StampaQuotidiana ,
Il
poeta
è
morto
la
sera
del
primo
marzo
del
1938
,
alle
19.55
.
Da
un
paio
di
giorni
non
si
sentiva
bene
,
ma
non
voleva
riconoscerlo
.
Aveva
settantacinque
anni
.
L
'
uomo
aveva
goduto
di
una
salute
di
ferro
,
piccolo
,
magro
,
muscoloso
,
alieno
dal
vino
e
dal
fumo
.
Una
sola
volta
aveva
provato
a
fumare
,
ad
Arcachon
,
e
si
era
sentito
male
.
Ai
liquori
dava
nomi
pittoreschi
ma
non
li
beveva
.
Mangiava
poco
,
aveva
sempre
mangiato
poco
.
La
sua
tavola
da
pranzo
,
al
Vittoriale
,
nel
lato
dell
'
edificio
costruito
da
Gian
Carlo
Maroni
,
ha
una
apparenza
fastosissima
,
con
una
tovaglia
lumeggiata
d
'
oro
e
coperta
da
infiniti
ninnoli
preziosi
.
Questa
tavola
non
vide
quasi
mai
il
poeta
a
pranzo
o
a
cena
.
I
suoi
digiuni
non
nascevano
da
un
particolare
ascetismo
,
ma
dalla
volontà
di
tenere
il
cervello
sgombro
,
di
non
rendere
opaca
l
'
intelligenza
con
le
fatiche
della
digestione
,
che
avevano
,
diceva
,
fatto
appisolare
persino
gli
Apostoli
.
Mangiava
spesso
nello
studio
dell
'
ultimo
piano
,
dove
si
chiudeva
alle
volte
per
intere
settimane
.
Una
cameriera
,
chiamata
a
seconda
degli
umori
con
il
nome
di
«
fante
»
o
di
«
suora
»
,
gli
passava
attraverso
la
porta
un
vassoietto
e
tornava
di
lì
a
poco
a
prenderlo
,
sempre
attraverso
lo
spiraglio
.
Capitava
spesso
che
non
ci
fosse
nulla
per
l
'
ospite
arrivato
all
'
improvviso
.
Era
dunque
un
uomo
sano
e
ancora
robusto
per
la
sua
età
.
Quando
venne
a
Milano
per
correggere
le
bozze
delle
Faville
,
volle
provarsi
nella
lotta
greco
-
romana
con
un
giovane
giornalista
che
era
andato
a
visitarlo
.
Il
giovanotto
sentì
,
sotto
le
sue
mani
,
muscoli
ancora
pronti
e
forti
.
Molte
chiacchiere
erano
state
fatte
su
malattie
di
cui
avrebbe
dovuto
soffrire
.
I
suoi
medici
di
Salò
che
lo
sottoposero
in
varie
occasioni
ad
analisi
e
radioscopie
potevano
testimoniare
il
contrario
.
Le
sue
radiografie
e
la
sua
cartella
clinica
esistono
ancora
,
e
certificano
che
il
sangue
era
perfetto
,
il
cuore
perfetto
,
i
polmoni
perfetti
.
Era
malato
,
se
mai
,
del
male
della
clausura
:
era
il
male
della
melanconia
di
un
uomo
che
aveva
trasformato
in
abitudine
l
'
antica
volontà
di
isolarsi
dal
mondo
per
lavorare
.
Anche
negli
ultimi
anni
,
quando
il
suo
lavoro
cessò
di
essere
creativo
,
egli
passava
infinite
ore
allo
scrittoio
,
in
una
atmosfera
irrespirabile
.
Le
sue
stanze
,
d
'
inverno
,
erano
sempre
riscaldate
a
trenta
gradi
,
prima
con
grandi
stufe
di
terracotta
e
infine
con
termosifoni
,
che
si
spegnevano
solamente
in
maggio
.
Passava
talvolta
intere
settimane
e
mesi
senza
uscire
dalle
sue
stanze
,
dove
nascondeva
le
sue
irritazioni
e
le
sue
melanconie
.
Era
triste
anche
di
sentirsi
invecchiare
e
di
dover
confessare
,
come
aveva
fatto
in
una
nota
del
Notturno
nel
1921
,
che
i
suoi
pensieri
,
come
quelli
di
Michelangelo
,
erano
tutti
carichi
di
morte
.
Mentre
in
gioventù
non
aveva
mai
usato
,
per
lavorare
,
altro
eccitante
che
il
digiuno
,
anche
di
caffè
non
aveva
mai
abusato
,
invecchiando
non
seppe
evitare
qualche
eccitante
che
mani
malevole
gli
porgevano
.
Un
paio
di
anni
prima
di
morire
poté
disintossicarsi
del
tutto
.
Fu
più
alacre
e
persino
più
lieto
.
Le
visite
si
erano
fatte
ormai
rare
.
D
'
Annunzio
non
aveva
voglia
di
farsi
vedere
invecchiato
.
Anche
i
suoi
messaggi
erano
meno
frequenti
.
Il
telegrafo
di
Gardone
lavorava
sempre
meno
,
il
cannone
della
nave
Puglia
tuonava
di
rado
e
il
mas
di
Buccari
restava
placidamente
ancorato
nella
sua
darsena
.
Leggere
gli
costava
molta
fatica
,
e
si
temeva
anche
che
l
'
unico
occhio
superstite
si
indebolisse
definitivamente
.
D
'
Annunzio
era
stato
sempre
un
uomo
di
grande
coraggio
.
Di
una
sola
persona
aveva
paura
:
del
dentista
.
Si
può
dire
senza
offendere
la
sua
memoria
,
poiché
non
si
parla
dell
'
adolescente
bellissimo
negli
anni
di
Isaotta
Guttadauro
ma
del
vecchio
settantacinquenne
chiuso
nella
silenziosa
villa
di
Gardone
,
che
il
mal
di
denti
era
stato
uno
dei
fastidi
maggiori
della
vecchiaia
di
D
'
Annunzio
.
Un
dentista
di
Salò
era
riuscito
a
preparare
il
calco
per
un
apparecchio
che
gli
avrebbe
consentito
di
mangiare
senza
fatica
-
il
poeta
non
mangiava
mai
alla
presenza
di
ospiti
perché
non
voleva
mostrare
come
gli
fosse
faticoso
masticare
-
ma
l
'
apparecchio
non
fu
mai
fatto
perché
D
'
Annunzio
dichiarò
alla
fine
che
non
si
sarebbe
mai
adattato
a
portarlo
.
La
morte
venne
dunque
improvvisa
,
preceduta
solo
da
qualche
lieve
malessere
al
quale
D
'
Annunzio
non
volle
dare
importanza
.
Gian
Carlo
Maroni
,
l
'
architetto
del
Vittoriale
,
aveva
insistito
inutilmente
perché
l
'
amico
si
facesse
visitare
da
un
medico
.
D
'
Annunzio
aveva
risposto
chiudendosi
in
studio
.
Maroni
,
quelle
notti
,
che
furono
le
ultime
di
una
convivenza
e
di
una
amicizia
durata
diciassette
anni
,
le
passava
nella
poltrona
di
una
stanza
adiacente
alla
camera
da
letto
dove
D
'
Annunzio
era
agitato
dall
'
insonnia
.
Una
cameriera
era
incaricata
di
vigilare
durante
il
giorno
,
non
vista
,
su
quello
che
il
poeta
faceva
.
D
'
Annunzio
passò
le
ultime
ore
del
pomeriggio
del
primo
marzo
nel
grande
studio
al
primo
piano
,
quello
del
mappamondo
,
con
le
pareti
coperte
di
libri
fino
al
soffitto
.
Le
finestre
,
al
solito
,
erano
oscurate
.
In
quelle
stanze
si
viveva
sempre
alla
luce
artificiale
.
Verso
le
sette
,
il
poeta
passò
nello
studiolo
che
precede
la
camera
da
letto
.
È
una
piccola
stanza
con
grandi
antichi
armadi
usati
anche
come
guardaroba
personale
.
C
'
è
un
piccolo
tavolo
dove
spesso
D
'
Annunzio
si
soffermava
per
qualche
lavoro
.
Su
quel
tavolo
c
'
erano
e
ci
sono
ancora
dei
vasi
pieni
di
penne
,
di
matite
e
scatolette
che
contengono
i
sigilli
di
carta
dorata
a
rilievo
con
i
quali
chiudeva
le
lettere
.
Nel
cassetto
di
un
armadietto
sono
ancora
i
rotoli
dei
nastri
con
i
colori
di
Fiume
,
azzurri
e
rossi
,
che
il
poeta
usava
per
i
pacchi
dei
doni
che
amava
fare
agli
ospiti
.
Non
mancavano
la
carta
assorbente
e
il
calamaio
.
Al
Vittoriale
non
era
mai
entrata
,
almeno
per
l
'
uso
personale
del
poeta
,
una
macchina
da
scrivere
.
D
'
Annunzio
la
odiava
così
come
odiava
il
telefono
.
Una
volta
aveva
dichiarato
che
considerava
un
'
ingiuria
il
consiglio
di
usare
il
dictaphon
.
Era
contrario
ad
ogni
forma
di
trascrizione
meccanica
della
voce
e
non
aveva
quasi
mai
acconsentito
che
il
cinema
sonoro
registrasse
la
sua
parola
.
D
'
Annunzio
sedette
al
tavolo
.
Forse
di
lì
a
poco
avrebbe
chiamato
la
«
fante
»
per
farsi
portare
da
mangiare
.
La
«
fante
»
,
che
lo
«
spiava
»
da
una
delle
camere
vicine
lo
vide
con
il
braccio
appoggiato
al
tavolino
,
in
un
atteggiamento
che
non
dava
adito
ad
alcuna
preoccupazione
.
Su
quel
tavolino
c
'
era
e
c
'
è
ancora
il
vecchio
lunario
del
Barbanera
che
D
'
Annunzio
,
per
il
suo
amore
delle
vecchie
tradizioni
abruzzesi
,
aveva
voluto
che
,
come
ogni
anno
,
fosse
comprato
all
'
inizio
del
1938
.
Al
primo
marzo
il
lunario
annunciava
la
morte
di
un
grande
uomo
.
Mancavano
dieci
minuti
alle
otto
,
quando
la
cameriera
si
sentì
chiamare
,
D
'
Annunzio
voleva
un
bicchiere
d
'
acqua
.
Gli
fu
portato
.
Non
disse
nulla
e
bevve
.
La
donna
si
accorse
di
qualcosa
d
'
insolito
nell
'
aspetto
del
«
padrone
»
,
come
il
senso
di
una
grave
fatica
.
Il
respiro
era
basso
e
affannoso
,
Maroni
accorse
.
Il
poeta
aveva
reclinato
la
testa
sul
tavolo
e
stava
per
cadere
dalla
sedia
.
Fu
sostenuto
e
portato
sul
letto
della
camera
accanto
.
Maroni
stesso
gli
fece
immediatamente
due
iniezioni
di
olio
canforato
.
Ma
il
cuore
del
poeta
che
aveva
dato
voce
ad
Aligi
era
già
spento
,
senza
dolore
.
Pochi
minuti
dopo
l
'
arciprete
della
chiesa
di
San
Nicolò
,
don
Fava
,
entrava
al
Vittoriale
per
dare
l
'
assoluzione
alla
spoglia
del
poeta
.
D
'
Annunzio
si
era
molte
volte
lamentato
in
vita
che
le
campane
della
chiesa
,
a
Gardone
,
suonavano
troppo
a
lungo
e
aveva
cercato
di
frenare
gli
scampanii
con
elemosine
per
i
poveri
.
Alle
otto
in
punto
,
il
vecchio
campanaro
Valentino
cominciò
a
suonare
a
morto
.
StampaQuotidiana ,
Era
di
quasi
un
anno
o
forse
di
due
superiore
per
età
al
suo
futuro
marito
,
la
duchessina
Maria
di
Gallese
,
quando
conobbe
Gabriele
d
'
Annunzio
,
che
allora
,
in
fatto
di
titoli
araldici
,
aveva
solamente
quello
del
tutto
immaginario
di
Duca
Minimo
con
il
quale
firmava
le
note
di
cronaca
mondana
sulla
appena
nata
«
Tribuna
»
di
Roma
.
La
fama
aveva
già
accarezzato
la
fronte
,
ancora
aureolata
di
riccioli
biondi
,
dell
'
autore
delle
Novelle
della
Pescara
e
di
Primo
Vere
,
che
distribuiva
uno
per
uno
i
ricordi
dei
suoi
giovanili
amori
romani
,
in
parte
veri
e
in
parte
immaginari
,
nei
versi
morbidissimi
e
qua
e
là
lussuosamente
torbidi
di
Isaotta
Guttadauro
.
Gabriele
era
allora
,
soprattutto
,
poeta
d
'
amore
,
teso
a
spiare
le
veneri
agresti
d
'
Abruzzo
e
quelle
,
vestite
di
raso
e
velluto
,
delle
alcove
eleganti
di
Roma
.
Piccolo
di
statura
,
ma
bello
nel
volto
,
ornatissimo
nella
parola
,
e
indicato
già
,
nell
'
età
in
cui
gli
altri
giovani
si
affannano
sui
banchi
dell
'
università
,
come
il
poeta
destinato
a
raccogliere
lo
scettro
della
poesia
in
Italia
,
i
parenti
di
Maria
di
Gallese
furono
certamente
imprudenti
a
sceglierlo
per
dare
qualche
lezione
di
letteratura
italiana
alla
giovane
e
bellissima
duchessina
di
cui
si
voleva
completare
l
'
educazione
.
In
pochi
giorni
,
alternando
la
lettura
dei
classici
del
Trecento
e
del
Cinquecento
con
qualche
passeggiata
fra
le
antichità
di
Roma
,
o
alla
quercia
del
Tasso
o
alla
tomba
di
Cecilia
Metella
-
si
sa
che
le
«
passeggiate
»
sono
state
uno
dei
migliori
punti
di
partenza
per
la
poesia
di
D
'
Annunzio
-
i
due
si
trovarono
romanticissimamente
innamorati
.
Come
in
un
romanzo
,
la
giovane
patrizia
si
era
innamorata
di
un
giovane
,
ricco
solo
della
sua
poesia
e
di
qualche
piccolo
bene
familiare
a
Pescara
,
severamente
custodito
dal
padre
Don
Francesco
e
dalla
madre
Donna
Luisa
.
Quella
del
poeta
era
una
famiglia
borghese
,
di
piccoli
proprietari
terrieri
e
di
armatori
di
paranze
abruzzesi
.
La
madre
di
Maria
,
dopo
avere
sposato
un
duca
di
Gallese
che
non
le
aveva
dato
figli
,
si
era
unita
con
un
giovane
ufficiale
francese
,
venuto
a
Roma
con
gli
Zuavi
che
Napoleone
III
aveva
mandato
a
difendere
Pio
IX
:
l
'
ufficiale
si
chiamava
Hardouin
.
Lo
stesso
Pontefice
si
era
interessato
per
la
buona
riuscita
del
secondo
matrimonio
.
Maria
apparteneva
dunque
a
quella
che
si
chiamava
ancora
l
'
aristocrazia
nera
,
papalina
.
La
distanza
sociale
fra
i
due
innamorati
era
grande
.
Gabriele
,
futuro
sterminatore
di
cuori
femminili
,
la
superò
di
un
balzo
,
come
se
si
fosse
trattato
,
per
lui
volontario
di
un
anno
in
Cavalleria
,
di
superare
al
galoppo
una
staccionata
in
una
prateria
dell
'
Agro
romano
.
Disse
a
Maria
:
«
Fuggiamo
!
»
.
Maria
acconsentì
e
preparò
la
fuga
.
Allora
non
si
fuggiva
più
a
cavallo
,
né
si
poteva
ancora
fuggire
in
automobile
.
I
due
fidanzati
segreti
si
trovarono
in
un
treno
fumoso
,
alla
stazione
Termini
,
su
un
vagone
diretto
a
Firenze
.
Messa
facilmente
la
polizia
sulle
loro
tracce
,
furono
scovati
in
una
stanza
d
'
albergo
con
le
finestre
sull
'
Arno
.
I
Gallese
sembra
volessero
far
arrestare
il
rapitore
;
ma
si
lasciarono
indurre
a
consigli
più
miti
e
acconsentirono
che
la
fuga
,
anche
perché
Maria
era
ormai
maggiorenne
,
si
concludesse
con
un
matrimonio
.
Il
primo
figlio
si
chiamò
Mario
,
il
secondo
Veniero
,
il
terzo
e
ultimo
-
assomigliò
più
di
tutti
alla
madre
bellissima
,
ma
ebbe
dalla
sorte
un
dono
umano
che
era
stato
forse
'
negato
tanto
al
suo
grande
padre
poeta
quanto
a
sua
madre
,
quello
della
mitezza
mesta
e
melanconica
dell
'
animo
-
si
chiamò
Gabriellino
.
Maria
Hardouin
di
Gallese
,
principessa
di
Montenevoso
,
non
amava
riandare
al
suo
passato
,
al
suo
lontanissimo
passato
.
Parlando
di
suo
marito
non
diceva
«
mio
marito
»
,
ma
«
Gabriele
»
.
Lo
diceva
con
una
voce
apparentemente
indifferente
,
straordinariamente
fresca
per
la
sua
età
,
quasi
avesse
parlato
di
un
estraneo
.
Probabilmente
la
figura
del
marito
aveva
voluto
da
moltissimi
anni
cancellarla
dal
ricordo
:
collocando
al
suo
posto
l
'
immagine
di
un
amico
di
cui
aveva
conosciuto
,
certamente
come
nessun
'
altra
,
le
virtù
e
i
difetti
.
Gli
anni
dell
'
unione
giovanile
non
erano
stati
né
felici
né
facili
.
Maria
era
donna
tale
da
poter
amare
,
ma
non
certamente
da
lasciarsi
dominare
da
un
uomo
né
per
debolezza
,
né
per
vanità
,
né
per
tornaconto
.
Gabriele
non
aveva
né
la
forza
morale
né
la
fedele
schiettezza
amorosa
per
essere
totalmente
un
buon
marito
e
un
buon
padre
di
famiglia
:
assomigliava
troppo
ai
suoi
personaggi
per
poter
esserlo
.
Maria
di
Gallese
era
,
invece
,
il
contrario
dei
personaggi
dannunziani
:
il
suo
sangue
per
metà
francese
,
un
sano
sangue
provinciale
francese
,
la
faceva
fiera
,
sanamente
realista
,
contraria
alla
retorica
,
più
facile
,
anche
negli
ultimissimi
anni
,
all
'
ironia
che
alle
pose
di
donna
fatale
.
La
sua
eleganza
era
autentica
,
quanto
forse
era
di
dubbio
gusto
quella
di
Gabriele
:
anche
l
'
eleganza
del
suo
spirito
.
Capì
di
non
poter
sbarrare
il
passo
al
marito
,
che
correva
dietro
ad
ogni
tentazione
,
né
voleva
seguirlo
,
lei
donna
francesemente
«
pratica
»
,
nelle
sue
esperienze
economicamente
pericolose
di
un
po
'
smemorato
«
signore
delle
lettere
»
.
Gabriele
non
pensava
,
se
non
a
tratti
e
con
lunghe
amnesie
,
all
'
educazione
dei
figli
.
I
suoi
amori
extraconiugali
facevano
parte
delle
cronache
mondane
d
'
ogni
giorno
.
Gli
anni
che
la
coppia
di
così
differenti
caratteri
passò
nella
casa
al
numero
2
di
via
Gregoriana
-
in
un
appartamentino
al
quarto
piano
con
un
balcone
che
dominava
il
palazzotto
dello
Zuccari
dove
Gabriele
immaginava
vivesse
il
protagonista
del
Piacere
-
furono
tormentati
da
una
disillusione
di
cui
Maria
non
fece
forse
mai
colpa
diretta
al
poeta
quanto
a
se
stessa
,
per
essersi
lasciata
illudere
.
Il
distacco
avvenne
gradualmente
,
senza
esser
mai
totale
dal
punto
di
vista
dell
'
amicizia
,
che
sopravvisse
,
se
pur
di
lontano
,
se
pure
quasi
solamente
attraverso
alle
lettere
,
finché
il
poeta
,
vecchio
,
confermò
,
dopo
tante
esperienze
,
di
voler
avere
vicino
,
come
la
più
spiritualmente
rispettata
delle
compagne
,
la
donna
cui
,
in
lontanissimi
tempi
,
aveva
dato
l
'
amore
dei
venti
anni
.
Di
tutto
questo
Maria
d
'
Annunzio
parlava
poco
:
si
può
dire
,
anzi
,
che
non
parlasse
mai
.
Non
ignorava
certamente
che
la
sua
vita
non
lieta
di
moglie
del
poeta
era
notissima
.
Le
vicende
sentimentali
di
suo
marito
appartengono
alla
storia
letteraria
e
alla
storia
di
una
delle
più
singolari
esperienze
umane
.
Non
era
certamente
il
caso
di
conversare
con
lei
di
inganni
grandi
e
piccoli
per
cercare
di
indovinare
quali
potevano
essere
state
e
quali
potevano
essere
ancora
le
sue
reazioni
innanzi
a
certi
nomi
celeberrimi
che
,
se
non
nel
cuore
,
certo
nella
vita
di
Gabriele
avevano
pesato
molto
.
Spostando
la
propria
figura
dal
piedistallo
di
moglie
a
quello
di
amica
così
come
aveva
saputo
signorilmente
fare
da
moltissimi
anni
,
essa
poteva
vivere
indifferentemente
fra
le
immagini
,
molte
delle
quali
diventate
poesia
,
di
altre
donne
nelle
quali
,
forse
eternamente
innamorato
solo
di
se
stesso
,
Gabriele
,
come
Narciso
,
s
'
era
eternamente
specchiato
.
Per
questo
aveva
potuto
serenamente
incontrarsi
con
lui
,
quando
egli
l
'
aveva
chiamata
al
Vittoriale
,
e
considerarsi
,
in
una
villa
a
lei
destinata
nel
parco
,
la
sua
ospite
amica
che
tutto
sapeva
e
tutto
,
se
non
perdonato
,
aveva
compatito
.
La
sua
vita
,
dopo
il
distacco
dal
marito
,
era
stata
per
molto
tempo
difficile
.
A
Roma
aveva
vissuto
per
molti
anni
in
un
piccolo
appartamento
di
piazza
di
Spagna
,
mettendo
a
frutto
,
per
vivere
,
la
sua
perizia
nel
ritrovare
,
scegliere
e
ordinare
le
belle
cose
antiche
.
Non
aveva
,
Donna
Maria
,
come
del
resto
i
figli
,
certamente
gravato
sui
bilanci
spesso
disordinati
del
poeta
.
Solo
dopo
la
morte
di
lui
aveva
ricevuto
un
vitalizio
sui
suoi
diritti
d
'
autore
e
l
'
usufrutto
perenne
della
villa
Mirabella
entro
il
secondo
recinto
del
Vittoriale
.
Aveva
finito
per
lasciare
anche
la
sua
ultima
dimora
romana
,
una
pensione
in
una
traversa
di
via
Veneto
,
per
vivere
la
metà
dell
'
anno
a
Gardone
e
l
'
altra
metà
a
Parigi
,
dove
suo
figlio
Veniero
,
con
i
suoi
guadagni
di
ingegnere
in
America
,
le
aveva
comperato
e
donato
un
appartamentino
vicino
all
'
Etoile
.
Ad
onta
della
tardissima
età
viaggiava
da
sola
e
a
Parigi
viveva
sola
,
dopo
che
le
era
morta
,
sotto
ad
un
bombardamento
,
una
fedele
cameriera
.
Durante
la
occupazione
tedesca
non
aveva
voluto
restare
sul
lago
di
Garda
,
preferendo
,
a
ottant
'
anni
di
parecchio
passati
,
vivere
in
solitudine
nella
città
dei
suoi
avi
francesi
.
Al
suo
ritorno
aveva
saputo
che
la
sua
casa
di
Gardone
era
stata
abitata
da
una
tragica
creatura
:
da
Claretta
Petacci
,
che
di
lì
era
partita
per
andare
alla
morte
.
Aveva
detto
:
«
È
destino
che
io
,
senza
romanzo
,
viva
accanto
ai
romanzi
!
»
.
Era
stata
bellissima
,
come
testimoniava
,
alla
Mirabella
,
un
grande
ritratto
dipinto
da
La
Gandara
che
D
'
Annunzio
vi
aveva
fatto
collocare
come
per
dire
che
quella
casa
era
della
donna
che
non
aveva
mai
dimenticato
.
Aveva
sorriso
,
la
vegliarda
infaticabile
,
quando
le
era
stato
mostrato
un
volume
francese
intitolato
Paris
,
mon
coeur
nel
quale
quel
ritratto
era
riprodotto
per
far
conoscere
il
«
tipo
ormai
classico
della
donna
francese
,
dell
'
elegante
parigina
dei
tempi
di
Maurice
Donnay
e
di
Paul
Bourget
»
.
Pur
nella
tardissima
età
,
sottile
nella
figura
,
rapida
e
leggera
nel
passo
,
con
i
capelli
colorati
di
rosso
e
pettinati
come
quelli
delle
donne
di
Boldini
,
la
si
vedeva
andar
in
su
e
in
giù
,
a
piedi
,
per
i
sentieri
della
collina
del
Vittoriale
,
veramente
simile
,
nella
figura
,
a
quelle
ormai
tramontate
immagini
che
ispiravano
un
tempo
il
concetto
dell
'
alta
e
scintillante
aristocrazia
.
Attendeva
da
anni
serenamente
la
morte
,
ma
intanto
parlava
della
vita
come
di
un
bene
che
non
si
sarebbe
esaurito
mai
.
Fissava
convegni
e
viaggi
a
distanza
di
mesi
e
di
anni
,
e
intanto
,
fermandosi
in
un
certo
angolo
del
parco
,
pensava
anche
a
quella
che
poteva
essere
la
sua
ultima
dimora
.
Comprendeva
,
nella
sua
fierezza
di
gran
dama
,
di
non
poter
chiedere
d
'
essere
seppellita
vicino
al
marito
,
dopo
tanti
trascorsi
che
avevano
per
quarant
'
anni
annebbiata
la
loro
unione
.
Aveva
indicato
,
per
sé
,
un
angolo
del
parco
e
un
sarcofago
di
pietra
come
quelli
nei
quali
Gabriele
aveva
chiuso
le
spoglie
dei
suoi
legionari
:
ma
diceva
che
doveva
essere
ornato
,
a
mosaico
,
con
i
profili
di
due
pavoni
.
Amava
viaggiare
,
ma
ogni
volta
,
quando
partiva
per
Parigi
o
per
Charleville
,
la
patria
del
poeta
Rimbaud
,
dove
aveva
parenti
e
amici
fedeli
,
lasciava
ad
una
persona
fidata
,
confermando
così
il
suo
istinto
di
donna
ordinata
e
pratica
come
sono
quasi
sempre
le
francesi
,
una
busta
con
il
denaro
che
considerava
potesse
essere
all
'
improvviso
necessario
per
riportarla
,
morta
,
in
patria
.
La
sua
vitalità
era
sempre
stata
straordinaria
.
Aveva
una
attenzione
estrema
nel
non
rivelare
i
suoi
anni
.
Nel
1882
,
quando
conobbe
il
diciannovenne
D
'
Annunzio
,
sembra
che
la
duchessina
fosse
già
maggiorenne
.
Lo
era
già
,
in
ogni
modo
,
nel
1883
,
quando
si
sposò
.
Per
la
sua
età
,
dunque
,
bisognava
tirare
a
indovinare
,
facendo
oscillare
il
pendolo
fra
i
novantadue
delle
opinioni
ottimiste
e
i
novantacinque
dei
«
pessimisti
»
.
La
primavera
scorsa
,
ospitata
in
una
clinica
di
Riva
del
Garda
,
aveva
dichiarato
,
in
tono
di
celia
,
di
avere
sessantacinque
anni
:
e
nessuno
aveva
osato
contraddirla
perché
le
sue
risposte
potevano
essere
sferzanti
.
Sette
anni
or
sono
,
mi
aveva
tenuto
un
po
'
il
broncio
perché
,
scrivendo
dopo
la
morte
del
figlio
suo
Gabriellino
,
avevo
parlato
di
lei
come
di
una
«
vecchia
signora
»
.
Doveva
essere
già
allora
vicino
agli
ottantasette
anni
.
StampaQuotidiana ,
Ecco
,
davanti
a
me
,
un
viso
«
da
magistrato
»
,
quello
di
Peppino
De
Filippo
.
Trent
'
anni
fa
,
il
viso
di
un
giovanissimo
pretore
di
primissima
nomina
,
che
ha
vinto
pochi
giorni
prima
il
concorso
.
Poi
,
di
anno
in
anno
,
ha
fatto
carriera
:
dal
magistrato
di
Pretura
è
giunto
al
Tribunale
,
è
arrivato
alle
Assise
,
si
avvia
verso
la
Cassazione
:
lo
vedrò
con
la
toga
della
Corte
Costituzionale
:
sempre
magistrato
è
.
Il
viso
un
po
'
assorto
,
in
cui
appare
ogni
tanto
,
pungente
,
un
elemento
di
arguzia
:
un
viso
di
calma
dignità
e
un
poco
timido
:
ogni
tanto
,
nella
vita
,
la
sua
voce
è
insidiata
da
un
trepidare
che
può
sembrar
persino
un
impaccio
d
'
una
breve
parvenza
di
balbuzie
.
Un
magistrato
un
po
'
filosofo
,
che
ha
avuto
l
'
infanzia
non
sempre
comoda
di
tanti
napoletani
:
che
ha
avuto
compagni
di
scuola
molto
poveri
e
che
conosce
a
fondo
,
pietoso
,
le
miserie
dell
'
umanità
.
Dice
giustamente
Peppino
:
«
In
fondo
,
io
ripugno
dal
comico
di
mezza
misura
e
sono
tutto
fuorché
un
"
brillante
"
:
io
sto
tutto
nella
farsa
o
tutto
nella
tragedia
:
e
la
farsa
sta
gomito
a
gomito
con
la
tragedia
...
»
.
Ecco
un
giudizio
da
magistrato
che
non
riesce
a
dividere
gli
uomini
in
due
rigorose
categorie
,
angeli
e
demoni
:
pietoso
per
i
loro
peccati
,
sorridente
e
un
po
'
dubitoso
per
le
loro
virtù
.
Con
questo
spirito
,
il
«
magistrato
»
Peppino
ha
scritto
una
cinquantina
di
commedie
,
con
centinaia
di
personaggi
dell
'
umanità
grigia
,
«
buoni
»
intrisi
di
astuzia
,
sciocchi
con
lampi
di
genio
,
straccioni
con
una
speranza
di
eleganza
,
tristanzuoli
con
una
scintilla
d
'
oro
di
poesia
,
prepotenti
che
se
la
fanno
sotto
,
cornuti
illuminati
da
una
incancellabile
fede
nella
purità
:
una
giornata
di
pioggia
,
un
desiderio
di
sole
;
le
manette
pronte
,
ma
un
sogno
di
guanti
bianchi
.
Attore
dall
'
età
di
sei
anni
-
il
debutto
avvenne
con
la
particina
del
bambino
Peppiniello
in
Miseria
e
nobiltà
-
De
Filippo
potrebbe
raccontare
a
non
finire
storie
di
allegra
,
ma
non
sempre
allegra
,
povertà
.
Era
il
mondo
dei
poveri
guitti
girovaghi
-
aveva
lasciato
la
Compagnia
di
Vincenzo
Scarpetta
-
nelle
province
napoletane
.
Ogni
tanto
,
la
sorte
portava
ad
avventurarsi
fino
nell
'
Abruzzo
e
nelle
Marche
.
Peppino
faceva
un
po
'
di
tutto
:
prosa
,
varietà
,
macchiettista
in
miseri
teatrucoli
,
pianista
in
cinematografi
di
campagna
,
pittore
di
manifesti
-
la
sua
vera
passione
era
quella
della
pittura
-
trovarobe
,
corista
di
operette
.
Fu
in
quegli
anni
lontani
,
addirittura
amministratore
della
piccola
troupe
.
Erano
arrivati
nelle
Marche
a
piedi
,
risalendo
dalle
spiagge
abruzzesi
:
e
si
erano
addentrati
in
una
vallata
verso
Jesi
.
Lassù
,
erano
rimasti
incastrati
in
un
paesello
di
collina
.
Avevano
montato
il
loro
teatrino
ambulante
in
uno
sterrato
fuori
le
mura
:
era
nato
così
un
piccolo
teatro
con
«
comodo
di
fave
»
.
Il
fondale
dava
sulla
campagna
buia
:
in
quel
buio
,
gli
attori
avevano
scoperto
alcuni
campi
di
fave
.
Fra
un
atto
e
l
'
altro
,
scivolavano
giù
dal
rustico
palcoscenico
,
facevano
una
rapida
scorpacciata
di
fave
,
e
poi
,
rinfrancati
tornavano
alla
ribalta
a
recitare
.
Quando
si
trattò
di
ripartire
da
quel
paesello
,
Peppino
scese
verso
Ancona
,
per
trovare
un
teatrino
che
li
ospitasse
.
Era
lui
,
o
no
,
l
'
amministratore
?
Ed
ecco
nella
torrida
estate
,
Peppino
partire
a
piedi
,
accompagnato
dal
«
segretario
»
che
era
totalmente
calvo
.
Ma
perché
i
due
attori
avevano
sulle
guance
una
folta
barba
?
Nera
,
Peppino
,
e
bianca
,
fluente
il
«
segretario
»
,
con
un
paio
di
occhiali
neri
da
povero
cieco
.
Fu
Peppino
a
inventare
,
per
diminuire
la
fatica
della
marcia
,
il
sistema
che
oggi
si
chiama
dell
'
autostop
.
Erano
luoghi
quasi
deserti
.
Ogni
tanto
si
vedeva
arrivare
un
carretto
tirato
da
un
somaro
.
Il
«
segretario
»
si
sosteneva
al
braccio
di
Peppino
,
marciando
curvo
sotto
il
solleone
.
Quando
il
carretto
li
raggiungeva
,
Peppino
indicava
pietosamente
il
vegliardo
:
«
Ci
potreste
dare
un
passaggio
?
»
.
Il
contadino
si
impietosiva
e
li
accompagnava
sino
alla
prima
svolta
,
seduti
sulle
fascine
.
Un
altro
miglio
a
piedi
,
e
poi
spuntava
un
altro
carretto
.
Quando
Peppino
De
Filippo
non
reciterà
più
Le
metamorfosi
di
un
suonatore
ambulante
,
cercheremo
di
raccontare
ai
nostri
figli
e
ai
nostri
nipoti
la
scenetta
in
cui
,
affamatissimo
«
posteggiatore
»
,
cerca
di
vedere
chiaro
in
un
certo
imbroglio
per
il
quale
è
richiesta
la
sua
complicità
.
Il
suonatore
è
napoletano
e
,
come
tale
,
gesticola
vivacemente
:
le
sue
mani
sono
in
continuo
movimento
e
,
ogni
tanto
,
si
protendono
e
restano
sospese
a
mezz
'
aria
.
Gli
interlocutori
credono
che
egli
abbia
finito
di
parlare
,
che
l
'
affare
sia
concluso
e
che
sia
venuto
il
momento
di
salutarsi
:
afferrano
la
mano
del
suonatore
e
la
stringono
cordialmente
.
Il
discorso
,
invece
,
non
è
affatto
finito
.
Bisogna
liberare
quella
mano
e
riprendere
la
conversazione
interrotta
.
Gli
altri
sono
sempre
pronti
a
stringere
,
sul
più
bello
,
la
mano
dell
'
ambulante
che
non
può
frenare
la
sua
mimica
partenopea
e
che
,
se
non
muove
le
mani
,
non
può
parlare
.
La
graduazione
della
sorpresa
,
dell
'
impaccio
,
dell
'
inquietudine
,
che
prende
e
quasi
paralizza
l
'
eloquenza
del
suonatore
ambulante
,
crea
un
«
crescendo
comico
»
forse
ineguagliato
in
questi
ultimi
anni
:
certo
il
più
sottile
e
trascinante
.
Quando
cercheremo
di
riferire
questa
scenetta
ai
nostri
figli
e
ai
nostri
nipoti
stenteremo
a
farci
capire
,
come
non
capivamo
i
nostri
vecchi
quando
ci
parlavano
del
«
gioco
del
ferro
da
stiro
»
di
Eleonora
Duse
nella
Locandiera
o
della
«
scena
del
candeliere
»
di
Ermete
Novelli
nella
farsa
Felice
il
cerimonioso
.
Sono
scoperte
,
gioie
,
sorrisi
di
cui
gode
solamente
«
chi
vede
»
:
intraducibili
per
«
sentito
dire
»
.
Per
questo
,
il
teatro
è
forse
fatto
di
incantesimi
paragonabili
a
quelli
dell
'
amore
,
bellissimi
quando
viviamo
il
nostro
amore
,
mentre
,
se
ci
raccontano
quelli
degli
altri
,
ci
sono
assolutamente
indifferenti
.
StampaPeriodica ,
L
'
Antologia
della
Voce
,
che
ha
fatto
seguito
a
quella
del
Leonardo
,
dell
'
Hermes
e
del
Regno
(
entrambe
edite
da
Einaudi
)
e
a
quella
della
Critica
sociale
(
edita
da
Feltrinelli
)
,
le
annunciate
antologie
de
Il
Rinnovamento
,
Nova
et
vetera
,
L
'
Anima
,
Lacerba
,
eccetera
,
che
dovrebbero
presto
venire
alla
luce
,
testimoniano
l
'
interesse
sempre
più
acuto
delle
nuove
generazioni
a
ripercorrere
il
cammino
della
cultura
e
dello
spirito
pubblico
del
Novecento
,
per
rintracciarvi
le
origini
dei
problemi
che
ancora
ci
assillano
.
Ed
è
naturale
che
,
in
questo
ritorno
alle
origini
,
il
decennio
giolittiano
-
con
i
suoi
fermenti
e
il
suo
vivace
dibattito
ideale
-
divenga
il
polo
principale
di
attrazione
.
È
troppo
presto
,
forse
,
per
tirare
le
somme
e
giudicare
nel
loro
complesso
codeste
iniziative
editoriali
:
per
ora
si
può
solo
rilevare
che
le
due
antologie
einaudiane
sono
molto
ben
fatte
e
sono
introdotte
con
notevole
intelligenza
da
Delia
Frigessi
e
Angelo
Romanò
:
che
invece
qualche
incertezza
presenta
l
'
antologia
della
Critica
sociale
nella
parte
politica
ed
economica
,
ma
non
nella
parte
culturale
che
qui
più
direttamente
c
'
interessa
.
Tuttavia
,
anche
se
non
è
possibile
un
quadro
d
'
insieme
,
si
può
fin
d
'
ora
notare
che
le
recenti
ricerche
hanno
completamente
capovolto
i
canoni
d
'
interpretazione
di
quel
periodo
che
avevano
dominato
la
cultura
italiana
fino
all
'
ultimo
dopoguerra
.
Vediamo
.
La
reazione
antipositivistica
era
stata
sempre
considerata
una
caratteristica
rinnovatrice
del
movimento
culturale
del
primo
decennio
del
secolo
.
Ora
si
è
portati
a
capovolgere
il
giudizio
.
Non
già
perché
si
voglia
difendere
il
positivismo
negli
aspetti
grossolani
che
facilmente
prestarono
il
fianco
alla
polemica
(
e
anche
alla
irrisione
)
idealistica
:
la
metafisica
che
tradiva
il
significato
più
profondo
della
grande
esperienza
delle
scienze
;
il
determinismo
che
non
lasciava
posto
«
per
l
'
uomo
,
né
per
la
storia
dell
'
uomo
»
;
il
facile
ottimismo
o
la
superficialità
con
cui
si
parlava
di
progresso
e
si
orecchiavano
le
conquiste
scientifiche
.
Si
tende
,
invece
,
a
lasciare
da
parte
-
come
poco
importante
-
la
parte
sistematica
del
positivismo
e
a
richiamare
l
'
attenzione
su
altri
dati
più
interessanti
:
che
il
positivismo
sorge
come
una
sorta
di
nuovo
illuminismo
sulla
base
dell
'
espansione
della
civiltà
borghese
dell
'
Ottocento
;
che
esso
,
pur
cedendo
a
sua
volta
alle
tentazioni
metafisiche
,
rappresenta
il
movimento
di
pensiero
che
fa
della
lotta
contro
la
metafisica
il
punto
cardine
del
suo
programma
;
che
con
esso
si
rilancia
la
fiducia
nella
ragione
umana
,
soffocata
dal
movimento
romantico
;
che
esso
agisce
sull
'
orientamento
ideale
e
sul
costume
di
larghissimi
strati
d
'
intellettuali
,
creando
una
mentalità
laica
,
illuminata
,
aperta
alle
idee
di
progresso
,
chiusa
alle
superstizioni
religiose
,
sicura
delle
possibilità
dell
'
uomo
,
amante
della
scienza
e
dei
risultati
della
sua
applicazione
nei
vari
campi
della
vita
civile
;
che
esso
-
proprio
per
le
caratteristiche
fin
qui
indicate
-
ha
una
funzione
particolarmente
progressiva
nel
nostro
paese
arretrato
,
tagliato
fuori
da
alcuni
secoli
dalle
grandi
correnti
di
pensiero
europee
,
insidiato
dalla
presenza
del
Vaticano
.
Il
positivismo
,
cioè
,
si
presenta
oggi
allo
storico
moderno
come
l
'
aspetto
più
clamoroso
di
un
profondo
rinnovamento
che
si
operò
,
dopo
il
1860
e
la
"
aggiunta
unità
,
fra
gl
'
intellettuali
e
nella
cultura
italiana
.
Rinnovamento
benefico
-
nonostante
i
pericoli
e
le
esagerazioni
-
se
esso
veniva
a
consolidare
e
a
confermare
sulla
base
degli
orientamenti
della
scienza
e
del
pensiero
europei
il
carattere
prevalentemente
laico
della
cultura
italiana
(
derivato
dal
modo
stesso
con
cui
si
era
formato
lo
Stato
nazionale
in
opposizione
alla
Chiesa
)
;
se
contro
l
'
interiorità
e
il
mito
dei
romantici
(
l
'
ideale
staccato
dal
reale
di
cui
parlava
De
Sanctis
)
poneva
il
sapere
scientifico
come
«
l
'
obiettiva
coscienza
del
reale
»
;
se
postulava
una
natura
universale
dell
'
uomo
a
cui
faceva
corrispondere
«
un
'
etica
naturale
,
fondata
su
leggi
psicologiche
e
sociali
»
e
alla
cui
conquista
sembrava
impegnata
la
stessa
storia
che
si
presentava
così
conte
indefinito
progresso
;
se
sotto
l
'
Italia
ideale
sognata
nelle
battaglie
del
Risorgimento
sapeva
scoprire
un
'
Italia
reale
-
fatta
di
bisogni
concreti
,
di
arretratezza
,
di
miseria
-
e
,
quindi
,
faceva
affiorare
anche
da
noi
la
cosiddetta
«
questione
sociale
»
;
se
non
si
accontentava
dell
'
unità
politica
realizzata
nm
si
rendeva
conto
dell
'
esistenza
di
un
problema
del
Mezzogiorno
;
se
aveva
coscienza
di
quanta
Arcadia
fosse
rimasta
nel
nostro
romanticismo
,
di
quanto
fossimo
rimasti
indietro
rispetto
alle
altre
nazioni
e
operava
il
collegamento
con
un
grande
movimento
di
cultura
europeo
,
aprendo
le
finestre
,
rinnovando
l
'
aria
e
liberandoci
da
pregiudizi
,
limiti
provinciali
e
residui
accademici
.
1Int
uguale
capovolgimento
di
giudizio
può
notarsi
,
anche
nei
confronti
della
reazione
antinaturalistica
,
nonostante
che
,
in
questo
campo
,
sia
stato
proprio
un
critico
marxista
,
il
Lukács
,
a
introdurre
uno
schema
d
'
interpretazione
negativo
:
considerando
il
naturalismo
come
una
corruzione
in
senso
fotografico
e
descrittivo
del
grande
realismo
ottocentesco
.
Oggi
si
tende
a
considerare
il
naturalismo
come
un
rinnovamento
importante
e
benefico
della
nostra
letteratura
,
come
il
più
avanzato
tentativo
dl
arte
realistica
compiuto
nella
nostra
storia
letteraria
.
Gli
elementi
di
fondo
di
tale
rinnovamento
sono
gli
stessi
già
indicati
per
il
positivismo
e
sono
alla
base
della
rivolta
un
po
'
velleitaria
degli
Scapigliati
(
e
anche
a
guardar
bene
dell
'
atteggiamento
ribelle
del
primo
Carducci
)
e
,
soprattutto
,
della
grande
arte
di
Verga
e
della
critica
di
Capuana
.
Giustamente
è
stato
osservato
come
non
sia
stato
per
caso
che
la
crisi
letteraria
si
manifestasse
a
Milano
prima
e
piuttosto
che
altrove
.
Perché
«
i
primi
effetti
e
i
più
appariscenti
della
trasformazione
economica
e
sociale
che
era
in
atto
,
coi
suoi
urti
,
coi
suoi
contrasti
interni
e
con
i
rivolgimenti
di
fortune
e
di
opinioni
che
ne
derivavano
,
si
fecero
sentire
appunto
in
quella
città
che
allora
si
avviava
a
essere
,
come
poi
si
disse
,
la
capitale
morale
d
'
Italia
,
e
cioè
la
capitale
dei
traffici
e
degli
affari
,
uno
dei
centri
più
operosi
e
vitali
della
nuova
borghesia
e
della
nuova
cultura
»
.
E
non
fu
un
caso
che
essa
trovasse
i
suoi
maggiori
interpreti
in
Verga
e
Capuana
perché
era
necessario
«
un
passionale
deflusso
dal
centro
alla
periferia
,
dal
Nord
al
Sud
,
dal
vertice
alla
base
,
dal
mondo
della
scioperatezza
e
degli
sperperi
al
mondo
della
diffidenza
e
della
parsimonia
,
dalla
vita
di
lusso
a
quella
dei
bisogni
elementari
e
primordiali
»
per
individuare
il
contenuto
più
nuovo
e
tipico
:
«
la
vita
del
meridione
,
che
nella
struttura
del
nuovo
stato
unitario
non
era
più
un
modo
dl
vita
circoscritto
e
locale
,
ma
assurgeva
già
al
significato
e
all
'
importanza
di
uno
fra
i
più
tormentosi
e
urgenti
problemi
nazionali
»
.
Appunto
sulla
base
di
questo
nuovo
contenuto
sorge
l
'
arte
di
Verga
,
nutrita
essenzialmente
dall
'
analisi
del
molteplice
giuoco
di
forze
economiche
e
sociali
che
determinano
i
comportamenti
,
i
sentimenti
e
il
destino
degli
uomini
.
Ed
è
proprio
il
canone
dell
'
impersonalità
,
quello
studiare
le
forme
e
le
strutture
sociali
come
lo
scienziato
studia
il
prodursi
dei
fenomeni
naturali
,
proprio
quel
suo
«
ritrovare
nella
società
umana
non
già
i
grandi
problemi
morali
ma
-
come
lo
scienziato
nella
natura
-
solo
le
leggi
del
suo
funzionamento
»
,
proprio
tutto
questo
che
gli
è
stato
rimproverato
come
un
limite
e
un
errore
,
consente
invece
al
Verga
di
cogliere
-
al
di
là
delle
contingenze
storiche
e
della
euforia
borghese
-
la
legge
fondamentale
della
società
moderna
,
implacabile
come
il
fato
degli
antichi
greci
,
a
cui
si
assoggettano
i
suoi
personaggi
esponendo
la
nuda
e
dolente
verità
della
loro
condizione
umana
.
Del
resto
,
indipendentemente
dal
Verga
,
per
il
quale
è
stato
riconosciuto
da
tutti
che
l
'
incontro
con
il
verismo
ebbe
una
funzione
liberatrice
,
i
canoni
del
naturalismo
,
che
sono
stati
poi
ferocemente
criticati
e
derisi
,
l
'
impersonalità
e
quindi
il
ritrarre
direttamente
dal
vero
,
quasi
in
modo
fotografico
;
la
scientificità
,
intesa
come
riduzione
degli
elementi
umani
soprattutto
a
quelli
fisici
e
fisiologici
,
in
particolare
a
quelli
della
ereditarietà
e
dell
'
ambiente
;
il
dialetto
o
il
gergo
che
dovevano
rappresentare
il
modo
reale
di
parlare
dei
personaggi
,
se
valutati
nel
momento
storico
cui
furono
postulati
e
in
rapporto
con
i
nuovi
contenuti
che
volevano
esprimere
,
risultano
,
sul
piano
della
poetica
,
non
solo
giustificati
ma
necessari
.
Da
questi
due
giudizi
radicalmente
capovolti
si
possono
ricavare
molte
conseguenze
.
Ci
limiteremo
ad
accennarne
una
:
l
'
infondatezza
della
cosiddetta
sprovincializzazione
che
-
secondo
i
canoni
più
diffusi
d
'
interpretazione
del
Novecento
-
sarebbe
il
merito
fondamentale
dei
movimenti
culturali
del
decennio
giolittiano
.
In
realtà
sia
il
positivismo
che
il
naturalismo
erano
movimenti
europei
:
il
loro
diffondersi
in
Italia
aveva
già
rappresentato
una
rottura
del
nostro
isolamento
culturale
.
Ma
il
positivismo
e
il
naturalismo
ricevettero
in
Italia
una
elaborazione
nazionale
,
mentre
il
famoso
processo
di
europeizzazione
dei
Papini
e
dei
Prezzolini
avvenne
attraverso
forme
di
importazione
a
cui
non
corrispose
un
adeguato
sforzo
di
elaborazione
.
Avvenne
,
cioè
,
in
modo
provinciale
.
Come
si
vede
,
la
problematica
sollevata
da
questi
studi
è
di
estremo
interesse
e
modifica
gli
orizzonti
tradizionali
della
nostra
cultura
.
È
inutile
dire
che
tale
sforzo
ci
appare
benefico
e
che
le
prospettive
verso
le
quali
si
muove
ci
trovano
perfettamente
consenzienti
.
StampaQuotidiana ,
Cerco
di
ritrovare
,
per
le
vie
di
Napoli
,
la
figura
di
Salvatore
Di
Giacomo
.
Mi
dice
un
amico
:
«
Sta
nell
'aria...»
.
Si
guarda
attorno
,
fa
un
cenno
,
indica
qualcosa
con
un
gesto
circolare
.
È
vero
.
Sta
nell
'
aria
,
il
suo
monumento
è
la
strada
di
Napoli
,
il
vicolo
di
Napoli
,
è
la
«
tavernella
»
,
è
il
«
munasterio
»
è
il
«
funndeco
»
di
Napoli
:
è
il
sole
,
è
l
'
acqua
,
è
lo
scoglio
,
è
il
pino
di
Napoli
.
Bellissima
convinzione
:
un
po
'
retorica
.
Napoli
non
ha
fatto
molto
per
il
suo
poeta
.
Gli
ha
dedicato
una
strada
verso
Posillipo
e
una
lapide
sotto
alla
finestra
di
«
Marechiare
»
in
ricordo
di
quella
canzone
tanto
bella
,
scritta
a
diciotto
anni
,
e
la
cui
fama
,
mi
hanno
detto
,
un
po
'
lo
infastidiva
.
Le
proposte
per
onorare
Di
Giacomo
non
sono
mancate
:
intelligenti
,
affettuose
,
entusiastiche
.
Si
partì
dalla
semplice
idea
di
un
busto
,
si
arrivò
a
quella
di
dedicare
al
suo
ricordo
un
boschetto
o
una
esedra
arborea
sul
colle
di
Posillipo
.
Altri
propose
che
le
sue
spoglie
fossero
collocate
accanto
a
quelle
di
Giacomo
Leopardi
;
e
subito
qualcuno
ricordò
,
sia
pure
a
bassa
voce
,
i
dubbi
sull
'
autenticità
delle
ossa
di
Leopardi
,
di
quel
povero
scheletro
cui
mancherebbe
addirittura
la
testa
.
Città
,
più
dolorosa
che
lieta
,
mi
pare
Napoli
,
piena
di
crucci
,
di
affanni
,
di
disastri
cui
è
difficile
rimediare
.
Le
perle
e
le
melanconie
dei
vivi
sono
tante
che
forse
non
si
ha
tempo
di
pensare
a
quelle
dei
morti
,
che
forse
vivono
già
nell
'
eterna
serenità
.
Un
anno
dopo
la
morte
del
poeta
una
lapide
,
è
vero
,
fu
collocata
sulla
casa
dove
era
nato
.
Poi
venne
la
guerra
e
vennero
le
incursioni
aeree
.
Quella
casa
è
stata
colpita
,
è
crollata
,
per
un
miracolo
era
rimasto
in
piedi
il
pezzo
di
muro
dove
era
collocata
la
lastra
di
marmo
.
In
mezzo
a
quello
sfacelo
e
sotto
le
altre
incursioni
,
la
lapide
restava
,
alla
meglio
,
appiccicata
a
quel
rudere
.
Poi
cadde
anche
lei
;
sparì
:
non
si
sa
,
naturalmente
,
dove
sia
andata
a
finire
.
Anche
al
numero
107
di
via
Santa
Lucia
,
dove
abitò
gli
ultimi
anni
della
sua
vita
,
di
fronte
a
quella
chiesa
della
Madonna
della
Catena
dove
vanno
a
pregare
tutte
le
donnette
del
quartiere
,
il
cui
nome
ricorre
in
ogni
poesia
e
in
ogni
canzone
napoletana
,
non
c
'
è
un
segno
di
ricordo
.
Forse
era
fatale
che
fosse
così
.
Non
si
possono
trasformare
in
musei
degli
appartamenti
piccolo
-
borghesi
,
come
quello
in
cui
visse
Di
Giacomo
,
come
tutti
gli
altri
scrittori
del
suo
tempo
e
non
solamente
napoletani
.
Non
avevano
,
quegli
scrittori
,
ville
,
eremi
,
Capponcine
e
Vittoriali
.
In
una
casa
con
cento
finestre
,
come
si
può
«
eternare
»
la
finestra
di
un
poeta
?
Mi
dicono
:
«
È
nell
'aria...»
.
Di
Giacomo
ha
i
suoi
fedeli
,
che
credo
siano
tutti
,
o
quasi
,
gente
fra
i
cinquanta
e
gli
ottant
'
anni
,
legati
al
suo
ricordo
,
oltre
che
dalla
grandezza
della
sua
poesia
,
anche
da
una
certa
nostalgia
per
la
Napoli
della
loro
gioventù
,
la
«
vecchia
Napoli
»
,
la
cui
vita
intellettuale
dava
ancora
dei
punti
a
quelle
di
tutte
le
altre
città
italiane
.
Leopardi
l
'
aveva
esaltata
,
moribondo
,
con
il
canto
della
Ginestra
:
Francesco
De
Sanctis
aveva
fatto
da
Napoli
il
dono
all
'
Italia
intera
di
quella
Storia
della
letteratura
che
,
all
'
Italia
unita
da
pochi
anni
,
aveva
fatto
per
la
prima
volta
intendere
l
'
unità
dello
spirito
italiano
attraverso
i
secoli
.
A
suo
modo
,
l
'
Ottocento
intellettuale
di
Napoli
assomigliava
,
nella
varietà
e
nella
fecondità
dei
suoi
aspetti
,
all
'
Ottocento
di
Parigi
,
a
quello
che
fu
chiamato
lo
«
stupido
»
Ottocento
'
e
che
era
invece
-
ce
ne
accorgiamo
adesso
a
metà
del
Novecento
-
il
prodigioso
Ottocento
.
È
probabile
che
Di
Giacomo
debba
essere
spogliato
di
un
suo
fogliame
ottocentesco
,
liberato
da
una
sorta
di
macchiaiolismo
per
far
venire
in
luce
tutto
ciò
che
giustamente
di
virgineo
e
di
greco
fu
trovato
nella
sua
arte
ed
in
talune
sue
illuminate
sillabazioni
di
fremiti
e
sussurri
.
Fatto
il
lavoro
di
cernita
,
spogliata
l
'
ammirazione
per
lui
del
fatto
affettuoso
,
il
poeta
resterà
,
e
certamente
in
molte
parti
grandissimo
e
di
misura
italiana
fra
le
più
nobili
.
Segno
di
questa
sua
vitalità
e
di
questa
sua
insostituibilità
è
il
fatto
che
,
a
Napoli
,
per
chi
arriva
da
fuori
,
il
suo
nome
e
la
sua
opera
sono
ancora
il
miglior
punto
di
orientamento
quando
ci
si
accorge
subito
che
,
dopo
di
lui
,
non
è
più
il
caso
di
parlare
di
«
poesia
napoletana
»
,
essendo
ormai
spenti
anche
tutti
i
suoi
rivali
e
i
suoi
epigoni
.
È
nell
'
aria
anche
un
'
eredità
non
raccolta
nel
paese
dove
i
Russo
,
i
Bovio
,
i
Murolo
non
hanno
avuto
una
discendenza
,
né
si
pretende
che
possano
averla
,
poiché
anche
la
poesia
ha
le
sue
stagioni
e
non
si
può
farla
rinverdire
artificialmente
.
Quella
cara
stagione
è
finita
,
quel
giardino
è
chiuso
:
ma
lo
sentite
come
,
dietro
al
muricciolo
,
profumano
ancora
i
fiori
della
poesia
di
Di
Giacomo
?
Sono
andato
,
una
sera
dopo
il
tramonto
,
a
salutare
la
vedova
del
poeta
,
donna
Elisa
Di
Giacomo
,
nella
sua
casa
affacciata
sui
giardini
della
Riviera
di
Ghiaia
.
Donna
Elisa
era
di
almeno
vent
'
anni
più
giovane
del
poeta
-
bibliotecario
quando
,
studentessa
di
lettere
,
andò
da
lui
,
in
biblioteca
,
per
chiedergli
alcuni
consigli
su
una
tesi
di
laurea
.
Fu
lei
che
,
furtiva
,
depose
sul
tavolo
del
poeta
un
mazzolino
di
viole
o
di
ciclamini
.
Salvatore
viveva
con
la
madre
,
era
un
vecchio
ragazzo
sentimentale
e
inquieto
,
molto
timido
forse
sotto
il
suo
largo
cappello
alla
guappa
.
La
studentessa
dovette
attendere
assai
prima
che
il
poeta
riuscisse
a
compiere
il
gran
passo
.
Passeggiavano
al
sole
,
per
via
Caracciolo
.
Ad
una
parete
della
stanza
c
'
è
un
'
istantanea
in
cui
la
signorina
Elisa
ha
tutta
la
grazia
di
un
tempo
in
cui
il
sorriso
della
donna
che
si
teneva
a
braccio
del
suo
futuro
sposo
aveva
la
luce
di
un
sentimento
che
oggi
può
sembrare
ottocentesco
e
che
si
chiama
Fiducia
.
Prima
di
diventare
la
sposa
,
fu
la
donna
della
poesia
di
Don
Salvatore
,
quella
dei
malinconici
struggimenti
e
degli
inquieti
sospiri
,
quella
che
a
maggio
saliva
alla
tavernella
'
ncopp
'
Antignano
.
Stamno
a
na
tavulclla
/
tutte
e
dduie
.
Chiavo
chiano
/
s
'
allunga
sta
manella
/
e
m
'
accarezza
'
a
mano
...
Adesso
la
signorina
Elisa
di
un
tempo
è
Donna
Elisa
,
la
professoressa
che
è
andata
quest
'
anno
in
pensione
,
sottile
nella
figura
,
arguta
nel
volto
.
Vive
sola
al
secondo
piano
di
uno
dei
tanti
vecchi
solenni
palazzi
nobili
di
Napoli
che
hanno
tutti
,
nel
cortile
e
negli
scaloni
semibui
,
non
so
quale
aria
conventuale
.
In
un
nobile
silenzio
,
vive
con
le
finestre
aperte
su
questa
Napoli
molto
affettuosa
ma
-
penso
io
-
un
po
'
distratta
,
la
buona
signora
che
si
vide
morire
fra
le
braccia
,
con
lunghi
anni
di
malattia
,
il
vecchio
poeta
intristito
.
Questa
è
la
Madonna
di
Di
Giacomo
:
e
quello
lì
,
in
quel
disegno
a
penna
di
Paolo
Vietri
,
il
genero
di
Morelli
,
è
lui
,
come
era
a
diciotto
anni
.
StampaPeriodica ,
Vittorio
Frosini
della
Scuola
Normale
Superiore
di
Pisa
,
da
Capodistria
,
a
proposito
della
lettera
di
Goffredo
Pistoni
,
ci
scrive
,
fra
l
'
altro
:
"
Non
si
può
negare
l
'
importanza
della
filosofia
,
se
non
come
necessità
e
grandezza
dell
'
umano
pensiero
,
come
importante
contributo
d
'
un
popolo
alla
civiltà
.
Non
dimenticatevi
che
,
in
una
recente
crisi
politica
dell
'
Europa
centrale
,
un
grande
popolo
ha
vidimato
la
necessità
ideale
di
un
suo
gesto
di
forza
,
con
l
'
affermazione
d
'
una
superiore
cultura
e
civiltà
,
nel
cui
campo
rientrava
tutta
una
serie
di
pensatori
,
di
filosofi
pur
devoti
ad
un
totale
concettualismo
.
"
Quel
che
s
'
impone
è
dunque
l
'
esaltazione
di
una
nostra
filosofia
,
che
risponda
alle
nostre
tradizioni
e
caratteristiche
di
Popolo
.
"
Coll
'
appellarsi
al
nome
di
quelli
che
furono
,
al
lor
tempo
,
tra
i
più
alti
rappresentanti
della
cultura
e
della
filosofia
in
Italia
Vico
e
Leopardi
non
si
combatte
la
Filosofia
,
ma
si
rafforza
l
'
autorità
d
'
una
filosofia
:
la
Nostra
.
"
StampaQuotidiana ,
Trent
'
anni
sono
passati
dalla
sua
morte
e
ormai
,
in
questi
tre
decenni
,
sono
andati
scomparendo
quasi
tutti
coloro
che
conobbero
Eleonora
e
l
'
ascoltarono
nel
tempo
della
sua
più
fervida
stagione
che
,
vista
adesso
nella
prospettiva
della
storia
,
non
sembra
sia
stata
quella
dannunziana
,
anche
se
questa
fu
la
più
folta
di
eventi
e
di
cronaca
.
Nel
teatro
di
D
'
Annunzio
,
probabilmente
,
la
Duse
esaurì
la
sua
forza
vitale
non
tanto
per
le
vicissitudini
di
una
passione
che
ebbe
molte
illuminazioni
,
ma
anche
molti
disinganni
,
quanto
perché
,
prima
di
D
'
Annunzio
,
nei
testi
che
recitava
c
'
era
sempre
stata
,
bene
o
male
,
la
vita
,
mentre
,
dal
Sogno
di
un
mattino
di
primavera
in
poi
,
il
teatro
di
Gabriele
le
offrì
più
che
altro
perfettissime
parole
d
'
oro
.
La
Duse
apparteneva
-
o
la
precedeva
di
poco
-
alla
generazione
del
verismo
venuta
al
mondo
delle
scene
italiane
quasi
in
reazione
ai
tragici
paludamenti
di
Adelaide
Ristori
e
al
«
velluto
»
e
al
«
tuono
»
di
Ernesto
Rossi
e
di
Tommaso
Salvini
.
La
famiglia
da
cui
usciva
era
di
attori
dialettali
,
originariamente
chioggiotti
:
figli
cioè
di
una
razza
popolana
in
cui
le
tradizioni
fondamentali
sono
quelle
della
povertà
e
della
delusa
melanconia
.
Agli
attori
dalle
voci
d
'
oro
e
dai
polmoni
di
bronzo
che
essa
avrebbe
dovuto
considerare
i
suoi
maestri
,
sembrò
sempre
una
«
nevrotica
»
,
una
creatura
debole
e
inquieta
.
Essi
erano
abituati
a
dar
voce
ai
giganti
:
a
Ree
Regine
,
e
non
a
gente
di
tutti
i
giorni
,
i
cui
sentimenti
non
erano
di
misura
«
eroica
»
,
ma
,
tutt
'
al
più
,
di
drammaticità
quotidiana
.
Tommaso
Salvini
,
titano
della
scena
ottocentesca
,
la
collocava
un
gradino
più
in
alto
di
Sarah
Bernhardt
,
che
egli
considerava
una
«
meticcia
»
perché
,
non
figlia
d
'
arte
,
e
come
tale
,
quasi
quasi
,
una
grandissima
dilettante
.
Alla
Duse
,
anche
come
figlia
d
'
arte
,
riconosceva
il
diritto
d
'
esser
considerata
un
'
attrice
«
di
razza
»
,
ammirevole
in
un
preciso
gruppo
di
caratteri
,
dai
quali
la
consigliava
di
non
uscire
mai
,
ammirevole
nell
'
esprimere
l
'
amore
contrastato
,
la
gelosia
,
il
dispetto
,
il
rancore
,
la
recriminazione
repressa
dei
torti
ricevuti
,
il
rammarico
o
un
intenso
dolore
,
ma
non
adatta
ai
sentimenti
«
alteri
,
grandi
,
maestosi
»
.
Attrice
della
realtà
drammatica
borghese
e
non
della
misura
tragica
,
attrice
che
,
spiritualmente
e
tecnicamente
,
precedeva
il
gusto
del
Théâtre
Libre
alla
Antoine
,
l
'
incontro
con
D
'
Annunzio
la
convinse
di
aver
trovato
l
'
approdo
al
porto
di
un
superiore
teatro
di
poesia
.
L
'
inchiostro
del
giudizio
di
Tommaso
Salvini
,
che
contiene
forse
non
pochi
elementi
di
saggezza
,
era
ancora
fresco
quando
,
nel
1898
,
con
il
Sogno
di
un
mattino
di
primavera
,
Eleonora
pensò
di
salire
un
gradino
più
in
alto
del
suo
destino
di
interprete
di
anime
«
borghesi
»
.
A
trent
'
anni
dalla
sua
morte
,
gli
spettatori
contemporanei
della
sua
grande
stagione
sono
tutti
scomparsi
.
Restano
,
fra
i
critici
e
gli
storici
del
teatro
,
solo
coloro
stessi
che
l
'
hanno
udita
quasi
esclusivamente
nel
periodo
dannunziano
e
hanno
dovuto
aspettare
il
suo
ritorno
alle
scene
nel
1921
,
ormai
stanca
e
canuta
,
per
riscoprirla
,
dopo
quattordici
anni
di
«
esilio
»
,
negli
accenti
del
dramma
ibseniano
e
del
realismo
venato
di
patetico
romanticismo
di
Praga
.
Nel
tempo
della
riscoperta
della
Duse
-
e
della
sua
scoperta
per
gli
spettatori
che
avevano
poco
più
di
vent
'
anni
quando
essa
uscì
dal
suo
lunghissimo
silenzio
-
la
sua
leggenda
era
già
formata
.
Da
una
parte
,
c
'
era
il
gruppo
degli
anziani
e
dei
vecchi
che
,
pur
ammirandola
,
l
'
avevano
definita
«
nevrotica
»
e
«
pososa
»
,
dall
'
altra
quelli
che
,
parteggiando
per
il
suo
lungo
e
dolente
romanzo
d
'
amore
e
per
il
sacrificio
ch
'
essa
aveva
fatto
al
sogno
di
un
teatro
«
di
poesia
»
-
termine
su
cui
è
difficilissimo
intendersi
-
parlavano
di
lei
come
della
«
santa
»
e
della
«
martire
»
.
Solamente
Santa
Teresa
di
Lisieux
,
solamente
Bernadette
hanno
avuto
biografi
esaltati
e
lagrimanti
come
lo
furono
,
per
la
Duse
,
il
francese
Schneider
e
Matilde
Serao
.
D
'
Annunzio
stesso
,
che
per
una
fatalità
di
temperamenti
l
'
aveva
così
mal
compresa
,
l
'
aveva
chiamata
«
la
Divina
»
.
Le
ciocche
dei
capelli
bianchi
quasi
incolte
,
la
vita
in
ombra
per
tanti
anni
,
una
vaga
aspirazione
religiosa
,
il
suo
sognare
di
essere
maestra
di
giovani
,
la
sua
povertà
nomade
dall
'
uno
all
'
altro
rifugio
segreto
,
la
sua
dichiarazione
,
una
volta
,
di
voler
recitare
solamente
invisibile
,
per
dar
voce
alle
marionette
del
Teatro
dei
Piccoli
nella
Tempesta
di
Shakespeare
,
la
sua
riluttanza
a
mostrare
il
volto
all
'
obbiettivo
di
Cenere
perché
per
lo
schermo
dovevano
bastare
le
sue
sole
mani
,
le
sue
lettere
scritte
in
inchiostro
viola
,
a
velocità
frenetica
,
disseminate
di
puntini
di
sospensione
e
di
sottolineature
,
i
veli
quasi
monastici
e
vagamente
languidi
dei
suoi
cappellini
estivi
,
la
sua
gracilità
,
la
sua
tosse
,
la
sua
febbre
erano
tutti
elementi
della
leggenda
alla
quale
si
affacciarono
nel
1921
gli
spettatori
poco
più
che
ventenni
.
Si
andava
a
sentire
una
donna
o
una
santa
?
Dovevamo
pensare
al
suo
lontano
passato
di
donna
o
dimenticarlo
?
Dovevamo
vederla
solo
come
avesse
avuto
il
capo
coperto
dalla
cenere
dei
deludenti
fuochi
dannunziani
?
La
fortuna
ci
aiutò
:
la
donna
che
,
tra
il
1895
e
il
1921
,
aveva
dato
se
stessa
,
con
l
'
arte
prima
e
poi
con
il
silenzio
,
a
D
'
Annunzio
,
ci
apparve
senza
le
tracce
e
senza
le
cicatrici
gloriose
del
suo
sacrificio
alla
«
bella
parola
»
che
tanto
a
lungo
l
'
aveva
incantata
.
Ci
apparve
,
nella
Donna
del
mare
e
nella
Porta
chiusa
,
la
donna
che
essa
era
stata
nelle
sue
giovanili
ore
grandissime
,
tutta
immersa
nella
Vita
,
in
un
suo
trasumanato
realismo
.
E
non
ci
sembrò
una
semplice
coincidenza
che
Eleonora
fosse
nata
nel
1859
,
tre
anni
dopo
che
Flaubert
aveva
messo
al
mondo
Madame
Bovary
.
Emma
è
del
1856
,
Eleonora
del
1859
.
Si
può
imputare
alla
Duse
d
'
avere
creduto
,
oltre
che
alla
sua
nativa
realtà
poetica
,
in
una
poesia
al
di
fuori
del
«
vero
»
che
le
sembrò
più
alta
della
prima
,
e
di
non
aver
inteso
la
differenza
tra
«
cosa
»
e
«
parola
»
?
Non
era
caduto
nello
stesso
errore
Flaubert
,
scrivendo
la
rimbombante
Salammbô
e
le
Tentazioni
di
Sant
'
Antonio
?
La
sua
crisi
e
il
suo
dramma
segreto
furono
una
crisi
e
un
dramma
di
valutazioni
sbagliate
sotto
l
'
impeto
di
un
entusiasmo
d
'
amore
.
Figlia
della
grande
generazione
della
Bovary
,
dobbiamo
stupirci
che
essa
,
ad
un
certo
momento
,
abbia
creduto
più
nelle
«
atmosfere
»
di
Francesca
e
della
Città
morta
che
in
quelle
del
realismo
e
del
naturalismo
in
cui
,
con
reazione
antiromantica
,
era
nata
?
Essa
fu
certamente
l
'
unica
attrice
degna
di
essere
definita
«
flaubertiana
»
,
la
grande
sorella
italiana
di
Emma
Bovary
e
,
facendo
un
passo
più
avanti
nel
tempo
,
di
Anna
Karenina
.
Ebbe
maestri
?
Figlia
di
attori
oscurissimi
,
sua
prima
maestra
fu
certamente
la
povertà
dei
nomadi
che
le
dette
la
coscienza
di
quel
dovere
ch
'
essa
chiamò
,
umilmente
,
il
lavoro
.
Forse
,
nell
'
infanzia
e
nella
prima
adolescenza
recitò
anche
diversamente
da
come
le
avrebbe
comandato
il
suo
istinto
,
così
come
volevano
attorno
a
lei
la
voce
e
la
cadenza
dei
compagni
.
Nessuno
pensava
che
si
avvicinasse
il
tramonto
del
tempo
romantico
,
e
fanciulla
,
dicendo
quasi
senza
capirle
le
battute
dei
grandi
testi
d
'
amore
,
un
'
eco
romantica
passò
nella
sua
voce
.
Nelle
tragedie
come
la
Francesca
da
Rimini
di
Silvio
Pellico
,
giovinetta
,
declamò
come
poi
non
fece
mai
.
La
liberazione
del
suo
istinto
cominciò
con
le
parole
di
Giulietta
,
nel
dialogo
d
'
amore
con
Romeo
,
con
una
rosa
sfogliata
quasi
ad
ogni
parola
.
La
morte
della
madre
le
aveva
aperto
l
'
anima
alla
verità
del
dolore
.
Negli
anni
del
suo
debutto
,
quella
di
Eleonora
è
una
storia
di
stenti
,
di
lunghe
miserie
,
di
molta
autentica
fame
,
di
abiti
poverissimi
,
di
teatri
squallidi
,
di
inverni
gelidi
,
di
lunghi
notturni
estenuanti
colpi
di
tosse
.
Era
piccola
,
magra
,
bruna
,
fu
detto
,
come
una
calabrese
.
Talvolta
la
sua
gracile
bellezza
fioriva
in
un
improvviso
turgore
dell
'
adolescenza
,
ma
poi
già
si
velava
d
'
ombre
,
si
scavava
intensamente
nelle
guance
dagli
zigomi
risentiti
.
L
'
alto
arco
delle
sopracciglia
sembrava
,
sugli
occhi
vasti
,
profondi
,
un
nido
di
interrogazioni
.
Ebbe
in
verità
,
come
le
maschere
del
Teatro
Antico
,
due
volti
:
l
'
uno
forte
,
sereno
,
anche
ridente
,
perché
non
sempre
la
sua
anima
era
solamente
dolore
;
l
'
altro
scolpito
con
i
segni
della
delusione
come
in
una
cera
scura
,
nella
cera
della
sofferenza
.
Il
volto
della
Locandiera
il
primo
:
quello
della
Signora
delle
camelie
,
il
secondo
.
Illusione
e
delusione
furono
in
modo
sovrano
le
due
espressioni
dominanti
di
quel
viso
che
diventò
celebre
in
tutto
il
mondo
;
reclinato
e
come
concentrato
sulla
fiamma
di
un
sorriso
che
dava
un
fremito
alla
bella
bocca
ampia
:
in
alto
nelle
interrogazioni
del
dolore
come
sotto
al
soffio
di
un
vento
che
volesse
tutto
rimodellarlo
,
in
un
sospiro
o
in
un
gemito
.
Diventò
donna
,
e
recitò
tutto
.
Non
poteva
permettersi
una
scelta
,
né
di
compagni
né
di
repertorio
.
Pareva
dovesse
restare
sempre
una
genericuccia
,
dicevano
che
non
aveva
voce
né
scatto
né
energia
di
dizione
:
pareva
non
avesse
mestiere
,
e
tanto
meno
,
davanti
a
sé
,
un
destino
.
A
Trieste
il
pubblico
fu
duro
:
chiese
che
venisse
cancellata
dalla
locandina
.
Poi
fu
un
primo
passo
avanti
,
recitando
vicino
al
Belli
-
Blanes
,
a
Giovanni
Emanuel
,
a
Giacinta
Pezzana
,
a
Cesare
Rossi
.
A
Napoli
,
una
sera
,
il
pubblico
ebbe
l
'
impressione
di
vedere
per
la
prima
volta
in
scena
la
vera
Ofelia
che
andava
verso
la
morte
.
Rossi
,
Emanuel
,
Giacinta
Pezzana
sono
i
primi
maestri
,
e
subito
la
Duse
diventa
una
loro
pari
.
Eleonora
è
portata
dalla
sorte
a
non
dovere
più
ripetere
l
'
accento
dei
vecchi
modesti
compagni
che
andavano
orecchiando
di
maniera
le
intonazioni
e
il
gesto
dei
grandi
attori
romantici
come
Salvini
e
la
Ristori
.
Rossi
,
Emanuel
e
la
grandissima
Pezzana
le
confermano
che
il
teatro
ha
una
voce
nuova
,
che
cammina
verso
una
verità
più
meditata
,
più
acuta
,
più
intensa
.
L
'
attrice
che
reciterà
Teresa
Raquin
scoprirà
che
il
romanticismo
è
finito
e
che
il
«
vero
»
sta
arrivando
alla
ribalta
.
La
sua
ansia
di
verità
non
chiede
altro
.
Scoperta
la
via
,
riconosce
che
è
quella
verso
cui
la
portava
il
suo
istinto
e
su
cui
la
guida
la
sua
giovanile
meditazione
.
Viene
l
'
ora
di
quelle
che
saranno
le
prime
grandi
creazioni
:
cominciano
gli
anni
vertiginosi
della
Principessa
di
Bagdad
,
della
Moglie
di
Claudio
,
della
Signora
delle
camelie
.
A
ventitré
anni
qualcuno
la
paragonava
già
alla
Bernhardt
.
Amò
.
Ma
l
'
uomo
della
leggenda
era
ancora
un
giovinetto
e
apparve
quando
già
la
giovinezza
di
Eleonora
cominciava
a
sfiorire
.
Amò
come
ogni
altra
donna
uomini
della
sua
vita
di
tutti
i
giorni
:
un
giornalista
napoletano
:
la
lasciò
con
un
figlio
in
grembo
che
doveva
morire
nascendo
.
Fu
sposa
,
ma
senza
torridi
fuochi
d
'
amore
,
di
un
compagno
d
'
arte
,
Tebaldo
Checchi
.
Amò
,
con
un
improvviso
ardore
,
il
compagno
d
'
arte
Flavio
Andò
che
recitava
con
lei
nella
Signora
delle
camelie
.
Per
lui
creò
il
grido
«
Armando
!
Armando
!...»,
che
diventò
leggenda
.
Ma
di
tutto
questo
,
sia
nelle
illusioni
che
negli
errori
-
come
il
distacco
dal
marito
che
lasciò
a
lei
la
cura
della
figlia
Enrichetta
-
si
parlava
,
a
quei
tempi
,
a
bassa
voce
.
La
storia
dei
«
palpiti
»
della
giovane
attrice
,
che
sta
già
conquistando
la
sua
celebrità
nel
mondo
,
non
giunge
che
sommessamente
al
di
là
del
sipario
.
Non
diventa
cronaca
.
Di
amore
,
per
lei
,
devono
parlare
palesemente
al
mondo
solo
i
personaggi
,
ed
ecco
la
Duse
creare
,
come
forse
nessuno
prima
di
lei
aveva
potuto
,
il
personaggio
a
cento
volti
che
sarà
per
tutta
la
vita
quello
della
grande
innamorata
.
La
donna
,
insomma
,
in
funzione
della
passione
,
della
gelosia
,
del
peccato
,
della
espiazione
,
dell
'
abbandono
quasi
allucinante
del
cuore
e
dei
sensi
:
in
funzione
anche
della
perfidia
,
della
civetteria
,
della
crudeltà
.
Non
più
l
'
eroismo
modellato
dalle
grandi
voci
del
romanticismo
,
ma
quello
della
quotidiana
verità
della
natura
umana
.
Verismo
o
cosiddetto
verismo
?
In
molti
casi
,
si
tratta
di
teatro
borghese
,
adattamento
«
domenicale
»
della
verità
,
in
modo
persino
vieto
e
frusto
.
La
Duse
non
amò
le
Odette
e
le
Fernande
.
Ma
essa
sapeva
essere
più
in
alto
dei
testi
che
recitava
,
più
forte
delle
«
battute
»
e
delle
«
scene
madri
»
,
perché
il
suo
lavoro
era
fatto
tutto
di
approfondimento
nell
'
interno
del
personaggio
,
o
,
come
amava
dire
,
nelle
sue
«
fodere
»
.
Cosa
trovava
là
dentro
?
Trovava
se
stessa
,
il
suo
io
di
donna
sempre
pronto
a
rivelarsi
e
a
moltiplicarsi
in
cento
aspetti
.
Non
più
adattamento
da
teatro
domenicale
,
ma
una
sua
verità
che
poteva
assomigliare
,
appunto
,
a
quella
di
Emma
Bovary
o
di
Anna
Karenina
.
L
'
ansia
per
un
«
vero
»
fatto
di
poesia
e
di
meditazione
l
'
agita
sempre
più
intensamente
.
Su
questa
strada
arriverà
a
Ibsen
,
e
sarà
un
giorno
,
a
trent
'
anni
,
l
'
interprete
di
Casa
di
bambola
.
Aveva
già
amato
un
poeta
.
Ma
l
'
amore
per
Boito
fu
probabilmente
l
'
unione
con
un
«
compagno
d
'
intelligenza
»
.
L
'
attrice
è
celebre
ormai
in
tutto
il
mondo
quando
incontra
quello
che
sarà
l
'
uomo
del
suo
destino
.
Per
D
'
Annunzio
fu
«
obbedienza
infiammata
»
.
Non
si
vuole
fare
il
processo
al
«
superuomo
»
.
Ella
stessa
non
lo
fece
mai
.
Sognò
per
lui
ogni
impresa
,
affrontò
ogni
sacrificio
,
lo
stimolò
a
creare
,
lo
difese
contro
il
pubblico
,
modificò
il
proprio
stile
per
adattarlo
alla
sua
parola
,
perdonò
certe
pagine
del
Fuoco
che
l
'
avevano
amareggiata
.
Per
lui
,
più
giovane
di
cinque
anni
,
la
Duse
combatte
la
battaglia
d
'
amore
della
donna
che
sente
già
la
propria
giovinezza
dileguare
.
Di
volta
in
volta
,
si
esalta
e
si
rattrista
e
in
segreto
si
umilia
.
Vuole
amare
le
cose
che
egli
ama
,
leggere
i
libri
ch
'
egli
legge
,
prediligere
le
pitture
,
i
luoghi
,
le
spiagge
che
quel
gran
«
cicerone
»
le
fa
conoscere
.
Anch
'
egli
l
'
ama
,
ma
non
con
devozione
eguale
.
La
Duse
ha
quarantacinque
anni
,
quando
D
'
Annunzio
scrive
la
Figlia
di
Jorio
.
Ma
il
canto
disperato
di
Mila
non
sarà
più
per
lei
dal
momento
in
cui
l
'
attrice
scopre
che
il
castello
dell
'
amore
si
è
incenerito
e
che
davanti
all
'
inganno
bisogna
uscirne
come
una
donna
velata
.
Sono
,
adesso
,
ancora
nuove
strade
,
nuovi
viaggi
,
nuove
esperienze
nei
nomi
di
Ibsen
,
di
Maeterlinck
,
di
Gor
'
kij
.
Essa
è
sempre
più
«
l
'
attrice
del
mondo
»
,
pallida
malata
,
con
un
viso
da
esilio
per
un
dolore
di
cui
non
parla
mai
.
Si
ritira
.
Comincia
il
grande
silenzio
.
Quattordici
anni
e
la
povertà
le
dice
:
«
Bisogna
ritornare
...
»
.
Ormai
la
sua
salute
è
minata
,
un
filo
d
'
aria
fredda
basta
a
ferirla
.
La
sera
del
grande
ritorno
una
specie
di
galleria
di
tela
si
dice
la
protegga
dalle
correnti
d
'
aria
quando
esce
dal
camerino
per
entrare
in
scena
.
Ha
i
capelli
bianchi
,
non
ha
voluto
nemmeno
un
filo
di
cipria
«
per
non
mentire
»
.
I
fiori
saranno
,
da
allora
in
poi
,
sempre
per
una
chiesa
.
«
Dammi
,
Signore
,
un
cuore
vigilante
in
modo
che
nessun
pensiero
estraneo
mi
porti
lontano
da
te
...
»
,
diceva
una
preghiera
che
le
era
cara
.
Ormai
era
tutta
nella
fede
.
Ancora
l
'
Europa
,
ancora
l
'
America
,
sempre
più
stanca
,
sempre
più
fragile
,
finché
basta
uno
scroscio
di
pioggia
,
sulla
porta
chiusa
del
teatro
di
Pittsburgh
,
per
spegnerla
.
Così
basta
poco
per
morire
alle
bambine
malate
del
paese
dei
suoi
avi
sui
canali
di
Chioggia
battuti
dal
vento
dell
'
Adriatico
,
là
nel
paese
dove
,
a
quattro
anni
,
aveva
recitato
la
parte
di
Cosetta
in
una
riduzione
dei
Miserabili
.
StampaPeriodica ,
Giuseppe
Grieco
,
dalla
quarta
sponda
del
Mare
Nostro
nell
'
ora
segnata
dal
destino
per
la
nostra
più
grande
ascesa
imperiale
:
Fra
i
tanti
miti
distrutti
o
sfatati
dall
'
attuale
conflitto
c
'
è
anche
quello
del
cosiddetto
"
onore
"
britannico
.
Eccetto
pochi
sparuti
gruppi
di
persone
legate
al
carro
demo
-
ebraico
di
Londra
,
da
per
tutto
si
elevano
voci
di
esecrazione
verso
l
'
Inghilterra
,
mentre
quei
paesi
la
cui
politica
era
fino
ad
ieri
completamente
infeudata
a
Londra
,
cercano
con
un
subitaneo
cambiamento
di
rotta
,
di
liberarsi
fino
al
fondo
di
tale
nefasta
eredità
.
Vista
sotto
questo
aspetto
,
la
nostra
lotta
assume
un
carattere
etico
ed
europeo
di
tale
grandezza
,
che
solo
i
ciechi
le
possono
negare
.
Tornando
all
"
'
onore
"
britannico
e
lasciando
da
parte
i
vari
Churchill
,
Eden
,
Duff
Cooper
e
compagni
,
apriamo
una
delle
tante
pagine
della
storia
del
Risorgimento
italiano
,
voglio
parlare
della
rivoluzione
napoletana
del
1799
,
e
vediamo
la
parte
avutavi
dagli
inglesi
.
Tralascio
l
'
opera
e
le
mene
della
famigerata
Lady
Hamilton
,
intima
della
regina
e
amante
di
Nelson
,
per
considerare
solo
quest
'
ultimo
.
Il
mozzo
diventato
ammiraglio
,
l
'
eroe
di
Abukir
,
non
ha
scusanti
,
egli
porta
intera
davanti
alla
storia
la
responsabilità
della
violazione
,
perpetrata
a
mente
fredda
,
della
capitolazione
dei
castelli
napoletani
,
firmata
tra
gli
altri
,
anche
dal
capitano
Foote
,
comandante
della
fregata
"
Cavallo
marino
,
"
a
nome
di
S
.
M
.
Britannica
.
Il
trattato
impegnava
dunque
solennemente
l
'
onore
della
nazione
britannica
,
alleata
di
S
.
M
.
il
Re
delle
due
Sicilie
,
come
fece
bene
notare
il
Cardinale
Ruffo
nel
suo
colloquio
con
Nelson
e
gli
Hamilton
.
Ma
l
Eroe
fu
inamovibile
.
Passò
su
tutto
,
anche
sull
'
onore
britannico
e
la
vistò
.
Invano
si
oppose
il
Ruffo
,
che
non
era
affatto
l
'
uomo
della
leggenda
liberale
,
ma
un
italiano
di
buona
tempra
,
discendente
di
antichissima
famiglia
contro
la
volontà
dell
'
onnipotente
"
Eroe
"
inglese
non
potette
far
niente
,
anzi
poco
mancò
che
non
lasciasse
anche
lui
la
testa
sul
patibolo
,
come
era
nei
voti
di
Acton
,
di
Nelson
,
degli
Hamilton
e
della
regina
.
Ho
citato
quest
'
episodio
della
storia
del
Risorgimento
italiano
,
perché
più
di
qualsiasi
dissertazione
teorica
rivela
il
carattere
della
mentalità
inglese
.
L
'
inglese
si
considera
superiore
a
tutti
gli
altri
popoli
i
quali
debbono
a
lui
quel
tributo
di
omaggio
e
di
servitù
che
l
'
inferiore
deve
al
superiore
.
Chi
non
serve
agli
interessi
inglesi
,
o
peggio
,
vi
si
ribella
,
è
la
pecora
nera
che
va
radiata
dal
consorzio
"
civile
"
con
ogni
mezzo
.
L
'
onore
non
conta
.
Concludendo
,
l
'
"
onore
"
inglese
è
rimasto
fondamentalmente
quello
dei
vari
Drake
e
compagni
che
crearono
,
a
scopo
piratesco
,
la
prima
marineria
britannica
.
Mercante
e
pirata
,
ecco
il
vero
volto
dell
'
inglese
,
quando
cade
la
maschera
sovrappostavi
da
secoli
di
"
ipocrisia
"
e
di
"politica."
Questa
seconda
e
più
feroce
Cartagine
,
ora
che
è
ridotta
agli
estremi
,
scopre
gli
artigli
in
un
ultimo
disperato
tentativo
di
resistenza
.
Invano
.
La
nuova
Europa
creata
da
Mussolini
e
da
Hitler
le
sta
sopra
brandendo
la
spada
della
giustizia
.
E
giustizia
sarà
fatta
.
StampaQuotidiana ,
La
sera
del
3
marzo
1904
si
alzò
per
la
prima
volta
il
sipario
sulla
vicenda
di
Aligi
e
di
Mila
di
Codra
.
Nasceva
alla
vita
dello
spettacolo
,
dopo
esser
nata
sui
grandi
fogli
di
carta
a
mano
del
manoscritto
-
fu
poi
riprodotto
in
un
facsimile
che
reca
tutte
le
tracce
della
sua
elaborazione
-
la
Figlia
di
Jorio
.
II
sipario
si
aprì
puntualmente
alle
20.45
.
Per
chi
volesse
saperlo
,
i
prezzi
d
'
ingresso
al
teatro
Lirico
di
Milano
erano
,
per
quei
tempi
,
eccezionalissimi
.
I
palchi
costavano
120
lire
:
una
poltrona
30
lire
.
Prezzi
,
dunque
,
scaligeri
.
Nevicava
fitto
.
Una
fila
interminabile
di
carrozze
padronali
,
con
pariglie
e
cocchieri
in
tuba
,
sostava
sotto
alla
neve
in
via
Larga
e
nelle
strade
adiacenti
.
Gabriele
d
'
Annunzio
avrebbe
compiuto
di
lì
a
pochi
giorni
i
quarantun
anni
.
Virgilio
Talli
,
che
aveva
messo
in
scena
la
«
tragedia
pastorale
»
e
guidato
e
concertato
la
recitazione
,
ne
aveva
quarantasette
,
come
Oreste
Calabresi
cui
era
affidato
il
ruolo
di
Lazaro
di
Rojo
.
Ruggero
Ruggeri
che
vestiva
i
panni
di
Aligi
ne
aveva
trentatré
,
e
trentuno
Irma
Gramatica
,
cui
era
stata
affidata
la
parte
della
protagonista
.
La
Talli
-
Gramatica
-
Calabresi
(
Ruggeri
non
aveva
ancora
il
nome
«
in
ditta
»
,
come
si
dice
nel
gergo
dei
comici
)
era
indicata
,
nelle
conversazioni
degli
appassionati
di
teatro
,
come
la
«
compagnia
dei
giovani
»
,
animata
,
pur
sotto
la
disciplina
ferrea
di
Talli
,
da
tendenze
«
rivoluzionarie
»
.
Lyda
Borelli
faceva
parte
della
compagnia
nel
gruppo
delle
attrici
giovani
:
ed
era
appena
una
giovinetta
.
Le
erano
affidate
le
battute
di
Favetta
.
Ornella
-
ecco
un
nome
inventato
da
D
'
Annunzio
che
diventò
popolare
quasi
come
quelli
dei
personaggi
dei
melodrammi
:
furono
moltissime
le
bambine
che
ebbero
il
suo
nome
-
era
Giannina
Chiantoni
.
Il
poeta
non
aveva
avuto
sempre
favorevole
il
pubblico
nelle
sue
prove
di
autore
teatrale
:
aveva
conosciuto
,
anzi
,
qualche
duro
assalto
negativo
da
parte
delle
platee
,
per
quanto
sostenuto
con
appassionata
fede
da
Eleonora
Duse
,
che
gli
era
stata
compagna
in
tutte
le
sue
esperienze
di
palcoscenico
.
L
'
attesa
era
,
in
ogni
modo
,
immensa
.
La
vittoria
doveva
essere
superba
:
certamente
la
più
alta
di
tutto
il
teatro
dannunziano
.
Una
cronaca
dell
'
«
Illustrazione
Italiana
»
narra
che
il
poeta
fu
chiamato
alla
ribalta
«
le
dieci
,
le
quindici
volte
...
»
.
Era
proprio
il
segno
del
trionfo
perché
,
in
quegli
anni
,
due
o
tre
chiamate
dopo
ogni
atto
già
erano
la
misura
di
un
vivo
successo
.
Il
teatro
di
prosa
non
conosceva
una
robusta
claque
.
Da
parte
di
Virgilio
Talli
fu
la
prova
più
alta
e
più
faticosa
delle
sue
capacità
di
«
regista
»
,
come
si
direbbe
oggi
:
di
«
capocomico
»
come
si
diceva
allora
.
E
fu
anche
una
prova
di
diplomazia
,
di
pazienza
,
di
sottile
intuito
organizzativo
.
Il
grande
«
capocomico
»
non
doveva
armeggiare
solamente
per
rispondere
degnamente
all
'
attesa
e
alle
esigenze
dello
scrittore
:
doveva
anche
,
senza
mostrare
di
immischiarsi
nei
fatti
personali
dell
'
autore
,
prevedere
,
ed
esser
pronto
ad
agire
di
conseguenza
,
una
grossa
crisi
di
carattere
sentimentale
che
avrebbe
potuto
mettere
in
pericolo
,
da
un
momento
all
'
altro
,
la
realizzazione
dello
spettacolo
.
La
cronaca
,
oggi
,
si
impadronisce
subito
di
qualsiasi
episodio
sentimentale
delle
dive
.
Viviamo
nel
tempo
delle
conferenze
stampa
,
nel
corso
delle
quali
mogli
o
amanti
che
si
suppongono
tradite
dettano
ai
cronisti
la
storia
dei
loro
dissidi
d
'
amore
.
Allora
,
nel
1904
,
la
discrezione
della
stampa
era
ancora
obbligatoria
.
Delle
avventure
sentimentali
si
parlava
sottovoce
.
Le
amanti
deluse
piangevano
in
silenzio
,
senza
offrire
le
proprie
lacrime
ai
lampi
dei
fotoreporters
.
L
'
andata
in
scena
della
Figlia
di
Jorio
doveva
coincidere
con
la
crisi
finale
di
quella
che
,
dopo
l
'
amore
di
De
Mussct
per
George
Sand
,
poteva
essere
definita
«
la
passione
del
secolo
»
.
Sarebbe
inutile
,
di
ciò
,
ricercare
la
traccia
nei
giornali
del
1904
,
.
e
,
per
molti
anni
ancora
,
ricercarne
qualche
indicazione
precisa
nei
libri
di
storia
e
di
biografia
teatrale
.
L
'
autobiografia
di
'
falli
è
molto
velata
in
proposito
.
I
libri
che
narrano
la
vita
della
Duse
-
almeno
quelli
scritti
sotto
la
sua
diretta
ispirazione
-
usano
,
in
proposito
,
lunghe
,
caute
,
morbide
perifrasi
.
La
versione
ufficiale
dei
fatti
che
portarono
alla
rinuncia
della
Duse
a
dare
vita
al
personaggio
di
Mila
di
Codra
è
quella
che
attribuisce
la
rinuncia
ad
un
«
molesto
raffreddore
»
.
Virgilio
Talli
non
aveva
studiato
medicina
,
ma
con
tutta
probabilità
aveva
previsto
questo
«
raffreddore
»
sino
da
otto
mesi
prima
quando
tramite
Adolfo
Orvieto
-
il
direttore
del
Marzocco
-
era
stato
convocato
da
D
'
Annunzio
alla
Capponcina
per
sentirsi
affidare
la
messa
in
scena
della
tragedia
.
D
'
Annunzio
e
Talli
erano
stati
compagni
di
collegio
al
Cicognini
di
Prato
.
Talli
che
aveva
sei
anni
più
cli
D
'
Annunzio
era
stato
,
al
Cicognini
,
uno
,
dei
«
grandi
»
,
mentre
il
figlio
del
pescarese
don
Francesco
d
'
Annunzio
era
uno
dei
«
piccoli
»
.
S
'
erano
poi
,
effettivamente
,
perduti
di
vista
,
Il
poeta
,
incontrandosi
con
Talli
nell
'
atmosfera
di
sagrestia
e
di
antiquariato
che
caratterizzava
l
'
arredamento
della
villetta
fiesolana
,
evocò
a
lungo
,
e
molto
con
l
'
immaginazione
,
gli
anni
di
collegio
.
Poi
raccontò
la
trama
della
tragedia
.
Il
nome
e
la
figura
della
Figlia
di
Jorio
erano
già
noti
attraverso
il
quadro
di
Francesco
Paolo
Michetti
che
,
vari
anni
prima
,
aveva
avuto
un
successo
clamoroso
di
pubblico
.
D
'
Annunzio
disse
che
la
parte
di
Mila
sarebbe
stata
interpretata
da
Eleonora
Duse
,
almeno
nelle
città
principali
,
e
soprattutto
nella
prima
presentazione
dell
'
opera
al
pubblico
.
Innanzi
a
tanto
nome
Talli
non
aveva
che
da
inchinarsi
.
In
quanto
ad
essere
sicuro
di
aver
Eleonora
alla
«
prima
»
aveva
segretamente
molti
dubbi
.
Per
quanto
le
cronache
fossero
,
in
materia
di
«
notiziari
amorosi
»
,
assolutamente
mute
,
nessuno
ignorava
-
e
forse
non
lo
ignorava
la
stessa
Duse
-
che
una
nuova
donna
era
entrata
nel
labirinto
di
fascini
del
poeta
.
Si
trattava
di
una
donna
giovane
e
molto
bella
,
di
alta
nascita
-
era
figlia
di
un
presidente
del
Consiglio
dei
ministri
-
e
di
nobile
matrimonio
.
Alessandra
Starabba
di
Rudinì
maritata
marchesa
Carlotti
,
la
cui
vita
doveva
essere
travolta
dal
tempestoso
sentimento
che
la
unì
al
poeta
e
che
doveva
trovare
pace
più
tardi
solamente
quando
volle
vestire
l
'
abito
di
clausura
delle
Carmelitane
,
aveva
sollevato
grande
rumore
negli
ambienti
del
patriziato
veronese
con
i
suoi
atteggiamenti
e
costumi
di
donna
«
moderna
»
.
Ancora
molti
anni
dopo
,
a
Verona
,
le
signore
la
ricordavano
alla
guida
di
un
tiro
a
quattro
o
in
sella
di
maldomi
cavalli
da
corsa
.
Si
favoleggiava
che
,
dovendo
per
la
prima
volta
ricevere
il
poeta
nella
sua
villa
,
avesse
fatto
cospargere
di
rose
tutto
il
viale
del
parco
.
Il
poeta
l
'
aveva
incontrata
a
Firenze
e
,
poi
,
sulla
riva
del
Garda
,
a
San
Vigilio
,
dove
la
marchesa
possedeva
una
grande
villa
.
Essa
era
insomma
colei
che
,
nella
biografia
delle
donne
che
hanno
impegnato
il
loro
cuore
nella
fede
per
D
'
Annunzio
,
prese
il
nome
di
«
Dama
del
Garda
»
.
La
collaborazione
teatrale
fra
il
poeta
e
la
«
divina
Eleonora
»
era
,
prima
di
tutto
,
alleanza
di
un
amore
entusiastico
.
Si
sarebbe
mantenuta
questa
collaborazione
il
giorno
in
cui
Eleonora
avesse
dubitato
,
o
saputo
con
certezza
,
di
questo
nuovo
«
romanzo
»
di
Gabriele
?
Era
ciò
che
rendeva
assai
perplesso
Talli
il
quale
ad
ogni
buon
conto
-
egli
aveva
anche
la
responsabilità
organizzativa
ed
economica
dello
spettacolo
-
per
evitare
troppo
gravi
sorprese
pensò
bene
,
ad
insaputa
del
poeta
,
di
passare
il
copione
in
lettura
a
Irma
Gramatica
,
dicendole
di
tenersi
pronta
non
solo
per
le
«
riprese
»
della
tragedia
pastorale
,
ma
,
addirittura
,
per
la
«
prima
»
qualora
il
segreto
dramma
d
'
amore
della
Duse
fosse
giunto
ad
una
crisi
irreparabile
.
Tutto
questo
retroscena
non
era
materia
di
cronaca
,
ma
era
noto
negli
ambienti
teatrali
,
e
di
qui
,
con
i
«
si
dice
»
dei
salotti
mondani
,
era
diventato
notissimo
anche
al
pubblico
.
La
curiosità
per
l
'
imminente
avvenimento
ne
era
così
anche
più
acuita
.
E
intanto
si
parlava
dell
'
impegno
con
cui
gli
amici
abruzzesi
di
Gabriele
,
con
alla
testa
Michetti
,
andavano
raccogliendo
nei
villaggi
d
'
Abruzzo
tutta
la
suppellettile
folcloristica
necessaria
per
la
messa
in
scena
:
vecchi
costumi
,
orci
,
borracce
intarsiate
,
gioielli
,
scialli
,
scapolari
.
Michetti
e
Ferraguti
preparavano
i
bozzetti
per
le
scene
che
Rovescalli
,
lo
scenografo
della
Scala
,
doveva
dipingere
in
grande
.
Michetti
disegnava
il
costume
di
Mila
per
la
Duse
e
il
bozzetto
veniva
mandato
da
Talli
alla
sartoria
teatrale
.
Il
poeta
aveva
letto
il
copione
agli
attori
e
Irma
Gramatica
-
che
lo
aveva
già
letto
di
nascosto
-
obbedendo
a
Talli
fingeva
di
non
conoscerne
nemmeno
una
parola
.
D
'
Annunzio
continuava
a
parlare
della
Duse
come
di
una
interprete
sicura
.
Ed
egli
era
forse
sicuro
che
,
all
'
ultimo
,
la
sua
autorità
di
poeta
avrebbe
avuto
il
potere
di
placare
nella
Duse
le
ansie
,
i
crucci
,
le
gelosie
della
donna
.
Si
vide
che
egli
si
era
sbagliato
.
E
le
cronache
cominciarono
a
parlare
della
salute
della
Duse
,
di
vaghe
indisposizioni
,
di
abbassamenti
di
voce
,
di
persistenti
faringiti
.
Quello
che
segretamente
giungeva
alla
sua
conclusione
,
mentre
si
iniziavano
le
prove
,
era
il
dramma
più
grave
e
tormentoso
della
vita
della
grande
attrice
.
Alla
fine
si
capì
che
era
impossibile
parlare
di
accomodamenti
e
di
rinvii
.
Velatamente
,
raccontando
la
vita
della
Duse
,
Olga
Signorelli
,
richiamandosi
ad
un
brano
del
Fuoco
,
dice
così
di
quell
'
ora
:
«...Nulla
era
accaduto
,
nulla
accadeva
...
Nessuna
parola
era
stata
proferita
che
stabilisse
un
termine
,
che
accennasse
ad
una
interruzione
...
E
nondimeno
ella
sentiva
in
quel
punto
l
'
impossibilità
assoluta
di
seguitare
a
vivere
accanto
all
'amato...»
.
La
crisi
arrivava
al
culmine
.
Meno
poeticamente
Talli
,
che
era
stato
in
grande
agitazione
e
l
'
aveva
confidato
a
Marco
Praga
fin
dal
gennaio
-
il
poeta
era
spessissimo
a
Verona
,
si
sapeva
perché
e
nelle
sue
epistole
parlava
lietamente
di
cavalcate
e
di
cacce
-
racconta
che
,
alla
fine
,
il
poeta
stesso
aveva
detto
non
esser
«
ormai
prudente
prolungare
troppo
un
'
illusione
che
avrebbe
potuto
procurare
dispiaceri
non
lievi
...
»
.
Il
nome
della
Duse
non
fu
più
pronunciato
e
il
costume
di
Mila
fu
portato
nel
camerino
di
Irma
Gramatica
.
La
sera
del
3
marzo
,
a
Genova
,
costretta
a
letto
in
albergo
dalla
febbre
,
avendo
compagna
Matilde
Serao
,
Eleonora
Duse
,
mentre
a
Milano
si
apriva
il
sipario
del
Lirico
,
declamò
a
se
stessa
la
tragedia
.
La
sapeva
a
memoria
dal
primo
all
'
ultimo
verso
.
E
continuò
sino
alla
fine
,
nella
notte
,
sino
alla
battuta
suprema
:
«
La
fiamma
è
bella
!
La
fiamma
è
bella
!
»
.
Intanto
,
mentre
l
'
ispiratrice
piangeva
disfatta
sul
cuscino
,
il
pubblico
chiamava
il
poeta
in
trionfo
alla
ribalta
.
La
Figlia
di
Jorio
iniziava
la
sua
vita
di
poesia
:
Eleonora
Duse
quella
della
sua
lunga
disperata
melanconia
.
StampaPeriodica ,
Abbiamo
scartato
nell
'
articolo
introduttivo
alla
prima
tappa
di
questo
viaggio
razziale
il
cosiddetto
razzismo
spirituale
o
spiritualistico
,
come
quello
che
,
sotto
lo
specioso
pretesto
di
tener
lontano
il
concetto
di
razza
e
di
difesa
della
razza
da
ogni
contaminazione
zoologica
,
ne
annebbia
in
realtà
il
significato
fino
al
punto
di
sottometterlo
alla
volontà
del
singolo
e
di
fame
un
valore
soggettivo
.
La
zoologia
è
lontana
dal
razzismo
tanto
quanto
le
bestie
sono
lontane
dall
'
uomo
;
e
chi
teme
una
confusione
fra
razzismo
e
zoologia
o
uno
sconfinamento
del
primo
nella
seconda
,
non
è
evidentemente
troppo
convinto
delle
proprie
prerogative
di
uomo
.
Altri
,
più
accorti
,
non
cadono
nell
'
equivoco
zoologico
:
ma
affermano
che
la
spiritualizzazione
del
razzismo
è
necessaria
a
preservarci
da
un
altro
pericolo
:
quello
di
cadere
in
un
razzismo
puramente
politico
.
Diciamo
subito
che
il
pericolo
non
ci
spaventa
;
anzi
,
ci
attrae
.
Il
razzismo
in
Italia
è
nato
politico
;
è
politico
;
rimarrà
fondamentalmente
politico
.
Come
il
Fascismo
,
di
cui
la
politica
razziale
è
un
aspetto
.
Il
fatto
che
esista
una
dottrina
del
Fascismo
non
deve
trarre
in
inganno
nessuno
.
La
dottrina
esiste
per
la
necessità
che
ha
l
'
uomo
di
trasformare
in
regole
le
proprie
esperienze
di
vita
,
di
risalire
al
permanente
attraverso
il
contingente
;
ma
in
realtà
i
fenomeni
che
si
muovono
,
vitali
,
nel
perenne
fluire
della
Storia
,
non
sono
suscettibili
di
razionali
legami
e
sfuggono
ad
ogni
definizione
precisa
.
La
dottrina
del
Fascismo
non
va
intesa
come
anticipata
canonizzazione
di
tutto
il
Fascismo
,
ma
come
guida
a
meglio
comprendere
le
scaturigini
ideali
e
i
profondi
significati
del
movimento
mussoliniano
.
Così
la
dottrina
del
razzismo
fascista
,
che
noi
non
vogliamo
diminuire
né
svalutare
,
da
qualunque
punto
di
vista
essa
si
sforzi
di
approfondire
il
concetto
di
razza
;
ma
che
non
deve
indurci
,
d
'
altronde
,
a
considerare
il
nostro
razzismo
come
fenomeno
ormai
consegnato
al
tempo
e
tranquillamente
definibile
e
codificabile
.
Il
nostro
razzismo
è
in
atto
.
Non
soltanto
non
ha
esaurito
il
suo
compito
come
troppi
vorrebbero
,
ma
non
ha
neppure
cominciato
ad
espletarlo
in
pieno
.
Siamo
ancora
nella
prima
fase
;
si
costruiscono
le
fondamenta
.
Una
coscienza
razziale
sta
faticosamente
nascendo
in
Italia
;
e
l
'
avverbio
non
è
eccessivo
,
perché
se
da
un
lato
la
nostra
razza
è
tra
le
più
antiche
e
gloriose
e
pure
e
compatte
,
dall
'
altro
l
'
equivoco
dell
'
universalismo
pesa
terribilmente
sulla
nostra
cultura
e
fa
parer
sospetto
tutto
ciò
che
tende
ad
individuarci
rigorosamente
e
a
darci
una
gelosa
coscienza
nazionale
.
È
una
lotta
assai
simile
a
quella
che
in
un
altro
campo
il
Fascismo
ha
sostenuto
per
rendere
popolare
il
concetto
di
Autarchia
;
ma
più
difficile
,
perché
i
vantaggi
materiali
della
Autarchia
e
i
pericoli
della
soggezione
economica
all
'
estero
specie
dopo
l
'
esperimento
sanzionista
sono
assai
più
chiaramente
e
immediatamente
percepibili
dei
vantaggi
di
una
netta
individualità
razziale
e
dei
pericoli
di
una
,
sia
pur
parziale
e
dissimulata
,
dipendenza
da
altre
razze
.
Eppure
,
il
problema
è
unico
.
La
difesa
della
razza
è
una
forma
di
autarchia
,
anzi
,
è
l
'
autarchia
delle
autarchie
;
e
l
'
autarchia
si
risolve
in
un
potenziamento
di
tutti
i
mezzi
atti
a
difendere
la
razza
.
Non
si
può
seriamente
dire
ad
un
popolo
:
"
Basta
a
te
stesso
"
se
non
gli
si
è
detto
:
"
Sii
te
stesso
!
"
;
non
si
può
conquistare
in
pieno
la
propria
personalità
fisica
,
morale
e
spirituale
,
che
è
quanto
dire
la
propria
razza
,
se
non
si
posseggono
i
mezzi
per
difendere
tale
personalità
da
ogni
assalto
esteriore
.
Chi
insiste
nel
sostenere
che
il
razzismo
italiano
è
una
merce
d
'
importazione
,
dovrebbe
riflettere
a
questa
complementarietà
fra
difesa
razziale
e
potenziamento
autarchico
della
Nazione
:
il
razzismo
non
può
essere
che
originale
,
anzi
è
per
definizione
l
'
originalità
stessa
,
e
si
risolve
in
un
progressivo
irrobustirsi
delle
radici
dell
'
individuo
e
della
Nazione
e
nell
'
inesorabile
lotta
contro
ogni
specie
di
parassiti
.
Si
pensi
al
parassitismo
ebraico
:
il
primo
nemico
della
battaglia
razziale
come
di
quella
autarchica
;
il
nemico
più
pericoloso
perché
internazionalmente
organizzato
e
fornito
delle
armi
meglio
dissimulate
.
Ci
si
ricordi
che
la
più
vasta
congiura
ordita
per
strangolare
la
razza
italiana
la
congiura
sanzionista
nacque
proprio
sul
terreno
economico
,
ebbe
gli
ebrei
per
principali
artefici
e
suscitò
la
meravigliosa
reazione
autarchica
.
C
'
è
,
come
si
diceva
,
il
pregiudizio
universalistico
.
L
'
universalismo
,
a
parere
di
molti
,
sarebbe
la
nostra
grandezza
;
buttandolo
alle
ortiche
,
noi
rinnegheremmo
la
parte
migliore
delle
nostre
tradizioni
.
Quali
tradizioni
?
Se
veramente
gloriose
,
esse
si
possono
ricondurre
sostanzialmente
ad
una
:
la
tradizione
di
Roma
.
Roma
fu
ed
è
universale
;
ma
lo
fu
e
lo
è
in
modo
attivo
,
riempiendo
di
sé
,
dei
suoi
soldati
o
della
sua
fede
o
del
suo
diritto
o
della
sua
dottrina
politica
e
sociale
,
l
'
universo
intero
.
Ciò
non
contrasta
affatto
con
la
coscienza
di
razza
,
anzi
,
è
la
sublimazione
di
tale
coscienza
,
che
tanto
si
potenzia
da
attrarre
a
sé
e
a
sé
sottoporre
,
senza
menomare
la
propria
individualità
,
le
espressioni
civili
delle
altre
razze
.
Così
come
l
'
autarchia
non
è
in
contrasto
con
l
'
esportazione
,
anzi
,
tende
in
ultima
analisi
ad
accrescerla
.
Ma
i
signori
universalisti
non
sognano
purtroppo
l
'
Italia
integra
e
quadrata
delle
legioni
o
dei
Santi
,
ma
una
Italia
-
bordello
,
in
cui
sia
possibile
albergare
cortesemente
i
più
noti
cialtroni
dell
'
antifascismo
internazionale
,
proteggendoli
sotto
l
'
usbergo
di
una
cultura
che
si
sottrae
ad
ogni
determinazione
nazionale
e
razziale
;
gli
universalisti
sognano
le
conversazioni
da
salotto
della
marchesa
X
o
della
baronessa
Y
,
come
alcune
signore
sognano
il
cappellino
di
Parigi
o
il
tessuto
di
Londra
.
Del
resto
,
questa
piaga
è
ben
nota
.
Nel
'700
,
come
nell'800
,
come
nel
'900
,
in
arte
come
in
letteratura
come
in
politica
,
coloro
che
si
son
voluti
spacciare
per
moderni
si
sono
beati
di
universalismo
o
di
cosmopolitismo
,
come
si
preferiva
dire
una
volta
.
Bisognerebbe
riesumare
le
frustate
del
Baretti
,
ma
sarebbe
troppo
onore
,
poiché
egli
combatteva
almeno
contro
gente
fornita
di
vasta
e
solida
cultura
;
mentre
gli
universalisti
del
giorno
d
'
oggi
non
hanno
di
universale
che
l
'
ignoranza
.
Essere
razzisti
significa
essere
Italiani
;
e
non
v
'
è
modo
migliore
di
esserlo
di
quello
che
lavorare
per
l
'
Italia
.
I
migliori
razzisti
sono
i
contadini
,
gli
operai
,
coloro
che
quotidianamente
hanno
il
privilegio
di
misurare
,
nella
fatica
delle
proprie
braccia
,
la
faticosa
ascesa
del
lavoro
italiano
.
I
migliori
razzisti
sono
soprattutto
i
coloni
e
gli
operai
delle
città
volute
e
fondate
da
Mussolini
,
delle
città
autarchiche
per
eccellenza
.
Studiammo
,
la
volta
scorsa
,
la
nuova
razza
che
,
sotto
l
'
auspicio
mussoliniano
,
sta
sorgendo
nell
'
Agro
Pontino
;
ci
accingiamo
adesso
a
studiare
la
nuova
razza
di
Arsia
,
la
città
del
carbone
.
Studiare
è
mal
detto
;
si
tratta
di
contemplare
e
di
sentire
.
È
un
mondo
nuovo
che
sorge
attorno
a
noi
;
nuovo
e
antico
,
come
l
'
Italia
.
È
il
trionfo
del
lavoro
ed
è
al
tempo
stesso
il
sovvertimento
del
concetto
di
lavoro
lasciatoci
,
in
triste
e
malsano
retaggio
,
dall
'
Ottocento
.
Il
problema
sociale
,
la
lotta
di
classe
,
i
sacri
diritti
:
vocaboli
vuoti
di
senso
.
Qui
c
'
è
soltanto
una
razza
che
ha
ritrovato
se
stessa
,
che
vuol
bastare
a
se
stessa
,
che
lavora
per
la
propria
vita
e
la
propria
grandezza
.
Nel
solco
tracciato
dall
'
aratro
come
nelle
anfrattuosità
che
la
perforatrice
va
duramente
esplorando
,
è
il
seme
:
il
lavoro
.
E
questa
è
la
vera
Italia
.