StampaPeriodica ,
Quando
Lata
Krishnan
incontrò
Ajav
Shah
,
a
Londra
nel
1986
,
si
accorse
di
avere
con
lui
qualcosa
in
comune
.
Le
loro
famiglie
avevano
lasciato
l
'
Africa
orientale
fra
la
fine
degli
anni
Sessanta
e
la
metà
degli
anni
Settanta
,
quando
si
scatenò
un
'
ondata
di
razzismo
contro
gli
immigrati
di
origine
indiana
.
Il
dittatore
ugandese
Idi
Amin
Dada
,
infatti
,
aveva
cacciato
dal
suo
paese
chiunque
avesse
nelle
vene
anche
una
sola
goccia
di
sangue
asiatico
.
Krishnan
e
Shah
si
sposarono
e
decisero
subito
di
andarsene
dall
'
Inghilterra
e
raggiungere
la
California
.
Approdarono
a
Fremont
,
nella
Silicon
valley
.
Col
loro
amico
Mukesh
Patel
,
anche
lui
profugo
dell
'
Uganda
,
fondarono
la
Smart
Modular
,
un
'
azienda
che
produce
moduli
per
la
memoria
dei
computer
.
La
'
new
economy
'
ha
portato
fortuna
ai
tre
.
Nel
1998
la
Smart
Modular
Technologies
ha
guadagnato
51,48
milioni
di
dollari
.
Oltre
al
quartier
generale
di
Fremont
,
la
compagnia
ha
costruito
un
centro
di
design
a
Bangalore
in
India
,
e
altri
laboratori
a
Portorico
,
in
Scozia
e
in
Malesia
.
Quando
Tau
Dang
scappò
dal
Vietnam
nella
seconda
metà
degli
anni
Ottanta
pensava
di
fare
fortuna
in
America
.
Approdò
con
la
famiglia
nella
zona
est
di
San
José
in
California
.
Fece
tanti
lavori
.
Alla
fine
si
dedicò
all
'
assemblaggio
,
a
domicilio
,
di
componenti
per
i
computer
.
Oggi
la
sua
abitazione
è
un
piccolo
laboratorio
.
I
figli
,
la
moglie
,
la
nuora
e
i
nipoti
lavorano
almeno
12
ore
al
giorno
.
Con
notevoli
sacrifici
non
hanno
raggiunto
la
grande
ricchezza
,
ma
si
sono
garantiti
il
benessere
e
la
sicurezza
.
Un
figlio
di
Tau
Dang
frequenta
l
'
università
a
Palo
Alto
e
fra
poco
,
se
avrà
fortuna
,
potrà
diventare
uno
dei
nuovi
miliardari
dei
computer
.
Lata
Krishnan
,
Ajav
Shah
,
Mukesh
Patel
,
Tau
Dang
sono
alcuni
di
quei
profughi
che
anni
fa
vedemmo
in
tv
fuggire
,
coi
loro
fagotti
e
le
facce
impaurite
,
dalle
guerre
e
dalle
persecuzioni
.
Accade
anche
oggi
,
è
appena
successo
in
Kosovo
,
di
guardare
le
scene
dell
'
esodo
e
di
immaginare
soltanto
sventure
e
destini
crudeli
per
quelli
che
sono
costretti
a
lasciare
la
loro
casa
e
il
loro
paese
.
Centinaia
di
migliaia
di
uomini
,
donne
e
bambini
ogni
anno
,
al
mondo
,
diventano
profughi
.
Piangono
,
soffrono
,
a
volte
muoiono
di
stenti
o
di
malattie
.
Ma
dentro
chi
sopravvive
al
disastro
si
sviluppa
la
forza
della
speranza
,
la
voglia
di
farcela
,
di
resistere
,
di
trovare
a
tutti
i
costi
una
nuova
vita
.
E
'
sempre
stato
così
.
Per
questa
ragione
i
profughi
vanno
accolti
con
generosità
,
aiutati
a
migliorare
,
inseriti
nella
comunità
.
L
'
America
è
un
paese
forte
perché
costruito
da
immigrati
,
da
disperati
,
da
gente
fuggita
da
tutti
i
razzismi
e
da
tutte
le
persecuzioni
di
questo
e
dell
'
altro
secolo
.
L
'
era
della
globalizzazione
è
fatta
di
aperture
e
non
di
chiusure
.
La
società
multietnica
e
multirazziale
è
più
produttiva
e
creativa
dei
mondi
chiusi
e
provinciali
.
Pensare
di
non
poter
convivere
con
gli
'
altri
'
,
che
hanno
diverse
abitudini
,
religioni
e
culture
,
è
assurdo
,
ingiusto
e
antieconomico
.
Gli
asiatici
,
scappati
dall
'
Uganda
e
sparsi
fra
la
Gran
Bretagna
e
gli
Stati
Uniti
,
hanno
fatto
in
gran
parte
fortuna
,
si
sono
arricchiti
e
hanno
arricchito
i
paesi
che
li
hanno
ospitati
.
All
'
inizio
sono
finiti
nelle
terribili
periferie
urbane
della
Londra
anni
Settanta
.
Ma
poi
,
piano
piano
,
hanno
risalito
la
china
.
Grazie
alla
loro
forza
e
a
quella
del
libero
mercato
.
StampaQuotidiana ,
Torino
,
10
.
Torino
,
la
violenza
,
il
terrorismo
.
Sulla
pelle
di
questa
città
ci
siamo
esercitati
tutti
per
anni
.
Adesso
proviamo
ad
ascoltare
qualche
voce
di
chi
sta
dentro
Torino
e
dentro
le
sue
paure
.
Oggi
parla
un
caposquadra
della
FIAT
Mirafiori
.
«
Dei
sessantuno
operai
licenziati
non
voglio
dir
niente
.
Dopo
,
lei
capirà
la
mia
ragione
.
Su
tutto
il
resto
,
invece
,
sono
disposto
a
parlare
perché
penso
sia
utile
conoscere
come
vanno
le
faccende
in
FIAT
.
In
cambio
le
chiedo
una
cosa
sola
:
non
dia
i
miei
dati
personali
e
non
mi
descriva
.
Dica
soltanto
che
ho
una
quarantina
di
anni
e
che
sono
uno
dei
duemila
capisquadra
di
Mirafiori
.
Lei
conosce
la
fabbrica
?
No
?
Allora
le
spiego
la
piramide
gerarchica
.
C
'
è
l
'
operaio
,
poi
l
'
intermediario
,
il
caposquadra
,
il
caporeparto
,
il
capofficina
,
su
su
sino
al
direttore
.
Come
vede
,
io
sto
al
primo
gradino
dei
capi
,
guadagno
sulle
seicentomila
lire
al
mese
e
ho
vent
'
anni
di
FIAT
sulle
spalle
.
In
FIAT
ho
imparato
tutto
e
la
FIAT
è
stata
la
mia
prima
famiglia
.
Oggi
per
me
non
è
più
niente
.
Oggi
io
sto
in
fabbrica
dalle
nove
alle
undici
ore
al
giorno
.
E
ogni
giorno
mi
domando
:
a
fare
che
cosa
?
Lei
avrà
sentito
parlare
di
programmi
produttivi
,
di
qualità
della
produzione
.
Bene
,
nell
'
ambito
della
mia
squadra
dovrei
occuparmi
di
questo
.
Arrivo
all
'
inizio
del
mio
turno
,
conto
gli
operai
che
lavorano
con
me
,
so
che
per
fare
un
certo
prodotto
occorrono
tot
operai
,
so
che
,
per
essere
venduto
,
il
prodotto
dev
'
essere
affidabile
,
ossia
avere
una
certa
qualità
.
Insomma
,
faccio
l
'
interesse
dell
'
azienda
che
mi
paga
.
Non
è
una
mia
pretesa
:
è
una
necessità
.
In
un
'
altra
epoca
avrei
detto
:
è
il
mio
dovere
.
Le
aziende
stanno
in
piedi
solo
se
il
lavoro
è
fatto
bene
,
e
tutta
la
baracca
,
sì
,
il
paese
,
si
regge
se
le
aziende
funzionano
.
Questo
ho
imparato
in
venti
anni
di
lavoro
.
E
questo
ho
fatto
per
molto
tempo
.
Adesso
non
lo
faccio
più
.
Lei
mi
chiede
:
è
colpa
degli
operai
?
Io
le
rispondo
così
.
Prendiamo
cento
operai
di
Mirafiori
.
Trenta
non
vogliono
saperne
né
di
sindacato
né
di
niente
:
la
fabbrica
è
un
posto
dove
purtroppo
bisogna
faticare
e
basta
.
Altri
trenta
vogliono
una
politica
sindacale
democratica
e
giusta
.
Venti
-
venticinque
sono
in
balia
della
prima
aria
che
tira
e
non
sanno
da
che
parte
stare
.
E
su
questi
premono
gli
ultimi
quindici
che
sono
estremisti
e
cercano
ogni
occasione
per
rompere
i
coglioni
,
per
non
lavorare
e
per
non
far
lavorare
.
Quindici
sono
pochi
,
ma
bastano
per
far
casino
se
gli
altri
non
reagiscono
.
È
una
minoranza
che
però
fa
quello
che
vuole
.
Il
loro
nemico
è
il
primo
capo
che
hanno
sottomano
,
il
caposquadra
.
È
lui
il
centro
del
bersaglio
,
quasi
fosse
la
controfigura
dell
'
Agnelli
.
Tu
insisti
per
fare
andare
avanti
il
lavoro
,
per
ottenere
la
quantità
e
la
qualità
necessarie
.
E
loro
,
soprattutto
quelli
giovani
,
gli
ultimi
assunti
,
goccia
dopo
goccia
,
riempiono
il
tuo
vaso
.
Capo
,
non
rompere
,
o
ti
facciamo
sciopero
.
Capo
,
vaffanculo
.
Capo
,
sei
un
bastardo
,
guarda
che
ti
conosco
,
so
dove
stai
e
ti
prendo
fuori
di
qui
.
Capo
sei
un
fascista
,
ti
faremo
camminare
in
carrozzella
.
Capo
,
non
fare
rapporto
in
direzione
,
altrimenti
...
Bisogna
subire
.
C
'
è
chi
subisce
piegandosi
a
gesti
meschini
.
Qualche
volta
è
capitato
anche
a
me
.
In
certi
momenti
,
poi
,
c
'
è
la
caccia
al
capo
.
Le
giunge
nuovo
?
Io
me
la
sono
sempre
cavata
,
non
mi
hanno
mai
buttato
fuori
.
E
sa
perché
?
Quando
arrivava
il
corteo
interno
,
ho
sempre
tagliato
la
corda
.
Ma
ho
vissuto
momenti
neri
,
a
vedere
gli
amici
sballottati
qua
e
là
con
la
bandiera
rossa
in
mano
,
e
io
dovevo
rimanere
nascosto
e
inerte
per
non
essere
costretto
a
fare
come
loro
.
Infine
ci
sono
le
gocce
che
cadono
fuori
dalla
fabbrica
,
a
casa
.
Le
telefonate
mafiose
:
cerca
di
contenerti
,
sta
dalla
parte
degli
operai
...
oppure
le
minacce
alla
moglie
:
guardi
che
quel
porco
di
suo
marito
prima
o
poi
glielo
facciamo
fuori
.
A
me
è
sempre
andata
bene
,
non
mi
hanno
nemmeno
bruciata
la
macchina
,
anche
perché
cambio
sempre
posteggio
e
strada
.
Però
gomme
tagliate
e
auto
incendiate
sono
all
'
ordine
del
giorno
.
Per
non
parlare
del
resto
:
i
colleghi
feriti
,
voi
scrivete
azzoppati
come
se
si
trattasse
di
vitelli
e
invece
sono
uomini
condannati
per
tutta
la
loro
restante
vita
.
E
poi
i
dirigenti
ammazzati
dalle
bande
,
l
'
ultimo
Ghiglieno
.
Così
,
mese
dopo
mese
,
la
mia
vita
è
cambiata
.
Una
volta
tornavo
a
casa
e
mi
riposavo
o
stavo
coi
figli
o
facevo
dell
'
altro
lavoro
.
Adesso
penso
soltanto
a
ricaricarmi
di
energia
per
affrontare
la
battaglia
del
giorno
dopo
in
FIAT
.
Anche
di
dentro
sono
cambiato
.
Si
metta
al
mio
posto
,
al
posto
di
uno
che
sul
lavoro
se
fa
una
cosa
gli
dicono
:
bastardo
,
sbagli
;
e
se
ne
fa
un
'
altra
gli
dicono
sempre
:
bastardo
,
sbagli
.
Dai
e
dai
,
come
fa
a
non
sorgerti
il
dubbio
che
forse
davvero
c
'
è
qualcosa
in
te
che
non
va
,
che
non
sei
più
la
persona
di
prima
?
E
soprattutto
in
fabbrica
che
ti
accorgi
del
tuo
cambiamento
.
Lo
abbiamo
visto
quando
hanno
assassinato
Ghiglieno
.
Ci
siamo
trovati
in
un
gruppo
di
capi
e
ci
siamo
chiesti
:
che
facciamo
?
fino
a
quando
durerà
?
dobbiamo
adoperarci
ancora
per
tenere
in
piedi
quest
'
azienda
?
Abbiamo
risposto
di
sì
,
ma
era
chiaro
che
in
tutti
c
'
era
la
voglia
contraria
,
la
voglia
di
mollare
.
Anzi
,
per
dire
le
cose
come
stanno
,
non
si
tratta
più
di
voglia
.
Noi
capi
abbiamo
mollato
.
Manca
solo
che
ci
mettiamo
in
mutua
,
ma
è
come
se
lo
fossimo
.
Lo
so
che
se
poi
il
cliente
ha
il
freno
che
non
gli
funziona
o
il
pistone
rigato
,
la
colpa
è
anche
nostra
ma
ormai
è
difficile
comportarci
secondo
le
regole
.
Non
ci
crede
?
Venga
in
fabbrica
.
Se
vedo
un
operaio
che
prende
a
calci
un
pezzo
,
sono
in
grado
di
fare
una
cosa
sola
:
aspettare
un
po
'
e
poi
raccoglierlo
io
.
E
se
mi
accorgo
che
uno
il
pezzo
se
lo
ruba
via
?
Mi
giro
dall
'
altra
parte
per
non
vedere
.
La
denuncia
?
Ma
in
che
mondo
vive
lei
?
Possiamo
solo
ingoiare
.
Questa
sta
diventando
una
fabbrica
di
merda
.
Le
sembra
un
'
espressione
troppo
forte
?
Guardi
,
se
lei
mi
chiedesse
di
definire
la
FIAT
oggi
,
non
troverei
un
termine
dispregiativo
sufficiente
.
Lo
scriva
pure
chiaro
.
Ma
lo
sa
che
nelle
vetture
e
nei
cassoni
troviamo
i
preservativi
usati
?
Dire
che
è
un
casino
è
dire
poco
.
E
voi
dei
giornali
non
avete
mai
raccontato
la
verità
.
Come
si
può
resistere
?
Mi
scusi
se
uso
una
parola
difficile
:
a
volte
mi
sento
spersonalizzato
,
completamente
.
Anche
fuori
dalla
FIAT
mi
sento
così
.
Quando
qualcuno
mi
domanda
chi
sono
e
che
lavoro
faccio
,
non
so
come
rispondere
.
Sono
un
capo
?
No
,
non
lo
sono
più
.
Non
sono
più
niente
.
Sono
soltanto
uno
che
fa
male
il
proprio
lavoro
,
anzi
,
uno
che
non
sa
più
qual
è
il
suo
lavoro
.
Decisioni
ne
posso
prendere
quasi
zero
.
Punire
non
posso
,
perché
se
punisco
corro
il
rischio
di
farmi
sparare
.
Premiare
nemmeno
.
A
volte
un
operaio
mi
dice
:
d
'
accordo
,
non
puoi
prendere
provvedimenti
contro
quel
lavativo
che
non
fa
niente
;
dà
almeno
un
premio
a
me
che
lavoro
.
Ma
nemmeno
questo
posso
più
farlo
.
In
fabbrica
ormai
siamo
tutti
uguali
,
tutti
appiattiti
.
Lama
in
televisione
parla
di
premiare
la
professionalità
.
Io
vorrei
che
Lama
venisse
qui
in
FIAT
e
stesse
a
Mirafiori
una
settimana
per
vedere
qual
è
la
realtà
.
Le
colpe
del
sindacato
sono
grandi
.
Si
è
servito
degli
elementi
più
accesi
per
prendere
un
certo
potere
dieci
anni
fa
.
Mi
va
bene
.
Avrei
fatto
così
anch
'
io
.
Ma
poi
il
sindacato
avrebbe
dovuto
liberarci
di
questi
elementi
e
non
c
'
è
riuscito
.
Anzi
,
gli
è
corso
dietro
.
No
,
non
sono
più
iscritto
al
sindacato
.
E
se
in
fabbrica
non
lo
critico
apertamente
,
è
solo
per
paura
.
Ho
degli
estremisti
in
squadra
e
non
voglio
finire
al
traumatologico
.
Però
non
pensi
che
io
sia
di
destra
.
Tutt
'
altro
.
Sono
ancora
giovane
.
Ho
un
diploma
.
Cerco
di
ragionare
e
ogni
giorno
leggo
due
giornali
,
la
«
Stampa
»
e
1'«Unità»
,
per
fare
il
confronto
.
Capisco
che
al
pugno
duro
di
una
volta
non
si
torna
più
,
era
ingiusto
e
comunque
oggi
sarebbe
impossibile
.
E
la
parola
«
intimidire
»
mi
fa
paura
.
Per
troppi
anni
,
in
FIAT
,
l
'
operaio
è
stato
intimidito
.
Ma
adesso
quelli
che
vogliono
lavorare
,
e
sono
ancora
tanti
,
non
respirano
più
.
A
volte
c
'
è
da
esser
disperati
.
E
io
mi
domando
:
come
mai
nessuno
interviene
?
Poi
,
se
guardo
fuori
dalla
FIAT
,
mi
do
la
risposta
da
solo
:
ma
chi
mai
potrebbe
avere
l
'
autorità
per
intervenire
?
Mio
nonno
diceva
:
il
pesce
puzza
sempre
dalla
testa
.
E
la
testa
del
paese
è
marcia
.
Il
nostro
sistema
politico
fa
spavento
.
Per
spiegarmi
,
le
faccio
un
confronto
con
la
fabbrica
.
Se
devo
rimproverare
un
operaio
che
arriva
in
ritardo
,
dopo
le
sei
,
bisogna
che
io
stia
in
fabbrica
prima
delle
sei
.
Ma
se
mi
alzo
alle
sette
,
non
ho
più
i
titoli
per
richiamare
uno
al
suo
dovere
.
Così
è
per
Roma
.
Se
la
testa
del
Paese
non
si
mette
a
posto
,
non
ridiventa
pulita
e
non
fa
il
suo
dovere
,
che
cosa
si
può
pretendere
dalla
base
?
A
questo
punto
,
devo
chiudere
lo
sfogo
parlando
ancora
di
me
.
Per
prima
cosa
,
le
dico
che
Torino
ormai
mi
fa
paura
.
Non
voglio
più
abitare
a
Torino
.
Appena
potrò
,
me
ne
andrò
a
stare
via
.
La
seconda
cosa
è
che
anche
continuare
nel
lavoro
di
oggi
mi
fa
paura
.
Ma
perché
lo
chiamo
ancora
lavoro
?
Ogni
giorno
,
quando
entro
a
Mirafiori
,
mi
sembra
di
andare
ad
un
posto
di
combattimento
.
Chiederò
di
essere
trasferito
in
un
ufficio
.
Lo
hanno
già
fatto
altri
miei
colleghi
,
lo
farò
anch
'
io
.
Non
voglio
più
avere
responsabilità
.
Non
voglio
più
fare
il
capo
.
Voglio
solo
ubbidire
e
basta
.
Così
potrò
vivere
senza
rischiare
l
'
attentato
o
l
'
esaurimento
nervoso
.
Scriva
pure
che
ho
rifiutato
una
promozione
.
E
scriva
che
sono
prontissimo
a
rinunciare
ad
una
parte
della
paga
per
essere
più
sicuro
in
fabbrica
e
fuori
.
Subito
.
Da
domani
mattina
.
Mia
moglie
,
anzi
,
mi
spinge
a
lasciare
la
FIAT
.
Mi
dice
sempre
:
licenziati
,
io
lavoro
e
un
posto
poi
lo
troverai
.
Sono
quasi
pronto
a
fare
anche
questo
e
non
è
detto
che
non
lo
faccia
presto
.
Del
resto
,
che
gusto
c
'
è
a
rimanere
?
La
FIAT
è
un
ammalato
che
può
morire
da
un
giorno
all
'
altro
.
E
noi
stiamo
qui
a
guardarla
,
dirigenti
e
capi
,
tutti
impotenti
allo
stesso
modo
.
In
FIAT
non
comanda
più
nessuno
,
mentre
fuori
le
pistole
sparano
.
Detto
questo
,
è
detto
tutto
.
Mi
costa
confessarlo
.
Quando
sono
entrato
in
FIAT
vent
'
anni
fa
,
immaginavo
tutto
diverso
.
Oggi
credo
di
avere
ancora
molto
equilibrio
,
ma
mi
sento
un
uomo
colpito
da
un
'
umiliazione
continua
.
Sì
,
umiliato
è
la
parola
giusta
.
Umiliato
e
quasi
prigioniero
in
una
gabbia
,
la
gabbia
di
Mirafiori
.
Lei
penserà
che
sono
un
vigliacco
.
Ma
l
'
unico
desiderio
che
in
questo
momento
ho
è
quello
di
sottrarmi
all
'
umiliazione
e
di
uscire
dalla
gabbia
.
Uscire
e
poter
dire
,
finalmente
:
adesso
respiro
»
.
StampaQuotidiana ,
Dalla
frontiera
cambogiana
,
febbraio
.
Testimonio
,
dopo
aver
attraversato
i
campi
dei
rifugiati
cambogiani
,
con
i
«
medici
senza
frontiere
»
,
nella
«
Marcia
perché
sopravviva
la
Cambogia
»
,
del
più
grande
orrore
umano
,
dopo
Treblinka
e
Auschwitz
.
Il
genocidio
del
popolo
khmero
:
da
sette
milioni
,
recensiti
nel
'71
,
i
khmeri
superstiti
sono
tra
i
due
e
i
tre
milioni
.
L
'
olocausto
è
avvenuto
in
tre
ondate
successive
.
Nella
prima
fase
,
durante
la
guerra
che
aveva
opposto
gli
americani
e
i
«
lon
nol
»
ai
khmeri
rossi
,
ne
era
stato
massacrato
un
milione
.
Poi
lo
sterminio
è
avvenuto
in
altre
due
fasi
successive
.
Sotto
il
regime
di
Pol
Pot
,
tra
il
1975
e
il
1979
,
allorché
un
terzo
della
popolazione
è
scomparso
nelle
esecuzioni
sommarie
,
i
lavori
forzati
,
la
carestia
.
E
infine
,
la
terza
fase
succeduta
alla
follia
sanguinaria
dei
polpottiani
:
l
'
esercito
vietnamita
,
che
entra
a
Pnom
Penh
,
i17
gennaio
'79
,
dopo
una
guerra
lampo
,
cominciata
il
25
dicembre
'78
,
salutato
in
un
primo
momento
come
liberatore
dal
popolo
martirizzato
,
diventa
subito
l
'
occupante
:
preda
,
uccide
,
affama
,
requisisce
.
Il
Vietnam
vuole
la
terra
cambogiana
,
una
volta
detta
«
la
risaia
dell
'
Asia
»
,
e
non
sa
che
farsene
dei
cambogiani
da
nutrire
.
Questa
è
anche
una
guerra
alimentare
.
Comincia
il
grande
esodo
dei
contadini
,
la
marcia
per
sfuggire
alla
morte
,
attraverso
le
foreste
,
sotto
gli
spari
dell
'
artiglieria
che
l
'
insegue
.
Adesso
,
al
confine
della
Cambogia
,
in
terra
thailandese
,
si
ammassano
500
mila
khmeri
.
C
'
è
chi
dice
che
siano
700
mila
.
Percorrono
una
sorta
di
Stato
cuscinetto
,
fatto
di
membra
umane
,
di
avanzi
del
popolo
khmero
,
su
alcune
decine
di
ettari
di
fango
nauseabondo
.
Visito
i
campi
di
Sa
-
Kaeo
(
trentamila
khmeri
rossi
)
e
di
Khao
I
Dang
(
centoventimila
khmeri
serei
)
.
Questi
fuggiaschi
non
appartengono
politicamente
a
nessuno
.
Non
hanno
lo
statuto
dei
profughi
,
perché
il
governo
thailandese
non
riconosce
la
Convenzione
di
Ginevra
.
Sono
letame
umano
.
Al
di
fuori
dei
campi
ufficiali
,
è
ancora
peggio
.
Una
folla
di
morti
-
vivi
che
fuggono
,
o
sono
evacuati
dalle
truppe
vietnamite
,
quando
il
cibo
manca
.
Allora
,
la
folla
delirante
degli
affamati
è
definita
dai
viet
«
anticomunista
»
,
e
cacciata
.
Gli
«
anticomunisti
»
mi
raccontano
che
tutte
le
strade
della
Cambogia
sono
minate
dall
'
esercito
,
e
che
per
loro
«
il
sentiero
più
sicuro
è
quello
dei
cadaveri
»
.
Non
capisco
.
Mi
spiegano
allora
che
spesso
marciano
su
chilometri
di
corpi
in
putrefazione
uccisi
durante
l
'
avanzata
dei
vietnamiti
,
per
non
saltare
sulle
mine
.
Si
salvano
corrompendo
con
pezzetti
d
'
oro
gli
sbarramenti
dei
viet
e
poi
quelli
dei
thailandesi
.
Chi
ha
un
po
'
di
oro
,
anche
solo
un
dente
da
strapparsi
,
sopravvive
.
Sono
venduti
due
volte
,
dai
soldati
del
Vietnam
e
da
quelli
della
Thailandia
,
alla
frontiera
.
Adesso
la
più
grande
città
cambogiana
non
è
più
Pnom
Penh
,
ma
Khao
I
Dang
,
il
campo
dove
si
ammassano
120
mila
profughi
.
Mi
apro
la
strada
fra
i
detriti
del
popolo
khmero
.
Questi
sono
tutti
khmeri
serei
,
ovvero
cambogiani
che
non
stanno
né
coi
vietnamiti
né
con
i
khmeri
rossi
.
Invece
,
a
Sa
-
Kaeo
(
che
vuoi
dire
lago
di
vetro
)
sono
rinchiusi
solo
i
khmeri
rossi
-
27
mila
esattamente
-
dietro
il
filo
spinato
dei
recinti
.
All
'
ingresso
,
una
scritta
campeggia
:
«
Ci
scusiamo
per
il
vostro
disagio
,
ma
l
'
ordine
e
la
disciplina
sono
segni
di
civiltà
»
.
È
un
campo
prigione
.
I
profughi
khmeri
rossi
stanno
accosciati
o
ritti
,
come
bestiame
,
con
gli
occhi
vuoti
ci
osservano
da
dietro
il
recinto
.
Mi
rifugio
con
Joan
Baez
,
che
fa
parte
della
Marcia
,
dentro
una
capanna
dell
'
UNICEF
,
mentre
crepitano
le
cineprese
dei
fotoreporters
,
delle
TV
dell
'
Occidente
.
Filmano
,
fotografano
il
più
grande
spettacolo
del
mondo
:
la
cantante
Baez
e
l
'
attrice
Liv
Ullman
,
idoli
della
società
dello
spettacolo
,
a
fianco
della
puzzolente
melma
cambogiana
.
Sembra
una
consegna
di
Oscar
.
I
fotoreporter
chiedono
alle
dive
di
prendere
in
braccio
i
bambini
profughi
per
il
coltivatore
dell
'
Oklahoma
o
l
'
intellettuale
di
Manhattan
,
sembra
lo
spettacolo
con
le
girls
di
Apocalypse
Now
.
Dico
a
Joan
Baez
:
«
Come
sopportare
questa
contaminazione
tra
show
e
morte
?
»
.
Lei
risponde
:
«
È
necessario
,
perché
il
mondo
sappia
»
.
Forse
,
ha
ragione
lei
.
Ma
poi
ci
separiamo
.
Fuggo
via
,
lontano
dall
'
occhio
implacabile
delle
televisioni
e
del
mondo
civilizzato
.
Trovo
un
interprete
del
campo
,
un
thailandese
,
lo
scongiuro
di
aiutarmi
,
e
mi
spingo
ai
bordi
di
Sa
-
Kaeo
.
Attraverso
cunicoli
infetti
che
sono
strade
,
budelli
neri
su
cui
si
affacciano
bicocche
costruite
con
i
legni
delle
casse
degli
aiuti
.
Le
mosche
e
le
zanzare
formano
cortine
brune
.
All
'
ombra
,
stanno
larve
di
donne
,
immote
,
incrostate
di
polvere
,
le
sopravvissute
alla
lunga
marcia
.
Non
si
occupano
dei
figli
,
come
le
madri
normali
.
O
forse
non
ne
hanno
più
.
Le
famiglie
sono
state
smembrate
da
Pol
Pot
prima
,
e
poi
durante
la
fuga
.
È
un
popolo
che
si
cerca
senza
posa
.
Le
madri
cercano
i
figli
,
i
figli
le
madri
o
i
padri
.
In
una
baracca
più
ampia
trovo
una
folla
agitata
,
in
coda
,
che
reca
piccole
foto
all
'
ufficio
«
Ricerca
»
.
Ve
ne
sono
decine
nei
campi
di
questi
uffici
.
Le
foto
vengono
affisse
al
muro
.
Sono
vecchie
foto
di
gente
sorridente
,
davanti
a
un
tempio
,
una
famiglia
,
due
bambini
,
una
donna
fotografata
in
una
strada
di
Pnom
Penh
.
Con
un
megafono
,
gli
organizzatori
girano
il
campo
:
conoscete
una
famiglia
con
questo
nome
,
riconoscete
un
bambino
di
otto
anni
capitato
qui
senza
madre
?
Sbuco
,
di
colpo
,
davanti
a
una
pagoda
buddista
,
costruita
dieci
giorni
orsono
con
tavolacci
,
in
fondo
al
campo
.
I
bonzi
dalle
teste
rasate
sono
giunti
dai
dintorni
,
e
pregano
in
silenzio
,
vestiti
di
giallo
,
sola
macchia
di
colore
nel
grigio
-
nero
implacabile
.
I
khmeri
rossi
convertiti
al
buddismo
indossano
una
maglia
gialla
.
Un
centinaio
di
fedeli
gremisce
il
tempio
.
Molti
giovani
.
Magari
sono
stati
torturatori
,
assassini
agli
ordini
di
Pol
Pot
,
artefici
sanguinari
delle
fosse
comuni
.
Ora
subiscono
una
crisi
mistica
,
mi
dice
un
medico
.
Mi
accettano
fra
loro
.
Il
tempio
diventa
una
platea
che
interrogo
.
Viene
designato
per
rispondere
,
o
trasmettere
le
risposte
del
pubblico
,
l
'
uomo
più
rispettato
,
perché
più
vecchio
,
51
anni
.
Si
chiama
Ne
Tai
,
è
un
operaio
di
Takeo
,
che
ha
lasciato
la
Cambogia
nel
gennaio
del
'96
,
dopo
l
'
invasione
vietnamita
.
«
Avete
cambiato
opinione
su
Pol
Pot
?
»
.
Rispondono
:
«
Non
siamo
mai
stati
per
Pol
Pot
»
,
e
Ne
Tai
:
«
Pol
Pot
voleva
farmi
uccidere
perché
ero
religioso
»
.
«
Allora
,
siete
fuggiti
dai
khmeri
rossi
o
dai
vietnamiti
?
»
.
«
Gli
uni
e
gli
altri
»
.
«
Chi
è
più
feroce
?
»
.
«
Lo
sono
allo
stesso
modo
ambedue
»
.
«
Chi
ha
ucciso
di
più
?
»
.
Uno
dice
:
«
I
vietnamiti
ammazzano
più
dei
polpottiani
»
.
Un
altro
:
«
No
,
sono
tali
e
quali
»
.
«
In
Europa
,
si
dice
che
i
vietnamiti
vi
hanno
liberati
»
.
«
Noo
!
Il
Vietnam
ha
invaso
la
Cambogia
,
non
abbiamo
più
terra
»
.
«
Come
siete
arrivati
qui
?
»
.
«
Abbiamo
traversato
le
montagne
,
le
foreste
,
i
fiumi
.
A
piedi
,
cercando
l
'
acqua
,
incalzati
dalle
truppe
.
Eravamo
a
decine
di
migliaia
sulle
strade
.
Quando
non
morivamo
per
carestia
,
morivamo
di
malaria
»
.
«
Avevate
armi
?
»
.
«
No
,
noi
siamo
il
popolo
.
Da
un
lato
c
'
è
il
popolo
,
dall
'
altro
la
forza
»
.
«
Siete
comunisti
?
»
.
«
Nooo
!
»
.
«
Chi
tra
voi
è
del
Partito
comunista
può
alzare
la
mano
?
»
.
Nessuno
alza
la
mano
.
«
Ma
allora
Pol
Pot
non
è
mai
esistito
?
»
.
«
Sì
,
ma
non
sappiamo
chi
è
comunista
ancora
e
chi
khmer
rosso
,
anche
se
ce
ne
sono
»
.
«
Avete
un
messaggio
da
affidarmi
per
gli
europei
?
»
.
«
Vogliamo
che
la
Cambogia
sia
pacificata
,
vogliamo
rientrare
.
I
vietnamiti
devono
andarsene
,
sono
l
'
invasore
»
.
«
Fareste
la
guerra
per
avere
la
pace
?
»
.
Quattro
o
cinque
dicono
:
«
Sì
,
vogliamo
riprendere
le
armi
»
.
Altri
:
«
Siamo
pronti
ad
andare
,
se
ci
aiutano
però
gli
altri
paesi
»
.
«
Ma
i
cinesi
non
sono
vostri
amici
?
»
.
«
Per
il
passato
sì
,
ma
ora
non
abbiamo
visto
i
cinesi
muoversi
per
cacciare
i
vietnamiti
»
.
Ne
Tai
dice
solennemente
:
«
Il
popolo
cambogiano
deve
sopravvivere
malgrado
le
sue
sciagure
»
.
Per
la
prima
volta
,
applaudono
tutti
,
adesso
.
Un
frastuono
che
somiglia
alla
speranza
.
«
Crediamo
solo
negli
organismi
internazionali
,
perché
soltanto
essi
potranno
regolare
íl
problema
.
La
Cambogia
è
troppo
piccola
,
è
morente
»
.
«
A
quale
leader
dareste
la
fiducia
?
»
.
«
Sihanouk
»
.
«
La
pace
verrà
se
ci
sarà
Sihanouk
»
.
«
Sihanouk
,
Sihanouk
»
ritmano
l
'
uno
dopo
l
'
altro
,
con
uniformità
appassionata
.
Ne
Tai
mi
segue
,
mentre
mi
allontano
.
Ora
,
scoppia
a
piangere
.
Ha
perduto
la
sua
dignità
di
capo
.
«
Che
Sihanouk
torni
al
più
presto
»
implora
.
«
È
un
'
opinione
personale
?
»
.
«
No
,
di
tutti
»
.
Qualche
ora
dopo
,
mi
ritrovano
.
Si
sono
consultati
:
chiedono
,
con
coraggio
,
una
cassetta
con
un
messaggio
di
Sihanouk
al
campo
di
Sa
-
Kaeo
.
E
le
lacrime
del
vecchio
continuano
a
scorrere
.
Mi
affidano
altre
lettere
,
da
imbucare
a
Parigi
.
A
quanto
pare
,
si
sono
assunti
gravi
responsabilità
politiche
,
parlandomi
a
questo
modo
.
Melo
spiega
un
'
infermiera
francese
,
Manaiek
Lanternier
.
A
Sa
-
Kaeo
,
la
disciplina
interna
è
dura
,
l
'
inquadramento
politico
dei
khmeri
rossi
esiste
,
ma
clandestino
.
Esso
è
guidato
da
Lim
,
uno
dei
cavalieri
dell
'
apocalisse
polpottiana
.
Per
un
caso
,
sono
la
sola
a
scovare
Lim
.
Egli
risponde
al
nome
di
Ta
(
zio
)
Khiang
On
Thiang
,
è
stato
capo
di
distretto
e
capo
di
divisione
sotto
Pol
Pot
.
Ha
32
anni
,
parla
francese
,
ma
a
me
dice
di
non
conoscerlo
.
Parla
come
un
dirigente
politico
,
anche
nel
suo
negare
tutto
.
Non
respinge
la
realtà
dei
massacri
compiuti
,
ma
ne
offre
la
versione
ufficiale
:
«
Chi
ha
ucciso
,
sotto
Pol
Pot
,
l
'
ha
fatto
per
ordine
dei
vietnamiti
,
restati
in
Cambogia
,
fin
dall
'
epoca
della
sconfitta
dei
francesi
,
nel
1954
.
Essi
continuavano
a
lavorare
per
il
Vietnam
.
I
ragazzi
di
15
anni
ammazzavano
,
è
vero
,
ma
gli
ordini
venivano
da
queste
spie
infiltrate
»
.
Chiedo
quanti
sono
i
khmeri
rossi
ancora
in
guerriglia
.
Alcuni
affermano
che
essi
stanno
subendo
una
rotta
definitiva
,
altri
che
ve
ne
sono
ancora
,
30
mila
,
armati
dai
cinesi
.
Alle
5.30
di
colpo
,
sul
campo
il
sole
si
spegne
,
come
una
candela
su
cui
si
soffi
.
Mi
accorgo
che
tutto
il
personale
,
medici
,
infermieri
,
insegnanti
,
abbandonano
questo
girone
infernale
,
per
ragioni
di
sicurezza
.
A
Sa
-
Kaeo
,
comincia
un
'
altra
vita
.
Avvengono
le
riunioni
notturne
.
I
rifugiati
litigano
fra
loro
sulla
distribuzione
del
cibo
.
Con
me
,
nel
tempio
,
hanno
affermato
:
«
Vi
sono
discriminazioni
nelle
razioni
.
A
seconda
di
chi
distribuisce
,
si
ricevono
razioni
più
abbondanti
,
per
le
amicizie
politiche
,
per
i
favoritismi
»
.
Un
inglese
,
Bondy
,
che
fa
il
medico
,
mi
narra
che
nella
notte
donne
e
bambini
vengono
violentati
in
tutti
i
campi
.
Un
'
infermiera
francese
mi
ha
fatto
conoscere
una
piccola
guerrigliera
khmera
rossa
di
18
anni
,
a
cui
Lim
ingiunge
di
riprendere
le
armi
per
rientrare
in
Cambogia
e
combattere
i
vietnamiti
.
Lei
ha
rifiutato
,
traumatizzata
per
il
sangue
versato
.
Piange
,
negli
incubi
notturni
.
Alcune
partigiane
khmere
rosse
raccontano
di
essere
state
violentate
dai
compagni
d
'
arme
.
Ora
ci
lasciamo
alle
spalle
la
notte
di
Sa
-
Kaeo
,
di
Khao
I
Dang
,
e
dei
campi
di
Khao
Larn
,
di
Kamput
.
Rientriamo
a
Aranya
Prateth
,
la
città
di
frontiera
,
e
ci
buttiamo
a
dormire
in
un
locale
detto
«
il
garage
»
,
su
un
materasso
per
terra
,
sotto
una
zanzariera
.
Ad
Aranya
Prateth
ci
incontriamo
con
la
febbre
dell
'
oro
.
Un
esercito
di
contadini
thailandesi
,
di
cinesi
,
di
cambogiani
,
si
sono
improvvisati
commercianti
,
furiosamente
avidi
.
Campano
sui
profughi
,
vendono
gli
aiuti
occidentali
,
e
le
frutta
,
gli
abiti
,
l
'
acqua
,
il
ghiaccio
,
biciclette
.
È
il
più
immenso
mercato
libero
del
mondo
,
la
corte
dei
miracoli
,
che
spunta
dovunque
,
magari
su
una
risaia
disseccata
.
Le
pattuglie
thailandesi
confiscano
tutto
,
oppure
vogliono
mille
bath
(
un
bath
corrisponde
a
50
lire
)
.
L
'
indomani
nel
campo
di
Khao
I
Dang
,
arrivando
a
quel
che
si
chiama
con
pompa
l
'
orfanotrofio
,
capisco
che
vuol
dire
un
viaggio
in
fondo
all
'
inferno
.
Vi
sono
2300
orfanelli
,
nel
campo
.
A
Sa
-
Kaeo
,
se
ne
contano
500
.
In
tutto
,
si
parla
di
11
mila
orfani
,
che
vanno
da
pochi
mesi
a
12
anni
,
disseminati
lungo
la
frontiera
.
Dal
mondo
esterno
arrivano
le
richieste
di
adozione
,
ma
l
'
Alto
commissariato
per
i
rifugiati
presso
l
'
ONU
dice
che
spetta
a
questa
infanzia
di
ripopolare
il
paese
,
essa
non
va
sradicata
.
Mi
sembra
del
tutto
assurdo
perché
sono
questi
bambini
i
più
traumatizzati
,
mortalmente
malati
.
Non
piangono
e
non
ridono
,
per
mesi
.
Mi
mostrano
Lo
,
il
ragazzo
dodicenne
che
ha
portato
sulle
spalle
il
padre
moribondo
,
fino
al
campo
,
per
seppellirlo
.
Ma
i
ragazzi
qui
sono
stati
anche
i
tremendi
protagonisti
del
male
.
Quest
'
apocalisse
,
per
la
prima
volta
nella
storia
ha
avuto
come
attori
i
ragazzi
,
forse
i
fratelli
di
questi
orfani
.
Pol
Pot
aveva
issato
i
bambini
al
vertice
della
gerarchia
,
perché
rappresentavano
una
«
pagina
bianca
»
nella
storia
.
Voleva
capi
senza
passato
,
quindi
fanciulli
,
che
dirigessero
con
potere
assoluto
le
Comuni
,
in
cui
egli
aveva
spartito
il
paese
,
cancellando
villaggi
e
città
.
Anche
Pnom
Penh
era
stata
svuotata
,
come
simbolo
di
corruzione
le
Comuni
andavano
da
400
a
4
mila
persone
.
A
Qhao
I
Dang
,
tra
i
khmeri
serei
,
uno
studente
mi
racconta
che
il
kanak
della
sua
Comune
,
ovvero
il
capo
,
il
duce
,
aveva
solo
12
anni
.
Cominciò
ad
ammazzare
allorché
gli
regalarono
un
orologio
e
gli
dissero
:
uccidine
tre
,
di
nemici
,
prova
.
E
lui
colpì
,
preciso
,
alla
nuca
.
Gli
diedero
tutti
i
poteri
.
Infatti
il
kanak
non
aveva
al
di
sopra
di
sé
nessuno
:
i
suoi
rapporti
erano
solo
con
Pol
Pot
,
al
quale
egli
poteva
anche
telefonare
.
Gli
adulti
,
i
vecchi
,
gli
intellettuali
tremavano
davanti
ai
bambini
.
Un
'
inversione
paradossale
delle
generazioni
.
Agli
intellettuali
,
i
ragazzi
cucivano
le
dita
col
filo
:
se
lo
spezzavano
,
erano
condannati
a
morte
.
Con
un
colpo
di
vanga
sul
cervelletto
,
per
non
sprecare
munizioni
.
Khin
Shkun
,
ex
studente
di
medicina
di
Kampong
Preach
,
è
il
superstite
di
undici
persone
,
una
famiglia
di
commercianti
.
Mi
racconta
che
non
tutti
i
kanak
erano
cattivi
,
e
che
vi
erano
anche
giovani
capi
buoni
,
che
non
uccidevano
.
Il
suo
kanak
aveva
14
anni
.
Egli
ha
scavato
per
suo
ordine
le
fosse
per
i
condannati
,
due
metri
di
larghezza
e
sessanta
di
lunghezza
.
Colpivano
con
una
mazza
di
bambù
alla
nuca
il
condannato
,
poi
gli
squarciavano
il
petto
col
coltello
,
e
gli
estraevano
la
bile
per
curare
la
febbre
gialla
,
ne
asportavano
il
fegato
per
mangiarlo
.
«
Dicono
che
ora
Pol
Pot
è
diventato
gentile
,
che
non
uccide
più
»
commenta
.
«
Ma
forse
è
là
,
dietro
le
montagne
di
Phnom
Chkat
»
e
fa
segno
col
dito
all
'
orizzonte
.
«
Ora
è
solo
capo
dell
'
esercito
,
e
non
più
del
partito
.
»
Prum
Saklon
,
che
era
maestra
,
afferma
che
Pol
Pot
odiava
le
intellettuali
,
e
le
aveva
eliminate
da
ogni
ufficio
,
gettandole
nei
campi
,
dove
lavoravano
nelle
risaie17
ore
al
giorno
.
Dopo
il
parto
avevano
una
settimana
di
riposo
e
poi
di
nuovo
al
lavoro
nelle
dighe
e
nei
campi
.
Nessuna
doveva
dire
di
saper
leggere
e
scrivere
.
Pol
Pot
prediligeva
solo
le
guerrigliere
.
I
kanak
avevano
in
odio
in
primo
luogo
i
maestri
di
scuola
.
«
Ma
allora
,
le
truppe
vietnamite
»
chiedo
«
vi
hanno
liberato
?
»
.
«
Lo
credevamo
anche
noi
,
quando
sono
arrivati
.
Poi
ci
siamo
accorti
che
loro
uccidono
meno
con
le
armi
ma
uccidono
ancora
di
più
con
la
fame
.
Fanno
una
scatola
di
riso
per
20-30
persone
.
Oppure
mettono
un
bacile
di
riso
in
mezzo
a
una
folla
,
e
ci
massacriamo
tra
noi
per
strapparne
un
boccone
.
Vogliono
distruggere
l
'
esistenza
stessa
del
popolo
khmero
.
E
popolare
la
Cambogia
di
vietnamiti
»
.
Che
avverrà
di
quel
che
sopravvive
del
popolo
khmero
?
Tra
due
mesi
,
quando
sarà
finito
il
magro
raccolto
di
gennaio
,
quel
che
resta
di
uomini
nella
Cambogia
è
destinato
a
morire
di
fame
.
Qui
son
tutti
d
'
accordo
.
L
'
artiglieria
vietnamita
avanza
,
bombardando
le
ultime
postazioni
dei
khmeri
rossi
.
E
sembra
pronta
a
prendere
in
una
tenaglia
i
campi
dei
profughi
,
con
le
sue
nove
divisioni
,
accampate
a
tre
chilometri
dalla
frontiera
.
Le
superpotenze
-
USA
,
URSS
,
Cina
-
non
alzeranno
un
dito
per
salvare
i
500
mila
relitti
,
alloggiati
in
questi
campi
,
tutto
sommato
,
bocche
in
meno
da
sfamare
.
Al
mattino
del
6
febbraio
,
la
nostra
pacifica
«
marcia
perché
la
Cambogia
sopravviva
»
prende
la
strada
del
ponte
Aranya
Prateth
,
che
segna
la
frontiera
con
la
Cambogia
,
seguita
da
camion
con
200
tonnellate
di
riso
,
e
carichi
di
medicinali
.
Siamo
150
persone
,
in
fila
indiana
,
scrittori
,
parlamentari
,
sindaci
,
intellettuali
,
attori
,
venuti
dall
'
America
e
dall
'
Europa
.
Bernard
-
Henry
Lévy
inalbera
su
una
lunga
asta
una
bandiera
bianca
che
vuole
essere
più
un
segno
di
pace
che
di
resa
.
In
testa
al
corteo
avanzano
i
generosi
«
medici
senza
frontiere
»
,
gli
organizzatori
della
marcia
,
che
chiedono
di
entrare
per
soccorrere
gli
ammalati
,
i
morenti
in
Cambogia
.
(
Nella
Cambogia
occupata
si
dice
che
restino
solo
40
medici
)
.
«
Iniziativa
funesta
,
incitamento
alla
rivolta
»
ha
detto
la
radio
di
Hanoi
per
stigmatizzare
la
marcia
.
«
Provocatori
,
operazione
ignobile
»
ha
scritto
«
l
'
Humanité
»
.
Oltre
il
ponte
,
una
decina
di
piccoli
soldati
vietnamiti
in
uniforme
verde
ci
scrutano
con
i
cannocchiali
,
da
dietro
la
trincea
.
Tre
delegati
della
marcia
avanzano
fino
a
metà
del
ponte
:
un
medico
francese
,
il
presidente
americano
del
«
Comitato
internazionale
per
i
rifugiati
»
,
una
donna
cambogiana
che
ha
perduto
i
figli
e
il
marito
.
Il
messaggio
è
gridato
,
oltre
la
frontiera
,
con
un
megafono
,
e
pronunciato
in
tre
lingue
,
francese
,
inglese
e
cambogiano
:
«
Soldati
viet
che
state
dall
'
altra
parte
,
davanti
al
lamento
degli
agonizzanti
,
al
cinismo
dei
potenti
,
siamo
venuti
a
portarvi
solidarietà
e
aiuti
»
.
Dall
'
altra
parte
,
risponde
un
silenzio
massiccio
,
assoluto
.
Consegniamo
,
allibiti
e
impotenti
,
i
camion
con
gli
aiuti
alla
Croce
Rossa
internazionale
.
Anche
se
la
marcia
non
salverà
certo
i
khmeri
dalla
morte
,
anche
se
noi
sembriamo
degli
ingenui
umanitari
,
tuttavia
,
almeno
,
attraverso
questa
testimonianza
nessuno
potrà
dire
,
come
avvenne
ai
tempi
del
nazismo
:
«
Noi
non
ne
sapevamo
nulla
»
.
StampaQuotidiana ,
San
Salvador
.
Com
'
è
diversa
la
città
che
oggi
attraverso
,
dai
racconti
arrivati
nelle
nostre
case
.
I
morti
,
la
paura
...
Invece
questa
capitale
di
fiori
e
di
baracche
continua
a
mostrare
la
solita
pelle
tropicale
,
che
il
carnevale
ricopre
di
altri
colori
.
Stasera
,
la
strada
che
porta
al
mare
è
una
fila
di
macchine
che
si
sfiorano
con
la
pazienza
di
ogni
week
end
.
Le
scuole
riaprono
dopo
le
vacanze
d
'
inverno
e
grandi
manifesti
fanno
sapere
ai
genitori
quali
professori
certi
ginnasi
(
naturalmente
privati
)
sono
riusciti
ad
ingaggiare
.
«
Fidatevi
di
noi
!
»
Fidarsi
nella
scelta
dell
'
insegnante
di
latino
ha
l
'
aria
di
essere
l
'
unico
problema
del
Paese
.
Nel
mio
albergo
i
leones
(
sono
i
lions
)
fanno
festa
:
regalano
qualcosa
ad
un
ospedale
.
Sfogliando
i
giornali
,
sembra
che
tutte
le
ragazze
della
città
si
siano
messe
d
'
accordo
per
compiere
16
anni
durante
questo
fine
settimana
.
Nei
giardini
delle
belle
case
,
sotto
il
vulcano
,
si
ballerà
,
aspettando
il
mattino
.
La
gente
riempie
ogni
negozio
;
nei
ristoranti
non
c
'
è
posto
fino
a
notte
.
Si
discute
della
partita
che
il
Salvador
(
finalista
ai
Mondiali
)
gioca
contro
la
squadra
venuta
dal
Guatemala
.
Davvero
mi
trovo
nella
capitale
del
massacro
?
La
notizia
in
prima
pagina
è
scelta
con
gusto
diverso
dalle
nostre
di
questi
giorni
.
Racconta
di
un
contrabbandiere
fermato
alla
frontiera
,
con
una
merce
proibita
.
Nelle
sue
casse
c
'
erano
800
serpenti
.
Fuori
dall
'
aeroporto
gli
operai
stanno
montando
un
cartello
infinito
e
verde
:
«
Vieni
a
visitare
le
cascate
del
bosco
»
.
Per
muoversi
senza
problemi
ho
bisogno
di
una
lettera
che
spieghi
quale
curiosità
mi
spinge
a
cercare
la
gente
.
Deve
firmare
questo
permesso
il
colonnello
Gonzales
,
direttore
del
«
Comitato
de
Prensa
de
la
Fuerza
Militar
»
.
Così
entro
nella
cittadella
dello
stato
maggiore
.
Torrette
,
mitraglie
.
Il
pomeriggio
si
consuma
,
ma
Gonzales
non
arriva
.
Dal
meticcio
che
fa
la
guardia
voglio
sapere
:
come
mai
non
arriva
?
«
Forse
non
riesce
a
svegliarsi
...
»
Lo
dice
in
uno
sbadiglio
di
pace
.
Spunta
una
macchina
piena
di
musica
.
La
guida
una
bella
signora
dalle
trecce
raccolte
.
Ride
con
qualcuno
in
divisa
.
Fa
il
pieno
dalla
pompa
dell
'
esercito
e
subito
corre
felice
oltre
la
sbarra
delle
sentinelle
,
verso
il
traffico
che
non
dà
respiro
.
C
'
è
sempre
la
musica
nella
sua
macchina
.
Devo
dire
la
verità
:
non
mi
sembra
di
essere
chiuso
dentro
l
'
inferno
di
Fort
Apache
.
Ma
è
proprio
questa
la
città
dei
morti
?
Wallace
Nuting
,
generale
a
tre
stellette
,
che
da
Panama
comanda
le
forze
americane
dell
'
America
Latina
,
ieri
è
partito
da
qui
,
ripetendo
:
«
Non
ho
elementi
sicuri
,
ma
mi
pare
che
il
governo
riuscirà
a
piegare
la
guerriglia
.
La
situazione
,
per
ora
,
sembra
salda
nelle
sue
mani
.
Basta
vedere
come
si
vive
in
città
...
»
.
Sembrano
le
parole
giuste
per
la
serenità
che
questa
realtà
vuoi
far
trasparire
,
ma
è
un
gioco
di
specchi
,
di
piccoli
specchi
,
perché
le
realtà
sono
due
,
e
molti
segni
fanno
capire
come
siano
inquietanti
le
cose
,
nascoste
dietro
i
gesti
della
normalità
.
Già
all
'
aeroporto
i
poliziotti
sfilano
il
giubbone
militare
ad
un
fotografo
.
«
Perché
?
»
si
arrabbia
,
«
è
la
moda
...
»
Gli
rispondono
:
«
Fa
confusione
!
»
.
È
un
tipo
di
confusione
che
le
cronache
raccontano
:
al
chilometro
33
della
Panamericana
,
guerriglieri
con
casacca
verde
oliva
hanno
bloccato
il
traffico
.
Giù
la
gente
dalle
corriere
,
che
la
dinamite
brucia
in
un
minuto
.
Danno
economico
.
Disagio
al
potere
.
«
Giubbotti
verde
oliva
,
come
questo
...
»
Il
poliziotto
non
vuole
essere
preso
per
matto
.
I
giornali
insegnano
in
poche
righe
come
si
vive
dietro
il
carnevale
della
capitale
,
da
vendere
a
chi
passa
.
Una
fila
di
fotografie
ripropone
vecchi
dolori
.
«
Chi
ha
visto
questo
ragazzo
di
18
anni
,
catechista
dei
padri
Saveriani
,
scomparso
venti
giorni
fa
,
mentre
tornava
a
casa
?...»
«
Chi
ha
sentito
parlare
del
professor
Alvaro
Dubon
?...»
«
Manca
di
casa
il
signor
Ramon
García
...
»
Nelle
invocazioni
si
coglie
il
pudore
di
una
rassegnazione
strana
.
Gli
scomparsi
non
tornano
mai
...
Fra
un
giorno
,
fra
un
mese
,
in
un
cimitero
clandestino
,
un
corpo
stremato
dalla
tortura
potrà
forse
ricordare
il
ragazzo
che
la
madre
sta
cercando
.
Ed
è
questa
doppia
immagine
di
vita
e
di
paura
a
rendere
schizofrenica
,
ancora
prima
che
tremenda
,
la
dimensione
del
Salvador
.
L
'
albergo
dove
sono
arrivato
,
per
esempio
,
ricorda
tutti
gli
alberghi
di
una
realtà
violenta
:
Beirut
,
Amman
,
Saigon
.
Gli
ospiti
sono
soltanto
giornalisti
.
Un
commerciante
dall
'
ironia
esagerata
ha
venduto
magliette
traversate
da
una
scritta
:
«
Non
sparate
,
sono
giornalista
!
»
.
Nell
'
abitudine
,
il
dramma
degli
altri
diventa
un
gioco
per
chi
ne
è
testimone
.
Tutti
le
indossano
,
le
comprano
:
da
portare
a
casa
.
Per
non
sparire
,
si
ricoprono
le
automobili
di
scritte
che
avvertono
chi
è
nascosto
fra
le
piante
:
«
Aiutateci
nel
nostro
lavoro
...
»
.
Tutti
aiutano
.
Quando
si
prende
la
strada
della
guerriglia
,
i
posti
di
blocco
dell
'
esercito
si
aprono
con
la
lettera
del
colonnello
Gonzales
,
ma
anche
le
ombre
che
più
avanti
saltano
fuori
dietro
un
ponte
non
piantano
grane
.
Le
fotografie
,
le
interviste
.
Di
qua
e
di
là
ripetono
:
«
Vinceremo
»
.
La
guerriglia
sta
vincendo
la
battaglia
dei
nervi
.
Vuol
dimostrare
che
si
muove
come
vuole
.
Occupa
un
villaggio
.
Si
appropria
delle
carte
ufficiali
,
anche
economiche
.
Processa
i
funzionari
corrotti
.
Fucila
í
crudeli
.
Poi
,
se
ne
va
.
Quando
torna
l
'
esercito
,
la
liturgia
si
rovescia
.
Tocca
a
chi
è
stato
conciliante
con
i
ribelli
.
Ecco
i
massacri
.
Si
ammucchiano
i
figli
piccoli
ai
padri
.
Una
domanda
non
trova
risposta
:
perché
questo
andare
e
venire
,
se
tutti
sanno
che
chi
paga
con
la
vita
è
sempre
la
stessa
gente
?
Forse
l
'
orrore
della
crudeltà
del
nemico
viene
considerato
arma
vincente
.
C
'
è
chi
sicuramente
perde
.
Sempre
gli
stessi
.
Se
questa
è
la
guerra
-
spettacolo
che
si
racconta
nel
brontolio
di
un
'
indifferenza
internazionale
finalmente
finita
,
i
massacri
,
dunque
,
continuano
.
Muoiono
contadini
che
hanno
vissuto
nella
miseria
di
650
dollari
all
'
anno
,
loro
e
i
loro
figli
.
E
qui
i
figli
sono
tanti
.
Crescono
come
bestie
,
e
come
bestie
vengono
spulciati
.
Stasera
,
il
ministro
della
Sanità
è
apparso
in
TV
:
inaugura
l
'
operazione
disinfezione
dei
tugurios
,
che
sono
baracche
mescolate
all
'
immondizia
.
Mezza
città
.
Un
'
operazione
sfarzosa
,
ripresa
dalla
TV
.
Gli
elicotteri
bombardano
le
lamiere
dei
derelitti
con
una
pioggia
di
DDT
,
come
d
'
estate
,
quando
si
uccidono
le
zanzare
.
È
questo
il
Paese
che
si
sforza
di
vivere
,
continuando
a
morire
?
Per
i
russi
?
Per
gli
americani
?
I
campesinos
ridono
amaro
.
Non
sanno
nemmeno
perché
vengono
uccisi
:
nell
'
antica
storia
della
ferocia
politica
,
30
mila
morti
in
due
anni
hanno
spento
ogni
orrore
del
passato
.
La
voce
di
Duarte
,
presidente
civile
della
giunta
militare
,
torna
ogni
ora
alla
radio
.
«
Non
possiamo
negoziare
il
potere
con
nessun
terrorista
,
perché
il
potere
è
del
popolo
,
e
il
popolo
non
vuole
cederlo
a
gente
di
cui
non
si
fida
...
»
La
polemica
brucia
le
prossime
elezioni
,
annunciate
in
un
clima
da
repubblica
di
Salò
.
Per
le
elezioni
si
spara
.
Per
le
elezioni
crescono
i
massacri
.
Farle
o
non
farle
?
La
giunta
non
ha
dubbi
:
si
voterà
.
È
la
condizione
che
Reagan
pretende
rispettata
,
per
far
piovere
aiuti
.
Nei
caroselli
TV
lo
si
fa
capire
.
«
Vota
e
tutto
andrà
bene
»
dice
una
voce
.
L
'
immagine
mostra
pacchi
di
dollari
,
che
mani
affettuose
contano
,
per
la
gioia
di
chi
guarda
.
Ecco
la
legge
elettorale
,
che
per
la
prima
volta
impegna
l
'
ipotetica
democrazia
del
Paese
.
Regolamenti
strani
per
le
abitudini
del
nostro
mondo
.
Nessun
registro
con
i
nomi
di
chi
va
a
votare
.
Ognuno
deve
presentarsi
con
la
carta
d
'
identità
,
lascia
l
'
impronta
dell
'
indice
su
un
foglio
,
ed
entra
in
cabina
.
Tutto
qui
.
Non
è
nemmeno
obbligatorio
votare
nella
città
dove
si
risiede
.
Basta
il
posto
più
comodo
;
quel
certo
giorno
...
«
Così
c
'
è
chi
vota
non
so
quante
volte
!
Facile
cambiare
seggio
...
»
protestano
gli
oppositori
,
che
invitano
alla
diserzione
.
«
L
'
inchiostro
è
indelebile
.
Impossibile
fare
trucchi
.
»
Lo
slogan
«
il
dito
non
si
smacchia
»
è
la
sola
garanzia
concessa
da
questa
macchina
elettorale
.
Una
parte
degli
oppositori
(
clandestini
e
armati
)
avrebbe
voluto
entrare
nella
battaglia
delle
preferenze
.
Kean
Bleakeley
,
consigliere
americano
,
li
aveva
invitati
ad
inventare
qualcosa
.
«
Usate
gli
audiovisivi
.
Registrate
e
mandateli
per
posta
.
»
Invece
hanno
deciso
di
astenersi
.
La
regola
è
boicottare
,
eppure
,
non
è
sempre
andata
così
.
Una
voce
qui
racconta
la
storia
di
una
mediazione
italiana
.
La
voce
è
bene
informata
.
Ecco
come
sarebbero
andate
le
cose
.
Lo
scorso
autunno
,
mediatori
italiani
,
vicini
alla
DC
,
sarebbero
arrivati
in
Salvador
con
una
proposta
che
sembrava
l
'
uovo
di
Colombo
.
Per
accordi
tra
Paesi
industrializzati
,
l
'
Italia
dovrebbe
dedicare
una
quota
del
prodotto
nazionale
lordo
al
Terzo
Mondo
.
Il
Salvador
lo
è
:
per
disperazione
e
per
fame
.
Washington
fa
oggi
sospirare
un
appannaggio
di
50
milioni
di
dollari
,
gli
italiani
pare
ne
abbiano
offerti
addirittura
500
.
Cinquecento
milioni
di
dollari
disponibili
nel
momento
in
cui
la
giunta
e
la
guerriglia
si
accordino
per
elezioni
oneste
,
con
tutti
,
contro
tutti
,
ma
solo
a
parole
.
Anche
i
socialisti
di
casa
nostra
sembravano
contenti
.
A
questo
punto
il
ministro
degli
Esteri
Chavez
Mina
vola
in
Messico
per
discutere
con
gli
strateghi
della
guerriglia
,
stabilendo
un
contatto
che
í
militari
intransigenti
ritengono
ancora
sacrilego
.
I
massacri
finiscono
con
i
soldi
italiani
?
Avrebbero
dovuto
finire
con
elezioni
sensate
,
ma
íl
Fronte
di
Liberazione
pone
una
condizione
per
la
futura
società
:
la
rifondazione
dell
'
esercito
.
Rifondare
significa
cambiare
colonnelli
spietati
ed
intransigenti
,
i
duri
e
i
faccendieri
;
e
i
colonnelli
,
fiutando
il
pericolo
,
bruciano
l
'
ipotesi
.
Si
aggrappano
al
dogma
:
«
Con
la
guerriglia
non
si
tratta
»
.
Così
,
non
succede
niente
.
Il
Salvador
continua
a
battere
cassa
per
le
armi
,
mentre
il
contributo
italiano
resta
dov
'
era
:
poteva
servire
,
in
una
dimensione
straordinaria
,
a
rimettere
in
moto
il
lavoro
e
le
attenzioni
sociali
,
non
a
far
crescere
il
massacro
.
Sono
due
anni
che
il
massacro
è
cominciato
.
Nel
'79
,
per
protestare
contro
l
'
arresto
dei
dirigenti
del
Blocco
Popolare
,
cattolici
e
marxisti
(
assieme
)
occupano
la
cattedrale
.
Polizia
e
guardia
nazionale
,
sotto
í
riflettori
TV
,
fanno
massacro
.
Sparano
a
zero
sulla
grande
folla
.
Una
follia
voluta
dal
colonnello
Romero
,
superstite
dell
'
amministrazione
Nixon
.
Una
follia
che
scatena
altre
follie
:
rapimenti
,
vendette
.
C
'
è
un
Romero
diverso
,
in
Salvador
:
ormai
tutti
lo
sanno
.
Un
vescovo
eletto
primate
,
perché
topo
indifferente
di
biblioteca
.
Ma
un
giorno
,
ad
Aguilares
,
che
è
una
delle
capitali
della
fame
,
un
gesuita
,
compagno
di
scuola
delvescovo
,
viene
ucciso
perché
ha
difeso
i
tagliatori
di
canna
dall
'
ingiustizia
del
latifondo
.
Romero
vuole
capire
:
esce
dai
libri
e
si
mette
a
leggere
la
realtà
.
Difende
i
deboli
,
denuncia
i
delitti
.
«
Non
sono
un
rivoluzionario
,
sono
un
conservatore
»
mi
disse
molti
mesi
prima
di
morire
:
«
Sto
adoperando
l
'
intelligenza
per
salvare
il
mondo
che
amo
contro
la
follia
.
»
L
'
hanno
ucciso
in
chiesa
:
in
questi
giorni
il
delitto
è
stato
archiviato
.
«
Casi
non
risolti
.
»
Mi
fa
impressione
vedere
nel
mondo
dei
poveri
la
sua
immagine
confusa
con
quella
dei
Guevara
.
Carter
è
stato
,
qui
,
un
buon
presidente
.
Ha
imposto
la
riforma
agraria
(
massimo
di
proprietà
500
ettari
;
finiti
gli
imperi
sopra
i
100
mila
)
,
ma
i
latifondisti
emarginati
sono
scappati
a
Miami
,
per
sostenere
la
campagna
elettorale
di
Reagan
.
Da
lì
hanno
ordinato
ai
militari
,
ancora
oggi
nella
giunta
,
di
annullare
la
riforma
.
La
riforma
prometteva
la
terra
ai
contadini
,
e
uno
stipendio
dignitoso
ai
braccianti
.
Ma
i
militari
che
di
giorno
giuravano
queste
cose
,
la
notte
sgozzavano
i
contadini
colpevoli
di
lavorare
per
guadagnare
finalmente
qualcosa
,
quindi
non
far
saltare
la
riforma
.
Ho
visto
attorno
a
Chalatenango
famiglie
dormire
la
notte
nei
campi
.
A
casa
non
volevano
tornare
.
Avevano
disobbedito
.
Avevano
accettato
di
lavorare
.
Sapevano
che
durante
la
notte
,
con
scarpe
militari
,
scendendo
da
camion
dell
'
esercito
,
ufficiali
e
soldati
dell
'
esercito
andavano
a
punirli
.
Al
confine
con
l
'
Honduras
ho
raccolto
la
testimonianza
su
persone
fatte
fuori
nella
gola
di
un
fiume
.
Chi
le
inseguiva
era
guidato
da
elicotteri
.
Nella
periferia
delle
città
,
all
'
alba
passano
i
camion
degli
spazzini
,
ma
non
sono
spazzini
coloro
che
ordinano
ai
curiosi
di
chiudere
le
finestre
.
Sui
camion
si
ammucchiano
i
corpi
dei
morti
di
notte
.
Noi
,
di
fuori
,
possiamo
immaginare
tante
teorie
:
massacro
rosso
,
massacro
bianco
.
Ma
questo
è
un
Paese
piccolo
e
la
gente
si
conosce
.
I
nomi
degli
assassini
fanno
trasparire
quello
dei
mandanti
;
ecco
perché
Romero
è
stato
ucciso
;
ecco
perché
la
maggior
parte
dei
deputati
democristiani
che
difendevano
i
diritti
dell
'
uomo
hanno
voltato
le
spalle
alla
giunta
e
vivono
profughi
in
Messico
.
Il
simbolo
di
questo
orrore
,
un
po
'
ingiustamente
,
è
diventato
Duarte
.
Un
ingegnere
che
i
suoi
attuali
amici
hanno
reso
profugo
per
anni
.
Hanno
truccato
le
elezioni
del
'72
per
impedirgli
di
raggiungere
il
potere
.
Il
potere
è
legittimo
.
Due
anni
fa
si
è
illuso
di
poter
dominare
i
militari
.
Oggi
ha
l
'
aria
di
un
piccolo
Pétain
che
sperava
di
salvare
la
grandeur
della
Francia
,
accettando
dai
tedeschi
le
terme
di
Vichy
.
Duarte
spera
ancora
,
prigioniero
di
un
sogno
,
di
dominare
un
mondo
di
soldati
che
uccidono
e
sparano
nel
suo
nome
.
Per
chi
torna
in
Salvador
tante
volte
resta
la
malinconia
degli
amici
spariti
e
mai
tornati
,
degli
amici
perseguitati
,
degli
amici
che
hanno
paura
a
farsi
vedere
assieme
a
un
giornalista
.
«
Tu
parti
,
noi
restiamo
:
abbi
pazienza
...
»
E
nella
tristezza
profonda
di
questa
umanità
umiliata
,
vien
da
ridere
ripassando
le
nostre
teorie
.
Le
armi
da
Cuba
,
le
armi
dall
'
America
.
La
Polonia
che
bilancia
il
Salvador
...
Ma
a
questa
gente
non
pensa
nessuno
?
StampaQuotidiana ,
Milano
.
Due
colpi
alla
spalla
sinistra
.
Uno
alla
gamba
destra
,
un
quarto
che
gli
sfiora
la
spalla
destra
e
si
conficca
sotto
una
finestra
.
Walter
Tobagi
,
33
anni
,
presidente
dell
'
Associazione
lombarda
dei
giornalisti
,
inviato
di
punta
del
«
Corriere
della
Sera
»
,
si
accascia
sul
marciapiede
,
l
'
ombrello
sbatte
per
terra
al
suo
fianco
,
la
Parker
schizza
fuori
dal
taschino
,
una
macchia
rossa
si
allarga
sulla
giacca
nera
.
Forse
è
già
incosciente
mentre
si
piega
,
faccia
in
avanti
,
quando
lo
finiscono
con
un
quinto
colpo
:
sotto
l
'
orecchio
sinistro
,
il
colpo
di
grazia
.
Un
'
esecuzione
spietata
,
velocissima
.
Chi
ha
sparato
con
una
calibro
9
corta
è
un
giovane
,
17-18
anni
,
secondo
i
testimoni
,
con
un
baschetto
blu
alla
Nicholson
calato
fin
sugli
occhi
.
Sono
le
11
e
un
quarto
,
minuto
più
minuto
meno
,
in
via
Andrea
Salaino
,
una
piccola
traversa
della
via
Solari
che
porta
alla
via
Valparaiso
.
Negozi
,
una
fabbrica
,
un
ristorante
,
una
scuola
,
palazzi
signorili
e
vecchie
case
popolari
.
All
'
altezza
della
Trattoria
dai
gemelli
,
davanti
al
portone
numero
12
,
un
commando
della
Brigata
28
marzo
ha
eliminato
con
quei
cinque
colpi
secchi
di
pistola
«
il
terrorista
di
Stato
Walter
Tobagi
»
.
Questi
i
termini
con
i
quali
viene
rivendicato
l
'
attentato
mortale
al
centralino
della
nostra
redazione
milanese
un
'
ora
e
mezzo
dopo
,
alle
12
e
54
:
«
Continua
la
campagna
contro
la
stampa
di
regime
.
Seguirà
al
più
presto
un
comunicato
»
.
Quattro
sono
i
componenti
del
commando
assassino
.
Il
giornalista
sapeva
da
tempo
di
essere
nel
mirino
dei
terroristi
:
il
suo
nome
era
comparso
in
un
elenco
trovato
dai
carabinieri
nella
notte
fra
il
10
e
1'11
gennaio
del
'79
in
una
valigetta
«24
ore
»
sotto
una
FIAT
500
parcheggiata
all
'
angolo
fra
piazza
Durante
e
viale
Lombardia
.
Nella
valigetta
c
'
erano
documenti
dei
«
Reparti
comunisti
d
'
attacco
»
e
di
«
Prima
linea
»
,
fra
cui
quell
'
elenco
di
46
nomi
di
magistrati
,
di
avvocati
e
di
tre
giornalisti
.
Uno
era
proprio
lui
,
Walter
Tobagi
.
Venne
convocato
dal
procuratore
capo
Mauro
Gresti
,
gli
fu
suggerito
di
cambiar
città
,
abitudini
,
di
farsi
scortare
.
Tobagi
prese
atto
,
con
rassegnazione
,
della
sua
situazione
,
ma
rifiutò
la
scorta
e
continuò
la
sua
attività
di
giornalista
e
di
sindacalista
.
Certo
,
aveva
coscienza
del
rischio
e
non
lo
nascondeva
,
anzi
lo
confidava
agli
amici
,
ma
con
pudore
.
Anche
la
DIGOS
,
tempo
fa
,
gli
aveva
fatto
capire
che
era
il
caso
di
«
cambiar
aria
»
,
ma
nemmeno
quest
'
ultimo
avvertimento
lo
convinse
a
mutar
parere
.
Un
mese
fa
la
SIP
gli
modificò
il
numero
di
telefono
.
In
realtà
l
'
unico
accorgimento
che
adottò
fu
quello
di
variare
i
propri
orari
,
uscendo
di
casa
alle
ore
più
impensate
.
Ma
non
gli
è
servito
a
nulla
.
Ieri
mattina
la
porta
del
suo
appartamento
al
pianterreno
di
via
Solari
2
,
accanto
quasi
alla
portineria
,
si
è
aperta
alle
11
.
Uno
sguardo
alla
posta
,
un
saluto
al
custode
.
La
moglie
Stella
Olivieri
e
la
piccola
Benedetta
di
tre
anni
(
Luca
,
l
'
altro
figlio
di
7
anni
,
è
a
scuola
)
lo
salutano
,
sono
appena
rientrate
dalla
spesa
.
Tobagi
deve
andare
al
giornale
,
nel
pomeriggio
ha
in
programma
un
viaggio
a
Venezia
,
c
'
è
un
convegno
sulla
«
qualità
della
vita
»
,
lo
ha
seguito
martedì
e
mercoledì
.
Ma
la
sera
di
mercoledì
era
ritornato
a
Milano
per
un
dibattito
al
Circolo
della
Stampa
sui
segreti
professionali
e
istruttorie
,
il
caso
Isman
e
i
verbali
di
Peci
.
È
lui
che
riassume
,
all
'
una
di
notte
,
i
vari
interventi
.
Forse
,
uscendo
di
casa
,
Tobagi
pensa
al
dibattito
della
sera
prima
.
Fuori
pioviggina
come
d
'
autunno
e
siamo
quasi
a
giugno
,
una
primavera
grigia
e
fredda
.
La
sua
Mini
Morris
è
posteggiata
oltre
l
'
isolato
,
dentro
il
garage
«
del
Parco
»
di
via
Valparaiso
7/a
.
Duecento
metri
a
piedi
,
una
passeggiata
che
era
rituale
per
lui
,
costretto
dal
lavoro
a
ore
e
ore
di
scrivania
,
lo
diceva
spesso
agli
amici
,
«
col
nostro
lavoro
non
si
fa
mai
moto
»
.
Walter
,
un
po
'
corpulento
lo
era
,
un
viso
pacioso
,
l
'
aria
sempre
seria
anche
quando
scherzava
,
quel
suo
serrare
le
labbra
e
farle
a
fessura
,
uno
che
da
giovane
,
fin
dai
tempi
del
liceo
Parini
sezione
«
A
»
,
era
ritenuto
il
più
maturo
e
il
più
autorevole
,
nonostante
in
pieno
Sessantotto
la
sua
militanza
cattolica
.
Tobagi
arriva
all
'
incrocio
fra
la
via
Salaino
e
la
via
Solari
,
incerto
se
rimanere
sul
marciapiede
dei
numeri
pari
o
dirigersi
su
quello
opposto
.
Attraversa
la
strada
,
si
avvia
verso
la
via
Valparaiso
.
È
in
questo
momento
che
scatta
il
meccanismo
mortale
dell
'
agguato
.
Probabilmente
è
dal
portone
di
casa
che
il
giornalista
viene
seguito
da
un
giovane
,
pare
.
Ma
a
quell
'
ora
e
in
quella
zona
la
gente
per
strada
è
tanta
,
e
non
si
può
essere
sospettosi
fino
alla
paranoia
.
Tobagi
non
si
accorge
d
'
essere
pedinato
.
E
nemmeno
si
accorge
di
una
Peugeot
204
grigiometallizzata
con
altre
tre
persone
a
bordo
che
lo
supera
a
metà
della
via
Salaino
.
O
forse
no
,
l
'
auto
la
vede
,
osserva
che
rallenta
fino
a
fermarsi
poco
più
avanti
,
di
fronte
al
numero
14
.
Ma
non
realizza
l
'
idea
del
pericolo
.
L
'
auto
scarica
due
persone
.
Una
si
dirige
verso
il
marciapiede
dei
numeri
dispari
,
a
sinistra
,
lo
stesso
del
giornalista
.
L
'
altra
va
sul
marciapiede
di
destra
.
È
un
giovane
,
anzi
un
giovanissimo
,
quello
che
cammina
dalla
stessa
parte
di
Tobagi
,
che
si
acquatta
dietro
una
finta
siepe
,
di
quelle
un
poco
squallide
che
delimitano
l
'
area
«
estiva
»
dei
ristoranti
.
Tobagi
cammina
,
l
'
ombrello
sulla
sinistra
usato
come
bastone
da
passeggio
,
sovrappensiero
.
Passa
davanti
alle
prime
«
siepi
»
della
Trattoria
dai
gemelli
,
con
la
coda
dell
'
occhio
si
accorge
improvvisamente
di
un
'
ombra
.
Non
fa
in
tempo
a
fuggire
,
l
'
ombra
si
materializza
,
un
ragazzo
con
la
pistola
e
un
sacchetto
di
plastica
,
come
nei
film
delle
spie
,
il
sacchetto
di
plastica
per
raccogliere
i
bossoli
e
rendere
più
difficili
le
ricerche
balistiche
.
La
pistola
spara
cinque
volte
,
Tobagi
muore
.
Una
pozzanghera
raccoglie
il
suo
sangue
.
Dalle
finestre
si
urla
,
il
proprietario
della
trattoria
corre
fuori
,
in
tempo
per
vedere
Tobagi
ancora
sussultare
.
Il
killer
intanto
è
balzato
sulla
Peugeot
,
così
come
il
compagno
che
sorvegliava
il
marciapiede
di
destra
e
il
«
pedinatore
»
.
L
'
auto
fa
stridere
le
gomme
,
la
fuga
dei
terroristi
sembra
finire
contro
una
127
arancione
:
all
'
angolo
con
la
via
Valparaiso
,
le
due
auto
si
urtano
,
il
guidatore
della
127
impreca
,
apre
la
porta
,
i
quattro
della
Peugeot
tirano
diritti
verso
la
piazza
Bazzi
,
verso
il
Lorenteggio
,
verso
chissà
dove
.
L
'
auto
della
fuga
alle
sei
del
pomeriggio
non
è
ancora
stata
ritrovata
,
la
polizia
ha
cinque
numeri
della
targa
,
si
sa
che
è
rubata
,
ma
niente
più
.
Di
corsa
dalla
via
Solari
arriva
Stella
Olivieri
,
che
si
trascina
la
piccola
Benedetta
:
da
casa
ha
sentito
sparare
,
ha
avuto
come
un
presentimento
,
poi
le
sirene
.
Arriva
urlando
di
dolore
,
Walter
è
a
faccia
in
giù
,
sul
marciapiede
bagnato
,
immobile
,
una
striscia
di
sangue
che
cola
.
Arriva
dalla
vicina
parrocchia
di
Santa
Maria
del
Rosario
un
sacerdote
,
conosce
da
anni
i
Tobagi
,
è
lui
che
un
mese
fa
ha
dato
la
prima
comunione
a
Luca
.
Arriva
l
'
anziano
papà
di
Walter
,
si
china
sul
cadavere
,
piccolo
,
l
'
impermeabile
grigio
ancora
più
grigio
,
un
'
occhiata
perduta
al
corpo
immobile
:
«
Figlio
,
figlio
mio
,
che
ti
hanno
fatto
,
perché
?
»
urla
.
La
moglie
vuole
anche
lei
vedere
,
ma
glielo
impediscono
.
Comincia
il
rituale
pellegrinaggio
di
autorità
:
ecco
il
generale
Ferrara
dei
carabinieri
;
ecco
il
sindaco
Tognoli
,
socialista
come
socialista
era
Tobagi
;
ecco
gli
occhi
rossi
di
pianto
di
Bruno
Pellegrino
,
segretario
del
club
Turati
,
amico
di
Walter
;
ecco
Ugo
Finetti
,
segretario
provinciale
del
PSI
.
Arriva
il
procuratore
capo
Gresti
.
«
Allucinante
,
ieri
sera
ero
anch
'
io
al
dibattito
sul
segreto
istruttorio
»
dice
.
A
quel
dibattito
,
c
'
erano
un
centinaio
di
giornalisti
milanesi
,
eccoli
tutti
qui
davanti
alla
Trattoria
dai
gemelli
,
chi
con
la
faccia
stravolta
,
chi
incapace
di
parlare
,
per
molti
più
che
un
collega
Tobagi
era
anche
un
amico
.
Arrivano
il
direttore
del
«
Corriere
»
,
Franco
Di
Bella
e
l
'
editore
Rizzoli
:
assieme
agli
amici
più
cari
di
Tobagi
si
recano
a
casa
,
dalla
moglie
.
L
'
auto
nera
dei
becchini
arriva
alle
12
e
45
,
Gaspare
Barbiellini
Amidei
,
il
vicedirettore
del
«
Corriere
»
,
scoppia
in
un
pianto
dirotto
,
nel
pomeriggio
arriverà
all
'
obitorio
anche
il
ministro
Rognoni
.
La
mobilitazione
democratica
della
città
comincia
a
funzionare
,
purtroppo
,
come
tante
altre
volte
,
sette
quest
'
anno
,
per
i
morti
e
altrettante
per
i
feriti
.
Più
in
là
,
nella
casa
di
Walter
,
il
mesto
pellegrinaggio
,
il
padre
e
la
madre
disperati
,
«
mio
figlio
così
buono
che
non
faceva
male
a
una
mosca
»
,
lo
studio
così
vuoto
eppure
pieno
di
gente
impietrita
.
StampaQuotidiana ,
Napoli
,
28
.
La
prima
traccia
,
un
pezzo
di
fusoliera
che
affiorava
sul
pelo
dell
'
acqua
,
è
stata
avvistata
da
un
elicottero
alle
sette
di
mattina
,
circa
60
chilometri
a
nord
dell
'
isola
di
Ustica
.
«
Posizione
39°49'
latitudine
nord
,
12°55'
longitudine
est
»
,
aveva
segnalato
il
pilota
.
Da
quel
momento
,
dopo
una
notte
di
ricerche
affannose
e
inutili
,
il
mare
ha
cominciato
a
restituire
i
brandelli
del
DC9
IH
870
dell
'
Itavia
partito
l
'
altra
sera
alle
ore
20
da
Bologna
con
81
persone
a
bordo
e
mai
arrivato
a
Palermo
:
un
breve
troncone
di
coda
,
un
altro
pezzo
di
fusoliera
,
qualche
solitario
salvagente
,
i
primi
cadaveri
sbattuti
avanti
e
indietro
dalle
onde
forza
4
.
Le
operazioni
di
ricerca
sono
andate
avanti
per
tutta
la
giornata
.
Continueranno
anche
domenica
.
Ma
le
speranze
di
trovare
qualcuno
in
vita
sono
praticamente
nulle
.
Il
compito
delle
unità
navali
ed
aeree
è
realisticamente
solo
quello
di
recuperare
il
recuperabile
,
che
è
poca
cosa
.
Tutto
il
resto
giace
su
un
fondale
irraggiungibile
,
percorso
da
fortissime
correnti
,
a
una
profondità
che
varia
tra
i
3000
e
i
3600
metri
.
A
sera
le
salme
avvistate
e
issate
a
bordo
delle
motolance
erano
35
.
All
'
appello
manca
più
della
metà
dei
passeggeri
.
Soprattutto
manca
la
scatola
nera
,
l
'
unica
che
allo
stato
attuale
potrebbe
stabilire
con
la
sua
memoria
elettronica
le
cause
del
disastro
.
Che
cosa
sia
accaduto
venerdì
sera
tra
il
cielo
stellato
illuminato
dalla
luna
piena
e
il
mare
agitato
del
basso
Tirreno
,
nessuno
è
ancora
in
grado
di
dirlo
.
Il
DC
9
dell
'
Itavia
era
partito
da
Bologna
verso
le
20
,
con
due
ore
di
ritardo
sull
'
orario
previsto
.
Settantasette
i
passeggeri
,
quattro
gli
uomini
dell
'
equipaggio
.
Ai
comandi
Domenico
Gatti
,
44
anni
,
7255
ore
di
volo
alle
spalle
.
L
'
ultimo
contatto
con
la
torre
di
controllo
di
Ciampino
c
'
è
stato
alle
20.55
.
Il
comandante
,
a
causa
dei
venti
contrari
,
aveva
chiesto
di
poter
scendere
di
quota
,
dagli
undici
mila
metri
di
crociera
ai
settemila
.
Dalla
torre
di
controllo
era
arrivato
1'OK
e
l
'
aereo
si
era
abbassato
.
Da
quel
momento
,
il
silenzio
assoluto
.
L
'
IH
870
era
poco
più
in
là
dell
'
isola
di
Ponza
.
Nessuno
aveva
comunicato
avarie
o
difficoltà
tecniche
.
Nessuno
aveva
lanciato
1'SOS
.
A
Palermo
si
è
aspettato
.
Invano
.
Il
DC
9
partito
da
Bologna
non
ha
dato
segni
di
vita
.
Quando
è
scattato
l
'
allarme
,
le
speranze
erano
ormai
ridotte
all
'
osso
.
E
ogni
minuto
che
passava
portava
la
certezza
della
tragedia
.
L
'
autonomia
del
velivolo
,
hanno
fatto
sapere
i
tecnici
,
arrivava
fino
alle
22.34
.
A
quell
'
ora
c
'
è
stata
,
anche
nei
meno
pessimisti
,
la
certezza
della
disgrazia
.
Ma
si
sperava
ancora
.
Magari
che
il
pilota
fosse
riuscito
ad
ammarare
:
le
81
persone
che
erano
a
bordo
potevano
essersi
salvate
con
i
salvagenti
.
Soltanto
un
sottile
filo
a
cui
appendersi
,
ma
un
filo
che
è
durato
fino
all
'
alba
quando
,
dall
'
alto
,
è
arrivata
la
prima
prova
tangibile
che
la
tragedia
si
era
consumata
fino
in
fondo
.
A
Napoli
l
'
allarme
alla
Capitaneria
di
porto
è
arrivato
poco
dopo
le
dieci
di
sera
.
Nel
tratto
di
mare
compreso
tra
Ponza
e
Ustica
,
un
'
area
d
'
acqua
grande
come
una
regione
,
erano
arrivate
le
navi
della
Marina
militare
coordinate
dall
'
incrociatore
Doria
,
quelle
della
Capitaneria
di
porto
,
i
mercantili
e
i
traghetti
che
a
quell
'
ora
si
trovavano
in
viaggio
tra
Palermo
e
Napoli
.
Dagli
aeroporti
della
zona
erano
partiti
gli
elicotteri
,
gli
Atlantic
e
i
caccia
attrezzati
per
compiti
anti
-
sommergibili
,
capaci
di
individuare
una
massa
metallica
a
grandi
profondità
.
Ore
e
ore
di
ricerche
.
Ma
il
DC
9
non
si
trovava
.
Verso
le
cinque
di
mattina
è
arrivata
la
prima
segnalazione
.
Dalla
nave
traghetto
Carducci
era
stata
avvistata
una
macchia
di
carburante
.
La
chiazza
,
però
,
non
proveniva
dal
velivolo
.
Alle
sette
,
finalmente
il
primo
segno
.
Da
un
elicottero
è
stato
comunicato
al
Doria
,
e
da
questo
alla
Capitaneria
di
porto
,
l
'
avvistamento
di
un
pezzo
di
fusoliera
.
La
speranza
,
a
quel
punto
,
era
di
aver
delimitato
,
dopo
ore
di
ricerca
alla
cieca
,
una
zona
su
cui
concentrare
navi
ed
aerei
.
Ma
è
stata
una
nuova
illusione
.
Un
'
altra
parte
del
velivolo
è
stata
infatti
identificata
poco
dopo
da
una
motonave
a
venticinque
miglia
di
distanza
dalla
prima
.
Un
'
altra
,
ancora
più
distante
,
è
stata
incrociata
dal
Carducci
che
si
stava
allontanando
in
direzione
della
Sicilia
.
È
la
conferma
indiretta
che
il
DC
9
è
esploso
in
volo
,
spandendo
a
raggiera
dall
'
alto
,
per
miglia
e
miglia
lamiere
e
cadaveri
.
Sabotaggio
?
Incidente
tecnico
?
Errore
umano
?
Sono
le
domande
a
cui
dovranno
rispondere
le
due
commissioni
di
inchiesta
nominate
rispettivamente
dall
'
Itavia
e
dai
ministeri
della
Marina
e
dei
Trasporti
.
Le
uniche
tracce
sono
,
al
momento
,
le
parti
del
velivolo
recuperate
dai
mezzi
di
soccorso
e
la
registrazione
dell
'
ultimo
rilevamento
radar
effettuato
dall
'
aeroporto
di
Capodichino
,
pochi
minuti
dopo
il
contatto
radio
tra
il
comandante
Gatti
e
la
torre
di
controllo
di
Ciampino
.
Le
ricerche
,
come
si
è
detto
,
continueranno
anche
nella
giornata
di
domenica
.
Le
salme
recuperate
,
42
,
trasbordate
sul
Doria
,
sono
già
partite
in
elicottero
per
Palermo
.
Anche
il
centro
di
coordinamento
delle
operazioni
,
sinora
guidate
da
Napoli
,
dovrebbe
spostarsi
nelle
prossime
ore
nella
città
siciliana
.
La
lotta
per
strappare
al
mare
almeno
i
corpi
da
restituire
ai
parenti
in
attesa
,
è
,
ora
,
anche
contro
il
tempo
.
In
serata
una
motovedetta
si
è
imbattuta
in
quello
che
molti
temevano
:
un
branco
di
squali
.
StampaQuotidiana ,
Bologna
,
2
.
È
la
guerra
.
Un
pezzo
di
guerra
dentro
una
città
ordinata
,
civile
e
tranquilla
.
Un
pezzo
di
guerra
che
si
è
abbattuto
su
questa
vecchia
stazione
attraverso
la
quale
tutti
siamo
passati
,
decine
di
volte
,
nella
nostra
vita
.
E
rivederla
oggi
così
sconvolta
,
invasa
dai
vigili
del
fuoco
,
da
infermieri
,
dai
militari
,
tutti
con
le
mascherine
sulla
bocca
e
gli
occhi
allucinati
,
faceva
male
al
cuore
.
«
È
come
in
guerra
»
diceva
un
poliziotto
giovane
.
E
lui
che
la
guerra
finora
l
'
aveva
vista
solo
al
cinema
,
ne
viveva
imprevedibilmente
un
atto
,
e
quale
atto
!
,
in
questo
primo
sabato
d
'
agosto
riservato
tutt
'
al
più
a
qualche
incidente
stradale
dovuto
al
Grande
Esodo
.
«
Trent
'
anni
di
stazione
ho
fatto
»
mi
sussurra
un
ferroviere
con
gli
occhiali
,
alto
,
anziano
,
offrendomi
una
sigaretta
con
la
mano
che
trema
«
ma
non
ho
mai
visto
una
cosa
simile
.
Nemmeno
in
guerra
.
»
Torna
sulla
bocca
di
tutti
la
parola
che
evoca
la
strage
inutile
,
incomprensibile
.
E
come
in
guerra
a
chi
tocca
tocca
.
Tra
le
vittime
ci
sono
sempre
,
come
nei
bollettini
dei
bombardamenti
,
tante
donne
e
bambini
,
perché
sono
loro
i
più
goffi
,
impacciati
,
lenti
nel
cercare
e
trovare
una
via
di
fuga
.
Ma
poi
che
via
di
fuga
potevano
immaginar
di
cercare
,
questi
viaggiatori
,
che
nei
sottopassaggi
e
sulla
banchina
aspettavano
un
treno
che
doveva
condurli
al
sole
,
alle
vacanze
al
mare
?
Avevano
zaini
,
pacchi
,
borse
di
plastica
,
valigie
zeppe
di
sandali
,
costumi
da
bagno
,
magliette
e
jeans
,
riempite
ieri
sera
in
allegria
.
Ora
queste
loro
povere
cose
colorate
si
ammucchiano
contro
le
pareti
nell
'
atrio
della
stazione
,
e
questi
bagagli
sventrati
serviranno
forse
soltanto
a
facilitare
un
riconoscimento
.
E
ne
viene
una
pena
,
un
'
amarezza
,
un
dolore
acuto
,
come
se
ognuno
di
quegli
oggetti
ci
appartenesse
,
come
se
ognuna
di
quelle
vittime
sconosciute
facesse
un
po
'
parte
anche
della
nostra
famiglia
.
Tutti
gli
orologi
della
stazione
sono
fermi
alle
10.25
.
È
fermo
l
'
orologio
dell
'
atrio
sopra
il
tabellone
degli
arrivi
e
partenze
,
oggi
inutile
,
sopra
l
'
edicola
dei
giornali
chiusa
.
È
fermo
l
'
orologio
esterno
sul
frontone
della
stazione
dove
si
fermavano
i
taxi
per
scaricare
i
viaggiatori
in
partenza
.
Il
piazzale
è
tenuto
sgombro
dalla
polizia
e
dall
'
esercito
.
C
'
è
molta
gente
dietro
le
transenne
.
Ma
non
c
'
è
un
grido
:
né
un
'
invettiva
,
né
una
protesta
.
E
ciò
che
stupisce
,
e
dà
una
sensazione
di
irrealtà
,
è
proprio
questo
silenzio
appena
rotto
dall
'
ordine
di
un
medico
che
chiama
una
barella
per
l
'
ultimo
cadavere
estratto
dalle
macerie
.
E
in
silenzio
le
infermiere
corrono
chiuse
nel
loro
camice
bianco
,
la
mascherina
allacciata
sul
volto
,
le
mani
nei
guanti
gialli
di
gomma
a
raccogliere
un
altro
corpo
massacrato
.
Ci
gettano
sopra
rapidamente
un
lenzuolo
,
con
gesti
accorti
.
Ed
è
tutto
.
Qualcuno
segna
un
numero
.
L
'
identificazione
avverrà
,
se
sarà
possibile
,
più
tardi
.
Tutt
'
intorno
,
davanti
alla
stazione
,
ci
sono
le
ambulanze
,
è
la
Croce
Viola
di
Bologna
,
la
Croce
Rossa
di
Modena
,
ci
sono
i
furgoni
bianchi
dell
'
Associazione
Maria
Buturini
di
Barberino
di
Mugello
,
del
Centro
di
rianimazione
di
Parma
.
Decine
di
mezzi
di
soccorso
,
da
tutta
la
regione
e
dalle
province
vicine
,
si
sono
concentrati
qui
,
in
questo
pezzo
di
guerra
,
in
questo
spezzone
di
trincea
,
a
curare
la
ferita
che
si
è
aperta
come
una
voragine
a
fianco
del
binario
numero
1
,
dove
transitano
i
rapidi
Roma
-
Milano
e
Milano
-
Roma
.
Un
'
ala
intera
della
stazione
,
quella
che
dall
'
ingresso
porta
a
sinistra
ai
binari
3
,
4
e
5
attraverso
i
relativi
sottopassaggi
,
è
crollata
sotto
la
violenta
,
inspiegabile
esplosione
.
I
pompieri
sui
loro
ponteggi
verniciati
di
rosso
si
muovono
rapidi
,
sgombrando
travi
e
macerie
.
Di
tanto
in
tanto
,
un
nuovo
crollo
solleva
polvere
e
calcinacci
.
Fa
caldo
,
ormai
c
'
è
un
sole
a
picco
.
Appoggiate
alle
biciclette
,
ragazze
in
vestiti
leggeri
,
giovani
in
canottiera
,
uomini
anziani
,
osservano
senza
parlare
il
trasporto
dei
cadaveri
sulle
barelle
.
Di
una
donna
si
vedono
solo
i
piedi
nelle
scarpe
di
gomma
e
le
caviglie
gonfie
.
«
Doveva
essere
vecchia
»
mormora
qualcuno
al
mio
fianco
.
E
lo
dice
con
tenerezza
.
I
cadaveri
vengono
caricati
su
un
autobus
che
ha
ancora
la
sua
brava
targa
in
vista
.
È
il
numero
37
.
Ai
finestrini
sono
stati
stesi
teli
bianchi
.
Un
domenicano
sta
fermo
davanti
al
predellino
e
,
mano
a
mano
che
arrivano
,
dà
l
'
assoluzione
«
sotto
condizione
»
a
quelle
povere
salme
.
Il
tempo
passa
rapido
ma
interminabile
.
Sulla
città
è
scesa
un
'
afa
pesante
.
Però
la
gente
non
si
allontana
dal
piazzale
della
stazione
.
Anzi
,
altra
gente
arriva
e
si
ferma
senza
parlare
.
E
,
sotto
i
loro
occhi
,
continua
a
svolgersi
il
rito
delle
barelle
chiamate
di
corsa
,
caricate
di
un
corpo
avvolto
in
un
lenzuolo
,
depositate
nell
'
autobus
numero
37
.
«
Forse
adesso
arriva
Pertini
»
dice
qualcuno
.
Un
altro
commenta
:
«
La
guerra
civile
è
la
peggiore
di
tutte
le
guerre
»
.
Il
cielo
è
quasi
grigio
.
La
città
è
come
ferma
,
attonita
,
silenziosa
.
Per
arrivare
alla
stazione
ho
attraversato
lunghe
strade
vuote
.
Dai
muri
,
un
manifesto
annuncia
per
domani
uno
show
di
Renato
Zero
.
Bar
e
negozi
chiusi
.
Forse
soltanto
perché
è
sabato
pomeriggio
,
ma
forse
anche
perché
la
città
è
già
naturalmente
in
lutto
.
Comunque
,
appare
così
a
chi
arriva
.
Mentre
le
ore
passano
,
una
disperata
stanchezza
sembra
scendere
sulle
ragazze
vestite
di
bianco
,
i
pompieri
,
i
poliziotti
,
i
soldati
,
i
ferrovieri
che
hanno
occupato
da
stamattina
la
stazione
.
Il
piccolo
domenicano
che
assolve
si
asciuga
il
sudore
della
fronte
e
non
vuol
dire
il
suo
nome
.
Ma
c
'
è
su
queste
facce
stanche
anche
una
straordinaria
compostezza
,
il
rifiuto
ad
abbandonarsi
a
gesti
di
nervosismo
e
di
isteria
.
La
stessa
compostezza
si
legge
sui
volti
della
gente
che
continua
ad
ammassarsi
contro
le
transenne
senza
premere
,
senza
protestare
,
senza
gridare
.
Questa
compostezza
,
quest
'
ordine
,
questa
severità
,
questa
stanchezza
controllata
,
sembrano
il
connotato
essenziale
della
città
.
È
come
se
tutti
camminassero
un
po
'
in
punta
di
piedi
,
come
se
tutti
parlassero
a
bassa
voce
.
Non
solo
e
non
tanto
perché
ci
sono
questi
morti
da
estrarre
e
seppellire
,
ma
come
per
voler
riflettere
su
se
stessi
,
sulla
propria
storia
,
sul
proprio
particolare
di
essere
.
E
questi
morti
forniscono
all
'
esame
di
coscienza
un
ulteriore
elemento
di
riflessione
.
«
Dio
,
quante
cose
son
successe
in
questi
anni
»
confessa
,
quasi
a
se
stessa
,
una
donna
anziana
.
Nessuno
crede
all
'
incidente
.
La
tragedia
viene
vissuta
fino
in
fondo
come
una
tragedia
politica
,
come
un
ulteriore
prezzo
che
la
città
paga
a
un
'
aggressione
di
cui
non
sono
chiari
né
l
'
origine
e
né
il
fine
.
E
questa
oscurità
genera
nuova
sofferenza
.
«
Una
volta
»
dice
uno
«
sapevamo
chi
era
il
nemico
»
.
Una
volta
.
Quando
c
'
era
la
guerra
vera
.
Si
combatteva
e
si
moriva
anche
allora
,
ma
era
un
'
altra
cosa
,
faccia
a
faccia
,
ognuno
lealmente
sotto
la
sua
bandiera
.
Ora
la
città
ha
l
'
impressione
di
essere
obiettivo
di
un
nemico
invisibile
e
imprendibile
,
come
in
un
'
allucinazione
.
E
per
difendersi
,
la
gente
non
sa
che
fare
se
non
stringersi
l
'
uno
con
l
'
altro
,
come
dietro
quelle
transenne
,
aspettando
che
arrivi
Pertini
,
in
silenzio
e
in
dignità
.
Così
è
Bologna
in
queste
ore
.
Da
un
muro
,
un
manifesto
che
ricorda
la
strage
dell
'
Italicus
sembra
l
'
unico
grido
di
protesta
.
E
se
anche
la
tragedia
di
oggi
avesse
quel
segno
?
Ma
che
segno
aveva
esattamente
la
tragedia
dell
'
Italicus
?
StampaQuotidiana ,
Danzica
,
30
.
Quando
Walesa
e
Jagielski
firmano
il
protocollo
dell
'
accordo
la
forza
della
solennità
assume
inevitabilmente
i
tratti
del
freddo
formalismo
:
i
volti
sono
tesi
e
commossi
,
ma
l
'
applauso
di
tutti
esprime
grande
emozione
.
Così
-
come
si
conviene
ad
un
patto
tra
due
potenze
eguali
e
sovrane
-
è
nato
il
primo
sindacato
libero
di
un
paese
socialista
:
e
per
la
prima
volta
un
partito
comunista
al
potere
ha
dovuto
rinegoziare
il
suo
accordo
con
una
classe
operaia
di
cui
l
'
ortodossia
ufficiale
gli
dava
una
delega
assiomatica
fino
al
dogma
.
Sono
le
11
e
20
di
una
giornata
calda
e
nuvolosa
e
ai
cantieri
Lenin
tensione
e
nervosismo
si
esprimono
in
una
insolita
riservatezza
e
nel
silenzioso
affollamento
di
familiari
,
amici
e
simpatizzanti
davanti
all
'
emblematico
cancello
numero
2
.
Poche
ore
prima
era
giunta
la
notizia
dell
'
accordo
siglato
a
Stettino
:
libere
e
segrete
elezioni
nei
sindacati
ufficiali
il
cui
svolgimento
sarà
controllato
dal
Comitato
unitario
.
La
richiesta
di
un
sindacato
autonomo
-
su
cui
Danzica
non
mollava
-
era
stata
dunque
aggirata
,
mentre
in
tutta
la
zona
facevano
la
loro
ostentata
ricomparsa
polizia
ed
esercito
.
Così
quando
Jagielski
è
comparso
alle
11
pochi
lo
aspettavano
nella
grande
sala
per
le
conferenze
dei
cantieri
Lenin
.
Aveva
già
mancato
tre
appuntamenti
senza
fornire
giustificazioni
.
E
intanto
,
da
Varsavia
giungevano
insistenti
voci
di
un
improvviso
e
decisivo
irrigidimento
dell
'
ufficio
politico
.
Il
violento
fondo
di
«
Trybuna
Ludu
»
-
rispolverava
la
vecchia
formula
delle
forze
antisocialiste
-
e
l
'
apparire
di
esercito
e
polizia
indicavano
la
scelta
di
una
prova
di
forza
annunciata
con
discrezione
e
ufficialità
a
giornalisti
e
funzionari
dei
partiti
«
amici
»
(
fornendo
persino
la
data
di
lunedì
)
.
Che
cosa
sia
poi
successo
in
queste
riunioni
convulse
da
ritmo
continuo
dell
'
ufficio
politico
è
presto
per
poterlo
dire
.
Ma
quando
ieri
sera
alle
8
Stephan
Olsowskj
non
è
comparso
alla
televisione
si
cominciava
a
capire
che
l
'
accordo
poteva
ancora
essere
saltato
:
una
decisione
così
drammatica
vuole
infatti
un
rituale
di
formale
unità
a
cui
evidentemente
Olsowskj
-
diventato
il
portabandiera
di
un
rinnovamento
profondo
del
partito
-
non
ha
voluto
sottostare
.
Al
suo
posto
è
comparso
Barcikoski
-
l
'
uomo
che
ha
trattato
a
Stettino
-
in
un
discorso
in
cui
le
minacce
hanno
prevalso
sulle
aperture
:
lo
stato
d
'
emergenza
era
dunque
già
scattato
quando
Jagielski
ha
fatto
il
suo
inaspettato
ingresso
nella
sala
a
vetri
della
trattativa
.
Pallido
e
teso
era
seguito
da
una
delegazione
insolitamente
folta
-
una
decina
di
persone
-
a
sottolineare
l
'
imminenza
di
una
decisione
solenne
.
Quando
ha
cominciato
a
parlare
molti
dei
suoi
interlocutori
-
e
fra
essi
il
presidente
della
commissione
di
esperti
Mazowieczi
-
non
hanno
nemmeno
pensato
a
sedersi
.
Ma
la
forte
tensione
accumulata
nelle
ultime
ore
si
è
sciolta
alle
prime
parole
:
Jagielski
rendeva
omaggio
al
senso
di
responsabilità
degli
scioperanti
,
ringraziava
gli
esperti
«
per
l
'
enorme
contributo
»
,
parlava
di
«
piattaforma
valida
»
in
un
crescendo
di
concessioni
e
riconoscimenti
che
anticipavano
lo
sblocco
della
situazione
:
a
nome
del
partito
Jagielski
dichiarava
infine
di
accettare
i
primi
due
punti
-
sindacato
indipendente
e
diritto
di
sciopero
-
della
piattaforma
del
Baltico
.
Sono
le
richieste
fondamentali
e
irrinunciabili
uscite
da
questa
lunga
agitazione
che
ha
costretto
il
partito
a
rassegnarsi
ad
un
ridimensionamento
dei
suoi
poteri
.
«
Ora
sono
pronto
a
firmare
»
ha
dichiarato
sbrigativamente
Jagielski
«
e
a
portare
il
documento
al
Plenum
del
Comitato
Centrale
che
si
riunisce
alle
3
,
poi
sarò
di
nuovo
qui
da
voi
stasera
per
concludere
il
negoziato
»
.
A
questo
punto
nella
grande
sala
dei
delegati
operai
e
nei
cortili
dei
cantieri
collegati
con
gli
altoparlanti
,
è
scoppiato
l
'
applauso
:
il
segno
del
rompersi
di
una
lunga
incomunicabilità
che
ha
portato
la
Polonia
sull
'
orlo
del
dramma
.
Poi
è
cominciato
un
dialogo
secco
e
asciutto
che
-
nella
sua
rapidità
-
ha
riproposto
le
diffidenze
dei
due
poteri
così
a
lungo
contrapposti
ma
ha
anche
consumato
le
ultime
fiammate
di
ostilità
.
«
Ma
la
sua
decisione
sarà
condivisa
dal
Plenum
?
»
ha
insistito
Walesa
.
«
Penso
proprio
di
potervelo
quasi
garantire
»
.
«
Ma
noi
vogliamo
piena
garanzia
non
solo
per
quelli
che
hanno
scioperato
ma
anche
per
quelli
che
li
hanno
aiutati
»
(
egualmente
puniti
dalla
legge
attuale
)
.
«
Le
avrete
»
ha
risposto
Jagielski
«
la
nuova
legge
sancirà
il
diritto
di
sciopero
»
.
«
E
i
prigionieri
politici
?
»
.
«
Non
esistono
in
questo
paese
»
.
«
Forse
è
vero
»
ha
replicato
Walesa
«
però
c
'
è
troppa
gente
che
va
e
viene
dal
carcere
»
.
«
Ci
metteremo
d
'
accordo
»
ha
tagliato
corto
Jagielski
.
«
Allora
lunedì
tornerete
al
lavoro
?
»
ha
insistito
il
vice
primo
ministro
.
«
Sì
,
ma
solo
se
tutto
sarà
messo
sulla
carta
in
modo
molto
chiaro
e
definitivo
»
.
«
Ma
dobbiamo
far
presto
,
il
tempo
lo
abbiamo
:
di
qui
a
lunedì
ci
sono
quasi
due
giorni
.
Poi
»
ha
riso
Jagielski
«
oggi
è
il
giorno
della
Madonna
e
le
cose
non
potevano
che
andar
bene
»
.
Il
riferimento
-
sul
cancello
dei
cantieri
campeggia
l
'
immagine
della
Madonna
Nera
e
di
papa
Wojtyla
-
ha
il
sapore
di
un
'
importante
concessione
psicologica
,
ma
esprime
anche
la
promessa
di
una
minore
rigidità
ideologica
:
è
dunque
l
'
accenno
più
esplicito
e
sentito
alla
necessità
di
un
recupero
del
consenso
sociale
.
Nelle
sale
dei
cantieri
la
tensione
si
rilassa
definitivamente
e
scoppia
una
grande
risata
,
la
prima
sentita
e
irrefrenabile
in
questi
ventun
giorni
di
occupazione
che
promettono
di
cambiare
il
volto
della
Polonia
moderna
.
Quindi
tutto
si
irrigidisce
in
un
protocollo
solenne
e
formale
:
Jagielski
e
Walesa
firmano
il
documento
(
e
tutti
gli
esperti
sono
in
piedi
)
;
si
approva
una
risoluzione
comune
-
a
saldare
un
rapporto
ritrovato
-
in
cui
governo
e
Comitato
unitario
ufficializzano
la
commissione
mista
per
proseguire
i
lavori
;
quindi
una
veloce
stretta
di
mano
e
Jagielski
si
infila
rapido
e
impaziente
nel
solito
tunnel
operaio
,
a
cui
riesce
persino
a
strappare
qualche
applauso
.
Walesa
-
circondato
dagli
operai
-
raggiunge
invece
tra
le
ovazioni
il
cancello
numero
2
a
calmare
l
'
impazienza
dei
familiari
.
È
finalmente
il
momento
delle
emozioni
:
molti
pregano
,
tutti
gridano
«
Vittoria
»
,
dalle
finestre
dell
'
astanteria
le
infermiere
gettano
fiori
.
Sono
da
poco
passate
le
12
e
la
radio
nazionale
interrompe
le
trasmissioni
per
annunciare
l
'
accordo
:
in
poco
meno
di
un
'
ora
il
panorama
politico
e
sociale
polacco
sembra
già
profondamente
cambiato
.
Nella
sala
delle
trattative
gli
intellettuali
scelti
dagli
operai
per
condurre
una
trattativa
che
sembrava
impossibile
sono
i
più
eccitati
e
a
tratti
increduli
.
«
Sono
commosso
»
ripete
con
nervosa
insistenza
lo
scrittore
cattolico
Mazowiecki
«
tanto
commosso
,
e
finalmente
mi
sento
stanco
.
»
Il
sociologo
Jan
Stephanski
mi
mostra
la
«
tessera
da
esperto
»
.
«
È
la
laurea
più
ambita
e
bella
della
mia
vita
»
afferma
«
questa
classe
operaia
è
stata
magnifica
,
si
è
mossa
a
nome
di
tutta
la
nazione
.
Lei
si
stupisce
?
Ma
io
li
ho
trovati
preparatissimi
:
hanno
una
storia
sconosciuta
,
fatta
di
continue
e
profonde
delusioni
attraverso
cui
hanno
raggiunto
una
notevole
maturità
.
Per
loro
è
diventato
un
punto
d
'
onore
ridefinire
il
ruolo
della
classe
operaia
,
nel
cui
nome
ha
parlato
per
tanti
anni
una
burocrazia
autocratica
e
spesso
imbecille
.
Mi
creda
:
non
abbiamo
mai
avuto
un
grande
successo
coi
nostri
patetici
appelli
ad
un
superato
realismo
.
Sono
decisi
a
conquistare
una
dignità
di
interlocutori
a
qualunque
costo
.
Se
si
governa
in
loro
nome
bisogna
anche
consultarli
»
.
Ma
forse
si
rischiava
la
catastrofe
?
domandiamo
.
«
Vivendo
con
loro
ho
capito
che
non
c
'
erano
alternative
:
il
distacco
con
il
potere
è
troppo
profondo
.
Se
avessero
ceduto
ci
sarebbe
stata
una
prossima
volta
e
senza
quel
minimo
di
possibilità
di
mediazione
che
oggi
ancora
sembra
esistere
.
E
la
prossima
volta
sarebbe
stata
davvero
una
catastrofe
»
.
Ma
in
molti
l
'
improvvisa
vittoria
suscita
incredulità
:
«
C
'
è
ancora
molta
gente
in
prigione
»
afferma
Mazowiecki
indicandomi
la
moglie
di
Kuron
,
il
leader
del
Kor
arrestato
nei
giorni
scorsi
.
«
Ma
ci
sono
anche
molte
ambiguità
di
fondo
che
attendono
un
chiarimento
»
interviene
un
giurista
«
vedremo
come
si
metterà
la
trattativa
sulla
stesura
dell
'
accordo
»
.
Sono
le
perplessità
inevitabili
di
una
svolta
che
tratteggia
un
esperimento
senza
precedenti
e
i
cui
limiti
interni
ed
esterni
sono
praticamente
sconosciuti
.
La
stessa
repentina
svolta
delle
ultime
ore
sta
ad
indicare
le
profonde
resistenze
verso
una
decisione
che
ridimensiona
,
come
detto
,
il
partito
per
inserire
tratti
di
pluralismo
sconosciuti
in
questi
paesi
.
Si
sa
che
la
Chiesa
-
da
sempre
cerniera
del
consenso
in
Polonia
-
ha
giocato
un
ruolo
fondamentale
nel
fare
da
potente
contrappeso
alle
tentazioni
ortodosse
:
ha
visto
sacrificato
il
cardinale
Wyszynski
su
quella
che
sembrava
l
'
ultima
linea
di
difesa
-
l
'
appello
al
realismo
e
alla
patria
di
Gierek
-
e
poi
ha
certamente
fatto
sentire
il
suo
peso
nell
'
evitare
quella
soluzione
di
forza
che
si
stava
profilando
.
Ma
quale
ruolo
ha
giocato
l
'
Unione
Sovietica
?
Ha
accettato
una
soluzione
in
una
zona
inquieta
,
dove
i
paesi
sono
da
sempre
legati
come
vasi
comunicanti
,
che
introduce
certamente
un
elemento
di
notevole
turbativa
?
E
quali
limiti
ha
posto
?
Nell
'
eccitata
Polonia
di
oggi
si
parla
molto
di
Afghanistan
-
che
legherebbe
le
mani
a
Mosca
-
di
situazioni
sociali
ed
economiche
insostenibili
e
che
possono
essere
rimosse
senza
compromettere
una
stabilità
interna
a
cui
anche
Breznev
dovrebbe
avere
interesse
.
Di
alleanze
su
cui
i
problemi
interni
non
possono
incidere
.
«
Il
problema
di
fondo
»
afferma
Stephanski
«
è
che
questa
volta
una
intera
classe
operaia
ha
rifiutato
la
burocrazia
di
partito
.
Uno
scontro
avrebbe
lasciato
del
tutto
nuda
l
'
ortodossia
ufficiale
.
Ma
ora
il
problema
è
di
sapere
realizzare
un
esperimento
che
certamente
metterà
a
dura
prova
la
nostra
capacità
di
gestire
le
necessità
interne
senza
incidere
nelle
esigenze
esterne
»
.
Un
equilibrio
da
cui
dipende
quello
che
potrebbe
essere
il
primo
serio
tentativo
sovietico
di
una
«
democratizzazione
pilotata
»
nelle
sue
zone
di
influenza
.
StampaQuotidiana ,
Firenze
.
Sono
bellissimi
.
Non
ci
vuole
l
'
occhio
dell
'
esperto
per
capirlo
.
Sono
bellissimi
,
e
nella
sala
angusta
e
male
illuminata
che
li
ospita
al
Museo
Archeologico
di
Firenze
,
in
mezzo
al
cicaleccio
festoso
delle
scolaresche
portate
in
visita
e
subito
conquistate
,
in
mezzo
alle
signore
impressionate
,
alle
comitive
di
giapponesi
che
commentano
tiepidamente
«
They
'
re
nice
»
,
belli
,
ma
escono
un
po
'
più
silenziosi
,
in
mezzo
a
chi
li
disegna
(
fotografarli
è
proibito
)
,
in
mezzo
al
discutere
degli
esperti
e
,
sostiene
qualcuno
,
in
mezzo
ai
tedeschi
e
agli
americani
coi
baffi
finti
e
le
microcamere
nascoste
intenti
a
valutarli
,
soppesarli
,
dargli
un
prezzo
,
sono
anche
più
inquietanti
:
con
la
loro
serenità
antica
,
la
loro
straordinaria
maestà
,
la
loro
perfetta
armonia
.
Con
buona
pace
di
Rudolf
Otto
,
l
'
aggettivo
,
per
loro
,
è
«
numinoso
»
:
dall
'
antichità
,
si
sono
portati
dietro
qualcosa
di
sacro
.
Siamo
davanti
ai
due
grandi
bronzi
rinvenuti
casualmente
a
Riace
,
in
Calabria
,
otto
anni
fa
.
Tutto
comincia
come
in
un
film
di
Spielberg
,
un
bel
mattino
d
'
agosto
.
Due
subacquei
si
stanno
immergendo
tranquilli
al
largo
di
Riace
Marina
,
vicino
a
Reggio
Calabria
,
a
circa
trecento
metri
dalla
riva
,
in
un
punto
dove
la
profondità
del
mare
non
supera
gli
otto
metri
.
Quando
uno
dei
due
vede
un
braccio
umano
.
Il
primo
pensiero
è
:
un
cadavere
.
E
vengono
subito
chiamati
i
carabinieri
.
I
«
cadaveri
»
sono
due
e
sono
in
realtà
due
grandi
bronzi
(
due
metri
uno
,
un
metro
e
novantotto
l
'
altro
)
complessivamente
in
buone
condizioni
,
nonostante
il
soggiorno
di
venticinque
secoli
in
quel
fondale
:
con
una
gran
chioma
ricciuta
e
trattenuta
da
un
nastro
uno
,
l
'
altro
con
una
bizzarra
testa
tronca
che
sicuramente
era
coperta
da
un
elmo
,
perduto
,
come
le
lance
e
gli
scudi
delle
due
statue
.
Dopo
il
recupero
ordinato
dal
sovrintendente
Giuseppe
Foti
e
dopo
le
prime
cure
,
i
due
guerrieri
vengono
portati
per
un
restauro
conservativo
più
completo
a
Firenze
.
E
qui
,
per
cinque
anni
,
una
équipe
di
esperti
porta
avanti
il
classico
miracolo
d
'
ingegno
all
'
italiana
,
liberando
le
statue
delle
incrostazioni
marine
,
proteggendo
il
bronzo
dalle
conseguenze
dell
'
azione
corrosiva
della
salsedine
e
stabilizzandolo
.
Le
fotografie
che
documentano
la
«
cura
»
,
esposte
alla
mostra
,
sono
impressionanti
:
quasi
che
sul
lettino
operatorio
dei
tecnici
se
ne
stessero
sdraiati
,
con
tutta
la
loro
maestà
,
due
dèi
.
Poi
,
a
restauro
ultimato
,
la
mostra
quasi
clandestina
(
senza
pubblicità
,
senza
battage
di
uffici
stampa
,
con
pochi
o
niente
manifesti
murali
,
in
una
sala
del
Museo
Archeologico
di
Firenze
,
sotto
il
titolo
pudico
I
grandi
bronzi
di
Riace
.
Un
restauro
archeologico
)
,
che
si
è
chiusa
domenica
scorsa
.
Clandestina
forse
nelle
intenzioni
.
Perché
mai
,
come
in
questa
occasione
,
la
gente
ha
parlato
,
la
voce
è
corsa
da
amico
ad
amico
;
finché
,
a
furor
di
popolo
,
la
chiusura
della
mostra
è
stata
rinviata
una
prima
volta
.
Poi
è
venuto
il
presidente
Pertini
,
esprimendo
l
'
opinione
che
la
mostra
dovesse
restare
aperta
.
Poi
si
è
diffusa
la
voce
di
una
riapertura
il
14
febbraio
.
Poi
è
arrivato
il
ministro
dei
Beni
Culturali
,
e
ha
promesso
un
decreto
che
lascerebbe
per
qualche
tempo
ancora
le
due
statue
a
Firenze
;
dove
il
soprintendente
si
riprometterebbe
,
in
tal
caso
,
di
trasformare
l
'
avvenimento
in
una
grancassa
per
il
successivo
trasferimento
a
Reggio
Calabria
...
In
realtà
,
da
domenica
la
sala
del
Museo
Archeologico
si
è
chiusa
,
forse
per
sempre
.
E
i
due
guerrieri
di
Riace
si
preparano
ad
essere
imballati
e
trasportati
a
Reggio
Calabria
,
alla
cui
giurisdizione
appartengono
per
legge
.
E
a
Reggio
Calabria
non
si
sa
quando
saranno
di
nuovo
visibili
:
perché
bisogna
aspettare
che
attorno
a
questi
due
bronzi
(
tra
i
pochi
superstiti
dell
'
antichità
greca
,
insieme
al
Poseidon
del
Museo
Archeologico
di
Atene
e
all
'
Auriga
di
Delfi
)
venga
creata
una
struttura
adeguata
,
uno
spazio
adatto
,
sistemi
antifurto
,
le
indispensabili
basi
antisismiche
.
E
bisogna
soprattutto
dare
inizio
una
buona
volta
agli
indispensabili
lavori
di
ricerca
.
Perché
,
come
per
tutte
le
grandi
bellezze
greche
,
anche
per
gli
indubitabilmente
greci
bronzi
di
Riace
corre
il
rischio
di
scoppiare
una
guerra
.
In
questo
caso
,
la
guerra
delle
attribuzioni
e
delle
identificazioni
.
Il
primo
a
dire
la
sua
,
anche
se
di
fronte
al
ristretto
pubblico
di
un
congresso
archeologico
a
Delfi
,
è
stato
l
'
illustre
studioso
tedesco
Werner
Fuchs
.
Per
lui
non
ci
sono
dubbi
:
si
tratta
di
due
eroi
del
donario
di
Maratona
a
Delfi
.
E
cioè
del
donario
che
gli
Ateniesi
offrirono
al
santuario
di
Delfi
dopo
la
vittoria
contro
i
Persiani
del
490
a.C.
E
cioè
,
si
tratterebbe
di
due
opere
di
Fidia
,
lo
scultore
del
Partenone
,
il
massimo
artista
della
Grecia
classica
.
Della
stessa
idea
è
Antonio
Giuliano
,
professore
di
archeologia
e
storia
dell
'
arte
antica
all
'
Università
di
Roma
.
«
Sono
sicuramente
originali
greci
.
E
per
motivi
iconografici
,
formali
,
stilistici
,
sono
databili
tra
il
460
e
il
450
avanti
Cristo
.
Perché
?
Ma
per
il
trattamento
dell
'
anatomia
,
delle
teste
,
per
certe
annotazioni
singolari
come
i
capezzoli
di
rame
,
i
denti
d
'
argento
,
gli
occhi
d
'
avorio
,
che
li
assimilano
all
'
Auriga
di
Delfi
.
E
quanto
all
'
autore
,
non
ci
possono
essere
dubbi
.
O
siamo
davanti
a
due
bronzi
di
Onatas
,
lo
scultore
di
Egina
,
o
siamo
davanti
a
due
bronzi
di
Fidia
.
Io
penso
a
Fidia
.
Anzi
l
'
ho
anche
scritto
,
più
di
un
anno
fa
»
.
Basta
leggere
Pausania
,
spiega
.
Dove
(
X
.
10.1
)
l
'
autore
parla
del
donario
,
fatto
dagli
Ateniesi
a
Delfi
con
la
«
decima
»
della
vittoria
di
Maratona
,
e
«
formato
da
tredici
figure
,
da
un
'
Atena
,
da
un
Apollo
,
da
un
Milziade
e
da
dieci
eroi
attici
»
,
probabilmente
gli
eroi
eponimi
delle
tribù
.
«
Statue
di
questa
importanza
non
possono
essere
state
ignorate
dalle
fonti
.
Non
c
'
è
che
da
leggerle
,
e
allora
non
è
necessario
essere
Sherlock
Holmes
per
scoprire
da
dove
vengono
.
Si
prendono
le
impronte
dei
piedi
dei
due
bronzi
,
e
si
va
in
Grecia
,
dove
si
ritiene
che
le
statue
fossero
collocate
,
e
si
accerta
se
aderiscono
alle
basi
»
.
Elementare
.
Eppure
,
a
otto
anni
di
distanza
dal
ritrovamento
,
questo
non
è
ancora
stato
fatto
,
se
non
altro
per
mettere
un
freno
alle
fantasie
.
Ma
c
'
è
anche
chi
getta
acqua
sul
fuoco
.
Per
esempio
Enrico
Paribeni
,
professore
di
archeologia
all
'
Università
di
Firenze
.
Il
quale
pensa
addirittura
che
i
due
bronzi
non
siano
coevi
(
quello
ricciuto
sarebbe
effettivamente
del
quinto
secolo
a.C.
,
cioè
dell
'
età
di
Fidia
,
ma
il
secondo
sarebbe
più
recente
,
e
precisamente
dell
'
inizio
del
quarto
secolo
)
.
Quanto
a
Fidia
,
a
Paribeni
l
'
attribuzione
proprio
non
piace
.
Perché
?
«
Per
ragioni
formali
,
stilistiche
.
Perché
Fidia
non
lavorava
spesso
nel
bronzo
.
Perché
in
definitiva
le
cose
sono
molto
più
complesse
»
.
Molto
pacati
e
prudenti
sono
anche
a
Reggio
Calabria
,
che
grazie
ai
due
guerrieri
,
Fidia
o
non
Fidia
,
grancassa
di
Firenze
o
meno
,
potrà
-
se
lo
saprà
-
diventare
uno
dei
quattro
o
cinque
centri
archeologici
più
importanti
della
Magna
Grecia
,
accanto
a
Paestum
,
Agrigento
,
Siracusa
.
«
L
'
attribuzione
a
un
autore
è
molto
difficile
,
ma
non
è
questo
il
problema
principale
»
minimizzano
alla
Soprintendenza
.
Ma
intanto
le
due
più
straordinarie
statue
greche
rinvenute
in
Italia
fino
ad
oggi
(
e
rimasteci
,
per
ora
,
anziché
seguire
la
brillante
carriera
californiana
del
Lisippo
acquistato
dal
Getty
Museum
di
Malibu
)
sono
ancora
oggi
«
sciaguratamente
inedite
»
come
dice
Antonio
Giuliano
.
Non
sarebbe
male
se
,
in
questo
dramma
delle
gelosie
tra
soprintendenze
e
grandi
esperti
,
il
pubblico
potesse
intanto
continuare
ad
ammirare
i
due
capolavori
.
StampaPeriodica ,
Prima
che
la
Cnn
americana
diventasse
la
tv
globale
,
vista
simultaneamente
in
tutto
il
mondo
,
l
'
unico
strumento
di
comunicazione
'
worldwide
'
era
la
britannica
Bbc
.
Ancora
oggi
,
in
ogni
angolo
della
Terra
,
ci
sono
milioni
di
persone
che
ogni
giorno
ascoltano
via
radio
il
World
service
La
Bbc
,
che
ora
dispone
anche
di
un
canale
televisivo
come
quello
della
Cnn
(
ma
molto
migliore
)
,
era
la
voce
dell
'
impero
ma
anche
della
democrazia
.
Gli
appassionati
della
Bbc
,
che
da
anni
la
stanno
a
sentire
,
conoscono
un
personaggio
molto
popolare
della
radio
britannica
:
Alistair
Cooke
.
Da
53
anni
,
da
più
di
mezzo
secolo
,
Cooke
,
che
oggi
ha
91
anni
e
vive
in
5th
.
avenue
a
New
York
,
legge
una
volta
alla
settimana
la
sua
Letter
from
America
.
Dal
1946
ne
ha
scritte
2.600
.
Sono
il
migliore
strumento
per
capire
l
'
evolversi
della
storia
e
della
vita
americana
,
dal
dopoguerra
alla
globalizzazione
,
alla
formazione
della
superpotenza
solitaria
.
Tutte
le
missive
di
Cooke
sono
state
pubblicate
e
si
trovano
nelle
librerie
inglesi
.
Per
molti
sudditi
di
Sua
maestà
i
volumetti
di
Cooke
sono
gli
unici
libri
mai
letti
sui
'
cugini
'
d
'
oltreoceano
.
Cooke
ha
toccato
ogni
aspetto
della
vita
americana
,
dai
principali
eventi
politici
alla
cronaca
di
ogni
giorno
,
dal
movimento
per
i
diritti
civili
alla
guerra
in
Vietnam
,
dalle
mode
alle
manie
,
dai
gossip
ai
piccoli
,
insignificanti
avvenimenti
personali
che
però
spiegano
bene
il
mondo
in
cui
si
vive
.
Cooke
ha
parlato
di
tutti
,
da
Douglas
Fairbanks
a
Monica
Lewinsky
,
dalla
sconfitta
elettorale
del
suo
amico
Adlai
Stevenson
alla
caduta
del
pugile
Sugar
Ray
Robinson
al
Madison
Square
Garden
nel
1962
(
'
Una
delle
più
straordinarie
descrizioni
di
quell
'
avvenimento
'
hanno
affermato
i
critici
)
.
L
'
ultimo
libro
di
Cooke
,
Memories
of
the
great
and
good
,
una
raccolta
di
23
profili
americani
,
è
stato
pubblicato
in
ottobre
ed
è
in
testa
alle
classifiche
inglesi
,
proprio
al
di
sopra
delle
memorie
dell
'
ex
primo
ministro
John
Major
.
Lo
stile
di
Cooke
è
elegante
,
spiritoso
,
chiarissimo
.
I
maestri
del
giornalista
britannico
sono
,
a
suo
dire
,
Mark
Twain
,
H.L.
Menken
,
E.B.
Wite
,
e
due
suoi
professori
a
Cambridge
,
negli
anni
Venti
,
D.W.
Brogan
e
Artur
Quiller
-
Couch
.
Liberale
autentico
,
Cooke
,
nel
periodo
della
'
caccia
alle
streghe
'
,
scrisse
un
saggio
indimenticabile
sul
processo
ad
Alger
Hiss
,
una
presunta
spia
sovietica
:
Generation
on
trial
:
Usa
vs
.
Alger
Hiss
(
Knopf
,
1950
)
.
L
'
esperienza
di
Cooke
dimostra
che
per
raccontare
i
paesi
,
soprattutto
nell
'
epoca
della
globalizzazione
,
dove
sembra
di
sapere
tutto
attraverso
la
tv
,
bisogna
viverci
a
lungo
,
parlare
bene
la
lingua
,
avere
tanti
amici
,
conoscerne
la
storia
,
la
letteratura
,
il
teatro
,
il
cinema
,
la
musica
,
gli
ambienti
accademici
e
scientifici
,
l
'
economia
e
le
piccolezze
della
vita
.
I
corrispondenti
dei
giornali
,
delle
radio
,
delle
tv
,
ma
ora
anche
delle
catene
di
Internet
,
debbono
vivere
a
lungo
nei
posti
per
poterne
scrivere
con
semplicità
e
assoluta
competenza
.
Il
giornalismo
della
globalizzazione
non
può
permettersi
di
essere
frettoloso
e
superficiale
.
L
'
Italia
,
per
esempio
,
ha
avuto
dagli
Stati
Uniti
due
corrispondenti
molto
simili
a
Cooke
:
Ruggero
Orlando
e
Ugo
Stille
,
più
newyorkesi
dei
newyorkesi
.
Oggi
i
pochi
columnist
fortunati
e
bravi
che
vivono
da
lungo
tempo
nei
posti
sui
quali
scrivono
sono
Vittorio
Zucconi
,
Tiziano
Terzani
,
Bernardo
Valli
,
Barbara
Spinelli
.
Per
loro
fortuna
e
per
fortuna
dei
loro
giornali
e
dei
loro
lettori
conoscono
le
minime
sfaccettature
della
società
americana
(
Zucconi
)
,
asiatica
(
Terzani
)
,
francese
ed
europea
(
Spinelli
e
Valli
)
.
L
'
esempio
mirabile
di
Alistair
Cooke
dovrebbe
insegnare
qualcosa
agli
editori
italiani
,
sempre
così
restii
a
investire
sull
'
estero
.
La
loro
parsimonia
colpisce
nell
'
era
della
globalizzazione
,
quando
tutto
il
mondo
va
raccontato
con
competenza
e
con
stile
.