ma ha perso i collegamenti con il grosso della sinistra . Gli è accaduto qualcosa di simile a quanto avvenne l ' anno scorso al movimento negro in America . Il " Black power " ( di cui non a caso i comitati d ' agitazione studentesca riecheggiano gli slogans ) è diventato forte ma si è isolato . In un certo senso , è diventato forte perché sai è isolato . Agli studenti sta accadendo la medesima cosa . Riuscirà la sinistra italiana a riassorbire e ad utilizzare costruttivamente il movimento studentesco ? Riuscirà a farne l ' elemento propulsivo d ' una politica , la forza d ' urto e di trasformazione d ' un sistema che appare sempre meno capace di autoriformarsi ? Finora non si vedono segni che diano adito a speranze in questa direzione . La sinistra tradizionale , cioè i tradizionali partiti che la compongono , hanno cercato ( senza riuscirvi affatto ) di non perdere il contatto col movimento studentesco , largheggiando in riconoscimenti verbali e verbosi , con l ' occhio ai possibili spostamenti e alle possibili " frane " , che potranno verificarsi nel prossimo maggio a causa del voto giovanile . La preoccupazione elettorale ha dominato su tutto . Così comunisti e socialisti di varia osservanza hanno assolto tutti gli errori , tutti gli eccessi e tutte le ingenuità dei comitati d ' agitazione studenteschi , senza tuttavia far propria nessuna delle tesi politiche e ideologiche cui l ' azione dei comitati s ' ispira . Il governo di centro - sinistra ha , in questo settore , registrato il più clamoroso dei suoi non pochi fallimenti . Era partito iscrivendo la riforma della scuola , e quella universitaria in particolare , al numero uno del suo programma . La legislatura si chiude senza che quelle leggi siano neppure state discusse , lasciando la scuola e l ' università in uno stato di caos pauroso , e con scarsissime speranze per l ' avvenire . Eppure tutti sanno perfettamente che una società e una classe dirigente sono esattamente quelle che la scuola forma o , per dirla in altre parole , che ogni classe dirigente ha la scuola che si merita . Ci sono tanti problemi di terribile importanza da affrontare nell ' immediato futuro . Quello del movimento studentesco e d ' una riconciliazione di sostanza tra i giovani e la sinistra politica , non e certo uno dei minori né dei più semplici .
Corrado Alvaro ( Vergani Orio , 1956 )
StampaQuotidiana ,
È morto Corrado Alvaro . Il mio primo ricordo di lui risale al tempo in cui - sradicato dalla nativa Calabria , ventenne , mutilato sul Carso , fatto esperto da una prima esperienza giornalistica al « Carlino » di Bologna e poi al « Corriere della Sera » - arrivò a Roma . Doveva essere fra il '19 e il '20 . Le date precise non contano , nel ricordo : ma il colore del . tempo , la stagione della storia . Erano giorni decisivi , nel senso morale , soprattutto per la generazione dei giovani e per il maturare o per il doloroso frangersi o corrompersi delle loro intelligenze e delle loro speranze . Giorni decisivi anche per l ' arte e per la letteratura , e non solamente in Italia . Per quanto Marinetti fosse di parere contrario , il futurismo era già da tempo avviato al tramonto . Non si considerava possibile il rinascere dei movimenti fiorentini della « Voce » di « Lacerba » . « La Ronda » parlava di un ritorno all ' ordine , riunendo nelle sue pagine le prose di alta solennità di Cardarelli , i saggi teatrali di Riccardo Bacchelli , la tempesta immaginifica del grande « barocco » di Bruno Barilli . Era una stagione molto singolare . D ' Annunzio aveva trovato una nuova clausura fra gli ulivi del lago di Garda . Grazia Deledda scriveva con regolarità i suoi romanzi , lavorando dalle nove alle undici del mattino in una modesta villetta impiegatizia di via Porto Maurizio , sulla stessa tavola dove avrebbe poi steso la tovaglia per la colazione della sua famiglia . Luigi Pirandello era ancora catalogato fra i cosiddetti « scrittori ameni » . Federigo Tozzi entrava da Aragno solo per uscirne in preda a un violento corruccio . Odiava - e lo dichiarava - le chiacchiere . Fra i ragazzi di quegli anni - che forse davano un po ' presuntuosamente del « tu » a tutti - il giovane Alvaro era già « qualcuno » . Le sue poesie di ispirazione militare - le Poesie grigioverdi , stampate da un libraio editore che aveva bottega a due passi da Aragno in via delle Convertite - lo avevano reso noto . Quei versi erano stati scritti nella corsia di un ospedale militare , a Bologna , dove il sottotenente Alvaro - bel nome romantico e spagnolesco - era andato a rieducare alla meglio le mani mutilate . Si era curiosi , quando il giovanotto arrivò a Roma , di vedere da quale parte si sarebbe indirizzato , in quale « scuola » si sarebbe irreggimentato , quale « capo » avrebbe scelto . Così si ragionava a diciotto e a diciannove anni . Quello che vedemmo era un giovane che non sorrideva mai , o pochissimo , che aveva rare conoscenze e non desiderava forse di averne . Accompagnato talvolta dalla giovane moglie , sedeva a un tavolino appartato del famoso caffè letterario , dove non c ' era giornalista che non entrasse per dare un ' occhiata . Era piuttosto piccolo di statura : un vero fante , un vero « soldato meridionale » come quelli che aveva avuto vicini in guerra : ma dei « meridionali » , almeno come li immaginano i « manieristi » , non aveva certamente il volto . Della sua terra dell ' Aspromonte , la faccia custodiva un ' antica , silente melanconia : i suoi lineamenti erano in modo singolare assomiglianti a quelli di un mugik russo , forse di un piccolo fante russo . Il suo viso sembrava modellato dallo stesso pollice che aveva plasmato il volto di Massimo Gorkij . Spesso « il volto è l ' uomo » , è modellato dall ' anima dell ' uomo . Ce ne accorgemmo quando ci accadde di leggere i primi racconti firmati da Alvaro . La melanconia , la mestizia , la desolazione non hanno paesi precisi . Il dolore umano è uguale nella steppa slava e sui monti di Calabria . Alvaro veniva dal grande ceppo del « regionalismo » italiano . Solamente le acque dello stretto di Messina lo separavano da Giovanni Verga . Era dello stesso sangue , letterariamente , di Federigo Tozzi , così duramente radicato fra le « crete » senesi e i vicoli foschi della sua Siena . Erano tempi , in sede europea , di narrativa cosmopolita . Ma su Alvaro non operavano gli incantesimi delle metropoli e delle terre lontane . Il suo cuore era rimasto ancorato ai monti di Calabria come quello di Grazia Deledda ai sughereti e alla « tanca » della sua Sardegna . Si trattava di una fedeltà poetica : la fedeltà ai segreti miti tragici della povera gente nelle ultime , contorte vallate dell ' Appennino . In quel cerchio di ricordi del mondo esplorato e vissuto durante la prima giovinezza , Alvaro doveva compiere i suoi schietti , profondi , sicuri approdi di scrittore . Nei romanzi - in quell ' Uomo nel labirinto , che resta fra gli esemplari della sua generazione , e in quell ' Uomo e forte pubblicato molti anni dopo - la sua indagine si svolse in più profonde psicologie , in più folte tenebre , in più complesse angosce . Ma il suo « mondo » trovò la sua definizione completa in quei racconti della sua terra che concludono , in una misura degna del maestro e della tradizione , il tempo che si iniziò con Verga e che ebbe il suo ultimo fiorire con Tozzi e con Alvaro . Giornalista fu sempre , anche se negli ultimi anni aveva potuto raccogliersi e risparmiarsi in pagine e fatiche meno rapidamente professionali , sostando anche sui piani di un suo meditare che si volgeva all ' intimità di quella « condizione umana » che con termine più facile viene chiamato il problema delle nuove società . Era stato - negli anni della giovinezza - a Parigi : e più tardi in Russia . Non si può dimenticare ciò che egli seppe vedere allora con il suo sguardo apparentemente lento e quasi immoto . Le sue emozioni di viaggiatore in mondi lontani erano tutte in rapporto a una facoltà meditativa che pareva derivasse dal fondo greco che sta alla base di ogni uomo nato in vista del Mediterraneo . Per tutta la vita , fu un « uomo in disparte » chiuso negli stessi silenzi , rotti da poche parole e da improvvisi affetti , che da ragazzi conoscemmo al terzo piano della sua casa in via Sistina dove abitava quasi di fronte alle finestre dietro alle quali aveva vissuto Gogol ' . La vita non gli era stata facile , era stata talvolta dura e anche di alto dolore . Dissentiva dal fascismo , ma non ebbe , alla sua caduta , rancori o ironie . Del suo paese soffrì la tragedia . Era un animo nobile : un solitario .
Bruno Barilli ( Vergani Orio , 1952 )
StampaQuotidiana ,
Costretto a vivere in uno studio da pittore , di quelli all ' antica con la luce che piove verticale e accademica dall ' alto , attraverso ai vetri di un lucernario sul quale passa l ' ombra volante dei piccioni e delle rondini , Bruno Barilli s ' addormentava con la luna e le stelle che gli « battevano » in faccia . Rincasava a tarda ora , arrivando alto e spettrale da via del Babuino e da piazza del Popolo , dove non c ' era altra voce al di fuori di quella delle fontane attorno all ' obelisco : si inselvava in un parco cintato che fiancheggiava Villa Borghese , dove un vecchio signore olandese , dalla barba e dai silenzi simili a quelli di un mago , aveva costruito certi padiglioni a forma di baita per affittarli , in cambio di pochissima moneta , agli artisti che avessero voluto vivere in una specie di labirinto arboreo , lontani dai rumorosi selci delle strade di Roma e dal vocio dei vetturini e dei cocomerari . L ' arredamento dello studio era costituito da un materasso buttato su due trespoli , i vestiti si attaccavano a quattro chiodi , la biancheria stava per terra , fra due fogli di giornale . Nelle notti di estate , nella stagione degli amori , arrivavano fra gli alberi il ruggito dei leoni e l ' urlo delle tigri chiusi nelle gabbie del vicino Giardino Zoologico . All ' alba il sole illuminava il letto sfatto , la grande figura del dormiente e il lungo volto ossuto traversato , all ' altezza degli occhi , da una larga benda di seta nera . Barilli - in quello scenario da Fantasma dell ' Opera - usava le sue precauzioni per difendersi dalla luce . Sul pavimento un tappeto balcanico , avanzo dei ricordi di antichi viaggi , pareva , con le sue ruvide lane rosse , una larga traccia di sangue . Questo è un ricordo vecchissimo , quasi antico : risale al tempo in cui , se ritroviamo la loro immagine , gli uomini sono ancora vestiti in costume , con la bombetta , con le ghette , con grande sciupio di amido per i colletti e i polsini . Le donne si tingevano gli occhi con una ditata di cerone azzurro e le adultere , nascoste sotto al mantice di tela cerata delle carrozzelle , riparavano il viso sotto velette fiorate . Se prestavi l ' orecchio , sulla dirittura del Corso pareva di udire ancora l ' eco delle corse dei « barberi » e per via Gregoriana il passo di Andrea Sperelli . Ogni tanto sfilava qualche gruppetto di arditi , con il fez nero dal lungo fiocco , che parevano usciti da una stampa del Callot . Era , insomma , il tempo fra il 1918 e il 1920 , quando i sottosegretari dei governi non avevano ancora a disposizione l ' automobile , ma una vasta carrozza foderata di panno verde . Bruno Barilli , scrittore di musica , violoncellista , figlio di uno scenografo del Regio di Parma , marito di una nipote del re Pietro di Serbia , erede di una duplice assomiglianza con Berlioz e con Niccolò Paganini , rosso nei capelli cespugliosi , scavato nel volto come il personaggio di un disegno di Gustavo Doré , povero in canna , lungo come un flauto , avvolto in larghi abiti di serge blu , il candido colletto floscio sventolante con i due pizzi sotto alle lunghe mascelle , sembrava arrivare dritto dritto dalla soffitta dove vivevano i personaggi dei racconti di Hoffmann , di Poe , di Gérard de Nerval . Quando , nel 1924 , gli fu offerto di raccogliere le sue prose in un volumetto , che ebbe per titolo Delirama e che segnò un punto preciso come libro essenziale della letteratura italiana di questo primo mezzo secolo , Barilli si era guardato attorno lieto e impacciato . Dove , come ritrovare i suoi scritti ? Ne aveva disseminati nelle « terze pagine » , non li aveva mai conservati . Solo la buona volontà di Emilio Cecchi poteva compiere il miracolo di recuperare quelle settanta - ottanta preziose paginette . Di qualcuna che non era possibile scovare da nessuna parte , Bruno trovò la traccia a lapis su vecchi programmi del Costanzi e dell ' Augusteo o nel rovescio di qualche biglietto d ' ingresso . Anche di correggere le bozze si incaricò Cecchi , perché Barilli non lo sapeva fare e perché , come al solito , doveva partire . La vita di Barilli fu effettivamente una continua partenza . Era incapace di avere una casa , un recapito , un indirizzo . Viaggiava , lasciava la valigia con il frac al giornale , arrivava trafelato , si cambiava in redazione , si cibava durante lo spettacolo con un cartoccetto di bucce d ' arancia candite , prendeva le sue note al buio appoggiando il taccuino sul ginocchio ossuto . Non c ' è da stupirsi che i suoi libri e i suoi articoli uscissero a urlo di lupo . La povertà , la melanconia , la difficoltà di farsi capire come musicista , un orgoglio leonino e un animo di fanciullo sperduto , l ' incapacità agli accomodamenti e alle alleanze , le lunghe amnesie , le ansie e i triboli di una vita solitaria disperdevano la sua vita come quella di un esiliato . Compiuti gli studi a Parma assieme a Ildebrando Pizzetti , il figlio del pittore Cecrope Barilli è diviso fra la creazione musicale , l ' estro letterario e la vocazione per la vita nomade . Prima della Grande Guerra è a Parigi che resterà spiritualmente , dopo Parma , la sua seconda patria . Il suo animo illuminato e stoico gli permette di vivere con quasi nulla , gli consente i più duri adattamenti . Viaggia qua e là per l ' Europa . La prima guerra balcanica lo sorprende in Serbia . Invece di tornare in Italia - non vuole , perché si è innamorato di una nipote di re Pietro , e , contro la volontà del sovrano , finirà per sposarla e per avere da lei una figlia , Milena - telegrafa al « Corriere della Sera » offrendosi come inviato al fronte . Aveva già scritto per « La Tribuna » . L ' offerta è accettata dagli Albertini . Barilli però non è tipo di adattarsi a un giornalismo rigoroso che finirebbe a non lasciargli tempo per la musica : per scriverne e soprattutto per pensarla e amarla . Ritorna a Parigi e si sfama e sfama la piccola Milena suonando il violoncello nelle orchestrine dei caffè . Suona anche il pianoforte in qualche cinematografo di periferia . Conosce il russo . Si lega d ' amicizia con i musicisti e con le ballerine della prima troupe di Diaghilev quando questi cala a Parigi . Sono i tempi in cui impara a cibarsi di valenciennc ' e di acqua . Il richiamo della sua classe lo riporta in patria , con un berrettuccio da ufficiale calcato sui capelli rossi . Riappare a Parma e a Roma . È uno strano ufficiale che pretende di farsi la barba con un paio di forbicine da unghie . Questa è un ' abitudine che gli resta per tutta la vita : le sue forbicine lavorano al caffè , in strada , in tutti i momenti in cui Barilli naviga tra le sue fantasie . Sono gli anni in cui , dopo avere scritto Medusa , compone 1'Emiral . Dove ? In quello studio da pittore di villa Strohl - Fern , non c ' è l ' ombra di un pianoforte . Barilli non può permettersi di noleggiarne uno e si fa assumere come pianista in un piccolo cinema dalle parti del Vaticano . Deve accompagnare i film muti . Nelle ore del primo pomeriggio , quando in sala ci sono soltanto due , tre coppie di innamorati che non fanno attenzione né al film né alla musica , Barilli , tranquillo come se fosse nel proprio studio , lavora all ' Emiral . Gli amici della « Ronda » sono curiosi di conoscere l ' opera . Barilli invita tutti al cinematografo e , durante la proiezione di un film di Tom Mix , la suona . Fa tutti i mestieri , solo perché si è promesso di non fare « musica di mestiere » . Per pagarsi questo lusso , diventa comparsa nei film muti . Diventa anche attore . Caramba gli fa interpretare la parte di Virgilio , in una specie di fantasia sulla Divina Commedia , e Arnaldo Fratelli , che in quegli anni è regista , lo sceglie per protagonista della Rosa , il primo film tratto da una novella di Pirandello . Barilli recita bene , puntuale , disciplinato . Rifiuta solo una sequenza dove deve figurare in terra , morto , con vicino una candela . Per scaramanzia ? No . Perché gli pareva fa scena della morte di Scarpia e , come musicista , quella scena della ' rosea non gli piaceva . La sua carriera è stroncata da un atto di sincerità artistica nel quale sa di giocare tutte le sue già tanto precarie fortune di operista . Dopo la prima del Nerone , a Milano , scrive in un giornale romano una fiammeggiante bellissima pagina di prosa nella quale Boito , Mefistofele compreso , è fatto in briciole . L ' industria del teatro d ' opera non gli perdonerà mai quell ' articolo che , dal punto di vista critico , è perfetto . Non si può più ascoltare Boito senza ricordare la stroncatura di Barilli . Ma sono gesti che pesano : lo scrittore di musica è messo al bando dai giornali benpensanti che non amano le « grane » . Se vuole mangiare , Barilli deve trasformarsi in scrittore di viaggi . Dal suo periplo dell ' Africa , nasce il più bel libro italiano su quel continente . La poesia melanconica , la cupa segreta disperazione di Barilli si riflettono nell ' Africa e negli occhi delle sue umili genti come in uno specchio nero . Al termine del viaggio , si ammala e resta per tre mesi in fin di vita , al Cairo . La sua fine è segnata . Le sue capacità di lavoro - un lavoro lento , fatto di raccoglimento e di lunghissime osservazioni - diminuiscono . Vive solitario in una stanzuccia d ' albergo a Roma , sorretto da un solo entusiasmo . Sua figlia Milena , che è emigrata negli Stati Uniti , si è fatta un buon nome come pittrice , e aiuta il suo strano papà mandandogli in dono quadri da vendere . Bruno si intenerisce e , invece di venderli , attacca i quadri alle pareti della sua camera . Vive poveramente , dignitosamente chiuso nei suoi vecchi vestiti azzurri , scrivendo ogni tanto , a fatica , qualche elzeviro . Sembra che abbia dimenticato di essere un musicista . Un giorno , un telegramma dall ' America gli annuncia che Milena è morta cadendo da cavallo . Bruno si avvia al naufragio . Continua a vivere in silenzio a tazze di tè , di grissini , di valenciennes . Perde uno alla volta i denti . Si riconosce alla fine nello specchio come un triste vecchio sdentato . I suoi scritti non sono ormai che la tragica storia di una decadenza . Una sera , trova in albergo l ' avviso di andare alla stazione a prendere un pacco in arrivo da New York . È la cassettina con l ' urna che contiene le ceneri di Milena . Tutti sapevano quanto la prosa italiana - e non solamente la prosa , perché il riflesso dell ' arte di Barilli ha agito in vari modi a cominciare , per esempio , dalle composizioni pittoriche e dal clima fantastico del pittore Scipione - doveva a Bruno Barilli : ma da questo ad avere per lui un segno fattivo di riconoscenza il passo è stato lungo e incompiuto . Sembra fosse stato firmato un decreto che , nominandolo ispettore musicale di un istituto cinematografico , gli avrebbe assicurato il pane . Il decreto è arrivato quando , in clinica , Barilli già vaneggiava e dal fondo del suo letto come chiamando una amica , ripeteva con voce ancora ferma : « Avanti , Morte ! » .
Luigi Barzini senior ( Vergani Orio , 1959 )
StampaQuotidiana ,
La storia del mondo voltava pagina . Quando Luigi Barzini , ragazzo di Orvieto , scese a Roma , arruolato in un modesto giornale , che mescolava i piccoli entrefilets con i « pupazzetti » nel genere di quelli di Vamba e di Gandolin , e fu scovato da Luigi Albertini e spedito a Londra come corrispondente del « Corriere della Sera » , erano , senza che molti se ne rendessero conto , anni di avvenimenti favolosi . Dalla lanterna magica si passava alle pellicole dei Lumière , la Patti e Tamagno incidevano i loro primi « cilindri di cera » per il fonografo , Marconi studiava il telegrafo senza fili , l ' uomo si ostinava a tentare di volare affidato ad un paio d ' ali simili a quelle di un pipistrello . Molto cambiava nel mondo . Al corredo dei soldati giapponesi sarebbe stata aggiunta di lì a poco una zappetta per scavare , idea difensiva del tutto nuova , una trincea . Barzini aveva ventidue anni al tempo di Adua , dove cadde ucciso il primo inviato speciale italiano . Il suo spirito di italiano rimase per tutta la vita , per quel ricordo , legato al problema di una dignità da salvare . Il giornalismo al cui servizio lo chiamò Luigi Albertini - Barzini aveva ventiquattro anni , Albertini ventotto - sarebbe stato del tutto diverso da quello dei Bottero , dei Bersezio , dei Mercatelli , dei Gobbi - Belcredi , dei Roux e del principe Sciarra . Fosse rimasto a Roma , Barzini sarebbe probabilmente naufragato nelle cronache , nei pettegolezzi e fra i « pupazzetti » di Montecitorio . Albertini mandava Ugo Ojetti , altro coetaneo , a conoscere le terre d ' oltre Adriatico da cui sarebbe giunta in Italia la bellissima Principessa Elena e , subito dopo , lo mandava in Calabria sulle tracce del brigante Musolino . A Barzini , alto , magro , pettinato con una riga in mezzo , Albertini consegnò le chiavi del mondo ad un ' età in cui , mentre l ' Ottocento tramontava , era ancora difficile che si affidassero ai ragazzi le chiavi di casa . Negli uffici del « Corriere » Barzini non ebbe mai una propria scrivania . A casa , per vari anni , non ebbe il telefono , in una Milano che nel 1906 aveva solamente mille apparecchi . Il figlio non ci racconta se suo padre « batteva » a macchina . La stilografica era appena nata ed era una novità addirittura entusiasmante , tanto che certi giornalisti intitolavano Stilografiche le loro rubriche . Gli articoli di viaggio e le corrispondenze si chiamavano Lettere da Londra o Lettere dalla Russia o addirittura , più tardi , Lettere dal fronte perché erano proprio delle lettere da porto doppio , impostate con francobolli da 15 centesimi . Milano non toccava il mezzo milione di abitanti . Barzini andava in terre lontane : e , nelle terre lontane , viaggiava ancora a cavallo . Nei conti che , al ritorno , consegnava all ' amministratore Eugenio Balzan , c ' erano « voci » che oggi sanno di favola : cavallo , stalla , striglia , avena , carrube . La Cina per la guerra dei Boxers ; la Siberia vista dalla Transiberiana ; la tragica epopea della guerra russo - giapponese fino alla battaglia di Mukden ; infine i 16 mila chilometri di viaggio in automobile da Pechino a Parigi : sono i sette anni stupefacenti di Barzini , scrittore lento , pieno di dubbi e di tormenti , infaticabile nello sforzo di raggiungere una « limpidità » che fino allora , salvo per De Amicis , sembrava negata alla nostra prosa non solamente giornalistica . Per chi conosce i suoi predecessori , la differenza di tono appare evidente . Barzini non amoreggia con i crepuscolari : non è un seguace del « naturalismo » e , soprattutto , non si lascia prendere nemmeno con la punta del mignolo nelle tagliole del dannunzianesimo . Sempre salvo da ogni contagio , è probabile che leggesse assai poco i suoi contemporanei . Era tutto teso a « vedere » , si fidava più della memoria visiva che non del taccuino . Collega di due grossi bibliofili come Ojetti e Simoni , in casa - salii una volta , a vent ' anni , al suo quarto piano - non aveva vistose librerie . I libri erano quasi tutti , probabilmente , di sua moglie , ch ' era buona scrittrice : e per quanto io guardassi attorno sulle pareti e sugli scaffali e persino nei corridoi , non aveva souvenirs de voyage non , come avevo immaginato , selle arabe , fucili dal calcio intarsiato di madreperla , tappeti , gualdrappe di cammelli , paraventi cinesi , ventagli giapponesi . Anche le sue pagine di viaggio nel mondo delle geishe , o nella vecchia Pechino , o nelle città czariste , non convogliano in sé colori di rigatteria o di esotismo turistico , per esempio alla Pierre Loti o alla Claude Farrère . Barzini tornava a casa con un bagaglio leggerissimo , sempre pronto a ripartire all ' indomani . Egli credeva , penso , solamente nel filtro della memoria e nel potere , che chiamerei epistolare , del suo stile . Di qui la chiarezza del suo colloquio con il lettore , una parola senza riboboli e senza barocchismi , un disegno descrittivo netto , e mai il fiato corto o il fiato grosso , e mai il compiacimento del « pezzo » che strizza l ' occhio sul virtuosismo e dice : « Guardate quanto son bravo ! » . Un intuito infallibile negli « attacchi » - chi fa il nostro mestiere sa che nelle prime righe si mette tutto in gioco - , nessun crescendo retorico , mai troppa spinta nel premere il pedale . Dopo quasi sessant ' anni la prosa di queste « avventure » non ha forfora , non ha chiazze di sopraggiunta calvizie , non ha rughe o zampe di gallina , non ci appare , mai in « costume » , non denuncia un « gusto » . La sua lezione è ancora valida , dopo che tre generazioni si sono lustrate le maniche sul tavolo a buttar fuori prosa che faccia velocemente girare la rotativa .
Harry Belafonte ( Vergani Orio , 1958 )
StampaQuotidiana ,
Su un fondo rosso tempestato di grosse stelle , un manifesto porta a grandi maiuscole il nome di Harry Belafonte . Nelle vetrine della galleria da cui si accede al milanese Teatro Nuovo , le custodie di cartoncino dei dischi microsolco ripetono il suo nome . Ed ecco in altri manifesti il suo viso , il suo viso di bel giovanotto dalla bocca ridente e dagli occhi lievemente tristi , segnati da un enigmatico lampo di intesa . Al proscenio si presenta molto confidenzialmente in maniche di camicia : prima parte del concerto , camicia cilestrina di un tono che varia d ' intensità sotto ai riflessi delle « gelatine » di riflettori e bilance ; seconda parte , una camicia color rosso geranio ; terza parte , una camicia bianca fittamente rigata . Attorno alla vita una cintura di pelle nera con un fregio d ' argento di cui gli spettatori miopi non possono dire il disegno . Teatro esauritissimo . Ecco l ' uomo che a quanto si dice guadagna ventidue milioni la settimana cantando e soprattutto vendendo a centinaia di migliaia di copie ogni edizione dei suoi dischi e toccando talvolta il record del milione di copie . Ecco il re del Calypso , nome omerico leggermente magico , emigrato laggiù fra le isole e sulle coste d ' oltreoceano , addirittura - se si volesse credere agli studi classici - dall ' Odissea e dalla leggenda di Ulisse e della ninfa Calypso , che incantò d ' amore il grande naufrago per sette anni e non lo lasciò partire finché non lo ordinò Zeus . Ecco l ' uomo di trent ' anni che si è scoperto cantante quasi per caso dopo avere tentato in un primo tempo di affermarsi come attore all ' Arnerican Negro Theater . Ecco un uomo tipico della « leggenda americana » , venuto su dal nulla , dopo aver lavorato - quando sul suo destino musicale c ' era pochissimo da contare - in una industria di abbigliamento e dopo aver gestito un piccolo ristorante nel Greenwich Village . Venire su dal nulla sottintende una vita di fatiche , mestieri umili , l ' amarezza del ragazzo « colorato » che incontra sempre motivo di melanconia nei rapporti razziali di quella che pure è la sua terra natale . Eccolo davanti a noi , celebre e acclamatissimo . Le fortune sono cominciate nel 1950 : il ragazzo , che cantava in coro con gli avventori della trattoria al Greenwich Village , batte pochi anni dopo tutti i primati di incassi della musica leggera . Adesso è qui , per la prima volta approdato in Europa , al centro del palcoscenico sgombro , contro un fondale che muta tono sotto ai diffusori di luci colorate . Gli sta davanti il microfono che gli stampa sulla camicia un ' ombra come l ' emblema araldico del suo destino . Attore , cantante , narratore sui toni di elegia , di melanconia , di ironia fanciullesca , di patetico pianto e di accorato lamento sull ' onda di note , di motivi che direttamente arrivano dall ' accorato , trasognato folclore delle genti di colore , Belafonte dà il senso che la musica gli si sia tutta affinata nel cuore e nei nervi : una straordinaria spontaneità che farebbe pensare ad una sorta di poetica improvvisazione , ad una specie di istintiva confessione fatta a se stesso quasi in segreto .
Vincenzo Cardarelli ( Vergani Orio , 1959 )
StampaQuotidiana ,
Tarquinia , quando vi nacque il primo maggio del 1887 Vincenzo Cardarelli , si chiamava ancora come ai tempi dello Stato di Santa Romana Chiesa , con il bonario nome agricolo di Corneto perché nei suoi poggi solitari cresceva spontaneamente l ' arbusto del corniolo che copre tutto l ' alto Lazio con quella vegetazione cui si dà il nome di « macchia » , propizia un tempo ai briganti che sulle strade dirette verso Roma aspettavano di far pagare duri pedaggi alle diligenze . Cardarelli nacque da madre marchigiana e da padre « etrusco » , come egli amò sempre dire . Il cognome di famiglia era Caldarelli , il bambino fu battezzato con un nome assai diffuso in tutta quella che adesso è la provincia di Viterbo : Nazareno . Nella adolescenza vissuta a Roma , quel Caldarelli , adattandosi alla pronuncia romana che trasforma coltello in cortello e caldo in cardo , diventò Cardarelli . In quanto a Nazareno , nome non molto adatto per un giovane letterato che vantava idee vagamente sovversive , fu cambiato con quello di Vincenzo , che era il secondo di battesimo . La famiglia di Cardarelli conduceva al paese una vita umile . Se non sbagliammo su quanto lasciava intendere , ma senza troppe precisazioni , il poeta dei Prologhi quando , ragazzi , lo conoscemmo a Roma , il padre aveva cercato inutilmente di assicurarsi una vita pacifica conducendo un ' osteria nei pressi della stazione di Corneto . Anche Cardarelli era dunque figlio di un oste , come lo era stato a Siena , Federigo Tozzi . Nel ricordo , o , per meglio dire , nel mondo di favola epica che Cardarelli costruì sulle memorie del paese della sua infanzia , il posto della madre è minore di quello del padre . Tra l ' ascendenza marchigiana e quella etrusca , Cardarelli scelse e sostenne sempre la seconda . Egli era infatti sceso a Roma con tutti i complessi di inferiorità del ragazzo di provincia e addirittura di campagna , senza titoli di studio e con le tasche imbottite solamente di volumetti della Universale Sonzogno . Dichiarandosi etrusco , egli iniziava quella che gli sembrava dovesse essere la sua lunga e ininterrotta polemica fra due civiltà . Arrivò a Roma nei primi anni del Novecento , in una città ancora intellettualmente infatuata di D ' Annunzio e del tutto assomigliante a quella descritta nei capitoli del Piacere . Campava di piccoli impieghi : fu , tra l ' altro , segretario di una cooperativa socialista di scalpellini , di quei « selciaioli » che lastricavano Roma con blocchetti quadrati di granito . La povertà e una naturale tendenza al disdegno , tipica quasi sempre dei timidi , lo tenevano lontano dal pur ristretto mondo intellettuale romano dei Diego Angeli , dei Domenico Gnoli , dei Fausto Salvatori e da quello dialettale e ironico di Trilussa . Entrato come cronista all ' « Avanti ! » di Leonida Bissolati , cominciò a pubblicare qualche breve prosa firmata con lo pseudonimo dannunzianeggiante di Simonetto . Diventò , come giornalista , frequentatore della terza saletta di Aragno : ma forse più che altro perché i suoi guadagni , molto aleatori e sottili , non gli permettevano spesso di nutrirsi altro che di caffellatte . Oltretutto , Aragno era l ' evasione dal chiuso delle piccole camere in qualche modesta pensione di famiglia dove era obbligato a vivere , spesso con un tavolino traballante come tutta scrivania . Sui tavolini di marmo del caffè , nei pomeriggi solitari , quando i giornalisti si trasferivano nella tribuna stampa di Montecitorio o nella sala al pianoterra del palazzo delle Poste a San Silvestro dove avevano i loro uffici di corrispondenza , Cardarelli scriveva le sue prime prose e lungamente le correggeva e le limava , sino a impararle addirittura a memoria . Aragno fu per molti anni la sua « casa » , il luogo delle sue « declamazioni » e delle sue indispettite rampogne . Da Aragno conobbe il giovanissimo pittore Amerigo Bartoli , che gli fu amico fedelissimo per tutta la vita , e che a lui e agli amici letterati del tempo della « Ronda » doveva dedicare il quadro degli Amici al caffè . Vi appariva abitualmente alle due del pomeriggio perché si alzava molto tardi per evitare la spesa di una colazione regolare , e si tratteneva quasi l ' intera giornata , spesso ne era l ' ultimo cliente nottambulo . I camerieri , cominciando dal vecchio Forina che sembra avesse fatto , in gioventù , qualche piccolo prestito a D ' Annunzio e dall ' eternamente biondo Leonetti che teneva chilometrici conti di tazze di caffè pagate con lunghi ritardi , avevano per lui , per quanto ancora ignoto , un singolare affettuoso rispetto . Era , fisicamente , uno di quegli uomini che le donne definiscono « interessanti » . Pallido , quasi esangue in volto , assomigliava vagamente a Ruggero Ruggeri . Vestito poveramente ma , con un aggettivo che gli piacque , sempre in modo « decente » anche se il suo guardaroba fu spesso composto solamente di abiti smessi dai suoi amici , nascondeva con un fiero pudore una sua menomazione fisica : aveva un braccio rinsecchito e quasi paralizzato da un attacco di poliomielite che da fanciullo l ' aveva portato vicino alla morte . Questo problema fisico aveva forse influito su certe asprezze del suo carattere e acuito in lui un senso di difesa che poteva essere affidato solamente alla parola , e alla polemica talvolta bruciante . Parlava con una bella voce lievemente velata , talvolta come trasognato , talvolta irridente e tagliente : per l ' eleganza della parola e per la lucidità della sua polemica , lo chiamavano scherzosamente « l ' incantatore di serpenti » . I suoi primi amici letterari - al tempo della giovinezza dei poco più che ventenni Antonio Baldini e Umberto Fracchia e degli incontri con Emilio Cecchi e con Armando Spadini - furono conquistati , forse più che dai suoi rarissimi scritti , dal misterioso incantesimo della sua parola . È probabile - nella sua camera ammobiliata aveva ben pochi libri , gettati alla rinfusa in un cassetto del comò con la sua scarsa biancheria - che la sua cultura di autodidatta fosse racchiusa nella lettura di poche opere , che lo fecero vivere nel clima di Nietzsche e soprattutto in quello di Leopardi : quando fondò « La Ronda » , lo indicò come il maggiore fra quelli che la rivista , indicando i maestri dell ' alto stile italiano , chiamava i « convitati di pietra » . Cultura non molto diffusa , in una intelligenza però assai profonda . Gran parte di lui si esauriva nei suoi colloqui con gli amici , e soprattutto in quella specie di lungo monologo che fu la sua vita . Le sue prime prose - le pagine liriche che intitolò poi I Prologhi - apparvero poco prima della Grande Guerra nella rivista « Lirica » , in cui debuttarono con lui giovani scrittori come Antonio Baldíni , Fracchia , Rosso di San Secondo . La rivista doveva durare pochi numeri : il conflitto portò alla sua sospensione . Cardarelli rimase quasi del tutto solo a Roma , nel caffè Aragno reso deserto dalla mobilitazione . Il dannunzianesimo letterario decadeva nell ' interesse dei giovani , il Futurismo non aveva avuto una particolare risonanza romana . Cardarelli era rimasto appartato nei confronti dei movimenti di « Lacerba » e della « Voce » . Scrittore lentissimo , componeva le poesie che più tardi sarebbero state riunite in sottili volumi e finalmente raccolte tutte da Mondadori . La salute sempre malferma , qualche vicissitudine d ' amore - nel piccolo mondo delle Lettere certe sue giovanili passioni rimasero , per così dire , storiche - l ' inquietudine di uno spirito inappagabile lo portarono a viaggiare verso climi più propizi di quello degli inverni romani , a Venezia e in Riviera . Tentò anche un soggiorno milanese : ma la nostalgia di A ragno gli fece ben presto riprendere il treno . Egli era , in verità , assai simile all ' enfant malade apparentemente cinico e crudele , sostanzialmente melanconico , caro a certi romanzieri crepuscolari francesi . L ' uomo era affascinante ; per lui il mecenatismo nasceva spontaneo anche e soprattutto da parte di gente non ricca . Cardarelli ebbe sempre amici segretamente pronti , e affettuosi , anche se il suo carattere era assai difficile . Appartenendo alla razza dei déracinés o dei poètes maudits , si comprendeva che la sua apparente infingardaggine derivava da latenti stati di depressioni melanconiche . Le donne che lo amarono lo considerarono appartenente alla razza degli « angeli caduti » , lievemente demoniaci . Diventava vanitoso come un fanciullo , quando una famosa diva del « muto » lo mandava a prendere con una carrozza padronale a due cavalli per conversare con lui di letteratura nelle poltrone di un albergo romano a via Veneto . Poi capitava di vederlo silenzioso e assorto quando , al crepuscolo o alla notte , percorreva il lungotevere per soffermarsi a tentar di declamare a qualche venere vagante il Canto del pastore di Leopardi , con una aspirazione tolstoiana di redenzione attraverso alla poesia . Per qualche tempo , fu critico drammatico del « Tempo » , chiamato da Giovanni Papini che al giornale di Filippo Naldi aveva voluto Bruno Barilli e Ardengo Soffici . La rapida scrittura notturna , mentre la tipografia attendeva impaziente le cartelle , gli riusciva penosa : presto interruppe quel lavoro , dopo aver però scritto alcuni saggi assai acuti su Shakespeare , Ibsen , Shaw e sul primo Pirandello . La fine della guerra gli restituì i suoi amici . Il conte Aurelio Saffi , nipote del « quadrumviro » della repubblica romana , si fece finanziatore di una rivista che si intitolò « La Ronda » . La rivista aveva un ufficio vicino all ' Altare della Patria : Cardarelli ebbe finalmente una poltrona , una scrivania , uno stipendio . Da Bologna arrivava Riccardo Bacchelli , da Verona Lorenzo Montano : Baldini giungeva in tram da via dei Serpenti , Emilio Cecchi da corso Italia , Bruno Barilli dal parco di Villa Strolfen , Armando Spadini dalla villetta sul colle dei Parioli ancora non conquistato dal pubblico dei « quartieri alti » . « La Ronda » ebbe un ' importanza formativa per le generazioni che seguivano quella « vociana » ; Bacchellí scriveva le tragedie di Spartaco e di Amleto o saggi di politica liberale . Barilli vi pubblicava le sue prose barocche che dovevano influire persino sulla pittura di Scipione . Comparvero sulla « Ronda » i primi scritti di Savinio . Cardarelli vi esercitava la sua predicazione leopardiana e , cercando di frenare i suoi umori polemici verso gli amici , visse comunque la sua stagione letterariamente più intensa . I giovani lo guardavano come un caposcuola . Fu il tempo più felice della sua non felice esistenza . Il giovane Malaparte sospirava per sedere al suo tavolo . Il ragazzo Longanesi lo ascoltava in silenzio . Cardarelli diventava persino gioviale : con gli amici , si concedeva qualche cenetta nelle osterie fuori porta e davanti ad un piatto di fave e pecorino parlava dei pastori del suo paese . Sono di quel tempo le sue prose più belle , quelle che probabilmente meglio affideranno il suo nome alla storia letteraria del Novecento : contenute in un primo tempo in un piccolo quaderno della Terza pagina con il titolo di Terra genitrice e riprese poi quasi integralmente in un volume edito dal giovane Leo Longanesi con il nuovo titolo de Il sole a picco ; prose dedicate alle memorie , quasi favolose , del paese della sua infanzia , evocazioni di quelle terre dove aveva sostato qualche anno prima , ignoto viaggiatore , lo scrittore inglese D.H. Lawrence . Cardarelli aveva trentasette anni : con quel volumetto longanesiano ebbe l ' affettuoso alloro del premio Bagutta di cui Cardarelli attese nervosamente il piccolo vaglia a Roma . A Milano le edizioni di Bottega di Poesia stamparono i suoi « Canti » , uno dei quali cominciava : « Domani ho quarant 'anni...» . « La Ronda » morì presto . Cardarelli fece un breve viaggio in Russia e tentò di nuovo il giornalismo che tanto lo affaticava . Era evidente che a soli quarant ' anni le scarse forze della sua gioventù andavano già spegnendosi . Preso nel cerchio di una inquietudine amara , la sola forza che gli restava era quella della sua malinconica eloquenza , delle sue ire improvvise . Più che scrivere pagine nuove , andava ripubblicando quelle vecchie , che pur non erano molte . Andava stentatamente d ' accordo con i vecchi amici , nessuno dei quali però lo abbandonò . Segretamente aveva paura della povertà , ora che una precoce vecchiaia andava avvicinandosi . Aspettò la nomina ad Accademico d ' Italia , e non l ' ebbe . Viveva in un « letto di famiglia » in casa di un cameriere di Aragno . La vita gli si mostrò sempre più squallida . La guerra del '40 aprì nel suo cuore di malato alti sgomenti . Roma stessa non assomigliava più a quella della sua giovinezza . Ogni tanto i compaesani lo volevano con loro a Tarquinia per celebrare in lui quello che ormai era considerato l ' ultimo poeta della Etruria . Sotto ad una apparente albagia , ammalato , incapace ormai d ' ogni lavoro , il dopoguerra lo vide trasferito in una pensione di via Veneto , per cercare un po ' di sole sul marciapiede di destra che sembra la « Riviera di Roma » . Per qualche tempo , riuscì ad attraversare la strada per raggiungere i banchi della Libreria Rossetti dove aveva gli ultimi contatti con la letteratura vecchia e giovane . Riceveva un piccolo stipendio per dare il suo nome di direttore alla « Fiera letteraria » . Da Milano gli erano arrivati aiuti affettuosi . Non ancora del tutto vecchio , Cardarelli viveva nel timore della povertà assoluta se la vecchiaia si fosse prolungata e se la memoria della sua breve stagione di poesia si fosse spenta . Accettava umilmente anche doni segreti di vestiario , di biancheria , di maglie , di scialli . La sua malattia , che lo portava lentamente all ' immobilità , gli gelava le vene . In piena estate , con tre cappotti addosso , durante lo scirocco romano , Cardarelli aveva freddo come in Siberia . Quando , in un torrido settembre partenopeo , ricevette , assieme a Dino Buzzati , il Premio Napoli , volle in albergo una stufa elettrica e dormì senza levarsi da dosso i pastrani per non morire , diceva , assiderato . Due amici lo portarono in braccio su per le scale e attraverso i saloni del Palazzo Reale per la consegna del Premio . La voce gli si era fatta fioca ma aveva ancora qualche soffocato accento di disagio e di polemica se non addirittura d ' ira caparbia . A sentire che non poteva più reggersi in piedi , gli occhi alteri si riempivano di malfrenate lagrime . Bisogna dire che la morte ha avuto alla fine pietà di lui , per lasciare a noi che lo ascoltammo , che lo leggemmo , che lo amammo , il puro acquetato e limpido ricordo della sua anima di poeta , lampeggiante nel mesto profilo di un ' esistenza amara e melanconica come di chi avesse troppo a lungo respirato l ' aura mortale delle tombe trimillenarie delle genti etrusche .
Primo Carnera ( Vergani Orio , 1959 )
StampaQuotidiana ,
Carnera debutta a Milano nelle giostre ammaestrate della lotta libera , del catch . Mi dicono che abbia nuovamente fortuna . L ' ho conosciuto molti anni fa , a Barcellona , ed è probabile , è anzi sicuro , che egli non si ricordi affatto di me . Eppure , appunto perché egli mi fece tornare fanciullo , fui il suo profeta . Attorno a lui i grandi saggi , i grandi sapienti della scienza sportiva segretamente sghignazzavano . Essi lo avevano già visto a Milano , in una esibizione di pugilato al Palazzo dello Sport , lo avevano inquadrato dal basso in alto , arcuando scetticamente un sopracciglio , lo avevano scientificamente « soppesato » . Avevano guardato le vene varicose delle sue gambe affaticate per sostenere quella sua mole torreggiante : avevano detto che il suo pugno era lento come un « merci » ; gli negavano ogni intelligenza e ogni spirito combattivo . Davanti alle loro definizioni - « colosso dai piedi d ' argilla » , o , più popolarescamente , « sacco di patate » - io tremavo , prendendo il treno che , sul finire del novembre 1930 , mi portava in Spagna per assistere al suo incontro con Paolino Uzcudum . Avevo visto al lavoro , quattro o cinque anni prima , il « toro di Bilbao » . Contro l ' ex spaccalegna che aveva il torace ampio , quadrato , solido come una cassaforte cosa avrebbe fatto quel marmittone di gigantesco emigrato friulano ? Primo Camera , da ragazzino , aveva frequentato le scuole dei mosaicisti di Sequals , dove l ' arte delle « tessere » è tramandata , dicono , sin dai tempi di Aquileia . Mosaicista contro Spaccalegna . Chi avrebbe vinto ? Segretamente puntai sul Mosaicista . Emilio Colombo , mattatore bonariamente roboante del giornalismo sportivo , lo indovinò : e mi guardava con sorridente , amichevole pietà . Condannato io pure alla vecchia legge che impone al cronista sportivo il pronostico , dopo aver visto Carnera , dopo aver parlato con Carnera , scrissi : « Il Mosaicista batterà il Legnaiolo » . A Carnera chiesi : « Come va ? » . Mi rispose : «Così...» . Eravamo nella stanza di un albergo sulle Ramblas di Barcellona . Camera era disteso sul letto e un cinese lo massaggiava . Seduto vicino al letto stava il suo manager , il giornalista che lo aveva scoperto due o tre anni prima in un baraccone di lottatori da fiera . Il giornalista era un ometto piccolo che pesava cinquantacinque chili contro í centoventi del suo pupillo , e che aveva un accenno di baffi alla Menjou . Vigilava sul massaggio e vigilava , mi sembrò , anche sulle risposte del gigante , che , prima di parlare , lo guardava intimidito come fa un grande cane con il suo piccolo padrone . Sull ' attaccapanni era appesa la giacca di Carnera : vasta come un paltò . Di sotto il letto , spuntavano le famosissime scarpe del gigante , che per qualche tempo furono celebri come le scarpe di Charlot . I vetri erano socchiusi : l ' estate torrida . Il nudo colosso era depilato scrupolosamente : la mano untuosa del cinese correva sul torace , sul ventre , sulle cosce , sulle reni . La stanza era piccola : sembrava che i piedi del gigante la occupassero tutta . Sapevo la sua storia ed era inutile me la facessi ripetere . Al paese , un pane scarsissimo , come in tante case delle Prealpi friulane . A dodici anni , un biglietto di terza classe , l ' indirizzo di un cugino in un villaggio delle Lande francesi . Il colossale ragazzo friulano aveva ripercorso la strada che vent ' anni prima era stata familiare a Gabriele D ' Annunzio quando cantava press ' a poco così : « Ascolto il grido della procellaria / nel vento della Landa solitaria ... » . Ma il grido delle procellarie non interessava il ragazzo : egli non udiva altro che il grido , molto più insistente , dell ' appetito . Mosaicista , legnaiolo , manovale , muratore : nessun mestiere gli dava abbastanza da sfamarsi . Alla meglio , masticò qualche lenta parola di francese , con una voce cupa e gutturale . Aveva ossa colossali da uomo delle caverne : ma rivestite di poca carne . Il padrone di un baraccone disse . « A forza di zappa , lo farò ingrassare e ne farò un numero che sbalordirà tutti i villaggi delle Lande e della Guascogna » . Così , fiutando come un cane randagio un calderone di minestra , il ragazzo , vagabondo da un cantiere all ' altro , trova la sua strada che lo porta alle tende delle baracche e dei circhi . Alla sera , nelle luci dell ' acetilene , sta in fila con gli altri lottatori sulla pedana della baracca . soia a stando di due palmi tutti i compagni . In pochi mesi tocca i centotrenta chili e supera di parecchio i due metri di statura . Un futuro corazziere ? No . Non potrebbe farlo perché ha i piedi appiattiti dal peso che su essi sovrasta . A vedere quei torace , là , sul letto d ' albergo di Barcellona , non si poteva far a meno di dire : « Questo è certamente l ' uomo più forte del mondo » . Il Padreterno s ' era tolto il capriccio di fare venire al mondo una statua . Dalla cintola in su , Carnera era un capolavoro della creazione . Quel « sacco di patate » era degno di Fidia , di Giove , dei Ciclopi . Si deve a quel torace se il mondo ha avuto il « romanzo Carnera » , la sua strana storia di Tarzan tante volte gabbato dai piccoli uomini furbi , colossale e - dicevano i saggi - incapace di cattiveria , ibrido di semidio e di disgraziato , imbarcato sull ' altalena della vita che , una volta , lo portava verso la ricchezza e , un ' altra volta , giù nella miseria , costretto sempre a risalire faticosamente . Vinse a Barcellona . Rivinse Per lui , si mosse anche Mussolini . L ' Italia ebbe in questo emigrante friulano dalla voce gutturale e dal mento « senza grinta » , senza volontà in un tempo di « mascelle volitive » il suo unico campione del mondo . Poi , il ko , í lestofanti che lo abbandonano dopo aver fatto volatilizzare i suoi guadagni , persino un periodo di immobilità per una paralisi , e il lento , affranto risollevarsi e di nuovo la povertà del vagabondo che vende per le strade , davanti a un tavolino pieghevole , bustine di lamette da barba . Adesso , con il catch ammaestrato , pare abbia fatto nuovamente fortuna .
Gino Cervi ( Vergani Orio , 1959 )
StampaQuotidiana ,
Racconta un vecchio collega bolognese : « Me lo ricordo , come fosse adesso . Antonio Cervi era un uomo buono , cordiale , sempre di buon umore . Una vera eccezione , vederlo preoccupato . Per questo non mi sono passati di mente i giorni dell ' ultima settimana dell ' aprile del 1901 . Non si poteva dire che Antonio Cervi fosse di malumore , ma certamente non era il solito Cervi . Finalmente si sfogò con me . " Sto aspettando , di giorno in giorno , che mi nasca un bambino . Ora , maschio o femmina che sia , non vorrei che mi combinasse lo scherzo di nascere la sera di una ' prima ' ' . Lo so che è difficile farglielo capire , ma bisognerebbe che lo sapesse subito . Se uno è figlio di un critico drammatico , non si nasce mai la sera di una ' prima ' " » . Antonio Cervi - il suo pseudonimo era quello , un po ' misterioso , di Gace , che , secondo quanto ricorda il figlio Gino , ma che ignorano i dizionari , dovrebbe essere un personaggio della Mitologia - era critico drammatico del « Resto del Carlino » . Il piccolo Gino « obbedì » . Il 3 maggio del 1901 non c ' era nessuna « prima » né al Teatro Brunetti , né al Corso , ne al Contavalli , né al Nazionale che aveva proprio in quel tempo lasciato l ' antico bizzarro nome di Teatro della Nosadella , né all ' Arena del Sole . Antonio Cervi poté dunque restare a casa e ricevere dalla levatrice l ' annuncio : « È un bel maschio ! » . Gino Cervi è dunque l ' unico attore che sia figlio di un critico drammatico . Suo padre lo fu per trentaquattro anni , dal 1889 al 1923 . Rincasava nel pieno della notte , alle tre e alle quattro del mattino . Entrava in punta di piedi per non svegliare i bambini . Stava ancora un po ' sveglio , per leggere il giornale di cui aveva portato a casa una delle prime copie fresche di inchiostro . Alla mattina , erano i bambini , che per andare a scuola , dovevano uscire in punta di piedi . A mezzogiorno , all ' ora dei tortellini , il papà parlava di quanto aveva sentito a teatro la sera avanti : esprimeva certe opinioni che nel giornale erano state attenuate o velate . Per non rovinare le Compagnie , i critici dei giornali importanti non potevano divertirsi al gioco del massacro , mordendo e sbriciolando a destra e a sinistra . Anche allora si diceva che il teatro era « in crisi » . Le Compagnie primarie erano una quarantina , sempre con non meno di una trentina di attori scritturati ; quelle secondarie un ' ottantina e un centinaio quelle di terz ' ordine . L ' Italia aveva una popolazione viaggiante di 45 mila attori e attrici . Bologna era la loro segreta capitale , come si dice che Gonzaga , presso Mantova , sia quella degli zingari . Gino respirò sempre teatro . Subito dopo le aste - in quell ' anno fu portato in braccio a vedere i funerali di Carducci - imparò a leggere sulle colonne del « Resto del Carlino » , per la curiosità di sapere che cosa scrivesse suo padre . Imparò il significato di certe frasi : « reiterati applausi , recitazione incisiva , palesi segni di dissenso , bene gli altri » . Imparò presto alcuni nomi assai difficili : Shakespeare , Marivaux , Bjørnstjerne Bjørnson , Portoriche . Sognava i teatri come regge misteriose , con i palchetti dorati , con le poltrone di velluto rosso . In casa erano familiari i nomi di Panzacchi , di Lipparini , di Olindo Guerrini , di Testoni sulle cui ginocchia il piccolo Gino aveva ballato . Accompagnando il padre a spasso , Gino - polpacci nudi , giubba alla marinara col fischietto nel nodo della cravatta - entrava nella libreria di Zanichelli . Ogni tanto Antonio si fermava a parlare con un grosso uomo dall ' aspetto di timido campagnolo vestito di nero . Era Giovanni Pascoli . Di Carducci si parlava come di un Nume scomparso fra le nuvole ma sempre misteriosamente presente . Antonio Cervi , al cui cuore cordiale era stata sempre cara la parte del paciere , era riuscito a riconciliare Carducci con D ' Annunzio - non c ' erano mai stati veri attriti , ma certe diffidenze sì - nel famoso banchetto in cui , avendo Carducci offerto il vino a D ' Annunzio , questi aveva detto : « Grazie ... Non bevo mai ... » il Leone di Maremma aveva risposto un po ' bruscamente : « Io , sempre ! » . Bologna , era amica del teatro fin dal Seicento , quando ogni famiglia patrizia aveva un suo piccolo palcoscenico , in casa Zoppio , in casa Pepoli , in casa Casali , all ' accademia degli Ardenti o dei Riaccesi . Nel Settecento , c ' era stato un teatro persino nel Palazzo del Podestà . I patrizi avevano le loro sale da spettacolo anche nelle ville sui colli . Per quella privata della famiglia Albergati , che ospitava durante l ' estate tutto il patriziato bolognese , Goldoni scrisse cinque commedie , fra le quali Il cavaliere di spirito e l ' Osteria della Posta . Perché gli attori volevano bene a Bologna ? C ' erano camere , alloggi , locande a poco prezzo . Le padrone di casa erano cordiali , socievoli , aspettavano molto pazientemente l ' affitto , magari da un anno all ' altro . Le porzioni di fettuccine erano abbondantissime . La popolazione amava passeggiare fino a notte tarda , certi caffè erano aperti fino all ' alba . Alla legione degli attori , delle attrici , dei generici e delle attricette si aggiungevano gli innumerevoli filodrammatici . Ogni tanto questi ultimi organizzavano tournées nei centri anche più minuscoli della provincia , sino al Po e fino in Romagna , e rinforzavano il loro complesso chiamando a parteciparvi qualche attore di più larga esperienza . Anche Gino , mentre studiava greco al liceo - suo padre era stato inflessibile per il greco e per il latino - bazzicava la filodrammatica del Circolo degli impiegati civili . Fu l ' Arena del Sole il primo teatro dove , bambino , una domenica Gino Cervi debuttò come spettatore : uscendo , vide al caffè quel grande e melanconico vecchio attore , oscillante fra il genio e la follia , che fu Enrico Capelli : in gioventù Amleto quasi impareggiabile , e , in vecchiaia , ridotto a tale povertà e trasandatezza da tingersi i capelli con qualche spazzolata di lucido da scarpe . All ' Arena del Sole si assisteva agli spettacoli in maniche di camicia . Se una commedia non piaceva , i cuscini volavano dalle gradinate fino alla ribalta . Negli intervalli gli spettatori si passavano il fiasco di Sangiovese , la bottiglia di lambrusco , bevendo a canna . Fu in quel teatro che il « figlio del critico » , entrato con la tessera del padre , vide da ragazzo Zacconi e Ruggeri , come aveva visto nel 1914 , dal loggione del Brunetti , Sarah Bernhardt che recitava ancora ad onta di una gamba amputata . Studente universitario , Cervi avrebbe forse fatto l ' avvocato o sarebbe entrato un giorno o l ' altro al « Resto del Carlino » se la morte del padre nel 1923 non lo avesse lasciato libero di decidere del suo destino . Fu un altro attore bolognese che veniva lui pure dai filodrammatici , Nerio Bernardi - il cui vero nome era quello antico e dottorale di Irnerio - a dirgli , come si fa con chi deve imparare a nuotare : « Buttati ! » . E fu così che , seguendo quel consiglio , lo scolaro , cui Lipparini aveva fatto tante volte declamare al liceo l ' Ode al Clitumno e il Canto di un pastore errante , diventò attore , debuttando nella Vergine folle di Bataille , accanto ad Alda Borelli . Un anno dopo era a Roma , cercava sulla guida dove si trovasse una ignota via dove si stava aprendo un nuovo piccolo teatro , il primo dei futuri « Piccoli Teatri » d ' Italia . Trovò là dentro un gruppo di suoi coetanei che , già prima di iniziare gli spettacoli , si dibattevano in un labirinto di debiti : ma a capo di quei ragazzi c ' era un signore con la barbetta già quasi bianca che Cervi aveva già visto , una volta , come autore , alla ribalta dell ' Arena del Sole . Il vecchio signore era Luigi Pirandello . Quella attraverso la quale , in vicolo Odescalchi , entrava il giovane figlio del critico bolognese poteva sembrare una porta assai piccola . Cervi , figlio di un uomo che tanto intelligentemente aveva amato e servito il teatro , si accorse che era la porta grande di una intelligenza rinnovatrice .
Maurice Chevalier ( Vergani Orio , 1950 )
StampaQuotidiana ,
Ad un certo momento del suo « concerto » , si rivolge al pubblico e dice : « Non bisogna stupirsi se un uomo con i capelli grigi canta una canzone in onore della mamma ... » . Maurice Chevalier ha sessantadue anni , sua madre deve vivere da un pezzo nella pace del Signore , la buona donna di Menilmontant che aveva messo al mondo dieci figli di cui , quando nacque Maurice , tre soli erano vivi . La ribalta è tutta ornata di rose , di garofani , di violette . Sulla sagoma nera del grande pianoforte a coda spicca , posata lì dopo la prima canzone , l ' ormai storica paglietta dello chansonnier . Gli applausi sono fitti , molte le richieste di bis , molti i saluti ai refrains già noti e ritrovati come vecchi amici . Ma a me più di tutto , mentre Chevalier canta la Prière in onore della mamma , piace ricordare proprio la singolare infanzia di questo ultimo « birichino di Parigi » , degno di entrare in un romanzo di Louis - Henri Boussenard forse più che in uno dei foschi « documentari » di Zola . Straordinaria vita , un po ' dickensiana , quella del ragazzetto di Menilmontant che , finite le scuole elementari , è messo a faccia a faccia con la vita , fra gli ospedali dove viene ricoverata sua madre e gli artigiani dai quali dovrebbe apprendere un mestiere che una volta è quello dell ' elettricista , una volta quello del pittore di bambole e , infine , quello di operaio specializzato a fabbricare puntine da disegno . La madre la chiamavano la Louque e s ' era ridotta anche ad andare a servizio ad ore , nelle case dei vicini : i ragazzi cercavano di guadagnare qualcosa . Maurice pensò , con il fratello , di diventare acrobata , finché a dodici anni imparò a memoria qualche canzone . Storia forse non nuova , simile , probabilmente , a quella di tanti altri artisti , a cominciare , per dirne una , da quella del nostro Petrolini , garzone macellaio della romana piazza Guglielmo Pepe ; ma straordinaria sempre quando si stabilisca il rapporto tra il punto di partenza e il punto di arrivo , una conquista del pubblico che dura ormai da quasi mezzo secolo . Maurice ha i capelli grigi e quasi addirittura argentei ed è ancora la vedette numero uno del music - hall internazionale , in quella singolare costellazione del teatro minore dove la musica non è musica e dove l ' attore non è attore ma dove , talvolta , si va più in là del bel canto e della bella recitazione . Il suo stile è fatto di schiettezza , di franchezza , di disinvoltura . Chevalier è la negazione dell ' Uomo Fatale , del Bellissimo , dell ' Adone 1900 . Se si volesse trovargli un ' assomiglianza , egli si potrebbe identificare con quel tipo «1910» che sorprese la nostra infanzia dagli avvisi pubblicitari dei primi rasoi di sicurezza , quell ' antico giovanotto che si radeva allegramente davanti ad una finestra aperta e che suscitava l ' ammirazione di noi ragazzi , figli di una generazione che usava ancora , per quanto di nascosto , il piegabaffi e una pomata ungherese per appuntirli e profumarli . La sua carnagione ha il colorito sanguigno dei gaulois autentici : quello di Lucien Dietrich e del suo amico Dédé Leducq , maglia gialla del Tour 1931 . È francese ma non assomiglia a Menjou ; non ha nulla di untuoso , di gommoso , di cerimonioso : potrebbe esser tutto ( magari Fantomas ) , ma mai un cameriere o un danseur mondano cui mettere una mancia in mano . La sua vena guascone è sottilissima , il boulevard non lo ha corrotto . Chevalier si è presentato per la prima volta al pubblico a dodici anni , esattamente nel 1900 , con in testa un berrettuccio da ciclista , monello di periferia . Era un figlio del popolo , un ragazzo della strada , di una delle sperdute avenuer dove nasceva la Parigi industriale . Erano i tempi in cui Parigi era la regina del teatro , i tempi della Réjane , della Lavallière , di Guitry . Tristan Bernard aveva la barba nera , Alfred Capus il monocolo con il nastro di seta e Abel Hermant non aveva ancora scritto I Transatlantici . Erano i tempi della piena gloria degli chansonniers Mayol e Bruant : nelle boites di Montmartre si ricordavano ancora gli anni in , cui le parole per le canzonette venivano scritte da Maurice Donnay , l ' autore degli Amanti . Chevalier debutta con il secolo , con quel 1900 che oggi fa sorridere con il ricordo della sua Esposizione Universale . Mezzo secolo di vita teatrale è passato davanti agli occhi e al sorriso dell ' antico monello di Parigi , ultima incarnazione di Gavroche . Nel suo bagaglio di canzoni , stanno i canti vissuti fra due guerre , resistendo al jazz e opponendo le ruote dei mulini a vento di Montmartre alle sagome dei grattacieli americani . Queste canzoni parlano quasi tutte d ' amore come le novelle di Maupassant : per questo non invecchiano e non fanno invecchiare Maurice .