StampaQuotidiana ,
In
queste
settimane
di
guerra
nei
Balcani
due
parole
mi
tornano
alla
mente
.
La
prima
è
di
Bertolt
Brecht
al
termine
del
suo
lavoro
teatrale
:
La
resistibile
ascesa
di
Arturo
Ui
:
"
E
voi
imparate
che
occorre
vedere
e
non
guardare
in
aria
;
occorre
agire
e
non
parlare
.
Questo
mostro
stava
,
una
volta
,
per
governare
il
mondo
.
I
popoli
lo
spensero
,
ma
ora
non
cantiamo
vittoria
troppo
presto
,
il
grembo
da
cui
nacque
è
ancora
fecondo
"
.
Questa
metafora
del
grembo
ancora
fecondo
evoca
una
delle
cause
di
quanto
sta
avvenendo
.
C
'
è
una
matrice
dalla
quale
sono
stati
generati
molti
stermini
,
fino
alla
Shoah
.
Essa
continua
a
generarne
.
I
conflitti
nelle
terre
dell
'
ex
Jugoslavia
,
la
"
pulizia
etnica
"
,
l
'
esodo
forzato
delle
genti
del
Kosovo
lo
attestano
,
come
pure
tanti
altri
conflitti
in
altre
regioni
del
mondo
che
,
pur
drammaticamente
vivi
,
non
fanno
notizia
.
Tutto
questo
non
è
lontano
da
noi
.
Anche
il
nostro
Paese
ha
conosciuto
vergognose
"
leggi
razziali
"
.
Altre
"
notti
feroci
"
gravano
sull
'
Europa
,
come
Primo
Levi
ci
aveva
avvertiti
.
Avevamo
sperato
in
un
sempre
più
diffuso
e
radicato
costume
democratico
e
invece
di
nuovo
rinascono
forme
di
dittatura
,
di
violenta
privazione
della
libertà
.
Questo
millennio
si
avvia
alla
conclusione
tra
incursioni
aeree
,
bombardamenti
,
stragi
.
La
seconda
parola
a
cui
ripenso
in
questi
giorni
è
stata
pronunciata
dall
'
Assemblea
delle
chiese
cristiane
europee
a
Basilea
nel
maggio
1989
:
"
Abbiamo
causato
guerre
e
non
siamo
stati
capaci
di
sfruttare
tutte
le
opportunità
di
dialogo
e
di
riconciliazione
:
abbiamo
accettato
e
spesso
giustificato
con
troppa
facilità
le
guerre
"
.
Questa
parola
ci
ricorda
le
responsabilità
che
portiamo
anche
come
cristiani
.
Sulle
ragioni
possibili
di
alcuni
atti
di
guerra
(
cioè
sul
tema
di
una
eventuale
"
guerra
giusta
"
)
,
si
è
ragionato
a
lungo
nei
due
millenni
cristiani
.
Sant
'
Agostino
scriveva
:
"
Fare
la
guerra
è
una
felicità
per
i
malvagi
,
ma
per
i
buoni
una
necessità
...
è
ingiusta
la
guerra
fatta
contro
popoli
inoffensivi
,
per
desiderio
di
nuocere
,
per
sete
di
potere
,
per
ingrandire
un
impero
,
per
ottenere
ricchezze
e
acquistare
gloria
.
In
tutti
questi
casi
la
guerra
va
considerata
un
"
brigantaggio
in
grande
stile
"
"
(
De
Civitate
Dei
,
IV
,
6
)
.
Ma
Giovanni
XXIII
nella
Pacem
in
terris
,
afferma
:
"
Nell
'
era
atomica
è
irrazionale
(
alienum
est
a
ratione
)
pensare
che
la
guerra
possa
essere
utilizzata
come
strumento
di
riparazione
dei
diritti
violati
"
.
Il
concetto
di
"
guerra
giusta
"
viene
così
superato
.
E
il
Concilio
,
che
per
lo
più
non
ha
voluto
pronunciare
anatemi
,
ha
tuttavia
su
questo
punto
un
parola
ferma
e
dura
:
"
Ogni
atto
di
guerra
che
indiscriminatamente
mira
alla
distruzione
di
intere
città
o
di
vaste
regioni
e
dei
loro
abitanti
,
è
delitto
contro
Dio
e
contro
la
stessa
umanità
e
con
fermezza
e
senza
esitazione
deve
essere
condannato
"
.
Tra
le
ragioni
che
hanno
portato
al
superamento
della
dottrina
della
guerra
giusta
,
accanto
alla
percezione
dei
danni
incalcolabili
prodotti
dalle
"
moderne
armi
scientifiche
"
,
vi
è
la
progressiva
adesione
alla
struttura
politica
di
tipo
democratico
,
con
il
riconoscimento
dell
'
opinione
pubblica
come
istanza
di
controllo
e
di
guida
nella
gestione
del
potere
politico
.
Anche
sul
piano
internazionale
,
il
progressivo
consolidarsi
di
una
istanza
sovranazionale
costituisce
una
(
sia
pur
gracile
)
alternativa
alla
guerra
mediante
la
mediazione
politica
.
Con
la
condanna
del
ricorso
alla
guerra
,
la
coscienza
cristiana
va
progressivamente
superando
anche
la
logica
della
deterrenza
.
La
deterrenza
,
afferma
il
Concilio
,
"
non
è
via
sicura
per
conservare
saldamente
la
pace
...
le
cause
di
guerre
anziché
venire
eliminate
da
tale
corsa
minacciano
piuttosto
di
aggravarsi
gradatamente
...
mentre
si
spendono
enormi
ricchezze
per
procurarsi
sempre
nuove
armi
,
diventa
poi
impossibile
arrecare
sufficiente
rimedio
alle
miserie
così
grandi
del
mondo
presente
"
.
In
queste
settimane
di
guerra
ci
ha
costantemente
guidato
il
magistero
coerente
e
coraggioso
del
papa
Giovanni
Paolo
II
.
Non
dimentico
le
sue
parole
il
mattino
del
primo
giorno
della
guerra
nel
Golfo
,
era
il
17
gennaio
1991
:
"
In
queste
ore
di
grandi
pericoli
,
vorrei
ripetere
con
forza
che
la
guerra
non
può
essere
un
mezzo
adeguato
per
risolvere
completamente
i
problemi
esistenti
tra
le
nazioni
.
Non
lo
è
mai
stato
e
non
lo
sarà
mai
.
Continuo
a
sperare
che
ciò
che
è
iniziato
abbia
fine
al
più
presto
.
Prego
affinché
l
'
esperienza
di
questo
primo
giorno
di
conflitto
sia
sufficiente
per
far
comprendere
l
'
orrore
di
quanto
sta
succedendo
e
far
capire
la
necessità
che
le
aspirazioni
e
i
diritti
di
tutti
i
popoli
della
regione
siano
oggetto
di
un
particolare
impegno
della
comunità
internazionale
.
Si
tratta
di
problemi
la
cui
soluzione
può
essere
ricercata
solamente
in
un
contesto
internazionale
,
ove
tutte
le
parti
interessate
siano
presenti
e
cooperino
con
lealtà
"
.
"
Declino
dell
'
umanità
,
scacco
della
comunità
internazionale
,
attentato
ai
valori
più
cari
a
tutte
le
religioni
"
,
così
diceva
il
Papa
a
proposito
della
guerra
nel
Golfo
.
Parole
che
dobbiamo
ancora
ripetere
per
la
guerra
nei
Balcani
.
Dobbiamo
instancabilmente
cercare
,
pensare
una
alternativa
all
'
uso
delle
armi
,
anche
quando
essa
sembra
impossibile
.
Come
vescovo
avverto
l
'
urgenza
di
contribuire
ad
una
educazione
alla
pace
:
solo
scrutando
le
ragioni
misteriose
del
male
nella
storia
e
nel
cuore
dell
'
uomo
possiamo
comprendere
perché
la
pace
sia
problema
sempre
aperto
.
Il
riconoscimento
del
male
in
tutte
le
sue
forme
,
questa
immane
potenza
del
negativo
che
ha
nella
guerra
la
sua
manifestazione
più
drammatica
,
non
deve
però
indurci
al
pessimismo
paralizzando
la
fiducia
nelle
risorse
positive
dell
'
uomo
.
Nasce
di
qui
la
tensione
al
dialogo
come
via
privilegiata
alla
pace
:
"
Ogni
uomo
,
credente
o
no
,
pur
restando
prudente
e
lucido
circa
la
possibile
ostinazione
del
suo
fratello
,
può
e
deve
conservare
una
sufficiente
fiducia
nell
'
uomo
,
nella
sua
capacità
di
essere
ragionevole
,
nel
suo
senso
del
bene
,
della
giustizia
,
dell
'
equità
,
nella
sua
possibilità
di
amore
fraterno
e
di
speranza
,
mai
totalmente
pervertiti
,
per
scommettere
sul
ricorso
al
dialogo
e
sulla
sua
possibile
ripresa
"
(
Giovanni
Paolo
II
,
Messaggio
per
la
Giornata
della
pace
1983
)
.
Questa
fiducia
nell
'
uomo
è
anzitutto
fiducia
nelle
risorse
della
sua
coscienza
,
soprattutto
di
quanti
patiscono
ingiustizia
.
Bisogna
puntare
"
sulle
forze
di
pace
nascoste
negli
uomini
e
nei
popoli
che
soffrono
...
così
da
sottoporre
le
forze
oppressive
a
delle
spinte
efficaci
di
trasformazione
,
più
efficaci
di
quelle
fiammate
di
violenza
che
in
genere
non
producono
nulla
,
se
non
un
futuro
di
sofferenze
ancora
più
grandi
"
(
Messaggio
per
la
Giornata
della
pace
,
1980
)
.
Alla
forza
della
coscienza
e
non
alla
violenza
è
affidata
la
causa
della
pace
.
Sul
versante
politico
,
la
pace
richiede
strutture
politiche
sovranazionali
davvero
efficaci
nell
'
arginare
le
possibili
sopraffazioni
.
Era
già
questo
l
'
auspicio
di
Paolo
VI
nel
suo
discorso
alle
Nazioni
Unite
nel
1965
:
"
Il
bene
comune
universale
pone
ora
problemi
a
dimensioni
mondiali
che
non
possono
essere
adeguatamente
affrontati
e
risolti
che
ad
opera
di
Poteri
pubblici
aventi
ampiezza
,
strutture
e
mezzi
delle
stesse
proporzioni
,
di
Poteri
pubblici
cioè
,
che
siano
in
grado
di
operare
in
modo
efficiente
sul
piano
mondiale
.
Lo
stesso
ordine
morale
quindi
domanda
che
tali
poteri
vengano
istituiti
...
Chi
non
vede
il
bisogno
di
giungere
così
,
progressivamente
,
a
instaurare
un
'
autorità
mondiale
,
capace
di
agire
con
efficacia
sul
piano
giuridico
e
politico
?
"
.
In
questi
giorni
di
guerra
ripenso
al
lungo
,
difficile
cammino
della
coscienza
cristiana
durante
due
millenni
nel
giudicare
la
guerra
e
gli
armamenti
.
Prima
delle
armi
nucleari
e
chimiche
il
principio
della
legittima
difesa
poteva
in
certi
casi
condurre
a
parlare
di
guerra
giusta
.
Ora
invece
si
è
convinti
della
tragica
inutilità
e
moralità
di
una
guerra
condotta
con
questi
nuovi
tipi
di
armamenti
.
Dobbiamo
augurarci
che
la
coscienza
critica
dei
cristiani
e
di
ogni
uomo
faccia
ancora
dei
passi
ulteriori
.
Intanto
occorre
che
la
mobilitazione
contro
il
male
sia
accompagnata
da
un
'
opera
progettuale
,
che
dia
nuova
consistenza
alla
pace
,
alla
sicurezza
,
alla
stessa
dissuasione
.
In
tale
linea
:
una
ricerca
di
giustizia
,
di
eguaglianza
,
di
solidarietà
,
il
potenziamento
del
dialogo
,
dei
sistemi
democratici
,
degli
organismi
di
controllo
internazionali
.
La
stessa
dissuasione
dovrebbe
fondarsi
non
già
sulla
minaccia
rappresentata
dagli
arsenali
,
bensì
su
quelle
risorse
ben
più
degne
dell
'
uomo
che
sono
la
solidarietà
internazionale
,
le
sanzioni
giuridiche
,
l
'
isolamento
di
chi
fa
ricorso
alla
prepotenza
e
alla
forza
.
Rassegnarsi
alla
logica
della
guerra
o
della
dissuasione
armata
vuol
dire
accettare
la
spirale
perversa
degli
armamenti
e
finire
in
una
trappola
mortale
per
l
'
umanità
.
Dal
punto
di
vista
progettuale
,
accanto
alla
proposta
di
studiare
forme
efficaci
di
difesa
civile
non
violenta
,
sta
il
riconoscimento
del
valore
della
obiezione
di
coscienza
,
la
denuncia
di
certe
forme
di
ricerca
scientifica
subalterne
a
logiche
di
distruzione
,
lo
scandalo
rappresentato
dal
divario
crescente
Nord
-
Sud
alimentato
dal
commercio
delle
armi
.
Sta
l
'
appello
alla
mediazione
politica
come
strumento
di
composizione
dei
conflitti
;
l
'
appello
a
disarmare
gli
animi
,
armando
la
ragione
;
l
'
appello
a
credere
nella
Parola
:
"
Forgeranno
le
loro
spade
in
vomeri
,
le
loro
lance
in
falci
,
un
popolo
non
alzerà
più
la
spada
contro
un
altro
popolo
"
.
(
Isaia
,
2,4
)
.
StampaQuotidiana ,
Nel
dicembre
del
1993
si
è
svolto
alla
Sorbona
,
sotto
l
'
egida
della
Academie
Universelle
des
Cultures
,
un
congresso
sul
concetto
di
intervento
internazionale
.
C
'
erano
non
solo
giuristi
,
politologi
,
militari
,
politici
,
ma
anche
filosofi
e
storici
come
Paul
Ricoeur
o
Jacques
Le
Goff
,
medici
senza
frontiere
come
Bernard
Koutchner
,
rappresentanti
di
minoranze
un
tempo
perseguitate
come
Elie
Wiesel
,
Ariel
Dorfmann
,
Toni
Morrison
,
vittime
della
repressione
di
vari
dittatori
,
come
Leszek
Kolakowski
o
Bronislaw
Geremek
o
Jorge
Semprun
,
insomma
molta
gente
a
cui
la
guerra
non
piace
,
non
è
mai
piaciuta
e
non
vorrebbero
vederne
più
.
Si
aveva
paura
a
usare
parole
come
"
intervento
"
,
che
sapeva
troppo
di
ingerenza
(
anche
Sagunto
è
stato
un
intervento
,
e
ha
permesso
ai
romani
di
fare
fuori
i
cartaginesi
)
,
e
si
preferiva
parlare
di
soccorso
e
di
"
azione
internazionale
"
.
Pura
ipocrisia
?
No
,
i
romani
che
intervengono
a
favore
di
Sagunto
sono
romani
,
e
basta
.
In
quel
convegno
invece
si
stava
parlando
di
comunità
internazionale
,
di
un
gruppo
di
paesi
che
ritengono
che
la
situazione
,
in
un
punto
qualsiasi
del
globo
,
abbia
raggiunto
l
'
intollerabile
,
e
decidono
di
intervenire
per
porre
fine
a
quello
che
la
coscienza
comune
definisce
un
delitto
.
Ma
quali
paesi
fanno
parte
della
comunità
internazionale
,
e
quali
sono
i
limiti
della
coscienza
comune
?
Si
può
certo
sostenere
che
per
ogni
civiltà
uccidere
sia
un
male
,
ma
solo
entro
certi
limiti
.
Noi
europei
e
cristiani
ammettiamo
per
esempio
l
'
omicidio
per
legittima
difesa
,
ma
gli
antichi
abitanti
del
Centro
e
Sud
America
ammettevano
il
sacrificio
umano
rituale
,
e
gli
attuali
abitanti
degli
Stati
Uniti
ammettono
la
pena
di
morte
.
Una
delle
conclusioni
di
quel
tormentatissimo
convegno
era
stata
che
,
come
avviene
in
chirurgia
,
intervenire
significa
agire
energicamente
per
interrompere
o
eliminare
un
male
.
La
chirurgia
vuole
il
bene
,
ma
i
suoi
metodi
sono
violenti
.
È
consentita
una
chirurgia
internazionale
?
Tutta
la
filosofia
politica
moderna
ci
dice
che
,
per
evitare
la
guerra
di
tutti
contro
tutti
,
lo
Stato
deve
esercitare
una
certa
violenza
sugli
individui
.
Ma
quegli
individui
hanno
sottoscritto
un
contratto
sociale
.
Che
cosa
avviene
tra
stati
che
non
hanno
sottoscritto
un
contratto
comune
?
Di
solito
una
comunità
,
che
si
ritiene
depositaria
di
valori
molto
diffusi
(
diciamo
i
paesi
democratici
)
stabilisce
i
limiti
di
ciò
che
essa
giudica
intollerabile
.
Non
è
tollerabile
condannare
a
morte
per
reati
d
'
opinione
.
Non
è
tollerabile
il
genocidio
.
Non
è
tollerabile
l
'
infibulazione
(
almeno
,
se
praticata
a
casa
nostra
)
.
Pertanto
si
decide
di
difendere
coloro
che
sono
danneggiati
ai
limiti
dell
'
intollerabile
.
Ma
sia
chiaro
che
quell
'
intollerabile
è
intollerabile
per
noi
,
non
per
"loro".Chi
siamo
noi
?
I
cristiani
?
Non
necessariamente
,
cristiani
rispettabilissimi
,
anche
se
non
cattolici
,
appoggiano
Milosevic
.
Il
bello
è
che
questo
"
noi
"
(
anche
se
è
definito
da
un
trattato
,
come
quello
nord
-
atlantico
)
è
un
Noi
impreciso
.
È
una
Comunità
che
si
riconosce
su
alcuni
valori
.
Dunque
quando
si
decide
di
intervenire
in
base
ai
valori
di
una
Comunità
,
si
fa
una
scommessa
:
che
i
nostri
valori
,
e
il
nostro
senso
dei
limiti
tra
tollerabile
e
intollerabile
,
siano
giusti
.
Si
tratta
di
una
sorta
di
scommessa
storica
non
diversa
da
quella
che
legittima
le
rivoluzioni
,
o
i
tirannicidi
:
chi
mi
dice
che
io
abbia
diritto
di
esercitare
la
violenza
(
e
che
violenza
,
talora
)
per
ristabilire
quella
che
ritengo
una
giustizia
violata
?
Non
c
'
è
nulla
che
legittimi
una
rivoluzione
,
per
chi
l
'
avversa
:
semplicemente
chi
vi
si
impegna
crede
,
scommette
,
che
ciò
che
fa
sia
giusto
.
Non
diversamente
accade
per
la
decisione
di
un
intervento
internazionale
.
È
questa
situazione
quella
che
spiega
l
'
angoscia
che
afferra
tutti
in
questi
giorni
.
C
'
è
un
male
terribile
a
cui
opporsi
(
la
pulizia
etnica
)
:
è
l
'
intervento
bellico
lecito
o
no
?
Si
deve
fare
una
guerra
per
impedire
una
ingiustizia
?
Secondo
giustizia
sì
.
E
secondo
carità
?
Ancora
una
volta
si
ripropone
il
problema
della
scommessa
:
se
con
una
violenza
minima
avrò
impedito
una
ingiustizia
enorme
,
avrò
agito
secondo
carità
,
come
fa
il
poliziotto
che
spara
al
pazzo
assassino
per
salvare
la
vita
a
molti
innocenti
.
Ma
la
scommessa
è
duplice
.
Da
un
lato
si
scommette
che
noi
siamo
in
accordo
col
senso
comune
,
che
quello
che
vogliamo
reprimere
è
qualche
cosa
di
universalmente
intollerabile
(
e
peggio
per
chi
non
lo
capisce
e
ammette
ancora
)
.
Dall
'
altro
si
scommette
che
la
violenza
che
giustifichiamo
riuscirà
a
prevenire
violenze
maggiori
.
Sono
due
problemi
assolutamente
diversi
.
Ora
provo
a
dare
per
scontato
il
primo
,
che
scontato
non
è
,
ma
vorrei
ricordare
a
tutti
che
questo
non
è
un
trattato
di
etica
,
bensì
un
articolo
di
giornale
,
sordidamente
ricattato
da
esigenze
di
spazio
e
di
comprensibilità
.
In
altre
parole
,
il
primo
problema
è
così
grave
,
e
angoscioso
,
che
non
può
,
anzi
non
deve
essere
trattato
sulle
gazzette
.
Diciamo
allora
che
è
giusto
,
per
impedire
un
delitto
come
la
pulizia
etnica
(
foriero
di
altri
delitti
e
di
altre
atrocità
che
il
nostro
secolo
ha
conosciuto
)
,
ricorrere
alla
violenza
.
Ma
la
seconda
domanda
è
se
la
forma
di
violenza
che
esercitiamo
possa
davvero
prevenire
violenze
maggiori
.
Qui
non
siamo
più
di
fronte
a
un
problema
etico
bensì
a
un
problema
tecnico
,
il
quale
ha
tuttavia
un
risvolto
etico
:
se
l
'
ingiustizia
a
cui
mi
piego
non
prevenisse
l
'
ingiustizia
maggiore
,
sarebbe
stato
lecito
usarla
?
Questo
equivale
a
fare
un
discorso
sulla
utilità
della
guerra
,
nel
senso
di
guerra
guerreggiata
,
di
guerra
tradizionale
,
che
ha
per
fine
l
'
annientamento
finale
del
nemico
e
la
vittoria
del
vincitore
.
Il
discorso
sulla
inutilità
della
guerra
è
difficile
perché
pare
che
chi
lo
fa
parli
in
favore
dell
'
ingiustizia
che
la
guerra
cerca
di
sanare
.
Ma
questo
è
un
ricatto
psicologico
.
Se
qualcuno
per
esempio
dicesse
che
tutti
i
guai
della
Serbia
derivano
dalla
dittatura
di
Milosevic
,
e
che
se
i
servizi
segreti
occidentali
riuscissero
a
uccidere
Milosevic
tutto
si
risolverebbe
in
un
giorno
,
questo
qualcuno
criticherebbe
la
guerra
come
strumento
utile
per
risolvere
il
problema
del
Kosovo
,
ma
non
sarebbe
pro
-
Milosevic
.
D
'
accordo
?
Perché
nessuno
adotta
questa
posizione
?
Per
due
ragioni
.
Una
,
che
i
servizi
segreti
di
tutto
il
mondo
sono
per
definizione
inefficienti
,
non
sono
stati
capaci
di
fare
ammazzare
né
Castro
né
Saddam
ed
è
vergognoso
che
si
consideri
ancora
giusto
sperperare
per
essi
pubblico
denaro
.
L
'
altro
è
che
non
è
affatto
vero
che
quello
che
fanno
i
serbi
sia
dovuto
alla
follia
di
un
dittatore
,
ma
dipende
da
odi
etnici
millenari
,
che
coinvolgono
e
loro
e
altre
etnie
balcaniche
,
il
che
rende
il
problema
ancora
più
drammatico
.
Torniamo
allora
al
discorso
sulla
utilità
della
guerra
.
Qual
è
stato
nel
corso
dei
secoli
il
fine
di
quella
che
chiameremo
paleo
-
guerra
?
Sconfiggere
l
'
avversario
in
modo
da
trarre
un
beneficio
dalla
sua
perdita
.
Questo
imponeva
tre
condizioni
:
che
al
nemico
dovessero
essere
tenute
segrete
le
nostre
forze
e
le
nostre
intenzioni
,
in
modo
da
poterlo
prendere
di
sorpresa
;
che
ci
fosse
una
forte
solidarietà
nel
fronte
interno
;
che
infine
tutte
le
forze
a
disposizione
fossero
utilizzate
per
distruggere
il
nemico
.
Per
questo
nella
paleo
-
guerra
(
compresa
la
guerra
fredda
)
si
stroncavano
coloro
che
dall
'
interno
del
fronte
amico
trasmettevano
informazioni
al
fronte
nemico
(
fucilazione
di
Mata
Hari
,
i
Rosenberg
sulla
sedia
elettrica
)
,
si
impediva
la
propaganda
del
fronte
avverso
(
si
metteva
in
prigione
chi
ascoltava
Radio
Londra
,
McCarthy
condannava
i
filocomunisti
di
Hollywood
)
,
e
si
punivano
coloro
che
,
dall
'
interno
del
fronte
nemico
,
lavoravano
contro
il
proprio
paese
(
impiccagione
di
John
Amery
,
segregazione
a
vita
di
Ezra
Pound
)
perché
non
si
doveva
fiaccare
lo
spirito
dei
cittadini
.
E
infine
si
insegnava
a
tutti
che
il
nemico
andava
ucciso
,
e
i
bollettini
di
guerra
esultavano
quando
le
forze
nemiche
venivano
sterminate
.
Queste
condizioni
sono
entrate
in
crisi
con
la
prima
neo
-
guerra
,
quella
del
Golfo
,
ma
si
attribuiva
ancora
la
smagliatura
alla
stupidità
dei
popoli
di
colore
,
che
ammettevano
i
giornalisti
americani
a
Bagdad
,
forse
per
vanità
,
o
per
corruzione
.
Ora
non
ci
sono
più
equivoci
,
l
'
Italia
invia
aerei
in
Serbia
ma
mantiene
relazioni
diplomatiche
con
la
Jugoslavia
,
le
televisioni
della
Nato
comunicano
ora
per
ora
ai
serbi
quali
aerei
Nato
stanno
lasciando
Aviano
,
agenti
serbi
sostengono
le
ragioni
del
governo
avversario
dagli
schermi
della
televisione
di
stato
,
giornalisti
italiani
trasmettono
da
Belgrado
con
l
'
appoggio
delle
autorità
locali
.
Ma
è
guerra
questa
,
col
nemico
in
casa
che
fa
propaganda
per
i
suoi
?
Nella
neo
-
guerra
ciascun
belligerante
ha
il
nemico
nelle
retrovie
e
,
dando
continuamente
la
parola
all
'
avversario
,
i
media
demoralizzano
i
cittadini
(
mentre
Clausewitz
ricordava
che
condizione
della
vittoria
è
la
coesione
morale
di
tutti
i
combattenti
)
.
D
'
altra
parte
,
quand
'
anche
i
media
fossero
imbavagliati
,
le
nuove
tecnologie
della
comunicazione
permettono
flussi
d
'
informazione
inarrestabili
-
e
non
so
quanto
Milosevic
possa
bloccare
non
dico
Internet
ma
le
trasmissioni
radio
da
paesi
nemici
.
Tutte
le
cose
che
ho
detto
sembrano
contraddire
il
bell
'
articolo
di
Furio
Colombo
su
Repubblica
del
19
aprile
scorso
,
dove
si
sostiene
che
il
Villaggio
Globale
di
McLuhaniana
memoria
sarebbe
morto
il
13
aprile
1999
,
quando
in
un
mondo
di
media
,
cellulari
,
satelliti
,
spie
spaziali
e
così
via
,
si
dovette
dipendere
dal
telefonino
da
campo
di
un
funzionario
di
agenzia
internazionale
,
incapace
di
chiarire
se
davvero
fosse
avvenuta
una
infiltrazione
serba
in
territorio
albanese
.
"
Noi
non
sappiamo
nulla
dei
serbi
.
I
serbi
non
sanno
nulla
di
noi
.
Gli
albanesi
non
riescono
a
vedere
sopra
il
mare
di
teste
che
li
sta
invadendo
.
La
Macedonia
scambia
i
profughi
per
nemici
e
li
massacra
di
botte
"
.
Ma
allora
,
questa
è
una
guerra
dove
ciascuno
sa
tutto
degli
altri
o
dove
nessuno
sa
niente
?
Tutte
e
due
le
cose
.
Il
fronte
interno
è
trasparente
,
mentre
la
frontiera
è
opaca
.
Gli
agenti
di
Milosevic
parlano
nelle
trasmissioni
di
Gad
Lerner
,
mentre
sul
fronte
,
là
dove
i
generali
di
un
tempo
esploravano
col
binocolo
,
e
sapevano
benissimo
dove
si
appostava
il
nemico
,
oggi
non
si
sa
niente
.
Questo
accade
perché
,
se
il
fine
della
paleo
-
guerra
era
distruggere
quanti
più
nemici
fosse
possibile
,
pare
tipico
della
neo
-
guerra
cercare
di
ucciderne
il
meno
possibile
,
perché
a
ucciderne
troppi
si
incorrerebbe
nella
riprovazione
dei
media
.
Nella
neo
-
guerra
non
si
è
ansiosi
di
distruggere
il
nemico
,
perché
i
media
ci
rendono
vulnerabili
di
fronte
alla
sua
morte
-
non
più
evento
lontano
e
impreciso
,
ma
evidenza
visiva
insostenibile
.
Nella
neo
-
guerra
ogni
armata
si
muove
all
'
insegna
del
vittimismo
.
Milosevic
accusa
orribili
perdite
(
Mussolini
se
ne
sarebbe
vergognato
)
,
e
basta
che
un
aviatore
della
Nato
caschi
a
terra
che
tutti
si
commuovono
.
Insomma
,
nella
neo
-
guerra
perde
,
di
fronte
all
'
opinione
pubblica
,
chi
ha
ammazzato
troppo
.
E
dunque
è
giusto
che
alla
frontiera
nessuno
si
affronti
e
nessuno
sappia
niente
dell
'
altro
.
In
fondo
la
neo
-
guerra
è
all
'
insegna
della
"
bomba
intelligente
"
,
che
dovrebbe
distruggere
il
nemico
senza
ammazzarlo
,
e
si
capiscono
i
nostri
ministri
che
dicono
:
noi
,
scontri
col
nemico
?
ma
niente
affatto
!
Che
poi
un
sacco
di
gente
muoia
lo
stesso
è
tecnicamente
irrilevante
.
Anzi
,
il
difetto
della
neo
-
guerra
è
che
muore
della
gente
,
ma
non
si
vince
.
Ma
possibile
che
nessuno
sappia
condurre
una
neo
-
guerra
?
Nessuno
,
è
naturale
.
L
'
equilibrio
del
terrore
aveva
preparato
gli
strateghi
a
una
guerra
atomica
ma
non
a
una
terza
guerra
mondiale
,
dove
si
dovessero
spezzare
le
reni
alla
Serbia
.
É
come
se
i
migliori
laureati
del
Politecnico
fossero
stati
tenuti
per
cinquant
'
anni
a
fare
videogiochi
.
Vi
fidereste
a
lasciargli
fare
ora
un
ponte
?
Ma
infine
,
l
'
ultima
beffa
della
neo
-
guerra
non
è
che
non
ci
sia
nessuno
oggi
in
servizio
che
sia
vecchio
abbastanza
da
avere
imparato
a
fare
una
guerra
-
e
non
ci
potrebbe
essere
in
ogni
caso
,
perché
la
neo
-
guerra
è
un
gioco
dove
per
definizione
si
perde
sempre
,
anche
perché
la
tecnologia
che
viene
usata
è
più
complessa
del
cervello
di
coloro
che
la
manovrano
e
un
semplice
computer
,
benché
fondamentalmente
idiota
,
può
giocare
più
scherzi
di
quanti
ne
immagini
colui
che
lo
manovra
..
Bisogna
intervenire
contro
il
delitto
del
nazionalismo
serbo
,
ma
forse
la
guerra
è
un
'
arma
spuntata
.
Forse
l
'
unica
speranza
è
nell
'
avidità
umana
.
Se
la
vecchia
guerra
ingrassava
i
mercanti
di
cannoni
,
e
questo
guadagno
faceva
passare
in
secondo
piano
l
'
arresto
provvisorio
di
alcuni
scambi
commerciali
,
la
neo
-
guerra
,
se
pure
permette
di
smerciare
un
surplus
di
armamenti
prima
che
diventino
obsoleti
,
mette
in
crisi
i
trasporti
aerei
,
il
turismo
,
gli
stessi
media
(
che
perdono
pubblicità
commerciale
)
e
in
genere
tutta
l
'
industria
del
superfluo
.
Se
l
'
industria
degli
armamenti
ha
bisogno
di
tensione
,
quella
del
superfluo
ha
bisogno
di
pace
.
Prima
o
poi
qualcuno
più
potente
di
Clinton
e
di
Milosevic
dirà
basta
,
e
tutti
e
due
ci
staranno
a
perdere
un
poco
di
faccia
,
pur
di
salvare
il
resto
.
È
triste
,
ma
almeno
è
vero
.
StampaQuotidiana ,
La
metafora
del
«
palazzo
»
usata
sempre
più
frequentemente
nel
linguaggio
politico
corrente
,
per
indicare
,
con
intenzione
non
benevola
,
coloro
che
ci
governano
,
richiama
,
per
contrapposizione
,
l
'
analoga
metafora
della
«
piazza
»
,
di
cui
ci
si
serve
,
con
intenzione
parimenti
non
benevola
,
per
indicare
la
moltitudine
di
coloro
che
stanno
fuori
(
in
basso
)
e
non
hanno
altro
potere
che
quello
di
protestare
o
di
applaudire
:
«
analoga
»
,
perché
connota
un
insieme
di
persone
mediante
il
luogo
in
cui
si
trovano
,
come
«
casa
»
per
famiglia
,
«
caserma
»
per
truppa
,
«
castello
»
per
signore
,
«
reggia
»
per
monarca
,
e
,
passando
dal
nome
astratto
al
nome
proprio
,
«
Farnesina
»
per
corpo
diplomatico
italiano
.
A
commento
della
manifestazione
romana
del
marzo
scorso
,
promossa
da
un
sindacato
contro
una
minacciata
riduzione
della
scala
mobile
,
il
«
Corriere
della
Sera
»
intitolò
un
suo
articolo
Il
Parlamento
e
la
«
piazza
»
.
Recentemente
sulla
«
Stampa
»
il
titolo
annunciava
Studenti
in
«
piazza
»
e
nel
sottotitolo
si
leggeva
:
Palazzo
Chigi
risponde
in
tono
pacato
.
Ancor
più
recentemente
«
La
Repubblica
»
ha
dato
l
'
annuncio
che
Carniti
sarebbe
diventato
presidente
della
Rai
in
questo
modo
:
Entra
nel
Palazzo
un
uomo
di
«
piazza
»
.
Per
quanto
la
reiterazione
della
contrapposizione
sia
di
questi
ultimi
anni
(
e
chi
sa
quanti
altri
esempi
se
ne
potrebbero
dare
)
,
dovuta
a
una
celebre
invettiva
di
Pasolini
,
l
'
antitesi
«
palazzo
-
piazza
»
è
antica
e
appartiene
al
linguaggio
politico
tradizionale
.
In
un
articolo
del
primo
fascicolo
della
bella
rivista
dell
'
Istituto
italiano
di
cultura
a
Parigi
,
uscita
in
questi
giorni
col
titolo
«50
,
rue
de
Varenne
»
,
tutto
dedicato
al
tema
della
«
piazza
»
(
anche
se
prevalentemente
dal
punto
di
vista
architettonico
e
quindi
non
nel
suo
significato
metaforico
)
,
mi
cade
sottocchio
un
brano
di
uno
dei
Ricordi
di
Guicciardini
,
in
cui
si
legge
:
«
...
e
spesso
tra
il
palazzo
e
la
piazza
è
una
nebbia
sì
folta
o
un
muro
sì
grosso
che
...
tanto
sa
el
popolo
di
quello
che
fa
chi
governa
o
della
ragione
perché
lo
fa
,
quanto
delle
cose
che
si
fanno
in
India
»
.
Se
una
ricerca
su
questa
contrapposizione
,
soprattutto
sull
'
uso
di
«
piazza
»
nel
suo
significato
politico
,
non
fosse
ancora
stata
fatta
(
ma
non
si
sa
mai
)
,
varrebbe
la
pena
che
un
giovane
volenteroso
vi
si
accingesse
.
Intanto
non
mi
sembra
inopportuna
qualche
osservazione
generale
.
«
Piazza
»
è
uno
di
quei
tanti
termini
che
,
nati
nel
linguaggio
comune
,
diventati
sempre
più
popolari
attraverso
il
linguaggio
dei
giornali
,
possono
offrire
un
interessante
e
nuovo
campo
d
'
indagine
anche
allo
studioso
.
Nelle
espressioni
più
correnti
,
«
manifestazione
o
dimostrazione
di
piazza
»
,
«
scendere
o
andare
in
piazza
»
,
«
fare
appello
alla
piazza
»
,
o
addirittura
proverbiali
,
come
«
pane
in
piazza
e
giustizia
in
palazzo
»
,
la
parola
sta
a
indicare
una
moltitudine
di
persone
che
si
riuniscono
spontaneamente
e
volontariamente
,
o
vengono
convocate
da
chi
ha
voce
per
farsi
ubbidire
,
allo
scopo
di
manifestare
,
secondo
un
diverso
grado
d
'
intensità
,
uno
stato
d
'
animo
,
un
'
opinione
,
una
volontà
politica
,
che
possono
essere
tanto
di
protesta
,
come
avviene
di
solito
nei
regimi
democratici
,
in
cui
uno
dei
diritti
costituzionalmente
garantiti
è
il
diritto
di
riunione
in
pubblico
e
di
libera
manifestazione
del
proprio
pensiero
anche
attraverso
il
mezzo
della
riunione
pacifica
,
quanto
di
consenso
,
com
'
è
avvenuto
nel
nostro
paese
con
le
famose
«
adunate
»
fasciste
di
piazza
Venezia
,
dove
la
moltitudine
vi
confluiva
,
in
parte
di
propria
volontà
,
in
parte
perché
inquadrata
nelle
organizzazioni
di
massa
del
regime
.
Le
due
maggiori
caratteristiche
che
servono
a
definire
la
«
piazza
»
come
fenomeno
politico
sono
,
da
un
lato
,
la
partecipazione
(
o
la
mobilitazione
secondo
i
casi
)
di
un
numero
molto
alto
di
persone
,
e
,
dall
'
altro
,
il
luogo
aperto
della
riunione
.
Sulla
base
di
questi
due
elementi
la
«
piazza
»
si
distingue
da
altre
sedi
di
riunione
a
scopo
di
protesta
o
di
discussione
politica
,
più
ristrette
e
meno
aperte
,
come
il
salotto
o
il
caffè
,
l
'
uno
privato
,
l
'
altro
semipubblico
,
di
cui
soltanto
si
può
disporre
là
dove
le
libertà
civili
non
sono
riconosciute
.
A
differenza
dei
luoghi
dove
si
possono
riunire
soltanto
poche
persone
e
al
chiuso
,
la
«
piazza
»
non
è
sede
di
discussione
,
dove
si
vada
per
dibattere
un
problema
e
decidere
di
conseguenza
.
Coloro
che
vi
confluiscono
lo
fanno
perché
hanno
uno
scopo
comune
,
in
qualche
modo
già
prestabilito
.
Ascoltano
gli
oratori
di
parte
se
si
tratta
di
una
protesta
,
di
una
petizione
,
di
una
rivendicazione
nei
riguardi
dei
signori
del
palazzo
;
oppure
pendono
dalle
labbra
del
grande
demagogo
,
che
fissa
le
mete
,
dà
ordini
,
indica
il
nemico
da
abbattere
negli
avversari
del
governo
,
e
acclamano
.
A
differenza
dell
'
agorà
classica
,
la
«
piazza
»
tanto
nei
regimi
autocratici
,
quanto
nei
regimi
di
democrazia
indiretta
o
rappresentativa
,
non
è
neppure
un
luogo
dove
si
prendano
decisioni
:
le
decisioni
che
contano
o
sono
già
prese
dagli
stessi
partecipanti
(
si
manifesta
perché
si
vuole
un
certo
provvedimento
o
si
contesta
un
provvedimento
già
preso
)
,
oppure
dallo
stesso
dittatore
(
e
la
folla
parla
per
monosillabi
:
«
Sì
»
,
«
No
»
,
«
A
noi
!
»
)
.
In
un
regime
di
democrazia
rappresentativa
,
che
è
quello
che
c
'
interessa
,
la
«
piazza
»
è
la
più
visibile
conseguenza
del
diritto
di
riunione
illimitato
rispetto
al
numero
delle
persone
che
possono
esercitarlo
insieme
e
contemporaneamente
.
Prima
dell
'
avvento
dei
regimi
democratici
la
facoltà
concessa
ai
cittadini
di
riunirsi
per
presentare
petizioni
era
riservata
a
gruppi
di
pochi
,
non
più
di
una
decina
.
Altrimenti
la
riunione
è
illecita
,
ed
è
vietata
come
«
assembramento
»
,
o
peggio
come
«
tumulto
»
,
nei
casi
estremi
come
«
sedizione
»
.
Non
c
'
è
più
esatta
descrizione
di
come
un
accorrere
di
gente
per
protesta
si
trasformi
in
tumulto
che
quella
offertaci
da
Manzoni
nel
capitolo
XII
dei
Promessi
sposi
in
cui
si
comincia
a
parlare
di
«
piazze
»
e
strade
che
«
brulicavano
di
uomini
,
trasportati
da
una
rabbia
comune
,
predominati
da
un
pensiero
comune
,
conoscenti
o
estranei
,
senza
essersi
dati
l
'
intesa
,
quasi
senza
avvedersene
,
come
gocciole
sparse
sullo
stesso
pendio
»
e
si
finisce
con
quel
«
trambusto
»
che
«
andava
sempre
crescendo
»
,
perché
«
tutti
coloro
che
gli
pizzicavan
le
mani
di
far
qualche
bell
'
impresa
,
correvan
là
,
dove
gli
amici
erano
i
più
forti
,
e
l
'
impunità
sicura
»
.
«
Palazzo
»
e
«
piazza
»
sono
due
espressioni
polemiche
per
designare
,
rispettivamente
,
i
governanti
e
i
governati
,
soprattutto
il
loro
rapporto
d
'
incomprensione
reciproca
,
di
estraneità
,
di
rivalità
,
ancora
oggi
,
come
nel
brano
sopracitato
di
Guicciardini
.
E
si
richiamano
a
vicenda
,
negativamente
:
vista
dal
palazzo
la
piazza
è
il
luogo
della
libertà
licenziosa
;
visto
dalla
piazza
il
palazzo
è
il
luogo
dell
'
arbitrio
del
potere
.
Se
cade
l
'
uno
è
destinato
a
cadere
anche
l
'
altro
.
StampaQuotidiana ,
L
'
anno
finisce
nel
nostro
paese
sotto
il
segno
della
violenza
più
abietta
.
Mi
vado
sempre
più
convincendo
che
la
violenza
terroristica
,
specie
quella
rivolta
non
contro
il
personaggio
rappresentativo
di
un
potere
che
si
vuole
abbattere
,
ma
quella
che
si
scatena
contro
una
folla
ignara
,
scelta
a
caso
,
con
assoluta
indifferenza
,
sia
violenza
fine
a
se
stessa
.
La
violenza
per
la
violenza
.
O
per
lo
meno
l
'
enorme
sproporzione
tra
il
mezzo
e
il
fine
è
tale
che
nessuna
persona
ragionevole
riesce
a
far
valere
rispetto
a
tale
atto
la
massima
machiavellica
del
fine
che
giustifica
i
mezzi
.
Questa
massima
fondamentale
dell
'
etica
politica
,
e
non
solamente
dell
'
etica
politica
ma
di
ogni
etica
che
giudica
l
'
azione
,
qualsiasi
azione
,
non
in
base
a
principi
universali
ma
in
base
ai
risultati
,
richiede
per
essere
accettata
tre
condizioni
.
Primo
:
non
qualsiasi
fine
giustifica
qualsiasi
mezzo
.
Il
fine
che
giustifica
il
mezzo
deve
a
sua
volta
essere
giustificato
.
In
altre
parole
,
deve
essere
un
fine
buono
.
Ma
in
base
a
quale
criterio
si
distinguono
i
fini
buoni
dai
fini
cattivi
?
E
chi
giudica
quali
sono
i
fini
buoni
e
i
fini
cattivi
?
La
massima
machiavellica
lascia
questo
problema
completamente
aperto
.
L
'
etica
dei
risultati
rinvia
all
'
etica
dei
principi
in
un
circolo
senza
fine
.
Secondo
:
il
fine
deve
essere
non
solo
in
qualche
modo
giustificabile
ma
anche
con
una
certa
probabilità
raggiungibile
.
Nel
dramma
di
Camus
,
I
giusti
,
uno
dei
protagonisti
,
il
rivoluzionario
,
proclama
:
«
Noi
uccidiamo
per
costruire
un
mondo
ove
più
nessuno
ucciderà
»
,
applicando
la
massima
secondo
cui
il
fine
giustifica
i
mezzi
,
e
annunciando
un
fine
che
non
può
non
essere
universalmente
riconosciuto
come
moralmente
nobile
.
Ma
la
sua
compagna
lo
interrompe
:
«
E
se
così
non
fosse
?
»
Quante
volte
nella
storia
è
stata
compiuta
un
'
azione
moralmente
riprovevole
con
intenzione
di
perseguire
uno
scopo
nobile
,
ma
poi
,
«
non
è
stato
così
»
?
Terzo
:
pure
ammesso
che
il
fine
sia
nobile
,
il
che
vuol
dire
giustificabile
con
argomenti
di
carattere
etico
,
e
raggiungibile
con
una
certa
probabilità
,
il
che
vuol
dire
non
arbitrario
,
non
velleitario
,
non
ingenuamente
utopistico
,
i
mezzi
impiegati
debbono
essere
tali
da
far
presumere
in
base
al
senso
comune
che
siano
adeguati
al
fine
,
e
se
vengono
giudicati
in
base
allo
stesso
senso
comune
immorali
,
siano
anche
i
soli
mezzi
capaci
di
ottenere
quello
scopo
e
pertanto
siano
non
solo
opportuni
ma
anche
rigorosamente
necessari
.
In
un
atto
terroristico
come
quello
compiuto
la
sera
di
domenica
23
dicembre
,
non
si
ritrova
nessuna
di
queste
tre
condizioni
.
Anzitutto
qual
è
il
fine
?
Impossibile
il
giudizio
sulla
bontà
o
non
bontà
del
fine
,
se
non
si
sa
esattamente
quale
sia
il
fine
dichiarato
o
presunto
.
Generalmente
nell
'
atto
di
terrorismo
puro
il
fine
non
è
dichiarato
:
a
differenza
del
terrorista
che
colpisce
un
bersaglio
preciso
,
il
terrorista
il
cui
obiettivo
è
unicamente
quello
di
seminar
panico
in
una
folla
inerme
,
può
rivendicare
il
gesto
ma
non
ne
rivela
mai
lo
scopo
.
Per
dare
un
'
apparenza
di
giustificazione
razionale
a
questa
forma
di
terrorismo
si
è
creduto
,
dalla
strage
di
piazza
Fontana
in
poi
,
che
un
fine
più
o
meno
preciso
ma
reale
esistesse
(
e
in
questo
senso
si
può
parlare
di
fine
presunto
)
e
consistesse
nella
creazione
di
uno
stato
di
cose
cui
è
stato
dato
un
nome
:
destabilizzazione
.
Ma
che
significa
«
destabilizzare
»
?
Si
tratta
di
una
delle
tante
parole
del
linguaggio
politico
che
,
essendo
abitualmente
usate
nella
conversazione
quotidiana
,
si
finisce
di
convincersi
abbiano
un
significato
preciso
,
mentre
non
appena
si
tenta
di
definirle
ci
si
accorge
che
sono
mobili
,
fluide
,
inafferrabili
.
Proviamo
a
intendere
per
«
destabilizzare
»
il
provocare
,
in
una
compagine
sociale
,
uno
stato
di
confusione
tale
da
rendere
praticamente
impossibile
il
normale
funzionamento
di
un
sistema
politico
qualunque
esso
sia
(
non
è
detto
che
solo
i
regimi
democratici
possano
essere
oggetto
di
un
'
azione
destabilizzante
)
.
Ma
questo
fine
è
raggiungibile
?
Che
una
strage
anche
grandissima
,
in
un
solo
punto
del
territorio
nazionale
,
specie
quando
si
tratti
di
un
territorio
vasto
come
quello
italiano
,
possa
avere
conseguenze
tali
da
creare
le
condizioni
per
un
rivolgimento
capace
di
mutare
radicalmente
lo
stato
di
cose
vigente
,
è
poco
credibile
.
Del
resto
le
stragi
sinora
compiute
non
hanno
avuto
altro
esito
che
quello
di
seminare
panico
,
sollevare
indignazione
,
provocare
lutti
le
cui
conseguenze
private
sono
infinitamente
superiori
a
quelle
pubbliche
e
politiche
.
Il
corso
degli
eventi
sarebbe
stato
diverso
nel
nostro
paese
se
le
stragi
non
fossero
avvenute
?
Avremmo
avuto
governi
più
stabili
,
politici
meno
discussi
,
maggiore
o
minore
inflazione
,
maggiore
o
minore
disoccupazione
?
Non
dovrebbe
essere
allora
altrettanto
destabilizzante
un
terremoto
?
In
un
naufragio
non
muoiono
altrettante
vittime
innocenti
?
Ma
se
il
raggiungimento
del
fine
,
anche
di
quello
presunto
,
è
poco
probabile
,
non
si
dovrà
dedurre
che
i
mezzi
(
mi
riferisco
alla
terza
condizione
)
sono
di
per
sé
palesemente
inadeguati
?
Le
interpretazioni
possibili
di
una
simile
azione
sono
due
:
o
l
'
attore
è
irrazionale
oppure
il
mezzo
si
è
convertito
nel
fine
,
non
ha
un
fine
perché
è
esso
stesso
il
fine
.
Riguardo
all
'
azione
del
terrorismo
puro
,
io
propendo
per
questa
seconda
interpretazione
.
L
'
unico
fine
della
strage
è
la
strage
.
So
benissimo
di
correre
sul
filo
del
paradosso
.
Ma
cerco
di
far
capire
e
di
capire
io
stesso
che
vi
sono
azioni
umane
di
fronte
alle
quali
si
può
parlare
di
malvagità
assoluta
.
Se
è
vero
,
come
io
credo
sia
vero
,
che
la
moralità
assoluta
consista
nel
fare
il
bene
con
nessun
altro
scopo
che
quello
di
fare
il
bene
,
disinteressatamente
,
la
immoralità
assoluta
dovrà
consistere
nel
compiere
un
'
azione
malvagia
con
nessun
altro
scopo
che
quello
di
fare
il
male
.
Il
terrorista
che
fa
esplodere
la
bomba
in
un
treno
è
perfettamente
consapevole
del
fatto
che
le
vittime
designate
sono
innocenti
.
Non
sono
neppure
suoi
nemici
.
Non
sono
neppure
capri
espiatori
di
un
rito
propiziatorio
compiuto
per
placare
un
dio
irato
.
Sono
cose
vili
,
oggetti
di
nessun
conto
(
e
per
questo
l
'
uno
vale
l
'
altro
)
,
la
cui
distruzione
egli
affida
al
caso
per
mostrare
la
sua
cieca
volontà
di
potenza
,
la
sua
radicale
indifferenza
ad
ogni
fine
che
la
trascenda
.
StampaQuotidiana ,
L
'
impresa
militare
americana
contro
la
Libia
,
presentata
e
giustificata
come
una
risposta
legittima
a
un
atto
di
terrorismo
,
solleva
ancora
una
volta
l
'
eterno
problema
del
rapporto
fra
la
morale
comune
o
il
diritto
,
suo
fratello
minore
,
e
la
violenza
.
Eterno
,
perché
non
mai
risolto
e
probabilmente
insolubile
,
se
è
vero
,
e
io
credo
sia
vero
,
quel
che
diceva
Machiavelli
:
gli
uomini
«
hanno
ed
ebbero
sempre
le
stesse
passioni
»
,
ed
è
quindi
naturale
che
ne
derivino
gli
stessi
effetti
.
La
morale
comune
e
il
diritto
,
suo
fratello
minore
,
condannano
in
linea
di
principio
la
violenza
e
ammettono
che
l
'
unica
violenza
legittima
sia
quella
che
risponde
alla
violenza
dell
'
altro
,
almeno
in
date
circostanze
,
quando
non
è
possibile
diversa
risposta
.
Detto
altrimenti
,
la
violenza
di
un
soggetto
,
individuo
o
gruppo
che
sia
,
in
linea
di
principio
illecita
,
diventa
lecita
quando
in
una
data
situazione
rappresenta
il
solo
rimedio
possibile
alla
violenza
dell
'
altro
.
Illecita
è
la
violenza
dell
'
aggressore
,
o
originaria
,
lecita
la
violenza
di
chi
si
difende
,
o
derivata
.
Ma
in
un
sistema
in
cui
non
esiste
un
giudice
imparziale
al
di
sopra
delle
parti
,
o
se
esiste
non
è
tenuto
in
alcun
conto
,
come
accade
nel
sistema
dei
rapporti
internazionali
,
chi
decide
quale
sia
la
violenza
originaria
e
quale
quella
derivata
?
A
questa
domanda
non
è
difficile
dare
una
risposta
sulla
base
della
lezione
dei
fatti
:
la
violenza
originaria
è
sempre
,
per
ognuno
dei
due
contendenti
,
quella
dell
'
altro
.
Anche
nel
caso
che
l
'
aggressione
sia
venuta
palesemente
da
una
delle
parti
:
basta
considerare
l
'
aggressione
come
una
reazione
preventiva
a
una
violenza
minacciata
.
Gli
americani
bombardano
Tripoli
per
ritorsione
contro
la
bomba
di
Berlino
attribuita
a
Gheddafi
come
mandante
.
In
tal
modo
la
loro
violenza
viene
giustificata
come
derivata
.
Ma
il
terrorista
non
si
trova
affatto
in
imbarazzo
a
replicare
(
ed
è
infatti
un
suo
argomento
abituale
)
che
il
terrorismo
è
l
'
unico
atto
di
guerra
consentito
ai
piccoli
contro
i
grandi
ed
è
quindi
l
'
unica
reazione
possibile
,
ancorché
spietata
(
ma
se
non
fosse
spietata
non
sarebbe
una
risposta
efficace
)
,
alla
prepotenza
di
chi
esercita
ingiustamente
(
almeno
a
suo
giudizio
)
un
enorme
potere
.
Dunque
anche
la
sua
violenza
non
è
,
dal
suo
punto
di
vista
,
originaria
.
Provate
a
cercare
la
violenza
originaria
,
la
violenza
che
in
quanto
originaria
sia
da
considerarsi
sicuramente
illecita
.
Non
la
troverete
.
E
non
la
trovate
,
non
già
perché
non
ci
possa
essere
,
ma
perché
nessuno
dei
due
contendenti
ammetterà
mai
che
originaria
sia
la
propria
,
derivata
l
'
altrui
.
E
un
giudice
esterno
,
e
presumibilmente
imparziale
,
nel
sistema
internazionale
non
esiste
.
Esiste
la
pubblica
opinione
ma
,
come
tutti
possono
constatare
leggendo
i
giornali
in
questi
giorni
,
è
divisa
.
Ed
è
divisa
anche
perché
non
è
in
grado
di
conoscere
esattamente
le
cose
,
come
potrebbe
conoscerle
un
giudice
dopo
aver
esaminato
tutti
i
pro
e
tutti
i
contro
,
e
dopo
aver
avuto
accesso
a
tutte
le
prove
addotte
da
una
parte
e
dall
'
altra
.
Pur
non
dubitando
della
correttezza
del
governo
americano
,
sta
di
fatto
che
,
nel
nostro
caso
,
le
prove
vengono
da
una
sola
delle
parti
in
causa
.
Quel
che
è
peggio
,
siccome
ogni
atto
violento
per
giustificarsi
deve
rinviare
a
un
atto
violento
precedente
,
lo
stato
di
violenza
una
volta
cominciato
(
anche
se
non
si
sa
quando
e
per
colpa
di
chi
sia
davvero
cominciato
)
è
destinato
a
continuare
.
E
nel
continuare
,
la
violenza
cresce
di
intensità
e
di
estensione
.
Avviene
quel
fenomeno
che
si
chiama
«
spirale
»
della
violenza
.
Avviene
per
una
ragione
molto
semplice
:
come
si
legge
in
un
altro
grande
scrittore
politico
del
passato
,
è
naturale
che
chi
è
giudice
nella
propria
causa
sia
indotto
o
dall
'
«
indole
cattiva
»
o
dalle
«
passioni
»
o
dallo
«
spirito
di
vendetta
»
ad
andare
troppo
oltre
nella
reazione
e
a
commettere
a
sua
volta
,
anche
nel
caso
che
la
sua
risposta
sia
legittima
,
un
'
ingiustizia
.
Se
la
reazione
contenuta
nei
limiti
dell
'
entità
dell
'
offesa
è
una
violenza
derivata
,
per
quella
parte
in
cui
eccede
questi
limiti
diventa
originaria
.
In
quanto
originaria
,
può
provocare
una
ritorsione
che
diventa
a
sua
volta
derivata
e
quindi
legittima
.
Anche
il
diritto
penale
interno
stabilisce
che
nella
legittima
difesa
la
reazione
deve
essere
proporzionata
all
'
offesa
.
Ma
nei
rapporti
fra
due
nemici
che
non
riconoscono
al
di
sopra
di
loro
un
potere
comune
,
chi
decide
se
questa
proporzione
vi
sia
stata
?
Siccome
ancora
una
volta
ognuno
dei
due
contendenti
darà
probabilmente
un
giudizio
opposto
,
considerando
proporzionata
la
propria
difesa
,
sproporzionata
quella
dell
'
altro
,
sorgeranno
di
nuovo
ottime
ragioni
da
parte
di
entrambi
per
aggiungere
nuovi
anelli
alla
catena
.
Generalmente
questa
catena
termina
in
un
solo
modo
:
con
la
sconfitta
definitiva
di
una
delle
parti
.
Con
la
vittoria
del
più
forte
.
Poiché
non
si
è
potuto
fare
in
modo
che
quel
che
è
giusto
sia
forte
,
diceva
Pascal
,
si
è
fatto
in
modo
che
quel
che
è
forte
sia
giusto
.
Credo
che
non
sarà
diversa
la
conclusione
dell
'
attuale
conflitto
.
Le
azioni
politiche
si
giudicano
dai
risultati
.
La
legge
morale
non
c
'
entra
.
Il
giudizio
sulle
azioni
politiche
non
le
appartiene
.
Reagan
lo
ha
detto
più
volte
:
il
suo
scopo
è
quello
di
reprimere
e
sopprimere
,
alla
lunga
,
il
terrorismo
medio
-
orientale
.
Rispetto
a
questo
unico
metro
di
giudizio
della
sua
azione
,
è
troppo
presto
per
emettere
un
verdetto
.
Se
vi
sarà
una
recrudescenza
del
terrorismo
,
si
dirà
che
ha
avuto
torto
.
Se
si
attenuerà
o
cesserà
del
tutto
,
si
dirà
che
ha
avuto
ragione
.
Indipendentemente
dal
fatto
che
la
reazione
sia
stata
proporzionata
all
'
offesa
,
ossia
da
ogni
considerazione
di
principio
.
Il
fine
giustifica
i
mezzi
.
Ancora
Machiavelli
:
faccia
un
principe
in
modo
di
vincere
e
i
mezzi
«
saranno
sempre
giudicati
onorevoli
e
da
ciascuno
lodati
»
.
StampaQuotidiana ,
È
lecito
uccidere
il
tiranno
?
Era
naturale
che
dopo
l
'
attentato
a
Pinochet
si
riproponesse
ancora
una
volta
,
anche
in
Italia
,
l
'
eterna
domanda
.
Se
la
sono
posta
in
questi
giorni
,
tra
gli
altri
,
Rossana
Rossanda
sul
«
Manifesto
»
rispondendo
di
sì
ma
sollevando
i
dubbi
di
Adriano
Sofri
,
e
di
Mieli
sulla
«
Stampa
»
e
di
Giuliano
Zincone
sul
«
Corriere
della
Sera
»
.
Il
problema
è
vecchio
e
le
diverse
possibili
soluzioni
altrettanto
.
Per
fare
qualche
esempio
,
in
un
'
epoca
in
cui
le
guerre
di
religione
avevano
favorito
la
nascita
di
dottrine
che
predicavano
il
tirannicidio
,
Hobbes
collocava
la
massima
«
E
lecito
uccidere
il
tiranno
»
fra
le
teorie
sediziose
che
in
uno
Stato
ben
ordinato
avrebbero
dovuto
essere
proibite
(
nella
repubblica
hobbesiana
l
'
articolo
di
Rossana
Rossanda
sarebbe
stato
censurato
,
e
l
'
autore
forse
messo
in
prigione
)
.
Nell
'
età
della
rivoluzione
francese
,
in
cui
venivano
celebrati
in
cattedrale
feste
e
riti
in
onore
di
Bruto
,
Kant
affermò
che
chiunque
avesse
anche
il
minimo
senso
dei
diritti
dell
'
umanità
non
poteva
non
essere
scosso
da
un
«
brivido
d
'
orrore
»
di
fronte
all
'
esecuzione
solenne
di
Carlo
I
in
Inghilterra
e
di
Luigi
XVI
in
Francia
.
Come
tutti
i
problemi
morali
,
anche
il
problema
della
liceità
del
tirannicidio
non
è
di
facile
soluzione
.
Anzi
,
non
ha
una
soluzione
che
possa
essere
data
e
accolta
una
volta
per
sempre
,
perché
ogni
caso
è
diverso
da
tutti
gli
altri
.
La
soluzione
dipende
dalle
circostanze
di
luogo
e
di
tempo
,
dalla
persona
contro
cui
l
'
atto
si
dirige
,
dalle
persone
che
lo
compiono
,
dalla
gravità
delle
colpe
e
dalla
impossibilità
di
ricorrere
ad
altri
rimedi
.
Avevano
ragione
o
torto
i
cospiratori
del
20
luglio
1944
nel
tentare
di
uccidere
Hitler
?
Aveva
le
stesse
ragioni
l
'
anarchico
Bresci
nell
'
uccidere
Umberto
I
?
Basta
porre
queste
due
domande
,
e
se
ne
potrebbero
porre
infinite
altre
analoghe
,
per
rendersi
conto
che
sotto
il
nome
generico
di
attentato
,
o
di
atto
terroristico
,
si
celano
eventi
totalmente
diversi
,
che
non
possono
essere
giudicati
con
lo
stesso
metro
.
Il
primo
aveva
un
intento
prevalentemente
liberatorio
,
il
secondo
essenzialmente
punitivo
.
Il
problema
è
reso
più
complesso
dal
fatto
che
la
stessa
azione
può
essere
sempre
giudicata
con
due
criteri
diversi
:
o
in
base
a
regole
precostituite
che
debbono
essere
osservate
o
in
base
ai
risultati
che
si
ritiene
debbano
essere
raggiunti
.
I
due
giudizi
non
coincidono
quasi
mai
:
osservando
le
buone
regole
spesso
si
ottengono
cattivi
risultati
;
cercando
di
ottenere
buoni
risultati
,
molte
buone
regole
vengono
coscientemente
e
tranquillamente
calpestate
.
Se
si
giudica
l
'
attentato
in
base
alle
regole
precostituite
,
è
evidente
che
esso
contravviene
alla
norma
«
Non
uccidere
»
,
che
è
una
delle
leggi
fondamentali
della
morale
di
ogni
popolo
e
in
ogni
tempo
.
Come
tale
dovrebbe
essere
condannato
.
Ma
non
vi
è
regola
senza
eccezione
.
Non
è
lecito
uccidere
il
nemico
in
una
guerra
giusta
?
Non
è
sempre
stata
riconosciuta
come
guerra
giusta
la
guerra
di
difesa
?
Non
può
allora
essere
estesa
al
tiranno
considerato
come
nemico
interno
l
'
eccezione
prevista
per
il
nemico
esterno
?
Sennonché
,
come
in
guerra
l
'
eccezione
vien
meno
di
fronte
alle
popolazioni
civili
,
così
l
'
attentatore
dovrebbe
colpire
soltanto
il
tiranno
e
risparmiare
le
persone
,
la
scorta
o
i
familiari
,
che
si
trovino
accanto
a
lui
.
Ma
oggi
questa
condizione
è
sempre
più
difficile
da
rispettare
per
il
tipo
di
armi
impiegato
,
come
ha
dimostrato
l
'
uccisione
di
alcune
guardie
del
corpo
nell
'
attentato
a
Pinochet
.
Ciò
rende
la
liceità
del
tirannicidio
,
giudicandola
in
base
agli
argomenti
della
filosofia
pubblica
tradizionale
,
sempre
più
problematica
.
Nel
dramma
I
giusti
,
di
Camus
,
il
congiurato
cui
è
stato
affidato
il
compito
di
uccidere
il
Gran
Duca
torna
senza
aver
eseguito
l
'
ordine
perché
sulla
carrozza
erano
seduti
accanto
al
personaggio
due
piccoli
nipoti
.
Quando
uno
dei
compagni
lo
rimprovera
:
«
L
'
Organizzazione
ti
aveva
comandato
di
uccidere
il
Gran
Duca
»
,
risponde
:
«
E
'
vero
,
ma
non
mi
aveva
comandato
di
assassinare
dei
bambini
»
.
Partendo
dal
punto
di
vista
dei
risultati
,
il
giudizio
non
diventa
né
più
facile
né
più
limpido
.
Anzitutto
il
risultato
deve
essere
se
non
certo
altamente
probabile
.
Non
c
'
è
dubbio
che
nel
caso
dell
'
attentato
al
generale
cileno
il
non
raggiungimento
del
risultato
abbia
contribuito
a
rafforzare
il
potere
del
dittatore
sia
nei
riguardi
di
tutti
quei
cittadini
(
e
sono
ancora
molti
)
che
sarebbero
disposti
a
liberarsi
dalla
dittatura
in
cambio
di
una
democrazia
moderata
ma
non
a
cambiare
il
regime
di
Pinochet
con
un
regime
comunista
,
sia
nei
riguardi
degli
Stati
Uniti
,
che
abbandoneranno
del
tutto
il
generale
solamente
quando
saranno
sicuri
che
al
suo
posto
invece
di
un
governo
democratico
all
'
americana
non
venga
istituito
un
governo
guidato
dal
partito
comunista
.
In
secondo
luogo
,
si
deve
prevedere
che
il
risultato
non
solo
sia
perseguibile
con
un
alto
grado
di
probabilità
,
ma
che
,
se
raggiunto
,
sia
tale
da
non
lasciar
adito
a
dubbi
sulla
sua
convenienza
o
opportunità
,
nel
senso
che
,
messi
sui
due
piatti
della
bilancia
il
male
necessario
(
nell
'
uso
di
certi
mezzi
)
e
il
bene
possibile
,
il
secondo
prevalga
.
Inutile
dire
quanto
questa
soluzione
sia
difficile
.
Nel
caso
dell
'
attentato
a
Giovanni
Gentile
(
so
di
toccare
un
tasto
dolente
)
la
sproporzione
tra
la
morte
di
un
uomo
e
le
conseguenze
che
questa
morte
poteva
avere
sulla
condotta
della
guerra
era
tale
da
renderci
oggi
molto
dubbiosi
sulla
saggezza
di
quell
'
atto
(
anche
se
devo
confessare
che
allora
non
mi
ero
posto
il
problema
nello
stesso
modo
)
.
Nel
caso
dell
'
attentato
a
Pinochet
sospendo
il
giudizio
:
mi
parrebbe
di
commettere
un
atto
di
prevaricazione
nel
sostituire
la
mia
opinione
a
quella
di
coloro
che
vivono
dentro
a
quella
situazione
.
Durante
l
'
occupazione
tedesca
,
quando
assistevamo
alla
tortura
e
alla
morte
di
tanti
nostri
compagni
,
come
avrei
giudicato
un
attentato
a
Mussolini
?
Un
uomo
dell
'
altezza
morale
di
Calamandrei
alla
notizia
della
morte
di
Mussolini
trascrive
sul
suo
diario
,
unico
commento
all
'
episodio
,
il
famoso
cantico
di
Alceo
:
«
Ora
bisogna
bere
;
I
ubriacarsi
bisogna
;
I
ora
che
Mirsilo
è
morto
»
.
Completamente
diverso
e
più
semplice
il
giudizio
sugli
atti
di
terrorismo
indiscriminati
,
come
le
stragi
alla
stazione
di
Bologna
,
nella
sinagoga
di
Istanbul
,
nel
grande
magazzino
di
rue
de
Rennes
.
Prova
ne
sia
che
,
mentre
di
fronte
all
'
attentato
al
dittatore
cileno
c
'
interroghiamo
sulla
sua
liceità
,
di
fronte
a
quelle
stragi
restiamo
inorriditi
,
incapaci
di
dare
,
nonché
una
giustificazione
,
una
qualsiasi
plausibile
spiegazione
.
StampaQuotidiana ,
Ogni
atto
terroristico
suscita
un
acceso
e
quasi
sempre
inconcludente
dibattito
circa
i
suoi
scopi
e
i
suoi
effetti
.
Il
dibattito
nasce
dal
fatto
che
di
ogni
atto
terroristico
,
sia
di
quello
indiscriminato
sia
di
quello
rivolto
verso
un
obiettivo
specifico
,
è
estremamente
difficile
stabilire
gli
scopi
.
Ed
è
estremamente
difficile
stabilirne
gli
scopi
perché
non
è
facile
prevederne
gli
effetti
.
L
'
assassinio
del
prof.
Tarantelli
è
stato
immediatamente
collegato
alla
campagna
in
corso
pro
e
contro
il
referendum
.
Ma
a
guardar
bene
questo
collegamento
è
stato
fatto
nei
modi
più
diversi
.
I
problemi
connessi
col
referendum
sono
due
:
a
)
se
si
debba
svolgere
,
secondo
l
'
indicazione
della
Corte
costituzionale
,
o
debba
essere
evitato
;
b
)
se
una
volta
che
sia
stato
deciso
di
lasciarlo
svolgere
,
quale
delle
due
parti
in
contrasto
lo
vincerà
.
Ebbene
,
rispetto
a
entrambi
i
problemi
,
credo
che
nessuno
sia
in
grado
di
prevedere
esattamente
se
l
'
assassinio
del
prof.
Tarantelli
avrà
delle
conseguenze
e
quali
saranno
.
Rispetto
al
primo
problema
l
'
assassinio
è
destinato
a
favorire
coloro
che
il
nodo
della
scala
mobile
preferiscono
tagliarlo
con
il
ricorso
al
voto
popolare
oppure
coloro
che
preferiscono
scioglierlo
attraverso
un
compromesso
fra
le
parti
in
cui
non
dovrebbero
esservi
né
vincitori
né
vinti
?
Rispetto
al
secondo
,
questo
«
sangue
»
è
destinato
a
far
aumentare
i
voti
del
«
sì
»
oppure
i
voti
contrari
?
Posto
il
problema
degli
scopi
e
degli
effetti
di
questo
nuovo
atto
di
terrorismo
,
e
non
si
vede
come
possa
essere
posto
altrimenti
,
si
capisce
subito
che
le
risposte
possibili
sono
molte
,
e
anche
opposte
fra
loro
.
Di
fatto
,
a
giudicare
dalla
polemica
subito
sorta
fra
uomini
politici
delle
diverse
parti
,
ognuno
dà
una
interpretazione
diversa
secondo
il
proprio
punto
di
vista
.
Ciò
dimostra
ancora
una
volta
che
la
logica
dell
'
atto
terroristico
non
può
essere
giudicata
alla
stregua
della
logica
dell
'
azione
politica
comune
,
che
mette
in
diretta
connessione
il
mezzo
col
fine
,
e
che
di
fronte
a
un
'
azione
in
cui
non
riesce
a
cogliere
il
nesso
mezzo
-
fine
è
tentata
di
considerarla
irrazionale
(
o
folle
)
.
Una
delle
ragioni
per
cui
è
così
difficile
dare
un
giudizio
politico
su
un
atto
di
terrorismo
è
che
ci
si
sofferma
troppo
poco
sul
suo
aspetto
meramente
punitivo
o
vendicativo
.
Il
terrorista
è
o
crede
di
essere
,
prima
di
tutto
,
un
giustiziere
.
Ciò
che
per
noi
che
ci
mettiamo
dal
punto
di
vista
dell
'
ordinamento
delle
leggi
dello
Stato
è
un
assassinio
,
per
il
terrorista
che
non
accetta
l
'
ordinamento
dello
Stato
,
che
considera
lo
Stato
il
principale
nemico
da
abbattere
,
è
una
condanna
a
morte
.
Di
un
atto
di
giustizia
è
perfettamente
inutile
cercare
quali
siano
gli
scopi
e
gli
effetti
ulteriori
.
In
un
atto
di
giustizia
lo
scopo
dell
'
atto
che
è
il
rendere
giustizia
,
è
intrinseco
all
'
atto
stesso
.
L
'
atto
di
giustizia
non
pone
alcuna
domanda
che
vada
al
di
là
dell
'
atto
perché
è
esso
stesso
una
risposta
,
ed
è
una
risposta
che
chiude
un
ciclo
di
azioni
e
reazioni
,
e
non
ne
apre
uno
nuovo
.
Che
ogni
atto
di
giustizia
,
soprattutto
poi
quando
è
così
spietato
,
possa
avere
anche
lo
scopo
di
costituire
un
atto
d
'
intimidazione
e
di
avvertimento
nei
riguardi
di
futuri
colpevoli
,
non
si
può
escludere
,
sebbene
uno
scopo
di
questo
genere
sia
molto
più
evidente
nella
giustizia
di
un
'
istituzione
regolata
da
norme
generali
e
astratte
com
'
è
l
'
ordinamento
giuridico
dello
Stato
che
in
quella
di
un
gruppo
terroristico
la
cui
organizzazione
è
labile
,
discontinua
,
e
la
cui
azione
futura
è
molto
più
incerta
.
Ma
in
ogni
caso
l
'
eventuale
effetto
rispetto
ad
azioni
future
è
secondario
rispetto
a
quello
primario
ed
essenziale
della
punizione
di
azioni
passate
.
Ha
dunque
ben
poco
senso
cercare
una
giustificazione
politica
di
un
atto
che
essendo
compiuto
come
un
atto
di
giustizia
trova
la
propria
giustificazione
in
se
stesso
,
cioè
esclusivamente
nel
fatto
di
essere
un
atto
di
giustizia
,
e
che
in
quanto
tale
può
avere
paradossalmente
una
giustificazione
etica
(
se
pure
di
un
'
etica
distorta
)
e
non
ha
niente
a
che
fare
con
la
politica
.
A
questa
prima
osservazione
se
ne
collega
una
seconda
,
a
mio
parere
più
importante
.
L
'
unica
cosa
che
un
atto
terroristico
come
l
'
assassinio
del
prof.
Tarantelli
vuole
politicamente
dimostrare
è
che
di
fronte
ai
grandi
conflitti
sociali
non
vi
può
essere
che
un
unico
modo
per
risolverli
:
il
ricorso
alla
violenza
.
In
quanto
tale
esso
è
una
sfida
alla
democrazia
intesa
come
l
'
insieme
delle
regole
che
permettono
di
risolvere
i
conflitti
senza
ricorrere
all
'
uso
della
violenza
da
parte
dei
gruppi
in
conflitto
fra
loro
.
I
modi
per
risolvere
democraticamente
,
senza
ricorrere
alla
violenza
,
i
conflitti
d
'
interesse
sono
principalmente
due
:
la
trattativa
che
conduce
a
un
accordo
di
compromesso
oppure
il
voto
calcolato
in
base
alla
regola
di
maggioranza
.
Si
osservi
bene
:
si
tratta
dei
due
metodi
attualmente
in
contrasto
per
la
soluzione
della
controversia
sulla
scala
mobile
,
e
sui
quali
è
in
corso
,
con
esito
incerto
,
la
discussione
fra
le
varie
parti
.
Anche
da
questo
punto
di
vista
,
a
me
pare
sia
perfettamente
inutile
il
litigio
sui
presunti
scopi
dell
'
assassinio
.
In
quanto
esso
applica
il
metodo
della
violenza
in
antitesi
al
metodo
democratico
essenzialmente
non
violento
,
si
contrappone
contemporaneamente
tanto
alle
pratiche
del
compromesso
che
vorrebbero
evitare
il
referendum
quanto
all
'
attuazione
del
referendum
che
pretende
di
risolvere
con
un
voto
di
maggioranza
un
conflitto
che
secondo
il
terrorista
,
che
ha
una
idea
rivoluzionaria
del
cambiamento
storico
,
non
può
essere
risolto
con
nessuno
dei
rimedi
offerti
da
un
governo
democratico
che
voglia
rispettare
le
regole
del
gioco
.
Il
terrorista
dice
no
tanto
al
compromesso
quanto
al
referendum
,
tra
i
quali
non
può
fare
alcuna
distinzione
dal
suo
punto
di
vista
.
Anche
in
questo
caso
il
gesto
ha
un
valore
puramente
dimostrativo
e
pertanto
ha
un
fine
in
se
stesso
,
come
l
'
atto
di
giustizia
,
indipendentemente
dai
suoi
effetti
.
Con
questo
non
si
vuol
dire
che
non
abbia
effetti
che
vadano
ben
al
di
là
delle
intenzioni
degli
attori
,
anche
se
non
sappiamo
esattamente
quali
potranno
essere
.
Ma
non
è
l
'
arzigogolare
sugli
effetti
che
possa
in
qualche
modo
offrirci
una
ragione
dell
'
atto
,
perché
l
'
atto
ha
le
sue
ragioni
chiarissime
a
chi
le
voglia
intendere
,
indipendentemente
da
essi
.
Resta
una
domanda
angosciosa
:
perché
nel
nostro
paese
questa
sfida
alla
democrazia
sia
più
forte
che
altrove
.
StampaQuotidiana ,
Le
recenti
vicende
che
stanno
travolgendo
la
popolarità
di
Ronald
Reagan
hanno
sollevato
un
vasto
dibattito
che
riguarda
non
soltanto
la
persona
del
presidente
ma
anche
l
'
istituzione
stessa
della
presidenza
della
repubblica
degli
Stati
Uniti
,
come
si
è
venuta
trasformando
negli
ultimi
decenni
.
Per
quanto
possa
sembrare
paradossale
,
si
va
dicendo
che
il
presidente
degli
Stati
Uniti
è
insieme
forte
e
vulnerabile
,
e
addirittura
tanto
più
vulnerabile
quanto
più
forte
.
Il
paradosso
consiste
nel
fatto
che
la
vulnerabilità
è
di
solito
considerata
caratteristica
di
un
potere
debole
.
Nell
'
ultimo
saggio
scritto
prima
della
morte
(
Autoritarismo
,
fascismo
e
classi
sociali
,
Il
Mulino
,
Bologna
1975
)
Gino
Germani
esprimeva
il
dubbio
che
i
pochi
governi
democratici
nel
mondo
attuale
potessero
sopravvivere
in
un
universo
di
Stati
in
gran
parte
non
democratici
.
Egli
fondava
questo
dubbio
sulla
convinzione
che
i
regimi
democratici
fossero
più
vulnerabili
sia
per
ragioni
interne
-
la
frammentazione
del
potere
che
consente
a
piccoli
gruppi
organizzati
di
inferire
colpi
mortali
alla
società
costretta
per
difendersi
a
violare
le
sue
stesse
regole
-
,
sia
per
ragioni
esterne
-
la
crescente
e
inarrestabile
dimensione
universale
della
politica
internazionale
che
avrebbe
favorito
i
regimi
autoritari
più
di
quelli
democratici
.
Entrambe
le
ragioni
mettevano
in
relazione
la
vulnerabilità
delle
democrazie
con
la
loro
debolezza
.
Soprattutto
per
quel
che
riguarda
la
politica
estera
,
la
stessa
tesi
è
stata
sostenuta
col
solito
vigore
e
furore
polemici
da
Jean
-
François
Revel
nel
libro
Come
finiscono
le
democrazie
(
Rizzoli
,
Milano
1984
)
.
Le
democrazie
sarebbero
destinate
a
finire
,
e
a
rappresentare
un
episodio
di
breve
durata
nella
storia
del
mondo
,
per
l
'
incapacità
di
difendersi
dal
loro
grande
avversario
,
il
totalitarismo
.
Questa
incapacità
sarebbe
dovuta
in
parte
ai
dissensi
interni
,
in
parte
all
'
eccesso
di
arrendevolezza
di
fronte
all
'
astuto
,
spietato
,
antagonista
.
Anche
in
questo
caso
la
vulnerabilità
è
interpretata
come
il
naturale
effetto
della
debolezza
.
In
che
senso
la
vulnerabilità
può
essere
fatta
derivare
piuttosto
dall
'
eccesso
di
forza
che
dall
'
eccesso
di
debolezza
?
La
risposta
è
stata
data
per
secoli
dai
classici
del
pensiero
politico
:
tanto
più
grande
il
potere
dei
governanti
tanto
più
forte
è
la
tentazione
che
essi
hanno
di
abusarne
,
vale
a
dire
di
esercitarlo
violando
o
aggirando
le
norme
stabilite
per
regolarlo
e
limitarlo
.
Tale
risposta
trova
piena
conferma
nell
'
affermazione
di
uno
dei
più
illustri
storici
contemporanei
degli
Stati
Uniti
,
Arthur
Schlesinger
,
che
in
un
'
intervista
di
questi
giorni
ha
detto
:
«
Gli
scandali
come
il
Watergate
,
oggi
l
'
Irangate
,
sono
la
risposta
patologica
alla
patologia
dell
'
onnipotenza
»
.
Naturalmente
vi
sono
regimi
in
cui
il
potere
è
forte
e
insieme
invulnerabile
.
Sono
gli
Stati
dispotici
ove
chi
governa
non
ha
,
come
diceva
Montesquieu
,
«
né
leggi
né
freni
»
.
Vi
sono
regimi
in
cui
leggi
fondamentali
esistono
ma
mancano
gli
organi
di
controllo
della
loro
osservanza
.
Sono
le
autocrazie
preliberali
in
cui
il
rispetto
delle
leggi
fondamentali
che
dovrebbero
limitare
il
potere
sovrano
è
demandato
allo
stesso
detentore
di
quel
potere
(
«
autocrate
»
è
letteralmente
colui
che
governa
se
stesso
)
.
Vi
sono
infine
regimi
in
cui
non
solo
il
potere
deve
essere
sempre
esercitato
entro
i
limiti
stabiliti
da
una
costituzione
formale
,
e
oggi
,
nella
maggior
parte
dei
casi
,
anche
rigida
,
ma
è
,
o
dovrebbe
essere
,
di
fatto
sottoposto
sempre
a
controlli
esterni
.
Sono
gli
Stati
democratici
.
Di
questi
controlli
due
sono
i
principali
:
quello
derivato
dalla
libertà
di
stampa
,
che
permette
la
formazione
di
un
'
opinione
pubblica
;
quello
derivato
dall
'
istituzione
della
divisione
dei
poteri
da
cui
nasce
il
controllo
del
potere
legislativo
su
quello
governativo
.
Sono
due
istituti
caratteristici
dello
Stato
democratico
,
di
cui
siamo
debitori
alla
tradizione
del
pensiero
liberale
,
che
ha
avuto
negli
Stati
Uniti
una
delle
sue
terre
d
'
elezione
.
Secondo
la
brillante
tesi
sostenuta
recentemente
da
Michel
Walzer
,
professore
di
scienze
sociali
all
'
Institute
for
Advanced
Studies
di
Princeton
,
lo
spirito
del
liberalismo
consiste
nell
'
«
arte
della
separazione
»
,
a
cominciare
dalla
separazione
dello
Stato
dalla
Chiesa
,
della
sfera
privata
dalla
pubblica
,
della
società
civile
dal
sistema
politico
,
per
finire
,
all
'
interno
del
sistema
politico
,
a
quella
tra
l
'
uno
e
l
'
altro
dei
massimi
poteri
.
Tutte
queste
separazioni
servono
,
come
afferma
Walzer
,
«
a
prevenire
e
a
combattere
l
'
uso
tirannico
del
potere
»
.
In
base
a
questa
tesi
è
lecito
sostenere
che
tanto
la
crisi
della
presidenza
Nixon
quanto
quella
della
presidenza
Reagan
siano
nate
proprio
dalla
violazione
del
principio
di
separazione
,
vale
a
dire
dalla
pratica
costante
,
e
per
un
certo
periodo
di
tempo
incontrollata
,
della
confusione
,
in
primo
luogo
della
confusione
fra
potere
legale
e
potere
personale
,
ovvero
nell
'
uso
personale
del
potere
legale
.
Si
capisce
quindi
perché
si
possa
parlare
di
vulnerabilità
a
proposito
tanto
di
un
governo
debole
quanto
di
un
governo
forte
.
Ma
se
ne
parla
in
due
sensi
diversi
.
Il
primo
è
vulnerabile
per
sua
natura
;
il
secondo
è
tale
in
un
contesto
istituzionale
in
cui
anche
il
supremo
potere
è
limitato
da
regole
giuridiche
.
Nel
primo
caso
la
vulnerabilità
è
un
fatto
negativo
,
e
induce
chi
la
denuncia
a
sostenere
che
la
democrazia
è
impraticabile
.
Nel
secondo
è
un
fatto
positivo
,
ed
è
anzi
la
riprova
che
i
meccanismi
di
controllo
del
potere
,
propri
dei
regimi
democratici
,
sono
entrati
,
se
pur
talora
tardivamente
,
in
azione
.
Nel
primo
caso
è
un
difetto
,
nel
secondo
il
rimedio
a
un
difetto
.
Un
rimedio
che
dimostra
se
mai
quanto
sia
difficile
il
pieno
rispetto
delle
regole
democratiche
nei
rapporti
internazionali
,
in
un
sistema
in
cui
la
maggior
parte
degli
Stati
non
sono
democratici
ed
è
esso
stesso
solo
apparentemente
democratico
,
in
realtà
ingovernabile
.
Sino
a
che
uno
Stato
non
democratico
vive
in
una
comunità
cui
appartengono
Stati
non
democratici
,
ed
è
essa
stessa
non
democratica
,
anche
il
regime
degli
Stati
democratici
sarà
una
democrazia
incompiuta
.
L
'
idea
del
vecchio
Kant
,
per
cui
la
condizione
preliminare
di
una
pace
perpetua
,
diversa
da
quella
dei
cimiteri
,
fosse
che
tutti
gli
Stati
avessero
egual
forma
di
governo
,
la
forma
repubblicana
,
quella
forma
di
governo
in
cui
per
decidere
della
guerra
occorre
l
'
assenso
dei
cittadini
,
non
era
il
«
sogno
di
un
visionario
»
.
Era
una
previsione
fatta
nella
forma
del
«
se
allora
»
.
Purtroppo
quel
«
se
»
-
«
se
tutti
gli
Stati
fossero
repubblicani
»
-
può
essere
per
ora
soltanto
l
'
oggetto
di
un
augurio
.
StampaQuotidiana ,
Nel
recente
convegno
sulla
nuova
destra
,
svoltosi
a
Cuneo
per
iniziativa
dell
'
Istituto
storico
della
Resistenza
,
qualcuno
ha
messo
in
dubbio
che
«
destra
»
e
«
sinistra
»
siano
ancora
concetti
adeguati
a
rappresentare
le
divisioni
attuali
tra
dottrine
e
movimenti
politici
.
Siamo
stati
invitati
a
riflettere
sul
fatto
che
da
sinistra
si
riscoprono
scrittori
di
destra
,
come
Cari
Schmitt
,
da
destra
,
in
particolare
dalla
nuova
destra
reazionaria
,
scrittori
di
sinistra
come
Gramsci
.
Negli
stessi
giorni
in
un
'
intervista
a
«
Panorama
»
Massimo
Cacciari
,
intellettuale
di
sinistra
,
dichiarava
di
rifiutare
«
quella
concezione
assiale
della
politica
che
prevede
una
destra
e
una
sinistra
,
intese
come
blocchi
compatti
e
specularmente
contrapposti
»
.
In
realtà
questa
confusione
non
è
nuova
né
è
senza
giustificazione
:
estrema
sinistra
ed
estrema
destra
hanno
amori
diversi
ma
odi
comuni
.
Uno
di
questi
odi
è
la
democrazia
,
intesa
come
il
regime
in
cui
le
sole
decisioni
collettive
legittime
sono
quelle
prese
in
base
alla
regola
della
maggioranza
.
Peraltro
,
le
ragioni
di
questa
avversione
sono
,
da
una
parte
e
dall
'
altra
,
opposte
.
Proprio
tenendo
conto
di
queste
opposte
ragioni
si
riesce
ancora
a
cogliere
il
principale
carattere
distintivo
dei
due
schieramenti
in
cui
si
divide
tradizionalmente
l
'
universo
politico
.
L
'
opposizione
consiste
in
questo
:
per
l
'
estrema
sinistra
la
regola
di
maggioranza
,
per
cui
ogni
cittadino
conta
per
uno
,
assicura
un
'
eguaglianza
puramente
formale
ma
non
riesce
altrettanto
bene
a
promuovere
l
'
eguaglianza
sostanziale
;
per
l
'
estrema
destra
la
stessa
regola
della
maggioranza
,
pareggiando
se
pure
solo
formalmente
tutti
i
cittadini
,
finisce
per
disconoscere
che
gli
uomini
sono
sostanzialmente
diseguali
.
Come
si
vede
,
la
divisione
avviene
sul
diverso
giudizio
che
l
'
una
e
l
'
altra
parte
danno
sull
'
eguaglianza
e
rispettivamente
sulla
diseguaglianza
come
ideale
da
perseguire
.
Questo
diverso
giudizio
permette
di
tener
ben
distinte
ideologie
che
tendono
a
una
maggiore
eguaglianza
rispetto
alla
democrazia
formale
,
e
che
chiamerò
egualitarie
,
e
ideologie
che
chiedono
una
maggiore
diseguaglianza
,
sempre
rispetto
alla
democrazia
formale
,
e
che
chiamerò
inegualitarie
.
Si
tratta
di
una
distinzione
vecchia
come
il
mondo
,
molto
più
vecchia
della
distinzione
tra
sinistra
e
destra
,
che
risale
alla
rivoluzione
francese
.
Ma
dacché
i
due
termini
di
sinistra
e
destra
sono
stati
introdotti
nel
linguaggio
politico
,
essi
sono
sempre
stati
adoperati
per
coprire
la
distinzione
tra
ideologie
egualitarie
e
inegualitarie
.
Perciò
sinché
vi
saranno
dottrine
e
movimenti
che
si
contrappongono
sulla
base
del
diverso
valore
dato
al
principio
dell
'
eguaglianza
,
l
'
uso
dei
due
termini
è
non
solo
legittimo
ma
utile
.
Il
loro
rifiuto
è
prova
o
di
imperdonabile
ignoranza
o
peggio
dell
'
illusione
di
cancellare
insieme
coi
due
nomi
la
realtà
che
essi
designano
.
La
contrapposizione
fra
egualitari
e
inegualitari
è
vecchia
quanto
il
mondo
per
la
semplice
ragione
che
gli
uomini
sono
tanto
eguali
quanto
diseguali
:
sono
eguali
in
quanto
appartengono
al
genere
umano
distinto
da
altri
generi
come
quello
degli
animali
,
ma
sono
diseguali
considerati
come
individui
,
uno
per
uno
.
Le
ideologie
egualitarie
mettono
l
'
accento
soprattutto
sull
'
appartenenza
di
tutti
gli
uomini
a
un
genere
comune
,
quelle
inegualitarie
sulle
osservabili
e
inconfutabili
differenze
tra
l
'
uno
e
l
'
altro
individuo
.
In
altre
parole
,
le
prime
danno
più
importanza
a
ciò
che
ci
unisce
,
le
seconde
a
ciò
che
ci
divide
.
Tra
le
tante
prove
storiche
che
si
possono
addurre
di
questa
contrapposizione
,
mi
limito
a
quella
che
si
può
trarre
dai
due
autori
considerati
a
buon
diritto
i
principali
ispiratori
dei
due
schieramenti
:
Rousseau
e
Nietzsche
.
Nel
suo
Discorso
sull
'
origine
delle
diseguaglianze
fra
gli
uomini
,
Rousseau
parte
dalla
considerazione
che
gli
uomini
sono
nati
fondamentalmente
eguali
ma
la
civiltà
corrotta
li
ha
resi
diseguali
.
Nietzsche
,
al
contrario
,
parte
dalla
considerazione
che
gli
uomini
sono
per
natura
diseguali
e
soltanto
la
civiltà
,
con
la
sua
morale
del
gregge
,
di
cui
è
massimamente
responsabile
il
cristianesimo
,
e
di
cui
sono
manifestazioni
al
tempo
presente
la
democrazia
e
il
socialismo
,
li
ha
resi
ingiustamenti
eguali
.
L
'
ideale
che
si
può
trarre
dalla
interpretazione
rousseauiana
del
corso
storico
è
quello
rivoluzionario
dell
'
abbattimento
delle
società
storiche
fondate
sulla
diseguaglianza
sociale
e
della
instaurazione
di
una
nuova
società
in
cui
tutti
siano
a
pari
diritto
cittadini
;
l
'
ideale
che
si
può
trarre
dalla
interpretazione
nietzscheana
,
è
al
contrario
quello
reazionario
della
restaurazione
di
un
ordine
gerarchico
la
cui
distruzione
ha
reso
possibile
il
trionfo
della
quantità
,
dei
«
malriusciti
»
,
del
branco
.
Lo
stesso
Nietzsche
ritorna
sempre
a
Rousseau
,
il
suo
grande
nemico
,
ogni
qualvolta
sfoga
il
proprio
furore
contro
il
principio
dell
'
eguaglianza
e
contro
quell
'
avvenimento
storico
,
la
rivoluzione
francese
,
che
avrebbe
cercato
di
attuarlo
:
«
Quello
che
odio
-
una
citazione
fra
mille
-
è
la
rousseauiana
moralità
della
rivoluzione
francese
...
La
dottrina
dell
'
eguaglianza
.
Ma
non
c
'
è
tossico
più
velenoso
!
»
Mi
si
può
obiettare
che
il
criterio
dell
'
eguaglianza
non
è
il
solo
a
permettere
di
caratterizzare
due
ideologie
opposte
.
C
'
è
anche
quello
della
libertà
in
base
al
quale
si
distinguono
ideologie
libertarie
e
autoritarie
.
Rispondo
che
questo
criterio
di
distinzione
serve
a
distinguere
,
nell
'
ambito
della
sinistra
e
della
destra
,
l
'
ala
estrema
dall
'
ala
moderata
.
Si
può
sostenere
infatti
che
le
due
ali
estreme
sono
autoritarie
,
quelle
moderate
libertarie
.
Di
conseguenza
,
la
linea
su
cui
si
collocano
le
diverse
ideologie
partendo
da
sinistra
e
procedendo
verso
destra
si
sviluppa
attraverso
queste
quattro
aree
.
All
'
estrema
sinistra
stanno
i
movimenti
che
sono
insieme
egualitari
e
autoritari
:
l
'
esempio
classico
è
quello
dei
giacobini
e
dei
loro
tardi
seguaci
,
i
bolscevichi
.
Alla
sinistra
moderata
appartengono
i
movimenti
egualitari
e
libertari
,
il
cui
esempio
al
tempo
attuale
sono
i
partiti
socialdemocratici
che
ricoprono
una
vasta
area
che
si
potrebbe
chiamare
opportunamente
di
«
socialismo
liberale
»
.
Seguono
i
movimenti
della
destra
moderata
che
sono
insieme
inegualitari
e
libertari
.
Infine
c
'
è
l
'
estrema
destra
in
cui
si
collocano
i
movimenti
che
accompagnano
l
'
autoritarismo
alla
voglia
(
o
nostalgia
)
di
una
società
ordinata
gerarchicamente
.
Certamente
la
realtà
è
più
ricca
di
qualsiasi
schema
.
Ma
è
sempre
meglio
uno
schema
qualsiasi
che
la
confusione
mentale
da
cui
possono
nascere
soltanto
comportamenti
politicamente
aberranti
.
StampaQuotidiana ,
Staglieno
!
Staglieno
!
Necropoli
senza
fi
ne
,
paradiso
del
necrofilo
mentale
,
giardino
accademico
dell
'
animista
ateo
!
Staglieno
,
porto
sepolto
,
sotterraneo
,
alle
spalle
della
città
portuale
!
Suo
padre
,
il
Père
-
Lachaise
,
ha
più
.
misura
,
è
fatto
come
un
regolamento
,
un
'
accademia
militare
,
si
è
rinchiusa
nei
suoi
viali
una
società
più
potente
,
più
compatta
,
decisa
a
tenersi
tutta
per
mano
e
a
fare
muro
contro
il
tempo
sotto
il
segno
del
due
amanti
del
Paracleto
,
Abelardo
ed
Eloisa
,
la
coppia
di
intellettuali
sepolta
in
parole
nella
Patrologia
del
Migne
e
in
ossa
che
si
baciano
e
ribaciano
sotto
il
tempietto
neogotico
di
Parigi
,
ultima
loro
follia
.
Al
Père
-
Lachaise
,
dove
si
è
dissolta
la
fragilità
dei
vivi
,
tiene
mirabilmente
la
forza
,
l
'
energia
,
la
fame
di
durare
,
la
misteriosa
volontà
di
patema
dei
morti
.
Aspettate
a
dire
che
la
Francia
è
nella
sua
amministrazione
;
cercate
prima
nell
'
ombelico
del
Père
-
Lachaise
il
segreto
della
sua
forza
.
Ma
Staglieno
è
più
inaspettato
,
più
incredibile
,
più
fantastico
.
La
diga
del
progetto
originario
del
Barabino
,
una
sobria
pianta
quadrangolare
dominata
da
un
cappellone
neoclassico
,
si
rompe
presto
e
il
fiume
dei
morti
sommerge
la
collina
,
le
anime
per
placarsi
pretendono
sterminate
gallerie
,
colonnati
,
boschetti
sacri
,
ambulacri
di
Dedalo
,
templi
egiziani
,
e
un
diluvio
,
un
oceano
,
un
'
atlantide
di
statue
,
di
bassorilievi
,
di
altorilievi
,
di
busti
,
di
medaglioni
,
di
epigrafi
spudorate
,
di
gruppi
statuari
senza
ritegno
che
raccontino
di
loro
tutto
.
Staglieno
è
un
'
enorme
confessione
collettiva
,
uno
dei
più
grandi
spettacoli
del
teatro
della
Morte
;
si
possono
passare
giorni
(
notti
,
ancora
meglio
,
nascondendosi
in
qualche
cappella
)
,
settimane
intere
ad
ascoltare
quelle
tirate
,
quei
monologhi
,
quei
battibecchi
su
chi
ebbe
più
meriti
,
su
chi
ha
più
ammassato
patrimoni
celesti
,
e
sempre
ti
direbbero
dell
'
insolito
,
dell
'
inaudito
sulla
nullità
,
il
vuoto
,
la
miseria
,
la
stupidità
inarrivabile
,
l
'
assurdità
perfetta
,
la
disperazione
infinita
che
i
nostri
gusci
d
'
osso
nascondono
per
vomitarli
davanti
alla
faccia
del
cielo
.
Le
sue
voci
Se
le
pietre
romaniche
cantano
,
le
statue
di
Staglieno
recitano
:
sono
drammi
giacosiani
,
ibseniani
,
ferrariani
,
scapigliateschi
,
verghiani
,
bracchiani
,
dannunziani
,
pirandelliani
,
labichiani
,
feidoiani
,
strindberghiani
in
una
confusione
da
onde
hertziane
che
s
'
incrociano
e
accavallano
,
sovraccariche
di
voci
e
di
rumori
.
Niente
è
meno
silenzioso
,
di
questo
cimitero
inesauribilmente
sonoro
.
Il
Père
-
Lachaise
è
maschio
e
occidentale
.
Staglieno
è
femmina
e
orientale
,
come
Genova
.
Ha
il
disordine
,
la
smania
d
'
invadere
e
di
straripare
con
attiva
pigrizia
,
di
tutti
gli
Orienti
.
I
suoi
morti
sono
stati
i
cittadini
orientali
di
un
regno
nordico
;
cessati
i
doveri
verso
il
re
piemontese
,
si
liberavano
di
ogni
freno
in
morte
.
«
Irraggia
lo
splendore
orientale
/
Genova
nelle
donne
dalla
testa
/
Sibillina
...
»
cantava
sotto
l
'
artiglio
del
Delfico
,
Campana
.
Le
sue
prodigiose
visioni
di
Genova
sono
visioni
d
'
Oriente
.
Ma
non
vedremo
mai
più
la
Genova
orientale
campaniana
,
anche
se
qualche
donna
«
dalla
testa
sibillina
»
,
con
nei
capelli
«
un
po
'
d
'
alga
marina
»
si
può
forse
incontrarla
ancora
,
nei
cortili
e
nei
caruggi
.
Campana
,
l
'
aedo
di
Marradi
,
è
il
sublime
poeta
di
Genova
.
Montale
è
il
metafisico
del
paesaggio
ligure
:
il
suo
verso
,
proprio
perché
di
scrittura
metafisica
,
lo
assume
per
disintegrarlo
,
se
ne
slega
,
non
lo
trattiene
.
Campana
non
è
metafisico
,
è
un
Villon
dei
porti
,
un
superbo
lettore
dell
'
anima
di
un
porto
-
Genova
.
Per
girare
nel
porto
,
più
che
del
lasciapassare
del
commissariato
,
è
necessario
munirsi
dei
versi
campaniani
sulla
notte
portuale
,
sul
porto
che
si
addormenta
:
«
E
'
la
forza
che
dorme
,
è
la
tristezza
/
Inconscia
delle
cose
che
saranno
/
E
'
la
vita
che
cullasi
nel
ritmo
/
Affaticato
»
.
Tutto
è
detto
;
infelice
chi
non
capisce
.
Senza
marinai
Ma
quei
versi
servono
soltanto
al
pensiero
e
al
sogno
.
Il
porto
,
com
'
è
oggi
,
è
scoraggiante
...
Dal
mare
e
da
terra
,
gli
occhi
che
lo
cercano
non
lo
trovano
più
.
Il
porto
può
anche
emigrare
a
Voltri
,
nel
Duemila
,
o
nei
fiordi
,
o
in
Australia
:
il
porto
di
Genova
non
è
più
.
Dov
'
è
l
'
Oriente
?
Dov
'
è
il
colore
,
spia
dell
'
anima
delle
cose
?
Di
notte
,
dall
'
alto
,
dal
largo
,
il
porto
è
quella
curva
luminosa
che
si
sfalda
in
segmenti
e
puntini
tracciata
dal
compasso
del
golfo
,
niente
di
più
banale
,
se
non
ti
sostiene
l
'
immaginazione
:
«
Là
c
'
è
il
porto
»
.
Prova
a
cercare
un
marinaio
,
laggiù
,
un
vero
scaricatore
,
e
balle
di
mercanzia
,
o
navi
piene
di
gente
in
lacrime
!
Il
porto
è
una
immensa
gru
che
nasconde
il
cielo
,
le
navi
sono
ferraglia
silenziosa
,
imbottite
di
containers
,
quasi
mai
vedi
affacciarsi
qualcuno
,
sono
deretani
di
minerale
dove
non
sembra
agitarsi
neppure
un
oxiuro
...
Il
saluto
umano
,
l
'
addio
umano
,
spariti
...
I
traghetti
non
sono
navi
,
sono
garages
;
gli
ufficiali
avviliti
di
essere
alla
testa
di
equipaggi
di
camion
,
di
condurre
in
Sardegna
,
a
Tunisi
,
a
Palermo
famiglie
di
roulottes
,
tribù
di
Fiat
,
di
Alfa
,
di
Peugeot
,
popoli
di
Michelin
,
città
di
Pirelli
,
cortei
di
Land
Rover
,
generazioni
di
trattori
,
qualche
volta
con
passeggeri
sistemati
nel
cofano
,
tre
o
quattro
nordafricani
,
due
mezzi
genovesi
,
un
magliaro
turco
,
una
maestrina
di
Cagliari
,
un
neonato
abbandonato
lì
dalla
madre
,
fuggita
su
un
'
altra
Citroën
verso
i
Pirenei
,
in
tutto
così
pochi
che
la
Tirrenia
non
perde
tempo
a
contarli
e
a
fargli
pagare
il
biglietto
,
né
la
Finanza
a
controllarne
il
bagaglio
.
Sul
ponte
,
quando
le
navi
partono
,
si
agita
una
chiave
inglese
,
un
pneumatico
che
non
ha
voglia
di
emigrare
si
sporge
triste
dal
parapetto
.
Ma
dal
molo
chi
gli
risponde
?
Il
braccio
di
una
gru
,
ma
soltanto
durante
l
'
orario
sindacale
;
mai
di
domenica
.
L
'
Oriente
genovese
è
da
riinventare
...
bisogna
farlo
risorgere
dall
'
invisibile
,
andarlo
a
scoprire
nelle
Madonnine
(
tante
Kalì
e
Annapurne
)
ancora
sospese
ai
muri
che
fatiscono
,
nelle
navi
di
pietra
cariche
di
balle
di
pietà
cristiana
ancora
non
disertate
dagli
equipaggi
dei
devoti
;
farlo
schizzare
fuori
dai
libri
,
ascoltarlo
in
una
cadenza
dialettale
.
Credevo
di
detestare
le
cadenze
liguri
:
dopo
una
settimana
di
immersione
nei
superstiti
odori
delle
friggitorie
di
Genova
mi
penetrava
l
'
orecchio
come
una
guzla
araba
,
col
contrappunto
solare
di
un
tamburo
semita
.
In
quell
'
accento
che
strapiomba
sul
mare
,
dove
attira
e
fa
precipitare
l
'
idea
la
funerea
sirena
della
u
,
che
si
ripete
fino
al
trionfo
del
sonno
in
cui
dolcemente
tutto
farà
naufragio
,
c
'
è
come
una
tranquillità
di
contemplativi
,
un
pessimismo
ascetico
e
lontano
.
Oh
perché
così
presto
?
Perché
tanto
in
fretta
?
Sappiamo
sappiamo
che
il
Tempo
mangia
la
vita
,
che
il
Tempo
ha
fame
di
tutto
e
non
lascia
vivo
niente
,
ma
questa
metropoli
mezzo
sudamericana
mezzo
nordeuropa
,
sporcata
dai
gas
siderurgici
,
il
porto
recintato
da
una
sopraelevata
,
il
cemento
che
sbaccanaleggia
impaziente
intorno
alle
ultime
case
di
Portoria
e
di
piazza
Sarzano
,
luoghi
di
meraviglie
,
quadrivii
magici
,
la
vergogna
dell
'
anonimato
verticale
che
soffoca
e
strazia
la
sublime
distesa
delle
ardesie
-
perché
tutto
d
'
un
colpo
,
in
pochissimi
anni
,
ha
rovesciato
l
'
Immagine
di
una
città
vera
,
di
un
mondo
autentico
,
l
'
ha
sbrindellata
,
l
'
ha
dispersa
?
Dunque
a
Staglieno
,
a
Staglieno
.
Il
caos
della
necropoli
ci
vendica
dell
'
Oriente
laggiù
perduto
,
dove
la
melopea
campaniana
non
trova
più
nella
sera
ambigua
«
l
'
alito
salso
umano
»
,
e
«
nel
gorgo
di
fremiti
sordi
»
l
'
odore
di
stoccafisso
e
il
traballare
delle
mandòle
Staglieno
è
intatto
.
La
Morte
non
delude
chi
l
'
ama
.
(
Almeno
un
poco
:
il
tanatofobo
,
se
esiste
,
è
un
amputato
psichico
,
che
non
può
correre
sui
sentieri
degli
elisi
)
.
Staglieno
affascina
,
ma
è
il
fascino
della
demenza
...
Mi
veniva
un
pensiero
terrificante
:
se
davvero
dovessero
risorgere
,
e
risorgessero
così
come
appaiono
nelle
sculture
,
coi
loro
angeli
custodi
,
i
loro
cristi
di
languore
,
tra
lo
sgomento
degli
ultimi
viventi
,
come
la
terra
sopporterebbe
il
peso
di
tanto
delirio
?
Per
lo
più
sono
morti
in
pace
,
confortati
dalla
Religione
,
autorizzati
dalla
Scienza
,
tra
le
lacrime
dei
Congiunti
,
dopo
vite
probe
,
probissime
-
perché
,
in
morte
,
sfogarsi
in
così
scomposti
deliri
?
Forse
perché
Staglieno
è
femmina
,
un
piagnone
,
anzi
una
prèfica
,
isteria
che
si
scatena
al
contatto
del
sepolcro
,
braccia
che
brancicano
,
labbra
che
succhiano
,
e
ha
un
'
anima
di
baccante
,
una
febbre
dionisiaca
nelle
vene
,
proprio
lì
,
a
due
passi
da
un
Bisagno
al
di
sopra
di
ogni
sospetto
.
Rachelina
,
mori
a
diciannove
anni
nel
1918
:
«
Il
tuo
vergine
corpo
riposa
qui
ma
l
'
anima
tua
gode
coi
beati
»
confessa
l
'
epigrafe
.
Su
uno
,
Euterpe
piange
lacrime
di
coccodrillo
:
«
Tutto
amore
per
l
'
arte
che
gli
fu
ispiratrice
di
elette
e
profonde
armonie
ne
ritrasse
splendida
fama
ma
da
quell
'
ardore
ebbe
consunta
innanzi
tempo
la
vita
»
.
Un
Carlo
Orazio
«
corse
Europa
e
America
lasciando
ovunque
desiderio
di
sé
»
,
ma
non
è
difficile
quando
,
per
correre
,
non
si
resta
ospiti
a
lungo
.
«
A
Giuseppe
Soldi
negoziante
»
...
M
'
impressiona
un
'
Antonietta
Noceti
«
che
alla
scuola
di
G
.
C
.
imparò
l
'
eroismo
che
la
tenne
sempre
serena
»
per
via
di
quelle
due
iniziali
,
che
sono
quelle
del
mio
povero
nome
,
scritto
sull
'
acqua
piovana
.
Davvero
,
alla
mia
scuola
sarebbe
possibile
imparare
uno
speciale
eroismo
che
mantiene
sempre
sereni
?
Se
fosse
così
,
morrei
senza
dispiacere
,
contento
della
mia
.
giornata
.
Quelle
porte
di
marmo
,
chiuse
e
semiaperte
,
presso
a
cui
il
Defunto
sosta
,
esitando
,
incuriosito
e
atterrito
,
o
è
condotto
di
peso
da
angeli
robusti
come
infermieri
di
vecchio
manicomio
-
sono
,
del
fantastico
macabro
,
a
Staglieno
,
uno
dei
motivi
più
misteriosi
...
Fessurine
sulla
voragine
,
aperture
sul
precipizio
,
mi
attirate
morbosamente
...
Se
non
foste
di
marmo
,
vi
spingerei
dolcemente
,
tentato
di
guardare
...
Nel
porticato
superiore
il
monumento
più
morboso
è
quello
di
Raffaele
Pienovi
,
1879
,
dell
'
inuguagliabile
scultore
Villa
.
Una
donzella
,
più
curiosa
che
disperata
,
certamente
la
figlia
del
Pienovi
,
solleva
leggermente
il
lenzuolo
che
copre
,
elegantemente
sgualcito
,
il
caro
defunto
fin
sopra
la
testa
,
poggiata
su
due
bei
guanciali
di
malattia
.
Che
cosa
vede
,
la
signorina
Pienovi
?
Ebbe
una
curiosità
simile
il
marito
di
Emma
Bovary
,
nella
camera
mortuaria
,
lei
tutta
velata
di
bianco
,
tra
i
ceri
lacrimanti
:
«
Lentamente
,
con
la
punta
delle
dita
,
palpitando
,
sollevò
il
velo
.
Ma
gettò
un
grido
d
'
orrore
»
In
un
romanzo
ci
viene
detto
quel
che
succede
dopo
:
un
grido
,
e
poi
il
resto
della
storia
...
Ma
la
sospensione
del
gruppo
statuario
è
qualcosa
d
'
immenso
,
il
mistero
si
chiude
inesorabilmente
.
Il
gruppo
essendo
un
poco
in
alto
,
il
visitatore
non
vede
quel
che
c
'
è
sotto
il
lenzuolo
...
Potrebbe
non
esserci
niente
?
Non
c
'
era
nessuno
...
Sono
salito
,
ho
guardato
...
Non
ho
gridato
.
Non
dirò
quello
che
ho
visto
.