StampaQuotidiana ,
Henry
Kissinger
è
un
classico
.
Zbigniew
Brzezinski
è
,
al
contrario
,
un
romantico
.
Il
primo
,
un
americano
nato
in
Baviera
da
una
famiglia
ebrea
tedesca
sfuggita
al
nazismo
,
è
fedele
alla
tradizione
europea
basata
sull
'
equilibrio
delle
potenze
.
Il
secondo
,
un
americano
di
origine
cattolica
polacca
,
è
vincolato
all
'
ideologia
ed
è
più
brutale
,
al
tempo
stesso
più
innovatore
.
Da
queste
posizioni
,
i
due
grandi
intellettuali
,
tanto
utili
per
capire
i
rapporti
degli
Stati
Uniti
con
il
resto
del
mondo
,
esprimono
ovviamente
giudizi
assai
diversi
sulla
crisi
balcanica
.
KISSINGER
critica
le
democrazie
occidentali
(
vale
a
dire
Clinton
)
per
avere
proposto
a
Rambouillet
una
soluzione
inaccettabile
per
i
serbi
e
paventa
il
vuoto
che
aprirebbe
la
scomparsa
della
Serbia
dallo
scacchiere
dei
Balcani
.
All
'
opposto
Brzezinski
è
interventista
:
anche
perché
(
con
slancio
polacco
)
al
di
là
di
Milosevic
impegnato
a
reprimere
i
kosovari
vede
il
russo
Eltsin
che
ha
fatto
altrettanto
in
Cecenia
,
ed
altresì
il
regime
bielorusso
"
ammiratore
di
Hitler
"
,
e
perciò
tanto
solidale
con
quello
jugoslavo
di
Belgrado
.
Entrambi
,
Kissinger
e
Brzezinski
,
prevedono
l
'
impiego
delle
truppe
di
terra
.
Kissinger
lo
considera
una
conseguenza
ineluttabile
della
campagna
in
corso
:
la
quale
,
una
volta
cominciata
,
non
può
più
essere
sospesa
e
ancor
meno
chiusa
prima
di
avere
raggiunto
l
'
obiettivo
.
La
posta
in
gioco
è
ormai
troppo
alta
:
è
in
ballo
la
sopravvivenza
della
Nato
,
spina
dorsale
dell
'
impero
in
un
'
area
essenziale
quale
è
l
'
Europa
:
quindi
irrinunciabile
.
Anche
Brzezinski
vede
in
un
eventuale
cedimento
di
fronte
a
Milosevic
il
funerale
della
Nato
,
ma
per
lui
la
discesa
degli
occidentali
al
suolo
non
è
la
fatale
conseguenza
dell
'
intervento
,
è
un
atto
dovuto
:
è
il
passaggio
da
una
strategia
cauta
e
graduale
,
insomma
insufficiente
sul
piano
militare
,
a
una
strategia
intensiva
e
massiccia
,
la
sola
risposta
appropriata
"
al
genocidio
e
alla
pulizia
etnica
cui
stiamo
assistendo
"
.
Mi
pare
implicita
in
Brzezinski
la
condanna
definitiva
di
Milosevic
.
Come
si
può
trattare
con
il
responsabile
di
un
genocidio
?
Egli
va
del
resto
oltre
suggerendo
la
confisca
dei
beni
jugoslavi
in
Occidente
al
fine
di
risarcire
gli
abitanti
del
Kosovo
.
Traspare
invece
in
Kissinger
la
preoccupazione
del
vuoto
che
si
può
creare
in
Serbia
.
Il
suo
vocabolario
è
comunque
più
castigato
.
Dietro
questi
giudizi
sul
primo
conflitto
"
caldo
"
in
Europa
dal
1945
,
si
intravedono
due
visioni
del
ruolo
degli
Stati
Uniti
nel
mondo
postcomunista
,
in
cui
sono
rimasti
la
sola
superpotenza
in
esercizio
.
Due
visioni
basate
su
esperienze
dirette
circa
le
possibilità
e
i
limiti
dell
'
azione
americana
,
essendo
sia
Kissinger
sia
Brzezinski
due
professori
universitari
,
due
analisti
,
due
politologi
,
che
hanno
lavorato
nei
meccanismi
del
potere
:
il
primo
come
segretario
di
Stato
con
Nixon
;
il
secondo
come
consigliere
per
la
sicurezza
con
Carter
,
e
poi
consigliere
di
Reagan
durante
la
crisi
polacca
,
che
ha
preceduto
il
crollo
dell
'
Unione
Sovietica
(
e
,
in
quello
stesso
periodo
,
alleato
-
complice
di
Papa
Wojtyla
:
il
quale
,
adesso
,
nella
crisi
balcanica
,
si
trova
invece
sull
'
opposto
fronte
pacifista
)
.
Potrei
certo
ricorrere
ad
altri
intellettuali
americani
con
un
'
esperienza
del
genere
alle
spalle
.
Penso
a
James
Schlesinger
,
ex
segretario
alla
Difesa
ed
ex
capo
della
Cia
,
autore
di
Fragmentation
and
Hubris
.
A
Shaky
Basis
for
American
Leadership
:
in
cui
si
descrive
un
'
America
più
dedita
agli
interessi
particolari
che
agli
interessi
nazionali
,
e
indifferente
alle
sorti
del
mondo
,
nonostante
il
potere
,
la
Casa
Bianca
,
gli
dedichi
appassionati
discorsi
.
Penso
anche
a
Richard
Haass
,
ex
collaboratore
del
National
Security
Council
,
autore
di
Reluctant
Sheriff
.
The
United
States
after
the
Cold
War
"
:
in
cui
è
analizzata
proprio
la
ripugnanza
americana
a
intervenire
militarmente
con
il
rischio
di
perdite
umane
.
Ripugnanza
,
secondo
Haass
,
che
limita
e
rende
effimera
l
'
egemonia
americana
.
Kissinger
e
Brzezinski
hanno
espresso
tuttavia
con
maggior
chiarezza
,
per
noi
europei
,
la
loro
visione
in
due
opere
recenti
:
il
primo
in
Diplomacy
,
il
secondo
in
The
Grand
Chessboard
:
e
il
fatto
che
nel
suo
libro
Kissinger
abbia
soprattutto
analizzato
con
fredda
intelligenza
il
passato
e
Brzezinski
abbia
affrontato
con
geniale
passione
il
futuro
,
rende
ancora
più
interessanti
i
loro
discorsi
.
I
quali
,
alla
fine
,
guidati
entrambi
dalla
Storia
,
sostanzialmente
convergono
.
Kissinger
ci
presenta
il
carattere
ambivalente
degli
Stati
Uniti
:
da
un
lato
il
paese
isolazionista
,
la
cui
vocazione
si
limita
ad
essere
un
esempio
per
il
resto
dell
'
umanità
;
dall
'
altro
il
paese
interventista
,
la
cui
vocazione
non
si
riduce
all
'
esempio
e
vuole
salvare
attraverso
l
'
azione
il
resto
dell
'
umanità
diffondendo
la
democrazia
e
dunque
la
pace
.
Le
due
anime
hanno
un
'
aspirazione
comune
:
quella
di
vedere
il
pianeta
adottare
i
valori
universali
incarnati
dall
'
America
;
ed
entrambe
sono
riluttanti
,
anzi
rifiutano
di
confondere
gli
Stati
Uniti
con
altri
paesi
,
di
metterli
sullo
stesso
piano
,
fosse
anche
in
una
posizione
da
primus
inter
pares
,
nel
quadro
di
un
equilibrio
multipolare
.
Kissinger
resta
fedele
alla
formula
classica
dell
'
impero
e
dell
'
equilibrio
,
alla
quale
non
c
'
è
per
lui
alternativa
.
Per
questo
è
stato
paragonato
,
non
senza
ironia
,
al
Metternich
del
Congresso
di
Vienna
(
1815
)
.
Nel
dopo
guerra
-
fredda
si
è
reso
conto
che
il
mondo
non
è
diventato
,
come
si
pensava
,
unipolare
e
con
una
sola
incontrastata
superpotenza
,
e
quindi
che
la
geopolitica
postcomunista
non
esentava
dalla
tradizionale
ricerca
di
un
equilibrio
tra
gli
Stati
che
contano
.
Si
è
creata
una
situazione
multipolare
che
impone
come
nel
passato
una
serie
di
pazienti
calcoli
tendenti
a
una
convivenza
tra
l
'
impero
e
gli
altri
.
Calcoli
a
cui
l
'
America
è
refrattaria
.
Kissinger
riconosce
ovviamente
la
sua
supremazia
,
ma
gli
sembra
più
relativa
di
quel
che
appare
.
Più
fragile
di
quel
che
si
dice
.
Vede
affiorare
altri
centri
di
potere
,
di
cui
non
si
conosce
ancora
il
peso
e
l
'
orientamento
(
la
Cina
,
il
Giappone
,
l
'
Europa
,
la
Russia
,
forse
l
'
India
)
:
li
vede
delinearsi
,
con
forme
ancora
incerte
,
da
studiare
col
tempo
.
Il
gran
fracasso
dei
mass
media
è
come
una
nebbia
che
cancella
i
dettagli
e
lascia
vedere
soltanto
una
sagoma
rudimentale
della
realtà
in
mutazione
.
L
'
idealismo
americano
è
per
sua
natura
contrario
a
una
politica
di
puro
equilibrio
:
eppure
la
diplomazia
classica
è
indispensabile
all
'
impero
che
esercita
la
sua
egemonia
in
un
mondo
multipolare
.
Il
giudizio
di
Kissinger
sulla
crisi
balcanica
è
coerente
a
questo
principio
.
L
'
Occidente
(
in
sostanza
Clinton
)
non
ha
applicato
il
metodo
appropriato
alla
situazione
.
Ha
trascurato
la
Russia
;
l
'
universo
ortodosso
che
si
sente
solidale
con
la
Serbia
;
si
pensi
alla
Grecia
,
paese
della
Nato
in
questa
congiuntura
ancor
più
contrapposto
alla
Turchia
,
altro
pilastro
dell
'
alleanza
;
e
agli
altri
paesi
dei
Balcani
.
E
le
conseguenze
per
la
Nato
?
Il
professor
Kissinger
può
distribuire
bacchettate
.
La
visione
di
Brzezinski
è
più
americana
.
è
più
dinamica
,
scavalca
la
nozione
statica
dell
'
equilibrio
tra
le
potenze
;
è
anche
più
ottimista
,
nel
senso
che
contempla
la
trionfante
egemonia
degli
Stati
Uniti
;
egemonia
che
,
pur
essendo
insidiata
dal
mondo
multipolare
,
sarà
superata
col
tempo
soltanto
da
un
ordine
cooperativo
mondiale
.
In
sostanza
gli
Usa
sono
l
'
ultimo
impero
universale
,
grazie
alla
superiorità
senza
rivali
in
tutti
i
campi
:
economico
,
tecnologico
,
culturale
e
militare
.
è
tuttavia
un
impero
di
tipo
nuovo
:
simile
al
suo
sistema
interno
.
Vale
a
dire
che
implica
una
struttura
complessa
,
articolata
in
modo
da
provocare
il
consenso
e
attenuare
gli
squilibri
e
i
disaccordi
.
"
Così
la
supremazia
globale
americana
riposa
su
un
sistema
elaborato
di
alleanze
e
di
coalizioni
che
copre
,
in
concreto
,
l
'
intero
pianeta
"
.
Ne
risulta
per
Brzezinski
la
necessità
di
una
doppia
politica
:
una
tesa
a
mantenere
,
per
almeno
un
'
altra
generazione
,
l
'
egemonia
degli
Stati
Uniti
;
l
'
altra
tesa
ad
incoraggiare
gli
alleati
e
gli
ex
avversari
ad
entrare
in
un
sistema
che
prepari
appunto
un
governo
mondiale
,
facendo
in
modo
che
i
partner
non
diventino
troppo
indipendenti
.
L
'
Europa
costituisce
la
testa
di
ponte
della
democrazia
,
dunque
dell
'
America
,
sul
continente
euroasiatico
.
È
bene
favorire
la
sua
unità
,
sulla
base
dell
'
intesa
franco
-
tedesca
,
evitando
però
che
conquisti
un
'
autonomia
eccessiva
.
Il
capitolo
dedicato
alla
Russia
ha
un
titolo
esplicito
:
"
Il
buco
nero
"
:
l
'
americano
polacco
sottolinea
il
pericolo
che
costituisce
l
'
ex
superpotenza
:
non
si
tratta
di
distruggerla
o
di
escluderla
ma
di
impedirle
di
ridiventare
un
impero
minaccioso
per
i
vicini
.
Per
questo
si
devono
curare
i
rapporti
con
i
paesi
limitrofi
(
la
Cina
,
ma
anche
la
Turchia
,
l
'
Iran
,
l
'
Ucraina
,
l
'
Azerbajdzhan
e
l
'
Uzbekistan
)
:
e
favorire
gli
investimenti
americani
nell
'
Eldorado
petrolifero
sul
Mar
Caspio
per
evitare
che
la
Russia
ne
approfitti
.
Sulla
severità
di
Brzezinski
nell
'
analizzare
la
crisi
balcanica
pesa
anche
il
sospetto
che
Mosca
ne
possa
trarre
prestigio
e
comunque
vantaggi
:
sia
come
punto
di
riferimento
per
il
mondo
slavo
ortodosso
frustrato
,
sia
come
capitale
intermediaria
tra
Milosevic
e
l
'
Occidente
.
Un
compromesso
su
quest
'
ultima
base
sarebbe
un
'
umiliazione
inaccettabile
per
la
Nato
.
Siamo
ben
lontani
dagli
equilibri
di
Kissinger
.
Ma
anche
il
"
discepolo
di
Metternich
"
sostiene
,
in
queste
ore
,
che
,
se
vuole
sopravvivere
,
la
Nato
deve
vincere
in
modo
netto
.
Avverte
tuttavia
,
nella
sua
ultima
opera
,
che
una
delle
profonde
differenze
tra
l
'
analista
politico
e
l
'
uomo
di
Stato
risiede
nel
fatto
che
il
primo
è
padrone
del
proprio
tempo
quando
decide
una
conclusione
;
mentre
il
secondo
è
sottoposto
in
permanenza
a
una
corsa
contro
l
'
orologio
.
Inoltre
uno
non
rischia
nulla
,
mentre
l
'
altro
può
rischiare
tutto
.
Insomma
,
se
partecipasse
ancora
al
potere
,
Zbigniew
Brzezisnki
avrebbe
altri
impulsi
,
o
modererebbe
quelli
che
ha
.
StampaQuotidiana ,
Teheran
,
16
.
Reza
Pahlevi
se
n
'
è
andato
.
Alle
13.08
l
'
aereo
imperiale
si
è
involato
,
puntando
sull
'
Egitto
.
Alle
16
non
c
'
erano
più
statue
dello
Scià
sui
piedistalli
,
nella
capitale
in
festa
.
La
folla
abbatte
i
monumenti
della
dinastia
Pahlevi
,
come
se
la
monarchia
fosse
finita
.
Quando
la
radio
ha
dato
la
notizia
della
partenza
,
trenta
minuti
dopo
il
decollo
,
gli
automobilisti
hanno
acceso
i
fari
e
hanno
cominciato
a
suonare
i
clacson
.
In
tutti
i
quartieri
si
sono
formati
cortei
.
«
Il
nemico
del
popolo
è
fuggito
»
,
«
Lo
Scià
ha
raggiunto
lo
sposo
infedele
Jimmy
Carter
»
,
«
Dopo
la
fuga
dello
scià
quella
degli
americani
»
:
questi
sono
gli
slogan
ancora
scanditi
per
le
strade
,
a
tarda
sera
,
mentre
si
avvicina
l
'
ora
del
coprifuoco
,
che
oggi
rischia
di
non
essere
rispettato
.
Nella
capitale
centinaia
di
migliaia
di
persone
si
salutano
con
l
'
indice
e
il
medio
tesi
,
in
segno
di
vittoria
,
si
abbracciano
,
invocano
il
ritorno
di
Khomeini
,
il
capo
religioso
disarmato
,
che
in
un
anno
,
lanciando
proclami
dall
'
esilio
,
ha
costretto
Reza
Pahlevi
ad
abbandonare
il
trono
.
L
'
esercito
si
è
ritirato
nelle
caserme
,
lasciando
qualche
unità
davanti
all
'
ambasciata
americana
(
la
sola
ad
essere
protetta
)
,
ai
ministeri
e
al
Parlamento
.
La
folla
pensa
che
il
sovrano
non
ritornerà
mai
più
.
Lo
Scià
ha
cercato
di
imporre
alla
sua
partenza
ritmi
non
troppo
affrettati
.
Il
protocollo
è
stato
rispettato
.
Venticinque
anni
fa
,
incalzato
da
Mossadeq
,
il
primo
ministro
che
gli
imponeva
il
rispetto
della
Costituzione
,
Reza
Pahlevi
fuggì
con
la
moglie
d
'
allora
,
Soraya
,
a
bordo
di
un
piccolo
aereo
,
prima
a
Baghdad
e
poi
a
Roma
.
Questa
volta
,
prima
di
lasciare
in
elicottero
la
residenza
di
Niavaran
,
il
suo
«
palazzo
d
'
inverno
»
,
ha
salutato
i
nove
membri
del
Consiglio
di
reggenza
,
i
cortigiani
e
persino
i
cuochi
.
Più
tardi
,
ai
piedi
della
scaletta
del
Boeing
727
,
c
'
erano
il
primo
ministro
Sciapur
Bakhtian
,
il
ministro
di
corte
Ardalan
,
il
presidente
della
Camera
Djavad
Said
.
I
pochi
giornalisti
iraniani
ammessi
nel
recinto
dell
'
aeroporto
hanno
descritto
Reza
Pahlevi
e
Farah
Diba
pallidi
,
tesi
,
vestiti
con
abiti
sobri
.
Rispettando
la
tradizione
,
lo
Scià
e
la
moglie
sono
passati
sotto
il
Corano
,
tenuto
da
un
cortigiano
per
augurare
buon
viaggio
.
Prima
di
entrare
nell
'
aereo
,
il
sovrano
avrebbe
afferrato
il
libro
sacro
dell
'
Islam
e
l
'
avrebbe
baciato
,
trattenendo
a
stento
le
lacrime
.
Ad
eccezione
dei
pochi
fedeli
che
hanno
assistito
alla
partenza
,
nessuno
ha
visto
lo
scià
«
andarsene
in
vacanza
»
.
La
televisione
non
ha
diffuso
le
immagini
del
sovrano
che
lascia
l
'
Iran
.
Sugli
schermi
appaiono
stasera
soltanto
alberi
coperti
di
neve
o
film
di
repertorio
.
Soltanto
la
radio
ha
trasmesso
le
ultime
parole
pronunciate
da
Reza
Pahlevi
,
prima
del
decollo
:
«
Come
avevo
annunciato
dieci
giorni
or
sono
,
sono
stanco
e
parto
per
riposarmi
,
dopo
che
il
governo
ha
ricevuto
il
voto
di
fiducia
del
Parlamento
.
Spero
che
il
nuovo
governo
riesca
a
riparare
le
ferite
del
passato
e
preparare
il
futuro
.
Dobbiamo
essere
uniti
al
fine
di
preparare
un
avvenire
migliore
.
Il
paese
deve
salvarsi
grazie
al
patriottismo
del
popolo
»
.
«
Quanto
tempo
resterà
all
'
estero
?
»
gli
ha
chiesto
il
radiocronista
.
«
Sono
molto
stanco
.
Fino
a
quando
non
mi
sarò
rimesso
,
resterò
all
'
estero
.
La
prima
tappa
sarà
Assuan
»
.
La
Sciabanu
Farah
Diba
è
stata
ancora
più
laconica
:
«
Credo
nella
saggezza
e
nella
forza
del
popolo
»
.
A
questo
punto
,
mentre
i
motori
del
Boeing
erano
già
accesi
,
il
cronista
è
scoppiato
in
singhiozzi
e
ha
detto
:
«
Speriamo
che
lei
ritorni
presto
»
.
Sono
le
sole
parole
di
augurio
al
sovrano
che
ho
udito
oggi
a
Teheran
.
Ecco
alcune
immagini
che
ho
raccolto
in
questa
giornata
,
non
ancora
conclusa
,
nella
capitale
invasa
da
una
folla
sempre
più
densa
.
Sulla
piazza
Pahlevi
,
mentre
la
radio
trasmette
ancora
la
voce
spezzata
dello
Scià
,
un
centinaio
di
giovani
divelgono
la
sua
statua
.
Si
forma
un
corteo
.
Il
monumento
viene
trascinato
con
un
cavo
di
ferro
per
le
strade
del
quartiere
settentrionale
della
città
.
La
folla
si
infittisce
e
grida
:
«
Impicchiamo
lo
scià
»
.
Mezz
'
ora
dopo
la
statua
penzola
da
un
cavalcavia
.
Sulla
via
Hafez
una
pattuglia
militare
si
allontana
di
gran
fretta
,
appena
spunta
un
piccolo
corteo
con
una
bandiera
rossa
in
testa
.
La
sola
che
ho
visto
,
per
alcuni
istanti
,
prima
che
sparisse
per
iniziativa
di
non
so
chi
.
I
soldati
hanno
ricevuto
l
'
ordine
di
rientrare
nelle
caserme
al
più
presto
,
per
evitare
scontri
con
i
manifestanti
.
Un
militare
non
riesce
ad
avviare
il
motore
e
abbandona
il
camion
in
mezzo
alla
strada
.
Un
'
altra
unità
lascia
su
un
viale
un
piccolo
rimorchio
,
per
non
perdere
tempo
ad
agganciarlo
ad
una
jeep
.
È
come
se
temesse
di
essere
travolto
dall
'
acqua
di
una
diga
infranta
.
Ma
molti
soldati
,
durante
la
precipitosa
ritirata
,
vengono
sommersi
dalla
folla
che
li
abbraccia
,
li
riempie
di
fiori
e
caramelle
,
li
obbliga
ad
accettare
i
ritratti
di
Khomeini
.
Sulla
via
Reza
scià
,
una
delle
vie
principali
di
Teheran
,
gruppi
di
ragazzi
mi
mostrano
banconote
da
venti
rials
(
duecento
lire
)
dalle
quali
hanno
ritagliato
l
'
immagine
dello
scià
.
Reza
Pahlevi
è
partito
da
poco
più
di
un
'
ora
e
le
edizioni
straordinarie
dei
giornali
sono
già
in
vendita
,
con
titoli
neri
,
corvini
,
enormi
sulle
prime
pagine
.
Il
re
se
n
'
è
andato
.
Accanto
alla
notizia
della
partenza
imperiale
ci
sono
gli
ordini
che
Khomeini
avrebbe
impartito
dall
'
esilio
parigino
.
Un
amico
iraniano
li
traduce
:
1
)
i
deputati
al
Parlamento
e
i
membri
del
Consiglio
di
reggenza
devono
dimettersi
;
2
)
i
contadini
non
devono
vendere
il
grano
agli
stranieri
che
vogliono
affamare
il
paese
;
3
)
i
soldati
devono
impedire
che
gli
americani
portino
via
le
armi
sofisticate
,
al
fine
di
indebolire
l
'
esercito
;
4
)
venerdì
dovrà
essere
organizzata
la
più
grande
manifestazione
della
storia
dell
'
Iran
.
I
quotidiani
,
sotto
un
titolo
vistoso
,
parlano
della
morte
di
un
colonnello
americano
,
Arthur
Haynhot
,
indicato
come
il
capo
dei
consiglieri
militari
.
L
'
ufficiale
sarebbe
stato
trovato
appeso
ad
una
corda
nel
suo
appartamento
.
La
polizia
pensa
sia
stato
impiccato
.
Stamane
i
giornali
parlavano
di
un
altro
cittadino
USA
assassinato
a
Kerman
:
era
il
responsabile
della
Parsons
-
Jordan
Company
e
«
un
veterano
della
guerra
del
Vietnam
»
.
Il
cronista
non
è
in
grado
di
controllare
le
notizie
.
I
ministeri
,
gli
uffici
pubblici
sono
chiusi
e
i
telefoni
suonano
invano
.
Sulla
piazza
Ferdosi
,
la
statua
del
poeta
iraniano
è
coperta
di
ritratti
di
Khomeini
.
A
cavalcioni
del
monumento
,
un
giovane
cerca
di
dirigere
il
traffico
con
un
altoparlante
.
Ma
nessuno
lo
ascolta
.
La
gente
balla
di
gioia
tra
le
automobili
,
alle
quali
sono
avvinghiati
grappoli
umani
.
Non
si
vede
un
poliziotto
.
Teheran
sembra
abbandonata
a
se
stessa
.
Il
ronzio
degli
elicotteri
ricorda
tuttavia
chel
'
esercito
è
intatto
e
che
i
generali
dello
scià
non
perdono
d
'
occhio
i
cortei
,
per
ora
non
violenti
.
Milioni
di
iraniani
festeggiano
«
la
fine
»
di
37
anni
di
regno
di
Reza
Pahlevi
,
meglio
i
53
anni
della
dinastia
,
poiché
anche
i
ritratti
e
le
statue
di
Reza
Khan
,
padre
del
sovrano
in
vacanza
,
vengono
strappati
e
abbattuti
.
Teheran
stasera
assomiglia
a
Lisbona
,
dopo
mezzo
secolo
di
salazarismo
.
Quel
che
resta
del
regime
è
adesso
formalmente
affidato
al
Consiglio
di
reggenza
,
presieduto
da
un
astronomo
ottantenne
,
Jallal
Teharani
,
che
non
dispone
ancora
di
un
ufficio
.
L
'
opposizione
lo
ha
già
definito
«
un
gruppo
di
cortigiani
e
di
vegliardi
»
.
Gli
uomini
forti
del
Consiglio
sono
il
generale
Gharabaghy
,
capo
di
Stato
Maggiore
delle
Forze
armate
,
e
il
primo
ministro
Bakhtiar
,
che
stamane
,
poco
prima
della
partenza
dello
scià
,
ha
ricevuto
il
voto
di
fiducia
della
Camera
,
dopo
aver
ottenuto
ieri
quello
del
Senato
.
Da
stasera
il
sessantaduenne
Bakhtiar
è
in
sostanza
solo
,
schiacciato
tra
la
folla
ubbidiente
agli
ordini
di
Khomeini
e
l
'
esercito
ubbidiente
ai
generali
.
L
'
ala
moderata
dell
'
opposizione
ha
già
rivolto
un
appello
alla
calma
(
«
non
affrettiamo
i
tempi
»
)
,
al
fine
di
evitare
le
reazioni
dei
militari
e
di
frenare
i
gruppi
rivoluzionari
.
Ma
questo
non
significa
che
i
partigiani
di
una
svolta
indolore
siano
pronti
a
trattare
con
Bakhtiar
.
Tutti
temono
la
scomunica
di
Khomeini
,
che
dovrebbe
annunciare
la
composizione
del
suo
governo
provvisorio
e
del
suo
Consiglio
rivoluzionario
.
E
che
,
forse
,
sta
studiando
il
rientro
in
patria
,
dopo
quindici
anni
di
esilio
,
ora
che
il
suo
rivale
è
partito
.
StampaQuotidiana ,
Gerusalemme
,
19
.
L
'
incontro
impossibile
è
avvenuto
.
L
'
egiziano
Sadat
ha
lasciato
per
davvero
le
sponde
del
Nilo
per
stringere
la
mano
all
'
israeliano
Begin
.
Il
capo
di
una
nazione
araba
ha
messo
piede
per
la
prima
volta
sul
territorio
dello
Stato
ebraico
.
È
accaduto
alle
18.59
(
ora
italiana
)
di
stasera
all
'
aeroporto
di
Tel
Aviv
presidiato
dall
'
esercito
,
illuminato
dai
riflettori
,
tra
i
suoni
delle
fanfare
e
le
salve
di
cannone
.
Affiancati
l
'
uno
all
'
altro
,
quasi
a
sfiorarsi
,
il
volto
color
cuoio
del
presidente
egiziano
,
figlio
di
un
arabo
e
d
'
una
nubiana
,
e
quello
asciutto
,
leggermente
abbronzato
,
del
primo
ministro
israeliano
,
nato
in
una
famiglia
askenazi
di
Brest
-
Litwosk
,
sono
rimbalzati
in
milioni
di
case
arabe
e
musulmane
,
sui
teleschermi
,
accendendo
speranze
e
timori
.
Perché
da
quest
'
appuntamento
precipitoso
e
al
tempo
stesso
solenne
può
infatti
nascere
una
pace
inedita
,
o
una
nuova
tragedia
.
Ai
piedi
della
scaletta
dell
'
aereo
presidenziale
,
Sadat
è
stato
accolto
dal
capo
dello
Stato
Ephraim
Katzir
e
da
Begin
.
I
tre
si
sono
stretti
la
mano
,
quindi
-
mentre
la
banda
intonava
gli
inni
dei
due
paesi
-
hanno
passato
in
rassegna
la
guardia
d
'
onore
.
Sadat
aveva
il
viso
grave
,
ma
subito
dopo
l
'
atmosfera
s
'
è
fatta
più
distesa
.
Il
Rais
ha
chiesto
di
Ariel
Sharon
(
il
generale
che
nel
'73
circondò
la
Terza
armata
egiziana
)
,
e
quando
questi
s
'
è
fatto
avanti
gli
ha
stretto
la
mano
.
Altre
strette
di
mano
con
Dayan
,
con
Golda
Meir
,
con
Eban
,
quindi
Sadat
e
Begin
hanno
preso
posto
nell
'
automobile
che
li
ha
condotti
a
Gerusalemme
.
Il
dialogo
era
cominciato
.
Il
cronista
stenta
a
distinguere
tra
gli
appunti
,
le
dichiarazioni
e
le
emozioni
,
le
incertezze
e
i
miraggi
degli
uni
e
degli
altri
.
L
'
impazienza
è
unanime
,
mentre
viene
annunciato
il
decollo
dell
'
aereo
dal
territorio
egiziano
.
I
minuti
scanditi
sulla
pista
d
'
arrivo
a
Tel
Aviv
nell
'
attesa
che
il
jet
di
Sadat
giunga
a
portata
dei
riflettori
.
I
dubbi
e
i
trionfalismi
.
I
sorprendenti
discorsi
sulla
«
tradizionale
fraternità
giudeo
-
araba
»
.
L
'
amico
egiziano
euforico
e
poi
smarrito
che
dice
:
«
La
pace
è
a
portata
di
mano
.
Ma
come
raggiungerla
?
»
.
L
'
amico
israeliano
che
sogna
già
«
un
'
alleanza
Egitto
-
Israele
,
capace
di
colmare
il
vuoto
lasciato
dal
crollo
dell
'
impero
ottomano
settant
'
anni
fa
»
.
È
la
tristezza
,
le
perplessità
degli
arabi
dei
territori
occupati
che
denunciano
il
tradimento
e
al
tempo
stesso
sognano
,
come
gli
altri
,
la
pace
.
Infine
lo
sportello
che
si
spalanca
.
La
sfida
di
Sadat
comincia
.
Prima
di
ritirarsi
nell
'
appartamento
reale
dell
'
hotel
King
David
,
dove
dormì
Richard
Nixon
,
il
presidente
egiziano
ha
già
avuto
un
primo
colloquio
con
Begin
.
Essi
tentano
con
impazienza
,
senza
aspettare
,
le
prime
analisi
.
Non
vi
è
alcun
dubbio
che
Sadat
,
domani
,
davanti
al
Parlamento
d
'
Israele
,
chiederà
il
ritiro
totale
degli
israeliani
dai
territori
occupati
nel
1967
,
durante
la
Guerra
dei
sei
giorni
.
Cosa
potrà
promettere
Begin
in
cambio
per
non
ferire
irrimediabilmente
l
'
insperato
interlocutore
arabo
?
Lasciarlo
partire
a
mani
vuote
sarebbe
condannarlo
politicamente
a
morte
.
Forse
negoziati
per
il
Sinai
o
per
il
Golan
.
Ma
la
Cisgiordania
,
necessaria
per
risolvere
il
dramma
palestinese
,
sembra
irrinunciabile
per
Gerusalemme
.
Carter
ha
telefonato
più
volte
in
questi
giorni
a
Sadat
e
a
Begin
per
raccomandare
la
prudenza
.
E
non
ha
risparmiato
i
consigli
:
niente
intese
separate
,
non
escludere
del
tutto
i
sovietici
senza
i
quali
nulla
può
essere
risolto
stabilmente
,
attenzione
ai
palestinesi
che
costituiscono
una
carica
esplosiva
impossibile
da
disinnescare
.
La
natura
dei
due
uomini
,
Sadat
e
Begin
,
e
le
trasformazioni
che
essi
hanno
attuato
nei
rispettivi
paesi
hanno
contribuito
a
rendere
possibile
quest
'
incontro
.
I
loro
predecessori
rappresentavano
quasi
religiosamente
storie
inconciliabili
.
Erano
appesantiti
da
carismi
diversi
per
origine
e
specie
.
Gamal
Nasser
era
prigioniero
di
un
socialismo
panarabo
puritano
,
era
ingabbiato
in
un
dogmatismo
al
quale
non
sfuggivano
neppure
Golda
Meir
,
sionista
vincolata
ai
principi
socialdemocratici
mitteleuropei
,
e
chi
poi
occupò
la
sua
poltrona
di
primo
ministro
a
Gerusalemme
.
Hanno
molti
più
punti
in
comune
i
nazionalismi
meno
sofisticati
e
quindi
più
pragmatisti
di
Menahem
Begin
,
ex
terrorista
dell
'
Irgun
e
sostenitore
del
«
grande
Israele
»
,
e
di
Anuar
Sadat
,
ufficiale
musulmano
e
repubblicano
che
quasi
svenne
per
l
'
emozione
nel
1952
,
accompagnando
il
destituito
monarca
Faruk
sulla
nave
dell
'
esilio
.
Anzitutto
Sadat
e
Begin
hanno
demolito
in
gran
fretta
le
istituzioni
o
i
sogni
socialisti
che
ancora
sopravvivevano
nelle
loro
capitali
.
Il
nazionalismo
grezzo
che
li
anima
rende
possibile
un
dialogo
su
basi
irrazionali
,
che
i
loro
predecessori
respingevano
a
priori
.
Nella
storia
contemporanea
non
era
mai
accaduto
che
il
capo
di
una
nazione
,
senza
aver
posto
fine
allo
stato
di
guerra
,
visitasse
ufficialmente
il
nemico
tra
suoni
di
fanfare
e
discorsi
fraterni
.
E
questo
è
già
paradossale
.
È
un
gesto
riassunto
in
un
'
ingenua
scritta
araba
ben
visibile
su
un
muro
della
vecchia
Gerusalemme
:
«
Evviva
Sadat
messaggero
di
pace
e
dio
della
guerra
»
.
È
un
gesto
al
tempo
stesso
drammatico
e
disperato
.
Israele
in
queste
ore
esulta
ma
trattiene
anche
il
respiro
non
riuscendo
a
capire
quel
che
accadrà
nell
'
immediato
futuro
,
una
volta
partito
Sadat
.
Sente
il
brontolio
del
mondo
arabo
in
preda
a
convulsioni
,
forse
meno
gravi
del
previsto
ma
suscettibili
di
deflagrazioni
delle
quali
è
difficile
oggi
immaginare
le
dimensioni
.
Questi
sentimenti
contraddittori
sono
palpabili
nei
territori
occupati
,
nella
Cisgiordania
che
il
primo
ministro
Begin
chiama
Giudea
e
Samaria
,
considerandole
biblicamente
province
dello
Stato
ebraico
.
Anche
là
,
come
a
Tripoli
e
a
Damasco
,
ma
sottovoce
,
Sadat
viene
accusato
di
spezzare
il
fronte
arabo
e
molti
sindaci
cristiani
e
musulmani
si
asterranno
domani
dal
rendere
omaggio
al
presidente
egiziano
,
davanti
alla
moschea
di
Al
Aqsa
,
dove
si
recherà
per
la
preghiera
di
primo
mattino
.
I
sindaci
musulmani
o
cristiano
-
progressisti
festeggeranno
la
ricorrenza
del
«
sacrificio
»
di
Abramo
nelle
loro
città
con
ufficiale
mestizia
.
Ma
l
'
ordine
di
sciopero
,
lanciato
dalle
massime
organizzazioni
palestinesi
è
rimasto
inascoltato
,
le
botteghe
si
sono
aperte
stamane
come
al
solito
e
non
soltanto
perché
le
autorità
di
Gerusalemme
avevano
minacciato
le
abituali
sanzioni
contro
i
commercianti
insubordinati
.
Mi
ha
detto
con
severa
tristezza
un
esponente
palestinese
:
«
Anche
noi
vogliamo
la
pace
come
Sadat
,
ma
non
al
prezzo
richiesto
dai
suoi
amici
israeliani
»
.
E
dalle
sue
parole
trapelava
un
'
emozione
in
cui
non
c
'
era
soltanto
lo
sdegno
dei
manifesti
clandestini
.
Affiorava
anche
una
certa
speranza
.
«
Sadat
osa
molto
.
Chissà
dove
vuole
arrivare
»
.