StampaQuotidiana ,
La
metafora
del
«
palazzo
»
usata
sempre
più
frequentemente
nel
linguaggio
politico
corrente
,
per
indicare
,
con
intenzione
non
benevola
,
coloro
che
ci
governano
,
richiama
,
per
contrapposizione
,
l
'
analoga
metafora
della
«
piazza
»
,
di
cui
ci
si
serve
,
con
intenzione
parimenti
non
benevola
,
per
indicare
la
moltitudine
di
coloro
che
stanno
fuori
(
in
basso
)
e
non
hanno
altro
potere
che
quello
di
protestare
o
di
applaudire
:
«
analoga
»
,
perché
connota
un
insieme
di
persone
mediante
il
luogo
in
cui
si
trovano
,
come
«
casa
»
per
famiglia
,
«
caserma
»
per
truppa
,
«
castello
»
per
signore
,
«
reggia
»
per
monarca
,
e
,
passando
dal
nome
astratto
al
nome
proprio
,
«
Farnesina
»
per
corpo
diplomatico
italiano
.
A
commento
della
manifestazione
romana
del
marzo
scorso
,
promossa
da
un
sindacato
contro
una
minacciata
riduzione
della
scala
mobile
,
il
«
Corriere
della
Sera
»
intitolò
un
suo
articolo
Il
Parlamento
e
la
«
piazza
»
.
Recentemente
sulla
«
Stampa
»
il
titolo
annunciava
Studenti
in
«
piazza
»
e
nel
sottotitolo
si
leggeva
:
Palazzo
Chigi
risponde
in
tono
pacato
.
Ancor
più
recentemente
«
La
Repubblica
»
ha
dato
l
'
annuncio
che
Carniti
sarebbe
diventato
presidente
della
Rai
in
questo
modo
:
Entra
nel
Palazzo
un
uomo
di
«
piazza
»
.
Per
quanto
la
reiterazione
della
contrapposizione
sia
di
questi
ultimi
anni
(
e
chi
sa
quanti
altri
esempi
se
ne
potrebbero
dare
)
,
dovuta
a
una
celebre
invettiva
di
Pasolini
,
l
'
antitesi
«
palazzo
-
piazza
»
è
antica
e
appartiene
al
linguaggio
politico
tradizionale
.
In
un
articolo
del
primo
fascicolo
della
bella
rivista
dell
'
Istituto
italiano
di
cultura
a
Parigi
,
uscita
in
questi
giorni
col
titolo
«50
,
rue
de
Varenne
»
,
tutto
dedicato
al
tema
della
«
piazza
»
(
anche
se
prevalentemente
dal
punto
di
vista
architettonico
e
quindi
non
nel
suo
significato
metaforico
)
,
mi
cade
sottocchio
un
brano
di
uno
dei
Ricordi
di
Guicciardini
,
in
cui
si
legge
:
«
...
e
spesso
tra
il
palazzo
e
la
piazza
è
una
nebbia
sì
folta
o
un
muro
sì
grosso
che
...
tanto
sa
el
popolo
di
quello
che
fa
chi
governa
o
della
ragione
perché
lo
fa
,
quanto
delle
cose
che
si
fanno
in
India
»
.
Se
una
ricerca
su
questa
contrapposizione
,
soprattutto
sull
'
uso
di
«
piazza
»
nel
suo
significato
politico
,
non
fosse
ancora
stata
fatta
(
ma
non
si
sa
mai
)
,
varrebbe
la
pena
che
un
giovane
volenteroso
vi
si
accingesse
.
Intanto
non
mi
sembra
inopportuna
qualche
osservazione
generale
.
«
Piazza
»
è
uno
di
quei
tanti
termini
che
,
nati
nel
linguaggio
comune
,
diventati
sempre
più
popolari
attraverso
il
linguaggio
dei
giornali
,
possono
offrire
un
interessante
e
nuovo
campo
d
'
indagine
anche
allo
studioso
.
Nelle
espressioni
più
correnti
,
«
manifestazione
o
dimostrazione
di
piazza
»
,
«
scendere
o
andare
in
piazza
»
,
«
fare
appello
alla
piazza
»
,
o
addirittura
proverbiali
,
come
«
pane
in
piazza
e
giustizia
in
palazzo
»
,
la
parola
sta
a
indicare
una
moltitudine
di
persone
che
si
riuniscono
spontaneamente
e
volontariamente
,
o
vengono
convocate
da
chi
ha
voce
per
farsi
ubbidire
,
allo
scopo
di
manifestare
,
secondo
un
diverso
grado
d
'
intensità
,
uno
stato
d
'
animo
,
un
'
opinione
,
una
volontà
politica
,
che
possono
essere
tanto
di
protesta
,
come
avviene
di
solito
nei
regimi
democratici
,
in
cui
uno
dei
diritti
costituzionalmente
garantiti
è
il
diritto
di
riunione
in
pubblico
e
di
libera
manifestazione
del
proprio
pensiero
anche
attraverso
il
mezzo
della
riunione
pacifica
,
quanto
di
consenso
,
com
'
è
avvenuto
nel
nostro
paese
con
le
famose
«
adunate
»
fasciste
di
piazza
Venezia
,
dove
la
moltitudine
vi
confluiva
,
in
parte
di
propria
volontà
,
in
parte
perché
inquadrata
nelle
organizzazioni
di
massa
del
regime
.
Le
due
maggiori
caratteristiche
che
servono
a
definire
la
«
piazza
»
come
fenomeno
politico
sono
,
da
un
lato
,
la
partecipazione
(
o
la
mobilitazione
secondo
i
casi
)
di
un
numero
molto
alto
di
persone
,
e
,
dall
'
altro
,
il
luogo
aperto
della
riunione
.
Sulla
base
di
questi
due
elementi
la
«
piazza
»
si
distingue
da
altre
sedi
di
riunione
a
scopo
di
protesta
o
di
discussione
politica
,
più
ristrette
e
meno
aperte
,
come
il
salotto
o
il
caffè
,
l
'
uno
privato
,
l
'
altro
semipubblico
,
di
cui
soltanto
si
può
disporre
là
dove
le
libertà
civili
non
sono
riconosciute
.
A
differenza
dei
luoghi
dove
si
possono
riunire
soltanto
poche
persone
e
al
chiuso
,
la
«
piazza
»
non
è
sede
di
discussione
,
dove
si
vada
per
dibattere
un
problema
e
decidere
di
conseguenza
.
Coloro
che
vi
confluiscono
lo
fanno
perché
hanno
uno
scopo
comune
,
in
qualche
modo
già
prestabilito
.
Ascoltano
gli
oratori
di
parte
se
si
tratta
di
una
protesta
,
di
una
petizione
,
di
una
rivendicazione
nei
riguardi
dei
signori
del
palazzo
;
oppure
pendono
dalle
labbra
del
grande
demagogo
,
che
fissa
le
mete
,
dà
ordini
,
indica
il
nemico
da
abbattere
negli
avversari
del
governo
,
e
acclamano
.
A
differenza
dell
'
agorà
classica
,
la
«
piazza
»
tanto
nei
regimi
autocratici
,
quanto
nei
regimi
di
democrazia
indiretta
o
rappresentativa
,
non
è
neppure
un
luogo
dove
si
prendano
decisioni
:
le
decisioni
che
contano
o
sono
già
prese
dagli
stessi
partecipanti
(
si
manifesta
perché
si
vuole
un
certo
provvedimento
o
si
contesta
un
provvedimento
già
preso
)
,
oppure
dallo
stesso
dittatore
(
e
la
folla
parla
per
monosillabi
:
«
Sì
»
,
«
No
»
,
«
A
noi
!
»
)
.
In
un
regime
di
democrazia
rappresentativa
,
che
è
quello
che
c
'
interessa
,
la
«
piazza
»
è
la
più
visibile
conseguenza
del
diritto
di
riunione
illimitato
rispetto
al
numero
delle
persone
che
possono
esercitarlo
insieme
e
contemporaneamente
.
Prima
dell
'
avvento
dei
regimi
democratici
la
facoltà
concessa
ai
cittadini
di
riunirsi
per
presentare
petizioni
era
riservata
a
gruppi
di
pochi
,
non
più
di
una
decina
.
Altrimenti
la
riunione
è
illecita
,
ed
è
vietata
come
«
assembramento
»
,
o
peggio
come
«
tumulto
»
,
nei
casi
estremi
come
«
sedizione
»
.
Non
c
'
è
più
esatta
descrizione
di
come
un
accorrere
di
gente
per
protesta
si
trasformi
in
tumulto
che
quella
offertaci
da
Manzoni
nel
capitolo
XII
dei
Promessi
sposi
in
cui
si
comincia
a
parlare
di
«
piazze
»
e
strade
che
«
brulicavano
di
uomini
,
trasportati
da
una
rabbia
comune
,
predominati
da
un
pensiero
comune
,
conoscenti
o
estranei
,
senza
essersi
dati
l
'
intesa
,
quasi
senza
avvedersene
,
come
gocciole
sparse
sullo
stesso
pendio
»
e
si
finisce
con
quel
«
trambusto
»
che
«
andava
sempre
crescendo
»
,
perché
«
tutti
coloro
che
gli
pizzicavan
le
mani
di
far
qualche
bell
'
impresa
,
correvan
là
,
dove
gli
amici
erano
i
più
forti
,
e
l
'
impunità
sicura
»
.
«
Palazzo
»
e
«
piazza
»
sono
due
espressioni
polemiche
per
designare
,
rispettivamente
,
i
governanti
e
i
governati
,
soprattutto
il
loro
rapporto
d
'
incomprensione
reciproca
,
di
estraneità
,
di
rivalità
,
ancora
oggi
,
come
nel
brano
sopracitato
di
Guicciardini
.
E
si
richiamano
a
vicenda
,
negativamente
:
vista
dal
palazzo
la
piazza
è
il
luogo
della
libertà
licenziosa
;
visto
dalla
piazza
il
palazzo
è
il
luogo
dell
'
arbitrio
del
potere
.
Se
cade
l
'
uno
è
destinato
a
cadere
anche
l
'
altro
.
StampaQuotidiana ,
L
'
anno
finisce
nel
nostro
paese
sotto
il
segno
della
violenza
più
abietta
.
Mi
vado
sempre
più
convincendo
che
la
violenza
terroristica
,
specie
quella
rivolta
non
contro
il
personaggio
rappresentativo
di
un
potere
che
si
vuole
abbattere
,
ma
quella
che
si
scatena
contro
una
folla
ignara
,
scelta
a
caso
,
con
assoluta
indifferenza
,
sia
violenza
fine
a
se
stessa
.
La
violenza
per
la
violenza
.
O
per
lo
meno
l
'
enorme
sproporzione
tra
il
mezzo
e
il
fine
è
tale
che
nessuna
persona
ragionevole
riesce
a
far
valere
rispetto
a
tale
atto
la
massima
machiavellica
del
fine
che
giustifica
i
mezzi
.
Questa
massima
fondamentale
dell
'
etica
politica
,
e
non
solamente
dell
'
etica
politica
ma
di
ogni
etica
che
giudica
l
'
azione
,
qualsiasi
azione
,
non
in
base
a
principi
universali
ma
in
base
ai
risultati
,
richiede
per
essere
accettata
tre
condizioni
.
Primo
:
non
qualsiasi
fine
giustifica
qualsiasi
mezzo
.
Il
fine
che
giustifica
il
mezzo
deve
a
sua
volta
essere
giustificato
.
In
altre
parole
,
deve
essere
un
fine
buono
.
Ma
in
base
a
quale
criterio
si
distinguono
i
fini
buoni
dai
fini
cattivi
?
E
chi
giudica
quali
sono
i
fini
buoni
e
i
fini
cattivi
?
La
massima
machiavellica
lascia
questo
problema
completamente
aperto
.
L
'
etica
dei
risultati
rinvia
all
'
etica
dei
principi
in
un
circolo
senza
fine
.
Secondo
:
il
fine
deve
essere
non
solo
in
qualche
modo
giustificabile
ma
anche
con
una
certa
probabilità
raggiungibile
.
Nel
dramma
di
Camus
,
I
giusti
,
uno
dei
protagonisti
,
il
rivoluzionario
,
proclama
:
«
Noi
uccidiamo
per
costruire
un
mondo
ove
più
nessuno
ucciderà
»
,
applicando
la
massima
secondo
cui
il
fine
giustifica
i
mezzi
,
e
annunciando
un
fine
che
non
può
non
essere
universalmente
riconosciuto
come
moralmente
nobile
.
Ma
la
sua
compagna
lo
interrompe
:
«
E
se
così
non
fosse
?
»
Quante
volte
nella
storia
è
stata
compiuta
un
'
azione
moralmente
riprovevole
con
intenzione
di
perseguire
uno
scopo
nobile
,
ma
poi
,
«
non
è
stato
così
»
?
Terzo
:
pure
ammesso
che
il
fine
sia
nobile
,
il
che
vuol
dire
giustificabile
con
argomenti
di
carattere
etico
,
e
raggiungibile
con
una
certa
probabilità
,
il
che
vuol
dire
non
arbitrario
,
non
velleitario
,
non
ingenuamente
utopistico
,
i
mezzi
impiegati
debbono
essere
tali
da
far
presumere
in
base
al
senso
comune
che
siano
adeguati
al
fine
,
e
se
vengono
giudicati
in
base
allo
stesso
senso
comune
immorali
,
siano
anche
i
soli
mezzi
capaci
di
ottenere
quello
scopo
e
pertanto
siano
non
solo
opportuni
ma
anche
rigorosamente
necessari
.
In
un
atto
terroristico
come
quello
compiuto
la
sera
di
domenica
23
dicembre
,
non
si
ritrova
nessuna
di
queste
tre
condizioni
.
Anzitutto
qual
è
il
fine
?
Impossibile
il
giudizio
sulla
bontà
o
non
bontà
del
fine
,
se
non
si
sa
esattamente
quale
sia
il
fine
dichiarato
o
presunto
.
Generalmente
nell
'
atto
di
terrorismo
puro
il
fine
non
è
dichiarato
:
a
differenza
del
terrorista
che
colpisce
un
bersaglio
preciso
,
il
terrorista
il
cui
obiettivo
è
unicamente
quello
di
seminar
panico
in
una
folla
inerme
,
può
rivendicare
il
gesto
ma
non
ne
rivela
mai
lo
scopo
.
Per
dare
un
'
apparenza
di
giustificazione
razionale
a
questa
forma
di
terrorismo
si
è
creduto
,
dalla
strage
di
piazza
Fontana
in
poi
,
che
un
fine
più
o
meno
preciso
ma
reale
esistesse
(
e
in
questo
senso
si
può
parlare
di
fine
presunto
)
e
consistesse
nella
creazione
di
uno
stato
di
cose
cui
è
stato
dato
un
nome
:
destabilizzazione
.
Ma
che
significa
«
destabilizzare
»
?
Si
tratta
di
una
delle
tante
parole
del
linguaggio
politico
che
,
essendo
abitualmente
usate
nella
conversazione
quotidiana
,
si
finisce
di
convincersi
abbiano
un
significato
preciso
,
mentre
non
appena
si
tenta
di
definirle
ci
si
accorge
che
sono
mobili
,
fluide
,
inafferrabili
.
Proviamo
a
intendere
per
«
destabilizzare
»
il
provocare
,
in
una
compagine
sociale
,
uno
stato
di
confusione
tale
da
rendere
praticamente
impossibile
il
normale
funzionamento
di
un
sistema
politico
qualunque
esso
sia
(
non
è
detto
che
solo
i
regimi
democratici
possano
essere
oggetto
di
un
'
azione
destabilizzante
)
.
Ma
questo
fine
è
raggiungibile
?
Che
una
strage
anche
grandissima
,
in
un
solo
punto
del
territorio
nazionale
,
specie
quando
si
tratti
di
un
territorio
vasto
come
quello
italiano
,
possa
avere
conseguenze
tali
da
creare
le
condizioni
per
un
rivolgimento
capace
di
mutare
radicalmente
lo
stato
di
cose
vigente
,
è
poco
credibile
.
Del
resto
le
stragi
sinora
compiute
non
hanno
avuto
altro
esito
che
quello
di
seminare
panico
,
sollevare
indignazione
,
provocare
lutti
le
cui
conseguenze
private
sono
infinitamente
superiori
a
quelle
pubbliche
e
politiche
.
Il
corso
degli
eventi
sarebbe
stato
diverso
nel
nostro
paese
se
le
stragi
non
fossero
avvenute
?
Avremmo
avuto
governi
più
stabili
,
politici
meno
discussi
,
maggiore
o
minore
inflazione
,
maggiore
o
minore
disoccupazione
?
Non
dovrebbe
essere
allora
altrettanto
destabilizzante
un
terremoto
?
In
un
naufragio
non
muoiono
altrettante
vittime
innocenti
?
Ma
se
il
raggiungimento
del
fine
,
anche
di
quello
presunto
,
è
poco
probabile
,
non
si
dovrà
dedurre
che
i
mezzi
(
mi
riferisco
alla
terza
condizione
)
sono
di
per
sé
palesemente
inadeguati
?
Le
interpretazioni
possibili
di
una
simile
azione
sono
due
:
o
l
'
attore
è
irrazionale
oppure
il
mezzo
si
è
convertito
nel
fine
,
non
ha
un
fine
perché
è
esso
stesso
il
fine
.
Riguardo
all
'
azione
del
terrorismo
puro
,
io
propendo
per
questa
seconda
interpretazione
.
L
'
unico
fine
della
strage
è
la
strage
.
So
benissimo
di
correre
sul
filo
del
paradosso
.
Ma
cerco
di
far
capire
e
di
capire
io
stesso
che
vi
sono
azioni
umane
di
fronte
alle
quali
si
può
parlare
di
malvagità
assoluta
.
Se
è
vero
,
come
io
credo
sia
vero
,
che
la
moralità
assoluta
consista
nel
fare
il
bene
con
nessun
altro
scopo
che
quello
di
fare
il
bene
,
disinteressatamente
,
la
immoralità
assoluta
dovrà
consistere
nel
compiere
un
'
azione
malvagia
con
nessun
altro
scopo
che
quello
di
fare
il
male
.
Il
terrorista
che
fa
esplodere
la
bomba
in
un
treno
è
perfettamente
consapevole
del
fatto
che
le
vittime
designate
sono
innocenti
.
Non
sono
neppure
suoi
nemici
.
Non
sono
neppure
capri
espiatori
di
un
rito
propiziatorio
compiuto
per
placare
un
dio
irato
.
Sono
cose
vili
,
oggetti
di
nessun
conto
(
e
per
questo
l
'
uno
vale
l
'
altro
)
,
la
cui
distruzione
egli
affida
al
caso
per
mostrare
la
sua
cieca
volontà
di
potenza
,
la
sua
radicale
indifferenza
ad
ogni
fine
che
la
trascenda
.
StampaQuotidiana ,
L
'
impresa
militare
americana
contro
la
Libia
,
presentata
e
giustificata
come
una
risposta
legittima
a
un
atto
di
terrorismo
,
solleva
ancora
una
volta
l
'
eterno
problema
del
rapporto
fra
la
morale
comune
o
il
diritto
,
suo
fratello
minore
,
e
la
violenza
.
Eterno
,
perché
non
mai
risolto
e
probabilmente
insolubile
,
se
è
vero
,
e
io
credo
sia
vero
,
quel
che
diceva
Machiavelli
:
gli
uomini
«
hanno
ed
ebbero
sempre
le
stesse
passioni
»
,
ed
è
quindi
naturale
che
ne
derivino
gli
stessi
effetti
.
La
morale
comune
e
il
diritto
,
suo
fratello
minore
,
condannano
in
linea
di
principio
la
violenza
e
ammettono
che
l
'
unica
violenza
legittima
sia
quella
che
risponde
alla
violenza
dell
'
altro
,
almeno
in
date
circostanze
,
quando
non
è
possibile
diversa
risposta
.
Detto
altrimenti
,
la
violenza
di
un
soggetto
,
individuo
o
gruppo
che
sia
,
in
linea
di
principio
illecita
,
diventa
lecita
quando
in
una
data
situazione
rappresenta
il
solo
rimedio
possibile
alla
violenza
dell
'
altro
.
Illecita
è
la
violenza
dell
'
aggressore
,
o
originaria
,
lecita
la
violenza
di
chi
si
difende
,
o
derivata
.
Ma
in
un
sistema
in
cui
non
esiste
un
giudice
imparziale
al
di
sopra
delle
parti
,
o
se
esiste
non
è
tenuto
in
alcun
conto
,
come
accade
nel
sistema
dei
rapporti
internazionali
,
chi
decide
quale
sia
la
violenza
originaria
e
quale
quella
derivata
?
A
questa
domanda
non
è
difficile
dare
una
risposta
sulla
base
della
lezione
dei
fatti
:
la
violenza
originaria
è
sempre
,
per
ognuno
dei
due
contendenti
,
quella
dell
'
altro
.
Anche
nel
caso
che
l
'
aggressione
sia
venuta
palesemente
da
una
delle
parti
:
basta
considerare
l
'
aggressione
come
una
reazione
preventiva
a
una
violenza
minacciata
.
Gli
americani
bombardano
Tripoli
per
ritorsione
contro
la
bomba
di
Berlino
attribuita
a
Gheddafi
come
mandante
.
In
tal
modo
la
loro
violenza
viene
giustificata
come
derivata
.
Ma
il
terrorista
non
si
trova
affatto
in
imbarazzo
a
replicare
(
ed
è
infatti
un
suo
argomento
abituale
)
che
il
terrorismo
è
l
'
unico
atto
di
guerra
consentito
ai
piccoli
contro
i
grandi
ed
è
quindi
l
'
unica
reazione
possibile
,
ancorché
spietata
(
ma
se
non
fosse
spietata
non
sarebbe
una
risposta
efficace
)
,
alla
prepotenza
di
chi
esercita
ingiustamente
(
almeno
a
suo
giudizio
)
un
enorme
potere
.
Dunque
anche
la
sua
violenza
non
è
,
dal
suo
punto
di
vista
,
originaria
.
Provate
a
cercare
la
violenza
originaria
,
la
violenza
che
in
quanto
originaria
sia
da
considerarsi
sicuramente
illecita
.
Non
la
troverete
.
E
non
la
trovate
,
non
già
perché
non
ci
possa
essere
,
ma
perché
nessuno
dei
due
contendenti
ammetterà
mai
che
originaria
sia
la
propria
,
derivata
l
'
altrui
.
E
un
giudice
esterno
,
e
presumibilmente
imparziale
,
nel
sistema
internazionale
non
esiste
.
Esiste
la
pubblica
opinione
ma
,
come
tutti
possono
constatare
leggendo
i
giornali
in
questi
giorni
,
è
divisa
.
Ed
è
divisa
anche
perché
non
è
in
grado
di
conoscere
esattamente
le
cose
,
come
potrebbe
conoscerle
un
giudice
dopo
aver
esaminato
tutti
i
pro
e
tutti
i
contro
,
e
dopo
aver
avuto
accesso
a
tutte
le
prove
addotte
da
una
parte
e
dall
'
altra
.
Pur
non
dubitando
della
correttezza
del
governo
americano
,
sta
di
fatto
che
,
nel
nostro
caso
,
le
prove
vengono
da
una
sola
delle
parti
in
causa
.
Quel
che
è
peggio
,
siccome
ogni
atto
violento
per
giustificarsi
deve
rinviare
a
un
atto
violento
precedente
,
lo
stato
di
violenza
una
volta
cominciato
(
anche
se
non
si
sa
quando
e
per
colpa
di
chi
sia
davvero
cominciato
)
è
destinato
a
continuare
.
E
nel
continuare
,
la
violenza
cresce
di
intensità
e
di
estensione
.
Avviene
quel
fenomeno
che
si
chiama
«
spirale
»
della
violenza
.
Avviene
per
una
ragione
molto
semplice
:
come
si
legge
in
un
altro
grande
scrittore
politico
del
passato
,
è
naturale
che
chi
è
giudice
nella
propria
causa
sia
indotto
o
dall
'
«
indole
cattiva
»
o
dalle
«
passioni
»
o
dallo
«
spirito
di
vendetta
»
ad
andare
troppo
oltre
nella
reazione
e
a
commettere
a
sua
volta
,
anche
nel
caso
che
la
sua
risposta
sia
legittima
,
un
'
ingiustizia
.
Se
la
reazione
contenuta
nei
limiti
dell
'
entità
dell
'
offesa
è
una
violenza
derivata
,
per
quella
parte
in
cui
eccede
questi
limiti
diventa
originaria
.
In
quanto
originaria
,
può
provocare
una
ritorsione
che
diventa
a
sua
volta
derivata
e
quindi
legittima
.
Anche
il
diritto
penale
interno
stabilisce
che
nella
legittima
difesa
la
reazione
deve
essere
proporzionata
all
'
offesa
.
Ma
nei
rapporti
fra
due
nemici
che
non
riconoscono
al
di
sopra
di
loro
un
potere
comune
,
chi
decide
se
questa
proporzione
vi
sia
stata
?
Siccome
ancora
una
volta
ognuno
dei
due
contendenti
darà
probabilmente
un
giudizio
opposto
,
considerando
proporzionata
la
propria
difesa
,
sproporzionata
quella
dell
'
altro
,
sorgeranno
di
nuovo
ottime
ragioni
da
parte
di
entrambi
per
aggiungere
nuovi
anelli
alla
catena
.
Generalmente
questa
catena
termina
in
un
solo
modo
:
con
la
sconfitta
definitiva
di
una
delle
parti
.
Con
la
vittoria
del
più
forte
.
Poiché
non
si
è
potuto
fare
in
modo
che
quel
che
è
giusto
sia
forte
,
diceva
Pascal
,
si
è
fatto
in
modo
che
quel
che
è
forte
sia
giusto
.
Credo
che
non
sarà
diversa
la
conclusione
dell
'
attuale
conflitto
.
Le
azioni
politiche
si
giudicano
dai
risultati
.
La
legge
morale
non
c
'
entra
.
Il
giudizio
sulle
azioni
politiche
non
le
appartiene
.
Reagan
lo
ha
detto
più
volte
:
il
suo
scopo
è
quello
di
reprimere
e
sopprimere
,
alla
lunga
,
il
terrorismo
medio
-
orientale
.
Rispetto
a
questo
unico
metro
di
giudizio
della
sua
azione
,
è
troppo
presto
per
emettere
un
verdetto
.
Se
vi
sarà
una
recrudescenza
del
terrorismo
,
si
dirà
che
ha
avuto
torto
.
Se
si
attenuerà
o
cesserà
del
tutto
,
si
dirà
che
ha
avuto
ragione
.
Indipendentemente
dal
fatto
che
la
reazione
sia
stata
proporzionata
all
'
offesa
,
ossia
da
ogni
considerazione
di
principio
.
Il
fine
giustifica
i
mezzi
.
Ancora
Machiavelli
:
faccia
un
principe
in
modo
di
vincere
e
i
mezzi
«
saranno
sempre
giudicati
onorevoli
e
da
ciascuno
lodati
»
.
StampaQuotidiana ,
È
lecito
uccidere
il
tiranno
?
Era
naturale
che
dopo
l
'
attentato
a
Pinochet
si
riproponesse
ancora
una
volta
,
anche
in
Italia
,
l
'
eterna
domanda
.
Se
la
sono
posta
in
questi
giorni
,
tra
gli
altri
,
Rossana
Rossanda
sul
«
Manifesto
»
rispondendo
di
sì
ma
sollevando
i
dubbi
di
Adriano
Sofri
,
e
di
Mieli
sulla
«
Stampa
»
e
di
Giuliano
Zincone
sul
«
Corriere
della
Sera
»
.
Il
problema
è
vecchio
e
le
diverse
possibili
soluzioni
altrettanto
.
Per
fare
qualche
esempio
,
in
un
'
epoca
in
cui
le
guerre
di
religione
avevano
favorito
la
nascita
di
dottrine
che
predicavano
il
tirannicidio
,
Hobbes
collocava
la
massima
«
E
lecito
uccidere
il
tiranno
»
fra
le
teorie
sediziose
che
in
uno
Stato
ben
ordinato
avrebbero
dovuto
essere
proibite
(
nella
repubblica
hobbesiana
l
'
articolo
di
Rossana
Rossanda
sarebbe
stato
censurato
,
e
l
'
autore
forse
messo
in
prigione
)
.
Nell
'
età
della
rivoluzione
francese
,
in
cui
venivano
celebrati
in
cattedrale
feste
e
riti
in
onore
di
Bruto
,
Kant
affermò
che
chiunque
avesse
anche
il
minimo
senso
dei
diritti
dell
'
umanità
non
poteva
non
essere
scosso
da
un
«
brivido
d
'
orrore
»
di
fronte
all
'
esecuzione
solenne
di
Carlo
I
in
Inghilterra
e
di
Luigi
XVI
in
Francia
.
Come
tutti
i
problemi
morali
,
anche
il
problema
della
liceità
del
tirannicidio
non
è
di
facile
soluzione
.
Anzi
,
non
ha
una
soluzione
che
possa
essere
data
e
accolta
una
volta
per
sempre
,
perché
ogni
caso
è
diverso
da
tutti
gli
altri
.
La
soluzione
dipende
dalle
circostanze
di
luogo
e
di
tempo
,
dalla
persona
contro
cui
l
'
atto
si
dirige
,
dalle
persone
che
lo
compiono
,
dalla
gravità
delle
colpe
e
dalla
impossibilità
di
ricorrere
ad
altri
rimedi
.
Avevano
ragione
o
torto
i
cospiratori
del
20
luglio
1944
nel
tentare
di
uccidere
Hitler
?
Aveva
le
stesse
ragioni
l
'
anarchico
Bresci
nell
'
uccidere
Umberto
I
?
Basta
porre
queste
due
domande
,
e
se
ne
potrebbero
porre
infinite
altre
analoghe
,
per
rendersi
conto
che
sotto
il
nome
generico
di
attentato
,
o
di
atto
terroristico
,
si
celano
eventi
totalmente
diversi
,
che
non
possono
essere
giudicati
con
lo
stesso
metro
.
Il
primo
aveva
un
intento
prevalentemente
liberatorio
,
il
secondo
essenzialmente
punitivo
.
Il
problema
è
reso
più
complesso
dal
fatto
che
la
stessa
azione
può
essere
sempre
giudicata
con
due
criteri
diversi
:
o
in
base
a
regole
precostituite
che
debbono
essere
osservate
o
in
base
ai
risultati
che
si
ritiene
debbano
essere
raggiunti
.
I
due
giudizi
non
coincidono
quasi
mai
:
osservando
le
buone
regole
spesso
si
ottengono
cattivi
risultati
;
cercando
di
ottenere
buoni
risultati
,
molte
buone
regole
vengono
coscientemente
e
tranquillamente
calpestate
.
Se
si
giudica
l
'
attentato
in
base
alle
regole
precostituite
,
è
evidente
che
esso
contravviene
alla
norma
«
Non
uccidere
»
,
che
è
una
delle
leggi
fondamentali
della
morale
di
ogni
popolo
e
in
ogni
tempo
.
Come
tale
dovrebbe
essere
condannato
.
Ma
non
vi
è
regola
senza
eccezione
.
Non
è
lecito
uccidere
il
nemico
in
una
guerra
giusta
?
Non
è
sempre
stata
riconosciuta
come
guerra
giusta
la
guerra
di
difesa
?
Non
può
allora
essere
estesa
al
tiranno
considerato
come
nemico
interno
l
'
eccezione
prevista
per
il
nemico
esterno
?
Sennonché
,
come
in
guerra
l
'
eccezione
vien
meno
di
fronte
alle
popolazioni
civili
,
così
l
'
attentatore
dovrebbe
colpire
soltanto
il
tiranno
e
risparmiare
le
persone
,
la
scorta
o
i
familiari
,
che
si
trovino
accanto
a
lui
.
Ma
oggi
questa
condizione
è
sempre
più
difficile
da
rispettare
per
il
tipo
di
armi
impiegato
,
come
ha
dimostrato
l
'
uccisione
di
alcune
guardie
del
corpo
nell
'
attentato
a
Pinochet
.
Ciò
rende
la
liceità
del
tirannicidio
,
giudicandola
in
base
agli
argomenti
della
filosofia
pubblica
tradizionale
,
sempre
più
problematica
.
Nel
dramma
I
giusti
,
di
Camus
,
il
congiurato
cui
è
stato
affidato
il
compito
di
uccidere
il
Gran
Duca
torna
senza
aver
eseguito
l
'
ordine
perché
sulla
carrozza
erano
seduti
accanto
al
personaggio
due
piccoli
nipoti
.
Quando
uno
dei
compagni
lo
rimprovera
:
«
L
'
Organizzazione
ti
aveva
comandato
di
uccidere
il
Gran
Duca
»
,
risponde
:
«
E
'
vero
,
ma
non
mi
aveva
comandato
di
assassinare
dei
bambini
»
.
Partendo
dal
punto
di
vista
dei
risultati
,
il
giudizio
non
diventa
né
più
facile
né
più
limpido
.
Anzitutto
il
risultato
deve
essere
se
non
certo
altamente
probabile
.
Non
c
'
è
dubbio
che
nel
caso
dell
'
attentato
al
generale
cileno
il
non
raggiungimento
del
risultato
abbia
contribuito
a
rafforzare
il
potere
del
dittatore
sia
nei
riguardi
di
tutti
quei
cittadini
(
e
sono
ancora
molti
)
che
sarebbero
disposti
a
liberarsi
dalla
dittatura
in
cambio
di
una
democrazia
moderata
ma
non
a
cambiare
il
regime
di
Pinochet
con
un
regime
comunista
,
sia
nei
riguardi
degli
Stati
Uniti
,
che
abbandoneranno
del
tutto
il
generale
solamente
quando
saranno
sicuri
che
al
suo
posto
invece
di
un
governo
democratico
all
'
americana
non
venga
istituito
un
governo
guidato
dal
partito
comunista
.
In
secondo
luogo
,
si
deve
prevedere
che
il
risultato
non
solo
sia
perseguibile
con
un
alto
grado
di
probabilità
,
ma
che
,
se
raggiunto
,
sia
tale
da
non
lasciar
adito
a
dubbi
sulla
sua
convenienza
o
opportunità
,
nel
senso
che
,
messi
sui
due
piatti
della
bilancia
il
male
necessario
(
nell
'
uso
di
certi
mezzi
)
e
il
bene
possibile
,
il
secondo
prevalga
.
Inutile
dire
quanto
questa
soluzione
sia
difficile
.
Nel
caso
dell
'
attentato
a
Giovanni
Gentile
(
so
di
toccare
un
tasto
dolente
)
la
sproporzione
tra
la
morte
di
un
uomo
e
le
conseguenze
che
questa
morte
poteva
avere
sulla
condotta
della
guerra
era
tale
da
renderci
oggi
molto
dubbiosi
sulla
saggezza
di
quell
'
atto
(
anche
se
devo
confessare
che
allora
non
mi
ero
posto
il
problema
nello
stesso
modo
)
.
Nel
caso
dell
'
attentato
a
Pinochet
sospendo
il
giudizio
:
mi
parrebbe
di
commettere
un
atto
di
prevaricazione
nel
sostituire
la
mia
opinione
a
quella
di
coloro
che
vivono
dentro
a
quella
situazione
.
Durante
l
'
occupazione
tedesca
,
quando
assistevamo
alla
tortura
e
alla
morte
di
tanti
nostri
compagni
,
come
avrei
giudicato
un
attentato
a
Mussolini
?
Un
uomo
dell
'
altezza
morale
di
Calamandrei
alla
notizia
della
morte
di
Mussolini
trascrive
sul
suo
diario
,
unico
commento
all
'
episodio
,
il
famoso
cantico
di
Alceo
:
«
Ora
bisogna
bere
;
I
ubriacarsi
bisogna
;
I
ora
che
Mirsilo
è
morto
»
.
Completamente
diverso
e
più
semplice
il
giudizio
sugli
atti
di
terrorismo
indiscriminati
,
come
le
stragi
alla
stazione
di
Bologna
,
nella
sinagoga
di
Istanbul
,
nel
grande
magazzino
di
rue
de
Rennes
.
Prova
ne
sia
che
,
mentre
di
fronte
all
'
attentato
al
dittatore
cileno
c
'
interroghiamo
sulla
sua
liceità
,
di
fronte
a
quelle
stragi
restiamo
inorriditi
,
incapaci
di
dare
,
nonché
una
giustificazione
,
una
qualsiasi
plausibile
spiegazione
.
StampaQuotidiana ,
Ogni
atto
terroristico
suscita
un
acceso
e
quasi
sempre
inconcludente
dibattito
circa
i
suoi
scopi
e
i
suoi
effetti
.
Il
dibattito
nasce
dal
fatto
che
di
ogni
atto
terroristico
,
sia
di
quello
indiscriminato
sia
di
quello
rivolto
verso
un
obiettivo
specifico
,
è
estremamente
difficile
stabilire
gli
scopi
.
Ed
è
estremamente
difficile
stabilirne
gli
scopi
perché
non
è
facile
prevederne
gli
effetti
.
L
'
assassinio
del
prof.
Tarantelli
è
stato
immediatamente
collegato
alla
campagna
in
corso
pro
e
contro
il
referendum
.
Ma
a
guardar
bene
questo
collegamento
è
stato
fatto
nei
modi
più
diversi
.
I
problemi
connessi
col
referendum
sono
due
:
a
)
se
si
debba
svolgere
,
secondo
l
'
indicazione
della
Corte
costituzionale
,
o
debba
essere
evitato
;
b
)
se
una
volta
che
sia
stato
deciso
di
lasciarlo
svolgere
,
quale
delle
due
parti
in
contrasto
lo
vincerà
.
Ebbene
,
rispetto
a
entrambi
i
problemi
,
credo
che
nessuno
sia
in
grado
di
prevedere
esattamente
se
l
'
assassinio
del
prof.
Tarantelli
avrà
delle
conseguenze
e
quali
saranno
.
Rispetto
al
primo
problema
l
'
assassinio
è
destinato
a
favorire
coloro
che
il
nodo
della
scala
mobile
preferiscono
tagliarlo
con
il
ricorso
al
voto
popolare
oppure
coloro
che
preferiscono
scioglierlo
attraverso
un
compromesso
fra
le
parti
in
cui
non
dovrebbero
esservi
né
vincitori
né
vinti
?
Rispetto
al
secondo
,
questo
«
sangue
»
è
destinato
a
far
aumentare
i
voti
del
«
sì
»
oppure
i
voti
contrari
?
Posto
il
problema
degli
scopi
e
degli
effetti
di
questo
nuovo
atto
di
terrorismo
,
e
non
si
vede
come
possa
essere
posto
altrimenti
,
si
capisce
subito
che
le
risposte
possibili
sono
molte
,
e
anche
opposte
fra
loro
.
Di
fatto
,
a
giudicare
dalla
polemica
subito
sorta
fra
uomini
politici
delle
diverse
parti
,
ognuno
dà
una
interpretazione
diversa
secondo
il
proprio
punto
di
vista
.
Ciò
dimostra
ancora
una
volta
che
la
logica
dell
'
atto
terroristico
non
può
essere
giudicata
alla
stregua
della
logica
dell
'
azione
politica
comune
,
che
mette
in
diretta
connessione
il
mezzo
col
fine
,
e
che
di
fronte
a
un
'
azione
in
cui
non
riesce
a
cogliere
il
nesso
mezzo
-
fine
è
tentata
di
considerarla
irrazionale
(
o
folle
)
.
Una
delle
ragioni
per
cui
è
così
difficile
dare
un
giudizio
politico
su
un
atto
di
terrorismo
è
che
ci
si
sofferma
troppo
poco
sul
suo
aspetto
meramente
punitivo
o
vendicativo
.
Il
terrorista
è
o
crede
di
essere
,
prima
di
tutto
,
un
giustiziere
.
Ciò
che
per
noi
che
ci
mettiamo
dal
punto
di
vista
dell
'
ordinamento
delle
leggi
dello
Stato
è
un
assassinio
,
per
il
terrorista
che
non
accetta
l
'
ordinamento
dello
Stato
,
che
considera
lo
Stato
il
principale
nemico
da
abbattere
,
è
una
condanna
a
morte
.
Di
un
atto
di
giustizia
è
perfettamente
inutile
cercare
quali
siano
gli
scopi
e
gli
effetti
ulteriori
.
In
un
atto
di
giustizia
lo
scopo
dell
'
atto
che
è
il
rendere
giustizia
,
è
intrinseco
all
'
atto
stesso
.
L
'
atto
di
giustizia
non
pone
alcuna
domanda
che
vada
al
di
là
dell
'
atto
perché
è
esso
stesso
una
risposta
,
ed
è
una
risposta
che
chiude
un
ciclo
di
azioni
e
reazioni
,
e
non
ne
apre
uno
nuovo
.
Che
ogni
atto
di
giustizia
,
soprattutto
poi
quando
è
così
spietato
,
possa
avere
anche
lo
scopo
di
costituire
un
atto
d
'
intimidazione
e
di
avvertimento
nei
riguardi
di
futuri
colpevoli
,
non
si
può
escludere
,
sebbene
uno
scopo
di
questo
genere
sia
molto
più
evidente
nella
giustizia
di
un
'
istituzione
regolata
da
norme
generali
e
astratte
com
'
è
l
'
ordinamento
giuridico
dello
Stato
che
in
quella
di
un
gruppo
terroristico
la
cui
organizzazione
è
labile
,
discontinua
,
e
la
cui
azione
futura
è
molto
più
incerta
.
Ma
in
ogni
caso
l
'
eventuale
effetto
rispetto
ad
azioni
future
è
secondario
rispetto
a
quello
primario
ed
essenziale
della
punizione
di
azioni
passate
.
Ha
dunque
ben
poco
senso
cercare
una
giustificazione
politica
di
un
atto
che
essendo
compiuto
come
un
atto
di
giustizia
trova
la
propria
giustificazione
in
se
stesso
,
cioè
esclusivamente
nel
fatto
di
essere
un
atto
di
giustizia
,
e
che
in
quanto
tale
può
avere
paradossalmente
una
giustificazione
etica
(
se
pure
di
un
'
etica
distorta
)
e
non
ha
niente
a
che
fare
con
la
politica
.
A
questa
prima
osservazione
se
ne
collega
una
seconda
,
a
mio
parere
più
importante
.
L
'
unica
cosa
che
un
atto
terroristico
come
l
'
assassinio
del
prof.
Tarantelli
vuole
politicamente
dimostrare
è
che
di
fronte
ai
grandi
conflitti
sociali
non
vi
può
essere
che
un
unico
modo
per
risolverli
:
il
ricorso
alla
violenza
.
In
quanto
tale
esso
è
una
sfida
alla
democrazia
intesa
come
l
'
insieme
delle
regole
che
permettono
di
risolvere
i
conflitti
senza
ricorrere
all
'
uso
della
violenza
da
parte
dei
gruppi
in
conflitto
fra
loro
.
I
modi
per
risolvere
democraticamente
,
senza
ricorrere
alla
violenza
,
i
conflitti
d
'
interesse
sono
principalmente
due
:
la
trattativa
che
conduce
a
un
accordo
di
compromesso
oppure
il
voto
calcolato
in
base
alla
regola
di
maggioranza
.
Si
osservi
bene
:
si
tratta
dei
due
metodi
attualmente
in
contrasto
per
la
soluzione
della
controversia
sulla
scala
mobile
,
e
sui
quali
è
in
corso
,
con
esito
incerto
,
la
discussione
fra
le
varie
parti
.
Anche
da
questo
punto
di
vista
,
a
me
pare
sia
perfettamente
inutile
il
litigio
sui
presunti
scopi
dell
'
assassinio
.
In
quanto
esso
applica
il
metodo
della
violenza
in
antitesi
al
metodo
democratico
essenzialmente
non
violento
,
si
contrappone
contemporaneamente
tanto
alle
pratiche
del
compromesso
che
vorrebbero
evitare
il
referendum
quanto
all
'
attuazione
del
referendum
che
pretende
di
risolvere
con
un
voto
di
maggioranza
un
conflitto
che
secondo
il
terrorista
,
che
ha
una
idea
rivoluzionaria
del
cambiamento
storico
,
non
può
essere
risolto
con
nessuno
dei
rimedi
offerti
da
un
governo
democratico
che
voglia
rispettare
le
regole
del
gioco
.
Il
terrorista
dice
no
tanto
al
compromesso
quanto
al
referendum
,
tra
i
quali
non
può
fare
alcuna
distinzione
dal
suo
punto
di
vista
.
Anche
in
questo
caso
il
gesto
ha
un
valore
puramente
dimostrativo
e
pertanto
ha
un
fine
in
se
stesso
,
come
l
'
atto
di
giustizia
,
indipendentemente
dai
suoi
effetti
.
Con
questo
non
si
vuol
dire
che
non
abbia
effetti
che
vadano
ben
al
di
là
delle
intenzioni
degli
attori
,
anche
se
non
sappiamo
esattamente
quali
potranno
essere
.
Ma
non
è
l
'
arzigogolare
sugli
effetti
che
possa
in
qualche
modo
offrirci
una
ragione
dell
'
atto
,
perché
l
'
atto
ha
le
sue
ragioni
chiarissime
a
chi
le
voglia
intendere
,
indipendentemente
da
essi
.
Resta
una
domanda
angosciosa
:
perché
nel
nostro
paese
questa
sfida
alla
democrazia
sia
più
forte
che
altrove
.
StampaQuotidiana ,
Le
recenti
vicende
che
stanno
travolgendo
la
popolarità
di
Ronald
Reagan
hanno
sollevato
un
vasto
dibattito
che
riguarda
non
soltanto
la
persona
del
presidente
ma
anche
l
'
istituzione
stessa
della
presidenza
della
repubblica
degli
Stati
Uniti
,
come
si
è
venuta
trasformando
negli
ultimi
decenni
.
Per
quanto
possa
sembrare
paradossale
,
si
va
dicendo
che
il
presidente
degli
Stati
Uniti
è
insieme
forte
e
vulnerabile
,
e
addirittura
tanto
più
vulnerabile
quanto
più
forte
.
Il
paradosso
consiste
nel
fatto
che
la
vulnerabilità
è
di
solito
considerata
caratteristica
di
un
potere
debole
.
Nell
'
ultimo
saggio
scritto
prima
della
morte
(
Autoritarismo
,
fascismo
e
classi
sociali
,
Il
Mulino
,
Bologna
1975
)
Gino
Germani
esprimeva
il
dubbio
che
i
pochi
governi
democratici
nel
mondo
attuale
potessero
sopravvivere
in
un
universo
di
Stati
in
gran
parte
non
democratici
.
Egli
fondava
questo
dubbio
sulla
convinzione
che
i
regimi
democratici
fossero
più
vulnerabili
sia
per
ragioni
interne
-
la
frammentazione
del
potere
che
consente
a
piccoli
gruppi
organizzati
di
inferire
colpi
mortali
alla
società
costretta
per
difendersi
a
violare
le
sue
stesse
regole
-
,
sia
per
ragioni
esterne
-
la
crescente
e
inarrestabile
dimensione
universale
della
politica
internazionale
che
avrebbe
favorito
i
regimi
autoritari
più
di
quelli
democratici
.
Entrambe
le
ragioni
mettevano
in
relazione
la
vulnerabilità
delle
democrazie
con
la
loro
debolezza
.
Soprattutto
per
quel
che
riguarda
la
politica
estera
,
la
stessa
tesi
è
stata
sostenuta
col
solito
vigore
e
furore
polemici
da
Jean
-
François
Revel
nel
libro
Come
finiscono
le
democrazie
(
Rizzoli
,
Milano
1984
)
.
Le
democrazie
sarebbero
destinate
a
finire
,
e
a
rappresentare
un
episodio
di
breve
durata
nella
storia
del
mondo
,
per
l
'
incapacità
di
difendersi
dal
loro
grande
avversario
,
il
totalitarismo
.
Questa
incapacità
sarebbe
dovuta
in
parte
ai
dissensi
interni
,
in
parte
all
'
eccesso
di
arrendevolezza
di
fronte
all
'
astuto
,
spietato
,
antagonista
.
Anche
in
questo
caso
la
vulnerabilità
è
interpretata
come
il
naturale
effetto
della
debolezza
.
In
che
senso
la
vulnerabilità
può
essere
fatta
derivare
piuttosto
dall
'
eccesso
di
forza
che
dall
'
eccesso
di
debolezza
?
La
risposta
è
stata
data
per
secoli
dai
classici
del
pensiero
politico
:
tanto
più
grande
il
potere
dei
governanti
tanto
più
forte
è
la
tentazione
che
essi
hanno
di
abusarne
,
vale
a
dire
di
esercitarlo
violando
o
aggirando
le
norme
stabilite
per
regolarlo
e
limitarlo
.
Tale
risposta
trova
piena
conferma
nell
'
affermazione
di
uno
dei
più
illustri
storici
contemporanei
degli
Stati
Uniti
,
Arthur
Schlesinger
,
che
in
un
'
intervista
di
questi
giorni
ha
detto
:
«
Gli
scandali
come
il
Watergate
,
oggi
l
'
Irangate
,
sono
la
risposta
patologica
alla
patologia
dell
'
onnipotenza
»
.
Naturalmente
vi
sono
regimi
in
cui
il
potere
è
forte
e
insieme
invulnerabile
.
Sono
gli
Stati
dispotici
ove
chi
governa
non
ha
,
come
diceva
Montesquieu
,
«
né
leggi
né
freni
»
.
Vi
sono
regimi
in
cui
leggi
fondamentali
esistono
ma
mancano
gli
organi
di
controllo
della
loro
osservanza
.
Sono
le
autocrazie
preliberali
in
cui
il
rispetto
delle
leggi
fondamentali
che
dovrebbero
limitare
il
potere
sovrano
è
demandato
allo
stesso
detentore
di
quel
potere
(
«
autocrate
»
è
letteralmente
colui
che
governa
se
stesso
)
.
Vi
sono
infine
regimi
in
cui
non
solo
il
potere
deve
essere
sempre
esercitato
entro
i
limiti
stabiliti
da
una
costituzione
formale
,
e
oggi
,
nella
maggior
parte
dei
casi
,
anche
rigida
,
ma
è
,
o
dovrebbe
essere
,
di
fatto
sottoposto
sempre
a
controlli
esterni
.
Sono
gli
Stati
democratici
.
Di
questi
controlli
due
sono
i
principali
:
quello
derivato
dalla
libertà
di
stampa
,
che
permette
la
formazione
di
un
'
opinione
pubblica
;
quello
derivato
dall
'
istituzione
della
divisione
dei
poteri
da
cui
nasce
il
controllo
del
potere
legislativo
su
quello
governativo
.
Sono
due
istituti
caratteristici
dello
Stato
democratico
,
di
cui
siamo
debitori
alla
tradizione
del
pensiero
liberale
,
che
ha
avuto
negli
Stati
Uniti
una
delle
sue
terre
d
'
elezione
.
Secondo
la
brillante
tesi
sostenuta
recentemente
da
Michel
Walzer
,
professore
di
scienze
sociali
all
'
Institute
for
Advanced
Studies
di
Princeton
,
lo
spirito
del
liberalismo
consiste
nell
'
«
arte
della
separazione
»
,
a
cominciare
dalla
separazione
dello
Stato
dalla
Chiesa
,
della
sfera
privata
dalla
pubblica
,
della
società
civile
dal
sistema
politico
,
per
finire
,
all
'
interno
del
sistema
politico
,
a
quella
tra
l
'
uno
e
l
'
altro
dei
massimi
poteri
.
Tutte
queste
separazioni
servono
,
come
afferma
Walzer
,
«
a
prevenire
e
a
combattere
l
'
uso
tirannico
del
potere
»
.
In
base
a
questa
tesi
è
lecito
sostenere
che
tanto
la
crisi
della
presidenza
Nixon
quanto
quella
della
presidenza
Reagan
siano
nate
proprio
dalla
violazione
del
principio
di
separazione
,
vale
a
dire
dalla
pratica
costante
,
e
per
un
certo
periodo
di
tempo
incontrollata
,
della
confusione
,
in
primo
luogo
della
confusione
fra
potere
legale
e
potere
personale
,
ovvero
nell
'
uso
personale
del
potere
legale
.
Si
capisce
quindi
perché
si
possa
parlare
di
vulnerabilità
a
proposito
tanto
di
un
governo
debole
quanto
di
un
governo
forte
.
Ma
se
ne
parla
in
due
sensi
diversi
.
Il
primo
è
vulnerabile
per
sua
natura
;
il
secondo
è
tale
in
un
contesto
istituzionale
in
cui
anche
il
supremo
potere
è
limitato
da
regole
giuridiche
.
Nel
primo
caso
la
vulnerabilità
è
un
fatto
negativo
,
e
induce
chi
la
denuncia
a
sostenere
che
la
democrazia
è
impraticabile
.
Nel
secondo
è
un
fatto
positivo
,
ed
è
anzi
la
riprova
che
i
meccanismi
di
controllo
del
potere
,
propri
dei
regimi
democratici
,
sono
entrati
,
se
pur
talora
tardivamente
,
in
azione
.
Nel
primo
caso
è
un
difetto
,
nel
secondo
il
rimedio
a
un
difetto
.
Un
rimedio
che
dimostra
se
mai
quanto
sia
difficile
il
pieno
rispetto
delle
regole
democratiche
nei
rapporti
internazionali
,
in
un
sistema
in
cui
la
maggior
parte
degli
Stati
non
sono
democratici
ed
è
esso
stesso
solo
apparentemente
democratico
,
in
realtà
ingovernabile
.
Sino
a
che
uno
Stato
non
democratico
vive
in
una
comunità
cui
appartengono
Stati
non
democratici
,
ed
è
essa
stessa
non
democratica
,
anche
il
regime
degli
Stati
democratici
sarà
una
democrazia
incompiuta
.
L
'
idea
del
vecchio
Kant
,
per
cui
la
condizione
preliminare
di
una
pace
perpetua
,
diversa
da
quella
dei
cimiteri
,
fosse
che
tutti
gli
Stati
avessero
egual
forma
di
governo
,
la
forma
repubblicana
,
quella
forma
di
governo
in
cui
per
decidere
della
guerra
occorre
l
'
assenso
dei
cittadini
,
non
era
il
«
sogno
di
un
visionario
»
.
Era
una
previsione
fatta
nella
forma
del
«
se
allora
»
.
Purtroppo
quel
«
se
»
-
«
se
tutti
gli
Stati
fossero
repubblicani
»
-
può
essere
per
ora
soltanto
l
'
oggetto
di
un
augurio
.
StampaQuotidiana ,
Nel
recente
convegno
sulla
nuova
destra
,
svoltosi
a
Cuneo
per
iniziativa
dell
'
Istituto
storico
della
Resistenza
,
qualcuno
ha
messo
in
dubbio
che
«
destra
»
e
«
sinistra
»
siano
ancora
concetti
adeguati
a
rappresentare
le
divisioni
attuali
tra
dottrine
e
movimenti
politici
.
Siamo
stati
invitati
a
riflettere
sul
fatto
che
da
sinistra
si
riscoprono
scrittori
di
destra
,
come
Cari
Schmitt
,
da
destra
,
in
particolare
dalla
nuova
destra
reazionaria
,
scrittori
di
sinistra
come
Gramsci
.
Negli
stessi
giorni
in
un
'
intervista
a
«
Panorama
»
Massimo
Cacciari
,
intellettuale
di
sinistra
,
dichiarava
di
rifiutare
«
quella
concezione
assiale
della
politica
che
prevede
una
destra
e
una
sinistra
,
intese
come
blocchi
compatti
e
specularmente
contrapposti
»
.
In
realtà
questa
confusione
non
è
nuova
né
è
senza
giustificazione
:
estrema
sinistra
ed
estrema
destra
hanno
amori
diversi
ma
odi
comuni
.
Uno
di
questi
odi
è
la
democrazia
,
intesa
come
il
regime
in
cui
le
sole
decisioni
collettive
legittime
sono
quelle
prese
in
base
alla
regola
della
maggioranza
.
Peraltro
,
le
ragioni
di
questa
avversione
sono
,
da
una
parte
e
dall
'
altra
,
opposte
.
Proprio
tenendo
conto
di
queste
opposte
ragioni
si
riesce
ancora
a
cogliere
il
principale
carattere
distintivo
dei
due
schieramenti
in
cui
si
divide
tradizionalmente
l
'
universo
politico
.
L
'
opposizione
consiste
in
questo
:
per
l
'
estrema
sinistra
la
regola
di
maggioranza
,
per
cui
ogni
cittadino
conta
per
uno
,
assicura
un
'
eguaglianza
puramente
formale
ma
non
riesce
altrettanto
bene
a
promuovere
l
'
eguaglianza
sostanziale
;
per
l
'
estrema
destra
la
stessa
regola
della
maggioranza
,
pareggiando
se
pure
solo
formalmente
tutti
i
cittadini
,
finisce
per
disconoscere
che
gli
uomini
sono
sostanzialmente
diseguali
.
Come
si
vede
,
la
divisione
avviene
sul
diverso
giudizio
che
l
'
una
e
l
'
altra
parte
danno
sull
'
eguaglianza
e
rispettivamente
sulla
diseguaglianza
come
ideale
da
perseguire
.
Questo
diverso
giudizio
permette
di
tener
ben
distinte
ideologie
che
tendono
a
una
maggiore
eguaglianza
rispetto
alla
democrazia
formale
,
e
che
chiamerò
egualitarie
,
e
ideologie
che
chiedono
una
maggiore
diseguaglianza
,
sempre
rispetto
alla
democrazia
formale
,
e
che
chiamerò
inegualitarie
.
Si
tratta
di
una
distinzione
vecchia
come
il
mondo
,
molto
più
vecchia
della
distinzione
tra
sinistra
e
destra
,
che
risale
alla
rivoluzione
francese
.
Ma
dacché
i
due
termini
di
sinistra
e
destra
sono
stati
introdotti
nel
linguaggio
politico
,
essi
sono
sempre
stati
adoperati
per
coprire
la
distinzione
tra
ideologie
egualitarie
e
inegualitarie
.
Perciò
sinché
vi
saranno
dottrine
e
movimenti
che
si
contrappongono
sulla
base
del
diverso
valore
dato
al
principio
dell
'
eguaglianza
,
l
'
uso
dei
due
termini
è
non
solo
legittimo
ma
utile
.
Il
loro
rifiuto
è
prova
o
di
imperdonabile
ignoranza
o
peggio
dell
'
illusione
di
cancellare
insieme
coi
due
nomi
la
realtà
che
essi
designano
.
La
contrapposizione
fra
egualitari
e
inegualitari
è
vecchia
quanto
il
mondo
per
la
semplice
ragione
che
gli
uomini
sono
tanto
eguali
quanto
diseguali
:
sono
eguali
in
quanto
appartengono
al
genere
umano
distinto
da
altri
generi
come
quello
degli
animali
,
ma
sono
diseguali
considerati
come
individui
,
uno
per
uno
.
Le
ideologie
egualitarie
mettono
l
'
accento
soprattutto
sull
'
appartenenza
di
tutti
gli
uomini
a
un
genere
comune
,
quelle
inegualitarie
sulle
osservabili
e
inconfutabili
differenze
tra
l
'
uno
e
l
'
altro
individuo
.
In
altre
parole
,
le
prime
danno
più
importanza
a
ciò
che
ci
unisce
,
le
seconde
a
ciò
che
ci
divide
.
Tra
le
tante
prove
storiche
che
si
possono
addurre
di
questa
contrapposizione
,
mi
limito
a
quella
che
si
può
trarre
dai
due
autori
considerati
a
buon
diritto
i
principali
ispiratori
dei
due
schieramenti
:
Rousseau
e
Nietzsche
.
Nel
suo
Discorso
sull
'
origine
delle
diseguaglianze
fra
gli
uomini
,
Rousseau
parte
dalla
considerazione
che
gli
uomini
sono
nati
fondamentalmente
eguali
ma
la
civiltà
corrotta
li
ha
resi
diseguali
.
Nietzsche
,
al
contrario
,
parte
dalla
considerazione
che
gli
uomini
sono
per
natura
diseguali
e
soltanto
la
civiltà
,
con
la
sua
morale
del
gregge
,
di
cui
è
massimamente
responsabile
il
cristianesimo
,
e
di
cui
sono
manifestazioni
al
tempo
presente
la
democrazia
e
il
socialismo
,
li
ha
resi
ingiustamenti
eguali
.
L
'
ideale
che
si
può
trarre
dalla
interpretazione
rousseauiana
del
corso
storico
è
quello
rivoluzionario
dell
'
abbattimento
delle
società
storiche
fondate
sulla
diseguaglianza
sociale
e
della
instaurazione
di
una
nuova
società
in
cui
tutti
siano
a
pari
diritto
cittadini
;
l
'
ideale
che
si
può
trarre
dalla
interpretazione
nietzscheana
,
è
al
contrario
quello
reazionario
della
restaurazione
di
un
ordine
gerarchico
la
cui
distruzione
ha
reso
possibile
il
trionfo
della
quantità
,
dei
«
malriusciti
»
,
del
branco
.
Lo
stesso
Nietzsche
ritorna
sempre
a
Rousseau
,
il
suo
grande
nemico
,
ogni
qualvolta
sfoga
il
proprio
furore
contro
il
principio
dell
'
eguaglianza
e
contro
quell
'
avvenimento
storico
,
la
rivoluzione
francese
,
che
avrebbe
cercato
di
attuarlo
:
«
Quello
che
odio
-
una
citazione
fra
mille
-
è
la
rousseauiana
moralità
della
rivoluzione
francese
...
La
dottrina
dell
'
eguaglianza
.
Ma
non
c
'
è
tossico
più
velenoso
!
»
Mi
si
può
obiettare
che
il
criterio
dell
'
eguaglianza
non
è
il
solo
a
permettere
di
caratterizzare
due
ideologie
opposte
.
C
'
è
anche
quello
della
libertà
in
base
al
quale
si
distinguono
ideologie
libertarie
e
autoritarie
.
Rispondo
che
questo
criterio
di
distinzione
serve
a
distinguere
,
nell
'
ambito
della
sinistra
e
della
destra
,
l
'
ala
estrema
dall
'
ala
moderata
.
Si
può
sostenere
infatti
che
le
due
ali
estreme
sono
autoritarie
,
quelle
moderate
libertarie
.
Di
conseguenza
,
la
linea
su
cui
si
collocano
le
diverse
ideologie
partendo
da
sinistra
e
procedendo
verso
destra
si
sviluppa
attraverso
queste
quattro
aree
.
All
'
estrema
sinistra
stanno
i
movimenti
che
sono
insieme
egualitari
e
autoritari
:
l
'
esempio
classico
è
quello
dei
giacobini
e
dei
loro
tardi
seguaci
,
i
bolscevichi
.
Alla
sinistra
moderata
appartengono
i
movimenti
egualitari
e
libertari
,
il
cui
esempio
al
tempo
attuale
sono
i
partiti
socialdemocratici
che
ricoprono
una
vasta
area
che
si
potrebbe
chiamare
opportunamente
di
«
socialismo
liberale
»
.
Seguono
i
movimenti
della
destra
moderata
che
sono
insieme
inegualitari
e
libertari
.
Infine
c
'
è
l
'
estrema
destra
in
cui
si
collocano
i
movimenti
che
accompagnano
l
'
autoritarismo
alla
voglia
(
o
nostalgia
)
di
una
società
ordinata
gerarchicamente
.
Certamente
la
realtà
è
più
ricca
di
qualsiasi
schema
.
Ma
è
sempre
meglio
uno
schema
qualsiasi
che
la
confusione
mentale
da
cui
possono
nascere
soltanto
comportamenti
politicamente
aberranti
.
StampaQuotidiana ,
Che
il
voto
di
scambio
aumenti
a
danno
del
voto
di
opinione
,
come
ho
scritto
precedentemente
,
è
,
anche
questa
,
una
vecchia
storia
.
In
un
discorso
pronunciato
alla
Camera
dei
deputati
il
27
gennaio
1848
,
Tocqueville
,
lamentando
la
degenerazione
dei
costumi
pubblici
,
per
cui
«
alle
opinioni
,
ai
sentimenti
,
alle
idee
comuni
si
sostituiscono
sempre
più
interessi
particolari
»
,
diceva
,
rivolto
ai
colleghi
del
Parlamento
:
«
Mi
permetterei
di
domandarvi
se
,
per
quanto
ne
sapete
,
in
questi
ultimi
cinque
,
o
dieci
,
o
quindici
anni
,
non
sia
cresciuto
incessantemente
il
numero
di
coloro
che
vi
votano
per
interessi
personali
o
particolari
;
e
se
il
numero
di
chi
vi
vota
sulla
base
di
un
'
opinione
politica
non
decresca
incessantemente
»
.
Considerava
questa
tendenza
espressione
di
«
morale
bassa
e
volgare
»
seguendo
la
quale
chi
gode
dei
diritti
politici
«
ritiene
di
essere
in
dovere
verso
se
stesso
,
i
propri
figli
,
la
propria
moglie
,
i
propri
genitori
,
di
farne
un
uso
personale
nel
proprio
interesse
»
.
Se
la
storia
è
così
vecchia
bisogna
concluderne
che
la
democrazia
ideale
e
la
democrazia
«
realizzata
»
(
per
servirci
della
stessa
espressione
con
cui
si
rappresenta
la
degenerazione
del
sistema
sovietico
rispetto
all
'
ideale
ottocentesco
del
socialismo
)
non
sono
la
stessa
cosa
.
Idealmente
la
democrazia
è
la
forma
di
governo
in
cui
esistono
alcuni
istituti
,
in
special
modo
il
diritto
di
voto
distribuito
a
tutti
,
destinati
a
consentire
ai
governati
di
controllare
i
governanti
.
In
realtà
le
cose
sono
un
po
'
più
complicate
.
E
'
vero
che
il
potere
dei
governanti
dipende
in
larga
misura
dal
numero
dei
voti
,
ma
è
anche
vero
che
il
numero
dei
voti
dipende
dalla
maggiore
o
minor
capacità
dei
governanti
di
trovare
i
mezzi
per
soddisfare
le
richieste
degli
elettori
.
Tra
elettore
ed
eletto
si
viene
così
a
stabilire
un
rapporto
di
dipendenza
reciproca
.
L
'
eletto
dipende
dall
'
elettore
riguardo
alla
sua
legittimazione
a
governare
;
l
'
elettore
dipende
dall
'
eletto
se
vuole
ottenere
certi
benefici
di
cui
il
presunto
dispensatore
è
chi
dispone
di
pubbliche
risorse
.
In
questo
modo
colui
che
dovrebbe
essere
il
controllore
diventa
a
sua
volta
il
controllato
.
Si
ponga
mente
alla
espressione
comune
del
linguaggio
politico
:
«
Quanti
voti
controlla
quel
tale
deputato
,
quel
tale
consigliere
comunale
,
quel
tale
leader
politico
nel
proprio
partito
?
»
Tocqueville
credeva
che
l
'
unico
rimedio
fosse
nell
'
elevazione
della
pubblica
moralità
.
Era
convinto
che
al
buongoverno
contribuissero
più
i
costumi
che
le
istituzioni
,
più
gli
uomini
che
le
leggi
.
Diceva
:
«
Questa
malattia
da
cui
bisogna
guarire
ad
ogni
costo
e
che
,
credetemi
,
ci
colpirà
tutti
,
tutti
capite
,
se
non
faremo
attenzione
,
è
nello
stato
in
cui
si
trovano
lo
spirito
pubblico
e
i
pubblici
costumi
»
.
Non
diversamente
,
un
altro
grande
scrittore
politico
dell
'
Ottocento
,
John
Stuart
Mill
,
riconosceva
che
il
buongoverno
dipende
dalle
buone
leggi
,
ma
aggiungeva
che
le
buone
leggi
abbisognano
di
buoni
uomini
per
essere
applicate
:
«
A
che
servono
le
buone
regole
di
procedura
-
si
domandava
-
se
le
condizioni
morali
del
popolo
sono
tali
che
i
testimoni
generalmente
mentono
e
i
giudici
si
lasciano
corrompere
?
»
Distinguendo
i
cittadini
in
attivi
e
passivi
,
sosteneva
che
i
governi
dispotici
si
reggono
sui
secondi
,
i
governi
democratici
hanno
bisogno
dei
primi
.
Di
fronte
alla
pubblica
corruzione
,
precisava
,
i
passivi
dicono
:
«
Bisogna
aver
pazienza
»
,
gli
attivi
:
«
Che
vergogna
!
»
Senza
aver
mai
letto
né
Tocqueville
né
Mill
molti
italiani
di
oggi
la
pensano
nello
stesso
modo
.
Ma
le
prediche
morali
purtroppo
non
servono
.
Si
tratta
di
sapere
se
ci
sono
rimedi
istituzionali
o
politici
.
Scartata
come
inefficace
la
norma
costituzionale
che
vieta
il
mandato
imperativo
ovvero
impone
al
rappresentante
una
volta
eletto
di
non
tener
conto
degli
interessi
particolari
dei
suoi
elettori
(
non
vi
sono
soltanto
prediche
inutili
ma
anche
leggi
inutili
)
,
di
rimedi
istituzionali
non
ne
vedo
che
uno
:
la
durata
prestabilita
e
non
troppo
breve
della
legislatura
.
Prestabilita
,
perché
non
deve
essere
alla
mercè
della
maggioranza
,
e
non
troppo
breve
perché
deve
consentire
alla
maggioranza
di
svolgere
il
programma
senza
essere
incalzata
dall
'
assillo
dell
'
approvazione
immediata
da
parte
del
corpo
elettorale
.
Non
è
difficile
capire
che
il
mandato
imperativo
e
una
legislatura
la
cui
durata
pluriennale
è
stabilita
dalla
costituzione
sono
incompatibili
.
Là
dove
una
costituzione
fissa
in
anticipo
la
scadenza
della
legislatura
dopo
un
certo
numero
di
anni
,
è
segno
che
il
mandato
del
rappresentante
non
può
essere
vincolato
agli
interessi
particolari
e
contingenti
dei
suoi
elettori
.
Si
dirà
che
una
costituzione
come
la
nostra
che
prevede
il
divieto
di
mandato
imperativo
prevede
pure
la
possibilità
dello
scioglimento
anticipato
del
Parlamento
.
Sì
,
ma
è
una
misura
eccezionale
.
Una
delle
maggiori
aberrazioni
del
nostro
sistema
politico
nel
suo
reale
funzionamento
sta
nel
fatto
che
la
fine
immatura
delle
legislature
è
diventata
una
prassi
tanto
che
ci
stiamo
abituando
a
considerare
eccezionali
quelle
che
muoiono
di
morte
naturale
.
Ma
l
'
assuefazione
all
'
idea
che
la
legislatura
possa
essere
troncata
anzi
tempo
secondo
il
beneplacito
delle
forze
politiche
dominanti
è
deleteria
,
perché
impedisce
ai
rappresentanti
del
popolo
di
distogliere
i
loro
sguardi
dagli
interessi
immediati
del
partito
e
indirettamente
degli
elettori
.
I
programmi
a
lunga
scadenza
possono
venir
presentati
soltanto
all
'
inizio
:
invece
la
prassi
delle
legislature
bruciate
ha
fatto
sì
che
sull
'
inizio
incomba
già
la
fine
,
sicché
la
campagna
elettorale
appena
finita
ricomincia
ed
è
sempre
potenzialmente
aperta
.
Sotto
questo
aspetto
la
legislatura
più
disgraziata
è
quella
tuttora
in
corso
,
che
ogni
sei
mesi
è
stata
data
per
morta
.
Si
capisce
che
ogni
volta
che
ne
viene
annunciata
la
fine
,
i
«
moribondi
»
che
vogliono
rivivere
guardano
con
rinnovata
sollecitudine
agli
elettori
che
sono
la
loro
fonte
di
vita
.
Una
legislatura
che
sopravvive
sotto
la
continua
minaccia
di
scioglimento
,
se
non
a
primavera
in
autunno
,
se
non
in
autunno
alla
primavera
successiva
,
attraverso
una
lunga
agonia
,
non
solamente
è
inoperosa
ma
contraddice
allo
spirito
della
costituzione
che
intende
mantenere
le
debite
distanze
tra
il
momento
della
designazione
dei
rappresentanti
e
il
momento
della
formazione
delle
leggi
.
Che
questo
sia
un
problema
di
fondo
lo
ha
capito
benissimo
il
presidente
Pertini
,
di
cui
non
si
può
che
lodare
l
'
ostinata
e
a
parer
mio
salutare
opposizione
alle
elezioni
anticipate
.
Occorre
interrompere
una
prassi
infausta
e
ristabilire
una
buona
volta
il
principio
che
la
durata
di
cinque
anni
è
la
regola
,
lo
scioglimento
anticipato
l
'
eccezione
.
L
'
estrema
facilità
con
cui
attori
e
osservatori
politici
parlano
di
elezioni
imminenti
dipende
anche
dal
non
tener
conto
delle
conseguenze
che
ne
derivano
,
prima
fra
tutte
il
venir
meno
di
una
remora
,
l
'
unica
remora
,
istituzionale
,
alla
frammentazione
delle
domande
dal
basso
e
al
corrispondente
particolarismo
delle
pubbliche
decisioni
dall
'
alto
.
StampaQuotidiana ,
Nell
'
articolo
L
'
oggetto
misterioso
,
pubblicato
sulla
«
Stampa
»
il
30
aprile
,
Sergio
Romano
ci
ha
spiegato
le
ragioni
per
cui
gli
stranieri
non
riescono
a
capire
il
nostro
sistema
politico
.
Ma
le
ragioni
addotte
riguardano
il
rapporto
fra
governo
e
Parlamento
,
il
regionalismo
,
l
'
istituto
del
referendum
abrogativo
,
non
il
modo
e
la
forma
della
lotta
politica
.
Sono
tutti
argomenti
che
interessano
esclusivamente
gli
uomini
politici
,
i
giornalisti
,
gli
esperti
di
diritto
costituzionale
.
A
me
pare
molto
più
preoccupante
che
disorientati
siano
i
cittadini
italiani
.
Basta
ascoltare
i
loro
commenti
di
questi
giorni
.
La
verità
è
che
si
è
svolto
sotto
i
loro
occhi
,
specie
in
questi
mesi
di
crisi
,
un
gioco
di
potere
,
di
cui
conoscono
poco
le
regole
,
che
oltretutto
sono
,
come
in
genere
tutte
le
regole
,
troppo
vaghe
,
interpretabili
nei
modi
più
diversi
secondo
gl
'
interessi
prevalenti
dell
'
una
o
dell
'
altra
parte
.
Ho
anche
l
'
impressione
che
la
maggior
parte
dei
cittadini
non
abbia
molto
interesse
a
penetrare
nel
segreto
delle
regole
di
strategia
,
vale
a
dire
delle
regole
che
insegnano
quale
sia
il
modo
migliore
per
condurre
il
gioco
allo
scopo
di
vincerlo
.
La
prima
volta
che
mi
trovai
ad
assistere
in
una
università
degli
Stati
Uniti
a
una
partita
di
football
americano
,
di
cui
mi
erano
completamente
ignote
le
regole
del
gioco
e
le
regole
di
strategia
,
non
riuscii
assolutamente
a
capire
che
cosa
stessero
facendo
quei
giovanottoni
corazzati
che
si
accanivano
intorno
a
una
palla
ovale
che
assomigliava
a
un
uovo
di
struzzo
,
ora
ammucchiandosi
l
'
uno
sull
'
altro
ora
disperdendosi
e
inseguendosi
nel
campo
.
Siccome
non
ero
in
grado
di
capire
che
cosa
stesse
succedendo
e
quale
fosse
lo
scopo
di
tanto
affaccendamento
,
non
riuscii
a
divertirmi
.
L
'
osservatore
comune
,
come
mi
è
accaduto
di
notare
più
volte
,
non
ha
neppure
la
più
pallida
idea
della
differenza
tra
regole
del
gioco
che
assegnano
ai
giocatori
i
diversi
ruoli
,
imponendo
obblighi
e
attribuendo
diritti
o
poteri
,
e
regole
di
strategia
che
suggeriscono
le
mosse
più
convenienti
per
battere
l
'
avversario
.
La
regola
che
attribuisce
al
presidente
della
Repubblica
il
potere
di
nominare
il
presidente
del
Consiglio
o
quella
che
prevede
che
il
governo
debba
presentarsi
in
Parlamento
per
ottenere
la
fiducia
sono
regole
del
gioco
,
le
quali
debbono
essere
accettate
da
tutti
i
giocatori
affinché
il
gioco
,
qualunque
ne
sia
l
'
esito
,
che
dipende
dalle
diverse
strategie
adottate
,
si
possa
svolgere
.
Le
mosse
che
ogni
partito
compie
per
riuscire
a
far
parte
del
governo
o
per
appoggiarlo
o
per
farlo
cadere
,
per
provocare
la
fiducia
o
la
sfiducia
,
per
convogliare
il
proprio
voto
verso
l
'
approvazione
o
la
disapprovazione
di
un
disegno
di
legge
,
per
formare
o
disfare
un
'
alleanza
,
appartengono
invece
alla
sfera
dei
comportamenti
dai
quali
,
nel
rispetto
delle
regole
del
gioco
che
tutti
sono
tenuti
a
seguire
,
dipende
che
alla
fine
della
partita
ci
sia
un
vincitore
e
un
vinto
.
Nel
gioco
politico
il
fine
del
gioco
è
il
potere
,
vale
a
dire
una
maggiore
capacità
,
rispetto
agli
avversari
,
di
ottenere
gli
effetti
voluti
.
Ciò
vuol
dire
che
alla
fine
della
partita
si
considera
vincitore
chi
è
riuscito
ad
acquistare
maggiore
potere
,
o
in
senso
assoluto
,
nel
senso
cioè
di
essere
il
più
potente
,
oppure
in
senso
relativo
,
nel
senso
cioè
di
aver
acquistato
maggiore
potere
di
quello
che
aveva
prima
.
A
differenza
di
quel
che
accade
nelle
forme
di
governo
autocratico
,
in
cui
il
maggiore
o
minore
potere
dipende
soprattutto
dal
possesso
della
forza
militare
,
dal
peso
della
tradizione
e
dall
'
alleanza
di
ristrette
consorterie
,
la
caratteristica
essenziale
del
governo
democratico
è
che
il
potere
si
misura
in
base
al
numero
dei
voti
,
anche
se
oltre
il
numero
dei
voti
conta
il
collocamento
lungo
l
'
arco
dei
partiti
del
sistema
,
il
cosiddetto
potere
di
coalizione
.
Ma
la
quantità
dei
voti
è
un
elemento
essenziale
del
potere
democratico
:
necessaria
se
non
sufficiente
.
Nella
gara
fra
partiti
,
particolarmente
intensa
in
periodi
di
competizione
elettorale
,
lo
scopo
di
ogni
partito
è
,
usando
un
'
espressione
del
linguaggio
economico
,
«
massimizzare
»
il
numero
dei
voti
.
Questo
spiega
perché
la
campagna
elettorale
venga
combattuta
non
solo
proponendo
un
programma
per
il
futuro
ma
anche
presentando
un
rendiconto
,
il
più
possibile
positivo
,
dell
'
azione
svolta
durante
gli
anni
della
legislatura
scaduta
.
Tutto
ciò
che
il
partito
fa
,
tutto
ciò
che
fanno
gli
eletti
nei
loro
rispettivi
collegi
,
è
fatto
in
vista
di
quel
rendiconto
periodico
finale
,
che
avviene
nel
giorno
del
voto
.
Come
nell
'
arena
di
un
sistema
economico
concorrenziale
ogni
mossa
dei
concorrenti
è
rivolta
al
procacciamento
del
maggior
numero
di
consumatori
,
così
nell
'
arena
politica
di
un
sistema
pluralistico
com
'
è
quello
democratico
,
e
in
quanto
pluralistico
concorrenziale
,
ogni
atto
di
un
singolo
partito
è
rivolto
,
direttamente
o
indirettamente
,
a
breve
o
a
lunga
scadenza
,
non
solo
negli
ultimi
giorni
prima
delle
elezioni
ma
già
sin
dal
primo
giorno
dopo
la
formazione
del
governo
,
a
raccogliere
il
maggior
numero
di
voti
.
I
cittadini
hanno
un
bell
'
essere
infastiditi
,
irritati
,
indignati
dalla
grande
partita
di
cui
dicono
di
non
capir
nulla
perché
sono
«
affari
loro
»
,
ma
è
un
fatto
che
,
al
contrario
,
sono
affari
che
li
riguardano
direttamente
e
dei
quali
sono
,
anzi
,
i
veri
protagonisti
in
quanto
,
come
elettori
,
hanno
il
diritto
di
gettare
nell
'
urna
una
scheda
e
quindi
di
determinare
con
questo
semplice
gesto
la
maggiore
o
minore
quantità
di
potere
di
cui
ogni
partito
potrà
godere
dopo
il
voto
,
e
in
conseguenza
del
voto
,
rispetto
a
tutti
gli
altri
.
Sono
loro
,
i
cittadini
infastiditi
,
irritati
,
indignati
,
i
destinatari
di
questo
gioco
,
coi
loro
diversi
interessi
,
i
loro
sentimenti
o
umori
,
che
i
giocatori
cercano
d
'
interpretare
e
rappresentare
.
Chi
si
è
battuto
per
lo
svolgimento
dei
referendum
pensava
a
un
pubblico
desideroso
di
partecipare
in
prima
persona
a
una
decisione
importante
.
Chi
si
è
battuto
per
le
elezioni
anticipate
,
pensava
,
al
contrario
,
di
raccogliere
il
consenso
di
chi
era
ormai
giunto
alla
convinzione
che
si
dovesse
voltar
pagina
al
più
presto
.
E
così
via
e
così
via
.
Domandarsi
oggi
chi
ha
vinto
e
chi
ha
perso
,
non
ha
senso
.
Proprio
perché
i
destinatari
del
gioco
sono
gli
elettori
,
la
vittoria
degli
uni
o
la
sconfitta
degli
altri
dipenderà
esclusivamente
da
loro
.
I
singoli
giocatori
possono
aver
sbagliato
i
loro
calcoli
,
ma
i
calcoli
sono
sempre
stati
fatti
avendo
davanti
agli
occhi
coloro
che
col
loro
voto
sono
i
detentori
del
potere
ultimo
e
decisivo
in
un
governo
democratico
e
permettono
di
stabilire
alla
fine
chi
ha
sbagliato
di
più
e
chi
meno
.
Resta
il
dubbio
che
il
fastidio
,
l
'
irritazione
,
l
'
indignazione
,
possano
avere
per
effetto
,
certamente
non
previsto
e
tanto
meno
voluto
dai
partiti
in
lizza
,
una
considerevole
diminuzione
di
partecipanti
al
voto
o
un
altrettanto
considerevole
aumento
di
schede
bianche
o
nulle
.
In
questo
caso
nessuno
avrebbe
vinto
,
tutti
avrebbero
perduto
.
Avrebbe
perso
soprattutto
la
democrazia
.
Si
sa
che
gli
spettatori
in
genere
non
amano
il
gioco
pesante
,
neppure
quello
della
propria
squadra
.
StampaQuotidiana ,
Affrontare
la
questione
morale
partendo
dall
'
osservazione
realistica
che
la
corruzione
non
viene
sempre
elettoralmente
punita
,
quasi
ci
fosse
una
tacita
intesa
fra
corrotto
e
corruttore
,
significa
non
limitarsi
a
fare
delle
prediche
,
che
sono
in
questa
materia
tanto
facili
quanto
inutili
.
E
un
invito
a
conoscere
meglio
il
fenomeno
,
in
tutte
le
sue
manifestazioni
e
ramificazioni
,
perché
solo
conoscendolo
si
può
più
facilmente
correggerlo
.
Sulla
riforma
costituzionale
sono
state
scritte
intere
biblioteche
,
già
in
parte
diventate
carta
da
macero
.
Sulla
corruzione
politica
,
che
per
lo
sviluppo
delle
nostre
istituzioni
democratiche
è
problema
non
meno
importante
,
le
ricerche
e
gli
studi
,
nel
nostro
paese
,
si
contano
sulle
punte
delle
dita
.
Vorrei
almeno
segnalare
il
saggio
del
prof.
Belligni
della
nostra
università
,
Corruzione
e
scienza
politica
,
pubblicato
recentemente
sull
'
ultimo
numero
della
bella
rivista
nata
da
poco
ma
già
affermata
,
«
Teoria
politica
»
.
Questo
saggio
contiene
un
utile
rendiconto
degli
scritti
sull
'
argomento
,
che
vengono
per
la
maggior
parte
dagli
Stati
Uniti
,
e
molte
osservazioni
stimolanti
per
tutti
coloro
che
in
questi
giorni
,
ripetendosi
gli
arresti
di
uomini
politici
e
di
amministratori
per
scandali
,
si
domandano
e
ci
domandano
:
«
Perché
Torino
?
»
o
«
Perché
Firenze
?
»
,
mentre
farebbero
meglio
a
porsi
la
domanda
più
generale
:
«
Perché
la
corruzione
?
»
Siccome
è
chiaro
,
chiarissimo
,
e
tutti
lo
sanno
,
anche
coloro
che
a
ogni
arresto
fingono
di
cascare
dalle
nuvole
e
riscoprono
la
questione
morale
,
che
la
corruzione
politica
è
dovuta
in
gran
parte
al
finanziamento
dei
partiti
,
può
essere
utile
questa
seconda
informazione
:
sin
dall
'
agosto
1984
esiste
una
proposta
dell
'
on.
Valdo
Spini
,
socialista
,
sulla
disciplina
dell
'
attività
e
del
finanziamento
dei
partiti
,
che
al
suo
apparire
ha
avuto
buone
accoglienze
da
giuristi
e
politologi
,
è
stata
discussa
in
varie
pubbliche
riunioni
,
ma
non
ha
mai
avuto
neppure
un
inizio
di
discussione
nella
sede
propria
che
è
il
Parlamento
.
L
'
on.
Spini
ha
avuto
un
notevole
successo
elettorale
,
smentendo
l
'
opinione
che
la
questione
morale
sia
politicamente
irrilevante
.
Probabilmente
di
questa
proposta
si
dovrà
tornare
a
parlare
.
L
'
area
della
corruzione
è
vastissima
.
Perché
ci
sia
corruzione
politica
,
da
distinguersi
dalla
corruzione
in
senso
generale
,
occorre
che
almeno
uno
dei
due
soggetti
del
rapporto
sia
una
persona
investita
di
un
potere
politico
o
pubblico
,
vale
a
dire
del
diritto
di
esercitare
il
potere
di
prendere
decisioni
a
nome
e
per
conto
della
collettività
nazionale
.
Due
sono
le
situazioni
in
cui
si
osservano
abitualmente
rapporti
di
corruzione
:
quella
in
cui
il
soggetto
politico
agisce
per
conquistare
o
conservare
o
non
perdere
il
potere
,
e
quella
in
cui
,
una
volta
che
l
'
ha
acquistato
e
lo
tiene
ben
fermo
nelle
proprie
mani
,
se
ne
serve
per
trarne
vantaggi
privati
.
Inutile
dire
che
le
due
situazioni
sono
strettamente
connesse
perché
nel
mercato
politico
democratico
il
potere
si
conquista
coi
voti
:
uno
dei
modi
di
conquistare
i
voti
è
di
acquistarli
e
uno
dei
modi
per
rifarsi
delle
spese
è
di
servirsi
del
potere
conquistato
o
acquistato
per
ottenere
benefici
anche
pecuniari
da
coloro
cui
l
'
uso
di
quel
potere
può
procurare
vantaggi
.
Il
potere
costa
ma
rende
.
Se
costa
deve
rendere
.
Il
gioco
è
rischioso
:
talora
infatti
costa
più
di
quel
che
rende
,
quando
il
candidato
non
viene
eletto
;
ma
spesso
rende
più
di
quel
che
costa
.
Le
due
situazioni
sono
connesse
ma
occorre
distinguerle
:
nella
prima
l
'
uomo
politico
agisce
da
corruttore
,
nella
seconda
da
corrotto
.
Dall
'
altra
parte
del
rapporto
c
'
è
,
nella
prima
,
l
'
elettore
che
offre
potere
in
cambio
di
un
compenso
;
nella
seconda
un
gruppo
d
'
interesse
,
che
offre
un
compenso
in
cambio
di
una
prestazione
che
solo
il
detentore
del
potere
può
offrire
.
Considerata
l
'
arena
politica
come
una
forma
di
mercato
,
dove
tutto
è
merce
,
cioè
cosa
vendibile
e
comprabile
,
l
'
uomo
politico
si
presenta
,
in
un
primo
momento
come
compratore
(
del
voto
)
,
in
un
secondo
come
venditore
(
delle
risorse
pubbliche
di
cui
grazie
al
voto
è
diventato
potenziale
dispensatore
)
.
Questa
distinzione
è
importante
perché
i
due
casi
sono
,
moralmente
e
anche
giuridicamente
,
di
diversa
gravità
.
Anche
se
negli
studi
sulla
corruzione
politica
si
fa
rientrare
di
solito
il
fenomeno
del
clientelismo
,
vale
a
dire
il
procacciamento
dei
voti
attraverso
l
'
offerta
all
'
elettore
di
vantaggi
personali
,
anche
pecuniari
,
questo
deve
essere
considerato
una
forma
di
degenerazione
del
rapporto
elettorale
,
che
rientra
,
come
la
corruzione
,
nella
categoria
generale
della
«
privatizzazione
del
pubblico
»
,
ma
non
è
una
forma
di
corruzione
strettamente
intesa
.
Altro
è
corrompere
,
o
istigare
il
compimento
di
atti
che
implicano
l
'
incitamento
a
compiere
un
atto
illecito
;
altro
sedurre
,
tentare
,
promettere
a
vuoto
,
che
è
l
'
arte
del
demagogo
,
non
molto
diversa
da
quella
dell
'
imbonitore
.
La
differenza
si
rivela
anche
nel
fatto
che
le
varie
forme
di
procacciamento
della
clientela
si
svolgono
generalmente
in
pubblico
e
possono
suscitare
irritazione
,
deplorazione
,
indignazione
,
ma
non
vengono
perseguite
giuridicamente
.
Offendono
più
il
costume
che
il
diritto
o
la
morale
.
Al
contrario
,
l
'
abuso
del
potere
per
ottenerne
vantaggi
personali
,
il
cui
esempio
più
comune
è
la
«
tangente
»
,
non
si
può
esercitare
che
in
segreto
.
Una
volta
scoperto
,
cade
,
o
dovrebbe
cadere
,
sotto
i
rigori
della
legge
.
Tutti
gli
studi
sulla
corruzione
politica
tendono
a
mettere
in
rilievo
la
vastità
del
fenomeno
anche
negli
Stati
democratici
,
e
la
difficoltà
di
eliminarlo
.
Vi
è
una
scuola
di
rassegnati
,
che
,
ispirandosi
alle
teorie
funzionalistiche
,
ritengono
che
alla
corruzione
si
debba
attribuire
una
sorta
di
utilità
sociale
,
una
«
funzione
»
appunto
,
che
sarebbe
quella
,
metaforicamente
,
di
ungere
le
ruote
di
una
macchina
che
altrimenti
stenterebbe
a
mettersi
in
moto
.
Ma
la
constatazione
che
nella
sua
forma
propria
la
corruzione
non
può
svolgersi
che
in
segreto
,
mostra
,
più
di
qualsiasi
altra
considerazione
,
la
sua
totale
estraneità
all
'
etica
della
democrazia
,
cioè
a
quella
forma
di
governo
che
richiede
la
pubblicità
degli
atti
di
governo
,
in
quanto
si
fonda
sulla
regola
fondamentale
della
controllabilità
ad
ogni
istante
di
chi
esercita
il
potere
non
in
nome
proprio
ma
in
nome
di
tutti
,
e
ha
messo
fine
per
sempre
alla
politica
degli
arcana
imperii
,
propria
degli
Stati
autoritari
di
un
tempo
e
di
quelli
ancor
oggi
esistenti
.
In
uno
Stato
democratico
la
pubblica
moralità
non
è
solo
un
obbligo
morale
o
giuridico
,
ma
anche
un
obbligo
politico
,
anzi
è
l
'
obbligo
politico
per
eccellenza
imposto
dal
principio
stesso
che
regola
la
vita
del
governo
democratico
,
e
che
lo
contraddistingue
da
tutte
le
altre
forme
di
governo
sinora
esistite
,
il
principio
del
«
potere
in
pubblico
»
.