StampaQuotidiana ,
La
conclusione
dell
'
articolo
precedente
,
in
cui
parlo
di
un
«
doppio
Stato
»
a
proposito
dello
Stato
neocorporativo
,
è
manifestamente
forzata
.
Nella
realtà
,
e
senza
forzature
,
un
doppio
Stato
esiste
davvero
in
Italia
,
ma
non
è
quello
neocorporativo
:
è
lo
Stato
che
deriva
dalla
sopravvivenza
e
dalla
robusta
consistenza
di
un
potere
invisibile
accanto
a
quello
visibile
.
Alcuni
anni
or
sono
uno
studioso
americano
in
un
libro
tradotto
anche
in
italiano
,
I
confini
della
legittimazione
(
De
Donato
,
Roma
)
,
per
sottolineare
l
'
estensione
del
potere
occulto
negli
Stati
Uniti
negli
anni
di
Nixon
,
ha
usato
l
'
espressione
«
the
duali
State
»
che
corrisponde
esattamente
al
nostro
«
doppio
Stato
»
.
Dei
due
presunti
Stati
di
una
società
neocorporativa
dicevo
che
erano
entrambi
compatibili
coi
principi
fondamentali
della
democrazia
.
La
stessa
cosa
non
vale
quando
dei
due
Stati
l
'
uno
è
lo
Stato
visibile
,
l
'
altro
quello
invisibile
.
Lo
Stato
invisibile
è
l
'
antitesi
radicale
della
democrazia
.
Si
può
definire
la
democrazia
(
ed
è
stata
di
fatto
definita
)
nei
modi
più
diversi
.
Ma
non
vi
è
definizione
in
cui
possa
mancare
l
'
elemento
caratterizzante
della
visibilità
o
della
trasparenza
del
potere
.
Governo
democratico
è
quello
che
svolge
la
propria
attività
in
pubblico
,
sotto
gli
occhi
di
tutti
.
E
deve
svolgere
la
propria
attività
sotto
gli
occhi
di
tutti
perché
ogni
cittadino
ha
il
diritto
di
essere
posto
in
grado
di
formarsi
una
libera
opinione
sulle
decisioni
che
vengono
prese
in
suo
nome
.
Altrimenti
,
per
quale
ragione
dovrebbe
essere
chiamato
a
recarsi
periodicamente
alle
urne
,
e
su
quali
basi
potrebbe
esprimere
il
proprio
voto
di
approvazione
e
di
condanna
?
Che
il
potere
tenda
a
mettersi
la
maschera
per
non
farsi
riconoscere
e
per
poter
svolgere
la
propria
azione
lontano
da
sguardi
indiscreti
,
è
una
vecchia
storia
.
Questa
vecchia
storia
ha
anche
un
celebre
nome
che
al
solo
pronunciarlo
mette
i
brividi
nella
schiena
:
arcana
imperii
.
Nella
sua
analisi
magistrale
del
potere
Elias
Canetti
ha
scritto
:
«
Il
segreto
sta
nel
nucleo
più
interno
del
potere
»
(
Massa
e
potere
,
Adelphi
,
Milano
1981
)
.
I
padri
fondatori
della
democrazia
pretesero
di
dar
vita
a
una
forma
di
governo
che
non
avesse
più
maschera
,
in
cui
gli
arcani
del
dominio
fossero
definitivamente
aboliti
e
questo
«
nucleo
interno
»
distrutto
.
Molte
sono
le
promesse
non
mantenute
della
democrazia
reale
rispetto
alla
democrazia
ideale
.
E
la
graduale
sostituzione
della
rappresentanza
degl
'
interessi
alla
rappresentanza
politica
di
cui
mi
sono
occupato
nell
'
articolo
precedente
è
una
di
queste
.
Ma
rientra
,
insieme
con
altre
,
nel
capitolo
generale
delle
cosiddette
«
trasformazioni
»
della
democrazia
.
Il
potere
occulto
,
no
.
Non
trasforma
la
democrazia
,
la
perverte
.
Non
la
colpisce
più
o
meno
gravemente
in
uno
dei
suoi
organi
vitali
,
la
uccide
.
Di
tutte
le
promesse
non
mantenute
,
è
quella
che
maggiormente
ne
offende
lo
spirito
,
ne
devia
il
corso
naturale
,
ne
vanifica
lo
scopo
.
Grazie
ai
risultati
ormai
noti
della
Commissione
parlamentare
d
'
inchiesta
presieduta
dall
'
on.
Tina
Anselmi
,
ai
numerosi
documenti
resi
pubblici
,
alle
dichiarazioni
di
parlamentari
e
di
personaggi
variamente
autorevoli
,
alle
inchieste
giornalistiche
,
sappiamo
ormai
sulla
loggia
segreta
di
Licio
Gelli
molto
di
più
di
quello
che
si
venne
a
sapere
in
seguito
alle
perquisizioni
nella
villa
di
Arezzo
e
nell
'
ufficio
di
Castiglion
Fibocchi
del
marzo
1981
.
Ma
prima
di
allora
io
stesso
avevo
cominciato
a
parlare
,
se
pure
con
una
espressione
che
era
apparsa
eccessiva
,
di
«
criptogoverno
»
(
in
un
articolo
sulla
«
Stampa
»
del
23
novembre
1980
)
.
Ho
ora
sott
'
occhio
la
voluminosa
e
documentata
relazione
di
minoranza
dell
'
on.
Massimo
Teodori
,
del
partito
radicale
,
sulla
medesima
inchiesta
.
La
tesi
principale
ivi
sostenuta
,
secondo
cui
la
loggia
P2
sarebbe
stata
parte
integrante
del
sistema
dei
partiti
e
pertanto
debba
essere
considerata
come
un
effetto
diretto
della
degenerazione
partitocratica
della
democrazia
italiana
,
dalla
quale
sarebbe
derivata
una
vera
e
propria
dislocazione
del
potere
fuori
dalle
sedi
costituzionalmente
riconosciute
,
si
può
anche
discutere
e
non
accettare
integralmente
.
Ma
è
da
ritenere
fuori
discussione
che
la
loggia
P2
,
come
rileva
giustamente
Teodori
,
abbia
esercitato
in
alcuni
momenti
della
nostra
vita
nazionale
una
influenza
ben
più
ampia
,
profonda
,
determinante
,
che
una
semplice
lobby
e
abbia
costituito
,
per
l
'
appartenenza
degli
affiliati
alle
più
alte
gerarchie
dello
Stato
e
ai
più
elevati
strati
della
società
,
alti
funzionari
,
diplomatici
,
generali
,
giornalisti
,
e
quel
che
è
ancora
più
scandaloso
,
uomini
politici
di
quella
che
si
chiama
-
oh
,
ironia
dei
nomi
!
-
l
'
area
democratica
del
nostro
sistema
politico
,
una
compiuta
organizzazione
di
potere
occulto
presso
,
dietro
,
sotto
(
o
sopra
?
)
lo
Stato
.
Indipendentemente
dalle
conseguenze
direttamente
politiche
,
che
forse
non
sono
da
sopravvalutare
,
la
formazione
di
una
simile
rete
di
potere
sotterraneo
è
di
per
se
stessa
una
vergogna
nazionale
dalla
quale
dobbiamo
redimerci
per
poter
diventare
pienamente
credibili
come
soggetti
di
un
regime
democratico
nel
consesso
internazionale
.
Senza
pregiudizi
,
s
'
intende
,
verso
le
persone
,
giacché
non
tutte
sono
egualmente
responsabili
,
ma
anche
senza
indulgenze
.
Non
possiamo
però
fingere
di
non
accorgerci
che
sin
d
'
ora
ciò
che
è
emerso
dalla
documentazione
è
una
prova
avvilente
della
mediocrità
intellettuale
e
morale
di
una
parte
non
piccola
della
nostra
classe
dirigente
.
Le
rivelazioni
sulla
vita
di
Gelli
sono
tali
da
farci
restare
allibiti
(
e
inorriditi
)
alla
scoperta
che
la
maggior
parte
di
coloro
che
sono
entrati
volontariamente
nella
sua
cerchia
per
sottomettersi
alla
protezione
di
un
uomo
che
non
aveva
altro
scopo
che
quello
di
estendere
il
proprio
potere
con
qualsiasi
mezzo
,
rendendo
in
cambio
della
protezione
servigi
presuntivamente
illeciti
per
la
loro
stessa
segretezza
,
siano
personaggi
quasi
tutti
di
altissimo
rango
,
e
nessuno
di
essi
abbia
avuto
in
anni
di
commerci
sospetti
con
il
fondatore
della
loggia
un
moto
di
ribellione
,
e
abbia
compiuto
un
atto
di
resipiscenza
.
Sono
considerato
uno
che
vede
sempre
nero
,
un
pessimista
cronico
.
Eppure
confesso
che
non
avrei
mai
immaginato
che
la
vita
italiana
fosse
stata
inquinata
sino
a
questo
punto
,
sino
al
punto
in
cui
non
sai
se
più
indignarti
della
bassa
qualità
dell
'
intrigo
o
del
grande
numero
delle
persone
che
vi
hanno
preso
parte
,
per
la
spudoratezza
di
chi
ha
guidato
il
gioco
o
per
la
insensibilità
di
coloro
che
l
'
hanno
accettato
,
e
dei
quali
molti
vengono
chiamati
nella
retorica
di
rito
delle
cerimonie
ufficiali
«
servitori
dello
Stato
»
.
La
realtà
ha
superato
questa
volta
la
più
catastrofica
delle
immaginazioni
.
Lo
Stato
democratico
deve
essere
ripristinato
nella
sua
integrità
.
Il
potere
occulto
deve
essere
snidato
ovunque
si
annidi
,
inflessibilmente
.
Non
ci
possono
essere
due
Stati
.
Lo
Stato
italiano
è
uno
solo
,
quello
della
Costituzione
repubblicana
.
Al
di
fuori
non
c
'
è
che
l
'
antistato
che
deve
essere
abbattuto
cominciando
dal
tetto
ed
arrivando
,
se
mai
sarà
possibile
,
alle
fondamenta
.
StampaQuotidiana ,
Per
giudicare
della
bontà
di
una
causa
,
nulla
è
meglio
che
vagliare
la
maggiore
o
minore
forza
degli
argomenti
che
entrambe
le
parti
impiegano
per
difenderla
e
dei
controargomenti
di
cui
si
servono
per
combattere
gli
argomenti
dell
'
avversario
.
Sgombero
subito
il
campo
da
un
falso
argomento
addotto
ripetutamente
dai
fautori
del
«
sí
»
:
l
'
appello
al
principio
«
la
legge
è
eguale
per
tutti
»
.
Che
la
legge
debba
essere
eguale
per
tutti
non
significa
affatto
che
tutti
debbano
essere
trattati
in
modo
eguale
.
Sarebbe
un
'
insensatezza
.
L
'
unico
significato
certo
attribuibile
alla
massima
,
che
si
vede
scritta
sui
frontoni
di
tutti
i
tribunali
,
è
che
la
legge
,
qualsiasi
legge
,
deve
essere
applicata
imparzialmente
a
tutti
,
ricchi
e
poveri
,
nobili
e
plebei
.
Ciò
che
la
cosiddetta
«
regola
di
giustizia
»
richiede
è
che
siano
trattati
egualmente
gli
eguali
e
disegualmente
i
diseguali
.
Sono
forse
i
giudici
eguali
agli
altri
cittadini
rispetto
all
'
estensione
della
responsabilità
civile
?
Anche
i
fautori
del
«
sí
»
riconoscono
che
non
lo
sono
:
qualunque
sia
l
'
esito
del
voto
,
la
responsabilità
dei
giudici
sarà
ad
ogni
modo
diversa
da
quella
dei
singoli
cittadini
.
Nell
'
attuale
disputa
la
massima
non
c
'
entra
assolutamente
nulla
.
L
'
invocarla
come
una
buona
ragione
per
indurre
a
votare
«
sí
»
è
uno
sproposito
.
Atteniamoci
dunque
agli
argomenti
razionali
,
vale
a
dire
alle
ragioni
pro
o
contro
,
addotte
sulla
base
di
giudizi
di
fatto
controllabili
,
sia
rispetto
alle
premesse
sia
rispetto
alle
conseguenze
.
Nonostante
il
profluvio
di
parole
che
si
è
rovesciato
in
questi
giorni
sui
giornali
,
questi
argomenti
sono
sempre
gli
stessi
.
Chi
vada
a
leggere
ciò
che
si
scrisse
nella
primavera
del
1986
quando
ebbe
inizio
la
campagna
per
la
raccolta
delle
firme
,
si
renderà
conto
facilmente
di
quel
che
sto
dicendo
,
anche
se
possono
essere
cambiati
alcuni
interlocutori
,
e
identici
interlocutori
possono
oggi
sostenere
tesi
diverse
da
quelle
di
ieri
.
A
ragion
veduta
si
può
dire
che
gli
argomenti
addotti
da
una
parte
e
dall
'
altra
ruotano
intorno
a
due
temi
fondamentali
:
i
)
se
il
quesito
posto
sia
conforme
allo
scopo
,
che
sarebbe
per
i
promotori
una
giustizia
più
giusta
;
2
)
ammesso
che
il
quesito
sia
conforme
allo
scopo
,
se
a
sua
volta
sia
conforme
allo
scopo
lo
strumento
adottato
per
risolverlo
,
il
referendum
.
I
fautori
del
«
no
»
sostengono
che
ci
troviamo
di
fronte
a
un
caso
davvero
singolare
di
un
metodo
sbagliato
usato
per
risolvere
una
questione
mal
posta
.
Sul
primo
punto
alle
persone
di
buon
senso
è
parso
sin
dall
'
inizio
incomprensibile
perché
dal
gran
mazzo
di
problemi
insoluti
relativi
alla
giustizia
si
sia
estratto
il
problema
della
responsabilità
civile
.
Tanto
più
che
due
dei
proponenti
facevano
parte
del
governo
,
e
di
governi
che
non
erano
mai
stati
troppo
zelanti
nel
cercare
di
risolvere
gli
altri
problemi
.
Sinora
i
fautori
del
«
sí
»
non
hanno
fatto
nulla
per
aiutarci
a
capire
.
Attribuire
la
responsabilità
dei
malanni
della
giustizia
ai
giudici
,
sarebbe
come
far
ricadere
i
malanni
della
scuola
sui
professori
,
della
sanità
sui
medici
e
,
perché
no
?
,
tutti
i
guai
del
paese
soltanto
sulla
classe
politica
.
Che
sia
utile
ridiscutere
il
problema
della
responsabilità
civile
dei
giudici
,
non
è
ancora
un
buon
argomento
per
considerarlo
il
problema
principale
,
da
risolvere
prima
di
tutti
gli
altri
.
Si
capisce
come
sia
potuto
nascere
il
sospetto
che
la
funzione
del
referendum
fosse
unicamente
quella
di
dare
una
lezione
ai
giudici
troppo
inframettenti
.
Non
è
il
caso
di
fare
il
processo
alle
intenzioni
.
Ma
siamo
proprio
sicuri
che
non
gli
attribuiscano
questa
funzione
la
maggior
parte
dei
cittadini
che
voteranno
«
sí
»
?
Giorni
fa
un
tassista
,
che
si
accalorava
parlandomi
di
una
lite
scoppiata
tra
gruppi
rivali
di
conduttori
,
mi
disse
che
il
Tar
aveva
dato
loro
ragione
ma
gli
altri
erano
ricorsi
al
Consiglio
di
Stato
.
Però
,
aggiunse
,
siccome
la
sentenza
sarà
emanata
dopo
il
referendum
,
«
se
ci
danno
torto
gliela
faremo
pagare
»
.
Un
cittadino
,
non
sprovveduto
,
riteneva
dunque
in
buona
fede
che
dopo
la
«
valanga
»
dei
«
sí
»
,
chi
ha
torto
potrà
d
'
ora
innanzi
procedere
non
per
far
rivedere
la
sentenza
ma
per
punire
il
giudice
.
Rinunciamo
pure
a
fare
il
processo
alle
intenzioni
dei
promotori
.
Ma
non
siamo
del
tutto
tranquilli
sulle
intenzioni
dei
bravi
cittadini
che
risponderanno
all
'
appello
del
«
sí
»
.
Se
ne
rendono
conto
coloro
che
hanno
variamente
contribuito
a
costruire
questa
macchina
di
guerra
contro
la
magistratura
italiana
?
E
rendendosene
conto
,
che
cosa
rispondono
?
Quanto
al
secondo
punto
,
l
'
idoneità
del
referendum
come
strumento
,
l
'
argomento
contrario
è
fortissimo
.
All
'
argomento
secondo
cui
il
problema
della
responsabilità
civile
del
giudice
non
può
essere
risolto
con
un
«
sí
»
e
con
un
«
no
»
,
non
può
essere
data
nessuna
risposta
convincente
,
tanto
è
vero
che
neppure
i
fautori
del
«
sí
»
cercano
di
darla
.
Dopo
l
'
abrogazione
tutti
sanno
che
bisognerà
ricominciare
da
capo
.
Il
solo
argomento
addotto
dai
promotori
è
stato
che
lo
scopo
del
referendum
non
era
quello
di
decidere
ciò
che
un
referendum
non
può
decidere
ma
quello
di
«
stimolare
»
il
legislatore
a
decidere
.
Che
il
nostro
Parlamento
abbia
bisogno
di
stimoli
per
agire
,
come
un
individuo
in
stato
di
depressione
permanente
,
è
desolante
.
Ma
lasciamo
andare
.
Ora
che
lo
stimolo
sembra
abbia
prodotto
il
suo
effetto
,
e
più
o
meno
tutti
,
compresa
la
maggior
parte
dei
magistrati
,
sono
d
'
accordo
sulla
riforma
,
tanto
che
nella
passata
legislatura
pareva
che
il
«
vuoto
»
stesse
per
essere
colmato
prima
che
si
formasse
,
che
necessità
c
'
è
che
la
stimolazione
continui
?
Anche
a
questa
domanda
non
sono
riuscito
a
trovare
che
risposte
vaghe
,
forse
sarebbe
meglio
dire
nessuna
risposta
.
Il
referendum
da
strumento
diventa
fine
a
se
stesso
.
Il
referendum
per
il
referendum
.
Ovvero
:
perché
il
referendum
?
Perché
sì
.
Concludendo
:
chi
ritiene
non
sia
stata
sufficientemente
giustificata
la
scelta
del
quesito
,
dovrebbe
rispondere
«
no
»
.
Chi
invece
ritiene
non
sia
stata
sufficientemente
giustificata
la
scelta
del
mezzo
per
risolverlo
dovrebbe
non
andare
a
votare
.
Chi
ritiene
che
non
siano
state
sufficientemente
giustificate
entrambe
può
scegliere
di
votare
«
no
»
o
di
non
votare
.
StampaQuotidiana ,
Da
qualche
tempo
si
parla
della
riforma
costituzionale
con
un
fervore
senza
precedenti
.
Sono
intervenute
nel
dibattito
,
forse
per
la
prima
volta
contemporaneamente
,
le
più
alte
autorità
dello
Stato
,
a
cominciare
dal
presidente
della
Repubblica
,
che
,
con
espressione
felice
,
ha
auspicato
al
paese
una
«
democrazia
più
matura
»
.
La
discussione
è
nata
circa
una
decina
d
'
anni
fa
,
ha
attraversato
due
legislature
,
l
'
ottava
e
la
nona
,
e
ora
si
riaffaccia
all
'
inizio
della
decima
.
Sono
stati
scritti
sull
'
argomento
migliaia
di
articoli
,
sono
state
date
migliaia
d
'
interviste
,
sono
stati
pubblicati
decine
di
libri
di
esperti
.
Sotto
la
direzione
di
Gianfranco
Miglio
si
era
costituito
alcuni
anni
fa
un
gruppo
di
studio
per
la
«
nuova
Costituzione
»
da
cui
sono
usciti
nel
1983
tre
o
quattro
volumi
molto
commentati
alla
loro
apparizione
.
Per
ben
due
volte
si
è
detto
:
questa
sarà
la
legislatura
della
grande
riforma
.
Ora
è
la
terza
.
Eppure
sinora
la
grande
riforma
non
ha
mosso
neppure
il
primo
passo
.
Né
la
grande
né
la
piccola
.
Neppure
la
piccolissima
,
quella
dei
regolamenti
parlamentari
.
Perché
?
La
spiegazione
più
semplice
di
cui
tutti
sono
consapevoli
ma
che
fingono
d
'
ignorare
,
è
la
seguente
.
L
'
esigenza
di
cambiare
la
Costituzione
nasce
dalla
constatazione
,
diventata
ormai
quasi
ossessiva
,
che
il
nostro
sistema
politico
è
inefficiente
.
Ma
è
proprio
l
'
inefficienza
del
sistema
che
sinora
ha
reso
difficile
,
se
non
impossibile
,
il
cambiamento
.
La
funzione
del
sistema
politico
è
quella
di
produrre
decisioni
ovvero
regole
imperative
per
risolvere
conflitti
d
'
interesse
fra
individui
e
fra
gruppi
al
fine
di
renderne
possibile
la
pacifica
convivenza
.
Si
dice
che
un
sistema
politico
funziona
bene
quando
riesce
a
prendere
decisioni
opportune
nel
più
breve
tempo
possibile
e
con
il
minor
dispendio
di
energie
da
parte
dei
decisori
.
Sotto
questo
aspetto
il
nostro
sistema
avrebbe
dimostrato
di
non
essere
un
buon
sistema
.
Di
qua
l
'
esigenza
di
riformarlo
sveltendone
le
procedure
.
La
maggior
parte
delle
proposte
sinora
fatte
convergono
verso
questo
scopo
,
dalla
modificazione
del
sistema
bicamerale
alla
riforma
dei
regolamenti
delle
Camere
,
dall
'
attribuzione
di
maggiore
autorità
al
presidente
del
Consiglio
al
cambiamento
della
legge
elettorale
per
diminuire
il
numero
dei
partiti
e
rendere
meno
affollate
le
coalizioni
di
governo
.
Queste
proposte
per
essere
attuate
debbono
trasformarsi
in
decisioni
.
Ma
chi
deve
prendere
queste
decisioni
?
Naturalmente
gli
stessi
organi
dello
Stato
di
cui
si
chiede
a
gran
voce
la
riforma
perché
decidono
male
.
Con
un
'
aggravante
in
più
:
che
le
decisioni
in
materia
costituzionale
sono
regolate
da
norme
che
le
rendono
più
difficili
.
Il
paradosso
della
riforma
costituzionale
,
il
paradosso
che
spiega
la
paralisi
,
è
tutto
qui
:
per
riformare
la
Costituzione
occorrono
condizioni
,
per
lo
più
aggravate
,
dalla
cui
mancanza
è
nata
l
'
esigenza
di
riformare
la
Costituzione
.
In
altre
parole
,
le
condizioni
che
rendono
necessaria
la
riforma
sono
quelle
stesse
che
sinora
l
'
hanno
resa
impossibile
.
Se
la
riforma
della
Costituzione
fosse
un
'
operazione
facile
,
vorrebbe
dire
che
il
nostro
sistema
funziona
bene
.
Ma
se
funzionasse
bene
,
che
bisogno
ci
sarebbe
della
riforma
?
Siamo
in
un
circolo
vizioso
,
da
cui
non
si
sa
bene
come
uscire
.
Ho
voluto
forzare
un
po
'
il
ragionamento
unicamente
per
mostrare
la
reale
difficoltà
dell
'
operazione
,
e
per
cercare
di
capire
perché
,
nonostante
la
montagna
di
parole
,
non
ne
sia
venuto
fuori
in
tanti
anni
neppure
il
topolino
di
un
fatto
concreto
.
La
discussione
è
ancora
ferma
ai
preliminari
:
è
meglio
cominciare
dalle
grandi
riforme
e
procedere
verso
le
piccole
o
partire
dalle
piccole
per
salire
a
poco
a
poco
alle
grandi
?
Conviene
dare
la
precedenza
alla
Costituzione
vera
e
propria
oppure
al
sistema
elettorale
?
La
prima
alternativa
sembra
ormai
risolta
:
si
poteva
cominciare
dalle
piccole
riforme
subito
,
ma
ora
,
dopo
tanti
rinvii
e
tante
aspettative
deluse
,
non
si
può
cominciare
se
non
da
qualche
azione
clamorosa
.
Dare
una
risposta
alla
seconda
alternativa
è
più
difficile
,
perché
,
se
ci
sono
convergenze
rispetto
alla
prima
,
rispetto
a
questa
ogni
partito
va
per
conto
suo
e
cerca
di
tirar
l
'
acqua
al
proprio
mulino
.
E
si
capisce
:
non
esiste
una
procedura
elettorale
da
cui
possano
trarre
vantaggio
tutti
i
partiti
.
C
'
è
una
sola
procedura
che
a
rigore
renda
a
ciascuno
il
suo
ed
è
la
proporzionale
pura
con
il
minimo
di
correttivi
.
Ma
,
guarda
caso
,
questa
è
proprio
una
delle
cause
del
difetto
del
sistema
per
quel
che
riguarda
la
sua
capacità
operativa
.
Di
qua
un
altro
paradosso
:
il
procedimento
più
equo
dal
punto
di
vista
del
modo
di
comporre
il
Parlamento
è
anche
quello
meno
conveniente
dal
punto
di
vista
del
suo
buon
funzionamento
.
Si
può
mettere
il
problema
anche
in
questo
modo
:
i
due
organi
più
importanti
per
la
formazione
delle
decisioni
sono
il
Parlamento
e
il
Governo
.
La
proporzionale
è
la
procedura
migliore
per
la
composizione
del
Parlamento
che
,
se
deve
essere
un
organo
rappresentativo
,
deve
rispecchiare
con
la
massima
precisione
gli
orientamenti
del
paese
.
Per
la
capacità
operativa
del
Governo
,
invece
,
occorre
la
drastica
riduzione
dei
gruppi
politici
,
che
si
può
ottenere
soltanto
abolendo
o
correggendo
la
proporzionale
.
Queste
difficoltà
sono
sotto
gli
occhi
di
tutti
.
Oggi
rese
se
mai
più
gravi
dal
fatto
che
il
naturale
inizio
di
un
serio
dibattito
avrebbe
potuto
essere
una
commissione
parlamentare
.
Ma
questo
espediente
è
stato
ormai
bruciato
durante
la
nona
legislatura
con
la
Commissione
presieduta
dall
'
on.
Bozzi
,
composta
da
alcuni
dei
più
bravi
giuristi
italiani
.
Il
risultato
del
lavoro
della
Commissione
è
stato
una
bella
relazione
,
diventata
rapidamente
un
documento
d
'
archivio
,
se
non
addirittura
carta
da
macero
.
Nessuno
oggi
pensa
di
proporre
la
ripetizione
della
prova
.
Si
parla
d
'
incontri
bilaterali
.
Ma
che
cosa
s
'
intende
?
Se
s
'
intende
l
'
incontro
di
un
partito
,
per
esempio
quello
di
maggioranza
relativa
,
con
i
principali
partiti
di
governo
e
di
opposizione
,
la
cosa
sarebbe
possibile
ma
non
sarebbe
giusta
.
Se
s
'
intende
l
'
incontro
di
ogni
partito
con
tutti
gli
altri
,
come
si
dovrebbe
intendere
alla
lettera
,
ne
verrebbe
fuori
una
bella
confusione
.
Dopo
quasi
dieci
anni
insomma
sembra
che
si
debba
cominciare
da
capo
.
Ma
ormai
non
si
può
più
tornare
indietro
.
La
grande
riforma
è
diventata
una
sfida
per
la
nostra
classe
politica
.
Una
sfida
che
essa
deve
vincere
se
non
vuol
perdere
un
'
altra
parte
della
sua
credibilità
.
A
furia
di
fare
della
Costituzione
il
capro
espiatorio
di
tutti
i
guai
della
repubblica
,
si
è
finito
per
screditarla
.
Non
si
può
più
tornare
indietro
ma
non
si
può
neppure
fallire
.
Il
fallimento
sarebbe
un
ulteriore
segno
della
crisi
irreversibile
del
sistema
democratico
,
che
solleva
più
problemi
di
quelli
che
sia
in
grado
di
risolvere
,
e
non
riuscendo
a
risolvere
i
piccoli
se
ne
pone
di
sempre
più
grandi
.
Come
il
giocatore
che
punta
somme
via
via
più
alte
per
rifarsi
delle
perdite
precedenti
e
alla
fine
perde
tutto
:
oltre
la
camicia
,
anche
l
'
onore
.
StampaQuotidiana ,
Il
problema
dei
rapporti
fra
intellettuali
e
potere
è
un
tema
ricorrente
.
In
questi
giorni
si
è
svolto
un
convegno
su
questo
tema
,
in
occasione
della
pubblicazione
del
quarto
volume
degli
«
Annali
della
storia
d
'
Italia
»
einaudiana
,
intitolato
appunto
Intellettuali
e
potere
.
Nell
'
ultima
riunione
del
Comitato
centrale
Aldo
Tortorella
,
responsabile
dell
'
organizzazione
culturale
del
pci
,
ha
svolto
un
'
ampia
relazione
in
cui
ripropone
il
tema
del
«
ruolo
delle
istituzioni
culturali
per
il
rinnovamento
e
la
trasformazione
della
società
e
dello
Stato
»
.
Si
sta
svolgendo
a
Roma
un
convegno
promosso
da
intellettuali
del
psi
,
che
dovrebbe
concludersi
,
nientemeno
,
con
«
un
manifesto
per
la
cultura
italiana
»
.
Non
sono
passati
molti
giorni
dalla
conclusione
dell
'
Assemblea
nazionale
della
dc
,
provocata
o
ispirata
da
uomini
di
cultura
cattolici
preoccupati
del
venir
meno
della
tensione
ideale
nella
lotta
politica
in
Italia
,
il
cui
protagonista
è
da
più
di
trent
'
anni
un
partito
che
si
chiama
cristiano
.
Il
tema
è
ricorrente
,
perché
i
rapporti
fra
politica
e
cultura
sono
difficili
.
All
'
atteggiamento
di
diffidenza
del
politico
per
l
'
intellettuale
corrisponde
un
analogo
atteggiamento
di
diffidenza
dell
'
intellettuale
per
il
politico
.
Alcuni
anni
fa
è
stata
pubblicata
la
traduzione
italiana
del
libro
di
R
.
Hofstadter
,
Società
e
intellettuali
in
America
(
Einaudi
,
Torino
1968
)
,
che
,
pur
riferendosi
agli
Stati
Uniti
degli
anni
del
maccartismo
,
presenta
un
'
ampia
documentazione
storica
sul
tema
del
conflitto
permanente
fra
l
'
uomo
politico
che
ha
o
crede
di
avere
i
piedi
per
terra
e
l
'
idealista
nelle
nuvole
,
accusato
di
inventare
progetti
bellissimi
ma
irrealizzabili
.
Una
versione
recentissima
e
casalinga
di
questa
antica
avversione
ho
colto
in
un
'
intervista
pubblicata
una
settimana
fa
,
in
cui
il
ministro
Marcora
,
volendo
tirare
le
orecchie
agli
ottimisti
,
dice
a
un
certo
punto
:
«
Sono
un
uomo
pratico
,
io
.
Sono
un
vecchio
lombardo
,
sto
in
politica
da
trent
'
anni
,
non
sono
un
intellettuale
.
Guardo
al
sodo
»
.
Non
ci
vuole
molta
fantasia
a
immaginare
una
battuta
diametralmente
opposta
in
bocca
a
un
intellettuale
:
«
Sono
un
uomo
che
cerca
di
capire
come
vanno
le
cose
.
Non
improvviso
,
ci
penso
su
.
Non
sono
un
politico
.
Guardo
nel
fondo
»
.
Proprio
perché
questi
rapporti
sono
difficili
,
e
sono
difficili
perché
l
'
intellettuale
e
il
politico
hanno
vocazioni
,
ambizioni
,
progetti
di
vita
,
capacità
diverse
,
e
non
c
'
è
gioco
di
prestigio
dialettico
che
valga
a
mediare
o
a
superare
queste
differenze
,
il
problema
non
si
risolve
con
alternative
drastiche
come
questa
:
«
L
'
intellettuale
è
un
seminatore
di
dubbi
»
(
così
Rosellina
Balbi
sulla
«
Repubblica
»
)
.
«
No
,
è
un
raccoglitore
di
certezze
»
(
così
,
almeno
sembra
,
Sanguineti
sull
'
«
Unità
»
)
.
Per
quanto
il
problema
dei
rapporti
fra
intellettuali
e
potere
sia
un
tema
ricorrente
,
o
forse
proprio
per
questo
,
non
è
un
problema
cui
si
possa
dare
una
soluzione
netta
una
volta
per
sempre
.
E
non
si
può
almeno
per
due
ragioni
.
Prima
di
tutto
perché
questa
benedetta
categoria
degl
'
intellettuali
è
vasta
,
varia
,
divisa
,
e
ogni
volta
che
se
ne
parla
bisogna
intendersi
bene
di
che
cosa
si
vuol
parlare
.
In
secondo
luogo
,
perché
,
dato
per
ammesso
che
i
rapporti
tra
gli
intellettuali
(
ma
quali
intellettuali
?
)
e
il
potere
siano
difficili
,
non
è
affatto
detto
siano
sempre
della
stessa
natura
.
Alcuni
anni
fa
mi
è
accaduto
di
distinguere
gl
'
intellettuali
che
ho
chiamato
«
esperti
»
,
da
quelli
che
ho
chiamato
«
ideologi
»
.
Vedo
che
la
distinzione
è
stata
ripresa
da
Corrado
Vivanti
,
se
pure
con
qualche
riserva
,
nella
prefazione
al
volume
degli
annali
einaudiani
dianzi
citato
.
Mi
sono
accorto
dopo
che
nel
notissimo
rapporto
della
Commissione
trilaterale
sulla
crisi
della
democrazia
si
distinguono
gli
intellettuali
tecnocrati
da
quelli
«
orientati
verso
i
valori
»
(
«
value
-
oriented
»
)
:
distinzione
analoga
alla
mia
,
se
pure
caricata
di
un
giudizio
di
valore
,
positivo
per
i
primi
,
negativo
per
i
secondi
,
lontanissimo
dalle
mie
intenzioni
.
La
distinzione
è
rilevante
,
a
mio
parere
,
perché
il
rapporto
fra
intellettuali
e
potere
cambia
secondo
che
ci
si
riferisca
agli
esperti
o
agli
ideologi
.
I
primi
offrono
ai
politici
conoscenze
,
informazioni
,
dati
elaborati
;
i
secondi
principi
,
direttive
,
prospettive
di
azione
.
Nella
irrequietezza
degl
'
intellettuali
che
hanno
agitato
le
acque
stagnanti
della
democrazia
cristiana
vedo
lo
stato
d
'
animo
tipico
dell
'
intellettuale
che
fa
appello
ai
valori
,
chiede
il
ritorno
ai
principi
primi
,
e
inalbera
la
questione
morale
;
al
contrario
,
nel
rivolgersi
,
del
resto
non
per
la
prima
volta
,
del
partito
comunista
agli
uomini
di
cultura
,
vedo
soprattutto
l
'
interesse
che
ha
questo
partito
,
depositario
dei
principi
che
lo
hanno
fatto
nascere
e
ai
quali
non
può
abdicare
(
pur
potendoli
aggiornare
)
senza
venir
meno
alla
propria
funzione
di
partito
-
guida
,
nell
'
attrarre
a
sé
uomini
esperti
nei
diversi
campi
del
sapere
scientifico
.
In
questi
due
percorsi
contrari
dell
'
uomo
di
principi
verso
un
partito
prammatico
e
del
partito
di
principi
verso
gli
esperti
,
si
possono
cogliere
,
da
due
parti
diverse
,
anzi
opposte
,
i
due
vizi
principali
della
nostra
vita
politica
:
senza
alti
ideali
per
quel
che
riguarda
il
partito
maggiore
e
di
maggior
governo
;
senza
gli
strumenti
conoscitivi
necessari
per
la
trasformazione
di
uno
Stato
diventato
anacronistico
,
per
quel
che
riguarda
i
partiti
e
i
movimenti
della
sinistra
(
che
non
possono
pretendere
di
trasformare
il
mondo
,
secondo
il
vecchio
detto
di
Marx
,
se
non
dopo
averlo
compreso
)
.
L
'
altra
ragione
per
cui
il
rapporto
fra
intellettuali
e
potere
suscita
tante
discussioni
dipende
dal
fatto
che
non
si
tratta
di
un
rapporto
a
senso
unico
.
Molte
inutili
discussioni
nascono
dallo
scambiare
l
'
analisi
di
questo
rapporto
a
molte
direzioni
con
il
desiderio
che
il
rapporto
sia
quello
che
ciascuno
di
noi
ritiene
giusto
.
Questo
rapporto
cambia
secondo
l
'
idea
che
i
singoli
intellettuali
hanno
della
loro
funzione
nella
società
(
idea
dietro
la
quale
ci
può
essere
addirittura
una
visione
globale
del
mondo
)
,
e
secondo
le
circostanze
storiche
.
C
'
è
chi
esalta
la
vita
contemplativa
in
paragone
a
quella
attiva
e
dispregia
coloro
che
si
perdono
nelle
cure
del
mondo
.
C
'
è
per
contrasto
chi
ritiene
che
l
'
uomo
di
cultura
abbia
il
dovere
di
impegnarsi
nell
'
azione
politica
,
perché
al
di
fuori
della
comunità
ordinata
al
bene
comune
non
c
'
è
salvezza
.
Chi
ha
ragione
e
chi
ha
torto
?
Ci
sono
coloro
che
adoperano
le
armi
proprie
dell
'
intelligenza
(
le
idee
,
le
opinioni
,
le
credenze
,
le
dottrine
,
gl
'
ideali
)
per
combattere
il
potere
costituito
e
naturalmente
per
costituirne
un
altro
che
ritengono
migliore
.
E
ci
sono
per
contrasto
coloro
che
esercitano
la
loro
influenza
per
consolidare
il
governo
del
loro
paese
(
sono
i
cosiddetti
«
organizzatori
del
consenso
»
)
.
Ancora
una
volta
,
chi
ha
ragione
e
chi
ha
torto
?
Ma
si
può
mai
comparare
chi
promuove
il
consenso
per
salvare
uno
Stato
democratico
minacciato
dalla
violenza
eversiva
da
destra
e
da
sinistra
,
uno
Stato
che
ammette
il
dissenso
,
con
chi
si
piega
a
sollecitare
consensi
a
uno
Stato
totalitario
dove
i
dissenzienti
sono
puniti
o
soppressi
?
Sono
domande
retoriche
,
ma
valgono
a
far
capire
che
il
problema
del
rapporto
fra
intellettuali
e
potere
ha
molti
aspetti
e
non
può
avere
una
sola
risposta
,
e
di
conseguenza
la
domanda
così
frequentemente
e
fastidiosamente
ripetuta
quale
debba
essere
la
politica
degl
'
intellettuali
verso
i
partiti
o
dei
partiti
verso
gli
intellettuali
,
è
completamente
priva
di
senso
,
se
non
si
specifica
quali
intellettuali
,
in
quale
contesto
,
e
per
quali
obiettivi
.
Una
cosa
è
certa
(
anche
il
«
seminatore
di
dubbi
»
può
permettersi
talora
di
avere
qualche
certezza
)
:
alla
crisi
politica
generale
che
è
sotto
gli
occhi
di
tutti
-
basti
pensare
che
il
problema
dei
rapporti
Est
-
Ovest
è
ben
lontano
dall
'
essere
risolto
,
e
già
si
pone
con
forza
il
problema
dei
rapporti
Nord
-
Sud
,
la
cui
soluzione
dipende
dalla
soluzione
del
primo
-
,
corrisponde
una
crisi
delle
idee
,
anzi
,
com
'
è
stato
detto
più
volte
,
una
crisi
delle
idee
per
risolvere
la
crisi
.
Di
fronte
alla
quale
noi
ci
teniamo
le
nostre
piccole
e
domestiche
crisi
di
governo
che
,
paragonate
alla
tragicità
dei
conflitti
che
agitano
la
fine
di
questo
nostro
tragico
secolo
,
ci
appaiono
come
zuffe
di
polli
in
una
stia
.
StampaQuotidiana ,
Sulla
caduta
di
tensione
ideale
nella
lotta
politica
in
Italia
in
questi
ultimi
anni
ritengo
non
si
possa
non
essere
d
'
accordo
con
quanto
ha
detto
l
'
on.
Berlinguer
nella
nota
intervista
sulla
«
Repubblica
»
del
28
luglio
.
L
'
argomento
è
stato
opportunamente
ripreso
,
fra
gli
altri
,
da
Antonio
Giolitti
,
il
5
agosto
.
Ma
tanto
Berlinguer
quanto
Giolitti
,
attribuendo
ogni
colpa
ai
partiti
,
o
a
certi
partiti
,
sembrano
volerne
scagionare
gli
italiani
confrontando
il
voto
dato
nei
referendum
con
quello
delle
normali
elezioni
politiche
e
amministrative
.
Per
il
primo
,
col
voto
«
libero
da
ogni
condizionamento
dei
partiti
»
,
che
hanno
espresso
in
occasione
dei
referendum
sul
divorzio
nel
1974
e
sull
'
aborto
nel
1981
,
gli
italiani
avrebbero
fornito
«
l
'
immagine
di
un
paese
liberissimo
e
moderno
»
e
avrebbero
dato
«
un
voto
di
progresso
»
;
il
secondo
si
domanda
:
«
Come
mai
i
governati
,
di
fronte
a
un
referendum
,
mostrano
di
volere
e
sapere
scegliere
,
e
non
altrettanto
di
fronte
a
elezioni
in
cui
competono
i
partiti
?
»
L
'
argomento
non
mi
convince
,
almeno
per
due
ragioni
:
anzitutto
,
perché
nei
vari
referendum
che
si
sono
svolti
sinora
il
risultato
è
stato
la
conservazione
delle
leggi
approvate
in
Parlamento
,
e
quindi
dai
partiti
;
in
secondo
luogo
,
specie
per
quel
che
riguarda
l
'
ultima
tornata
,
il
voto
favorevole
alla
liberalizzazione
dell
'
aborto
non
è
stato
un
voto
di
progresso
ma
semplicemente
di
comodo
(
in
fondo
l
'
aborto
libero
rende
meno
responsabile
la
coppia
nel
rapporto
sessuale
,
specie
l
'
uomo
,
e
una
legge
che
libera
il
cittadino
da
una
responsabilità
non
è
mai
una
legge
progressiva
)
,
per
non
parlare
della
schiacciante
maggioranza
in
favore
dell
'
ergastolo
,
di
cui
non
mi
sento
di
lodare
né
la
sorprendente
modernità
né
l
'
audace
spirito
progressivo
.
Se
gli
italiani
siano
migliori
o
peggiori
della
classe
politica
che
li
rappresenta
,
e
li
rappresenta
perché
essi
stessi
la
scelgono
,
è
una
domanda
cui
è
difficile
dare
una
risposta
.
Ma
non
vedo
come
si
possa
scartare
del
tutto
l
'
ipotesi
che
gli
uni
e
l
'
altra
si
assomiglino
come
due
gocce
d
'
acqua
.
Dopo
più
d
'
un
secolo
di
democrazia
rappresentativa
siamo
troppo
smaliziati
per
conservare
l
'
illusione
dei
primi
fautori
del
sistema
parlamentare
,
che
le
elezioni
dei
governanti
siano
la
procedura
più
adatta
per
la
scelta
dei
migliori
.
Anche
se
non
è
detto
che
sempre
siano
proprio
i
peggiori
a
essere
scelti
.
In
un
regime
democratico
il
potere
si
misura
a
voti
.
Più
voti
significa
più
potere
.
Con
questo
non
voglio
dire
che
bastino
i
voti
,
perché
il
potere
dipende
anche
dal
posto
che
un
partito
occupa
nello
schieramento
dei
partiti
e
nelle
coalizioni
di
maggioranza
,
e
sino
ad
ora
è
indubbio
che
i
partiti
alleati
della
democrazia
cristiana
hanno
avuto
un
potere
superiore
alla
loro
forza
elettorale
.
Ma
i
voti
sono
necessari
.
Ora
,
se
la
maggior
parte
dei
partiti
vanno
a
caccia
di
voti
,
e
li
ottengono
,
e
addirittura
li
aumentano
,
senza
sbandierare
la
questione
morale
,
anzi
facendo
finta
di
niente
e
parlandone
il
meno
possibile
(
e
considerando
con
un
certo
altezzoso
fastidio
coloro
che
ne
parlano
)
,
senza
proclamare
ai
quattro
venti
i
loro
ideali
(
posto
che
ne
abbiano
)
,
ma
promettendo
posti
,
miglioramenti
economici
,
erogazioni
pubbliche
per
faccende
private
,
e
amministrando
saggiamente
la
paura
del
peggio
,
è
segno
che
conoscono
bene
con
chi
hanno
da
fare
.
Del
resto
,
si
sa
quali
sono
stati
i
principi
ideali
che
hanno
presieduto
sin
dall
'
origine
alla
formazione
di
un
partito
dei
cattolici
:
la
difesa
di
alcuni
valori
cristiani
minacciati
dall
'
inarrestabile
e
forse
inevitabile
processo
di
secolarizzazione
che
accompagna
lo
sviluppo
delle
società
industriali
.
Strano
,
ma
le
sole
due
volte
che
la
democrazia
cristiana
ha
difeso
con
fermezza
questi
principi
ideali
,
in
occasione
dei
due
referendum
sul
divorzio
e
sull
'
aborto
,
è
rimasta
in
minoranza
.
Le
uniche
due
grandi
battaglie
perdute
dal
partito
dei
cattolici
sono
quelle
in
cui
ha
messo
in
gioco
la
sua
grande
forza
elettorale
in
difesa
di
principi
.
Quale
miglior
prova
che
i
principi
non
rendono
?
Ma
si
può
sapere
perché
non
rendono
?
In
fondo
mi
pare
che
anche
per
il
partito
comunista
si
possa
fare
lo
stesso
ragionamento
.
Il
grande
balzo
in
avanti
è
avvenuto
nel
1975
e
nel
1976
,
quando
il
partito
continuava
a
considerarsi
un
partito
non
solo
marxista
ma
anche
leninista
.
Più
di
un
terzo
degli
italiani
erano
diventati
marxisti
e
leninisti
?
Non
vorrei
sbagliare
,
ma
mi
parrebbe
lecito
affermare
che
per
la
maggior
parte
di
coloro
che
hanno
votato
il
partito
comunista
i
grandi
ideali
del
marxismo
abbiano
avuto
la
stessa
forza
di
attrazione
che
i
principi
evangelici
per
la
democrazia
cristiana
.
Si
grida
agli
scandali
.
Ma
gli
scandali
non
sono
una
prerogativa
della
classe
politica
.
Abbiamo
già
dimenticato
i
casi
clamorosi
di
corruzione
nello
sport
nazionale
,
il
calcio
?
E
non
abbiamo
assistito
in
questa
circostanza
allo
stesso
fenomeno
di
fedeltà
al
proprio
gruppo
che
fa
dire
(
ahimè
,
con
orgoglio
)
:
«
Torto
o
ragione
,
è
la
mia
patria
»
?
Torto
o
ragione
,
è
la
mia
squadra
,
torto
o
ragione
,
è
il
mio
partito
.
E
che
dire
degli
scandali
di
cui
sono
state
protagoniste
talune
istituzioni
bancarie
,
scandali
che
hanno
gettato
il
discredito
su
istituzioni
che
dovrebbero
fondare
il
loro
potere
e
il
loro
prestigio
sulla
loro
credibilità
?
Naturalmente
,
per
l
'
onore
di
una
nazione
è
offesa
meno
grave
,
più
sopportabile
,
un
calciatore
corrotto
che
un
politico
corrotto
o
sospettato
di
corruzione
.
Ma
la
gente
ci
è
abituata
.
Una
vecchia
diffidenza
per
la
politica
e
per
chi
fa
della
politica
il
proprio
mestiere
,
dà
per
ammesso
e
scontato
che
il
politico
sia
più
un
profittatore
che
un
idealista
.
Sono
riflessioni
amare
,
lo
so
,
che
qualcuno
potrebbe
considerare
anche
ingiuste
.
Ma
è
meglio
guardarsi
in
faccia
e
vedere
la
questione
da
tutti
i
lati
,
dall
'
alto
e
dal
basso
,
dal
diritto
e
dal
rovescio
.
Non
già
che
l
'
Italia
sia
un
paese
,
com
'
è
stato
spesso
rappresentato
,
soltanto
di
cinici
o
di
conformisti
.
Ci
sono
grandi
energie
morali
,
di
cui
ci
rendiamo
conto
nella
nostra
vita
di
tutti
i
giorni
.
Ma
nella
vita
politica
stentano
a
farsi
luce
.
Certo
,
sarebbe
compito
di
una
classe
politica
degna
di
questo
nome
risvegliarle
là
dove
sono
assopite
,
suscitarle
là
dove
si
sono
spente
,
aiutarle
a
esprimersi
,
a
riconoscersi
,
ad
acquistare
coscienza
della
propria
funzione
non
solo
nella
vita
privata
ma
anche
nella
pubblica
.
Fare
emergere
le
nostre
virtù
anziché
blandire
i
nostri
difetti
.
Ma
forse
chiediamo
troppo
.
Eppure
abbiamo
la
convinzione
profonda
che
una
democrazia
può
essere
uccisa
dalla
violenza
esterna
,
ma
muore
anche
per
interna
consunzione
.
StampaQuotidiana ,
La
recente
ristampa
delle
opere
principali
di
Gaetano
Mosca
(
Scritti
politici
,
a
cura
di
Giorgio
Sola
,
2
voll
.
,
Utet
,
Torino
1982
)
potrà
richiamare
l
'
attenzione
del
lettore
di
oggi
sulla
critica
del
sistema
parlamentare
di
un
secolo
fa
,
di
cui
Mosca
fu
uno
dei
più
autorevoli
rappresentanti
.
Dopo
aver
affermato
che
le
istituzioni
politiche
debbono
essere
tali
da
non
porre
gli
uomini
nella
condizione
di
perseguire
soltanto
il
proprio
interesse
a
danno
del
senso
morale
,
osserva
che
il
sistema
parlamentare
«
è
congegnato
in
modo
da
riuscire
una
generale
e
sistematica
contraddizione
di
questa
massima
»
.
Segue
il
commento
:
«
Tutti
in
esso
,
dal
più
alto
al
più
basso
,
dal
ministro
all
'
elettore
,
trovano
il
loro
privato
interesse
nel
tradire
quegli
interessi
pubblici
che
loro
sono
affidati
.
Tutti
devono
,
per
farsi
avanti
e
sostenersi
,
favorire
gli
aderenti
e
gli
amici
a
scapito
del
buon
andamento
degli
affari
,
della
coscienza
e
della
giustizia
»
.
E
poco
più
avanti
:
«
Procedendo
così
siamo
ridotti
a
tale
che
ormai
,
in
molti
rami
della
pubblica
azienda
,
non
si
può
più
avere
a
che
fare
col
governo
usando
dei
soli
modi
onesti
e
legali
,
e
bisogna
fare
il
camorrista
se
non
si
vuol
subire
un
atto
di
camorra
»
.
E
proprio
il
caso
di
dire
:
nulla
di
nuovo
sotto
il
sole
.
Non
si
rendeva
conto
il
giovane
Mosca
(
quando
scrisse
quelle
pagine
aveva
venticinque
anni
)
che
il
male
lamentato
ineriva
al
sistema
democratico
in
quanto
tale
,
più
specificamente
al
sistema
della
democrazia
rappresentativa
,
ovvero
al
regime
in
cui
il
potere
di
prendere
le
decisioni
collettive
spetta
ai
rappresentanti
del
popolo
e
il
diritto
di
rappresentare
il
popolo
dipende
dal
beneplacito
degli
elettori
:
se
la
caccia
al
favore
dell
'
elettore
da
parte
del
deputato
era
un
male
,
era
un
male
necessario
e
,
chi
sa
,
rispetto
ad
altri
sistemi
politici
,
un
male
minore
.
Però
l
'
amarezza
di
Mosca
e
di
tutti
gli
altri
critici
del
sistema
parlamentare
era
perfettamente
spiegabile
con
la
delusione
che
la
pratica
quotidiana
aveva
in
loro
suscitato
rispetto
alle
speranze
delle
origini
.
Alla
fine
del
Settecento
,
uno
dei
maggiori
scrittori
politici
americani
,
James
Madison
,
aveva
esaltato
lo
Stato
rappresentativo
che
stava
facendo
le
prime
prove
negli
Stati
Uniti
,
sostenendo
che
la
delega
dell
'
azione
governativa
a
un
piccolo
numero
di
cittadini
eletto
dagli
altri
avrebbe
dato
vita
a
«
un
corpo
scelto
di
cittadini
,
la
cui
provata
saggezza
avrebbe
potuto
meglio
discernere
l
'
interesse
effettivo
del
proprio
paese
,
e
il
cui
patriottismo
e
la
cui
sete
di
giustizia
avrebbe
reso
meno
probabile
che
si
sacrificasse
il
bene
del
paese
a
considerazioni
particolarissime
e
transitorie
»
.
Occorre
anche
aggiungere
che
i
costituenti
del
tempo
non
si
erano
affidati
soltanto
alla
presunta
lungimiranza
degli
elettori
:
infatti
,
come
si
poteva
credere
sul
serio
che
il
cittadino
chiamato
a
scegliere
chi
avrebbe
dovuto
decidere
per
lui
non
scegliesse
la
persona
o
il
partito
da
cui
poteva
trarre
il
maggior
tornaconto
?
Giacché
non
era
possibile
che
l
'
elettore
rinunciasse
a
fare
richieste
interessate
,
non
vi
era
altro
rimedio
che
quello
di
imporre
all
'
eletto
di
non
tenerne
conto
.
Così
fu
formulato
e
fatto
valere
il
principio
,
passato
alla
storia
col
nome
di
«
divieto
di
mandato
imperativo
»
,
secondo
cui
gli
eletti
avrebbero
dovuto
prendere
le
decisioni
di
cui
erano
investiti
nel
solo
interesse
della
nazione
in
generale
,
ad
onta
delle
richieste
particolaristiche
e
campanilistiche
(
oggi
si
direbbe
corporative
e
clientelari
)
di
coloro
che
li
avevano
mandati
col
loro
voto
in
Parlamento
.
Nella
Costituzione
francese
del
1791
fu
introdotto
il
seguente
articolo
:
«
I
rappresentanti
nominati
nei
dipartimenti
non
saranno
rappresentanti
di
un
dipartimento
particolare
,
ma
dell
'
intera
nazione
,
e
non
potrà
essere
dato
loro
alcun
mandato
»
.
Con
l
'
introduzione
e
l
'
applicazione
di
questa
regola
generale
(
una
delle
vere
e
proprie
regole
del
gioco
della
democrazia
rappresentativa
)
si
voleva
che
la
rappresentanza
parlamentare
non
riproducesse
più
gl
'
inconvenienti
della
tradizionale
rappresentanza
corporativa
,
in
base
alla
quale
chi
riceve
la
delega
a
rappresentare
la
propria
corporazione
deve
fare
esclusivamente
gl
'
interessi
di
questa
,
e
s
'
imponeva
un
vincolo
formale
alla
naturale
tendenza
dell
'
eletto
ad
accaparrarsi
i
favori
di
coloro
da
cui
dipende
la
sua
elezione
,
cui
corrisponde
la
tendenza
altrettanto
naturale
dell
'
elettore
a
scegliere
il
candidato
più
disposto
a
proteggerlo
.
Da
allora
,
il
principio
è
diventato
un
elemento
fondamentale
della
democrazia
rappresentativa
.
Per
restare
in
casa
nostra
lo
Statuto
albertino
stabiliva
che
:
i
deputati
rappresentano
la
nazione
in
generale
e
non
le
sole
province
in
cui
furono
eletti
,
Nessun
mandato
imperativo
può
loro
darsi
dagli
elettori
»
(
art.
41
)
;
la
Costituzione
repubblicana
ripete
:
«
Ogni
membro
del
Parlamento
rappresenta
la
nazione
ed
esercita
le
sue
funzioni
senza
vincolo
di
mandato
»
(
art.
67
)
.
Mai
divieto
è
stato
più
trasgredito
.
Non
si
capisce
neppure
come
avrebbe
potuto
essere
rispettato
,
anzitutto
perché
l
'
interesse
nazionale
ciascuno
l
'
interpreta
a
suo
modo
e
ogni
partito
crede
,
magari
anche
in
buona
fede
,
che
l
'
interesse
del
partito
coincida
con
l
'
interesse
della
nazione
,
e
poi
perché
nella
gara
elettorale
viene
premiato
in
genere
il
rappresentante
o
il
partito
che
si
è
preoccupato
non
tanto
dell
'
interesse
nazionale
quanto
di
quello
dei
propri
clienti
.
Il
divieto
di
mandato
imperativo
è
una
regola
senza
sanzione
.
Anzi
,
l
'
unica
sanzione
temibile
per
il
rappresentante
o
il
partito
è
quella
che
viene
dalla
trasgressione
della
regola
opposta
,
dalla
regola
cioè
che
impone
,
o
per
lo
meno
consiglia
,
di
soddisfare
il
più
possibile
le
richieste
dei
propri
elettori
.
Elettori
ed
eletti
sono
legati
a
filo
doppio
.
Il
loro
rapporto
è
un
rapporto
di
«
do
ut
des
»
,
un
vero
e
proprio
rapporto
di
scambio
,
in
cui
l
'
uno
col
proprio
voto
attribuisce
all
'
altro
un
potere
da
cui
si
aspetta
un
beneficio
e
l
'
altro
dispensa
un
beneficio
da
cui
si
aspetta
il
consenso
.
Forzando
,
ma
non
troppo
,
l
'
analogia
tra
lo
scambio
politico
e
lo
scambio
economico
,
si
può
dire
che
l
'
elettore
è
un
produttore
e
l
'
eletto
un
consumatore
di
potere
,
e
inversamente
l
'
elettore
è
un
produttore
e
l
'
eletto
un
consumatore
di
consenso
.
L
'
idea
,
del
resto
non
nuova
,
che
la
democrazia
possa
essere
paragonata
a
un
grande
e
libero
mercato
la
cui
merce
principale
è
il
voto
non
è
esaltante
.
Ma
è
da
tener
sempre
presente
per
capire
il
comportamento
degli
uomini
politici
specie
nell
'
imminenza
di
elezioni
.
Come
il
mercato
economico
,
anche
il
mercato
politico
sfugge
a
ogni
controllo
che
si
voglia
imporre
dall
'
alto
e
anche
da
questo
punto
di
vista
l
'
analogia
regge
alla
prova
dei
fatti
.
StampaQuotidiana ,
L
'
analogia
tra
mercato
economico
e
mercato
politico
deve
essere
però
presa
con
una
certa
cautela
.
L
'
analogia
è
fondata
sulla
considerazione
che
tra
l
'
elettore
e
l
'
eletto
si
può
configurare
un
rapporto
di
«
do
ut
des
»
,
come
quello
che
avviene
nel
mercato
tra
compratore
e
venditore
.
Ciò
che
l
'
elettore
dà
al
partito
o
alla
persona
cui
concede
il
proprio
voto
è
il
bene
politico
per
eccellenza
,
il
potere
,
ovvero
la
capacità
di
ottenere
effetti
desiderati
.
Ciò
che
egli
si
aspetta
in
cambio
è
che
il
potere
così
conferito
venga
esercitato
a
suo
vantaggio
.
Ma
a
differenza
di
quel
che
avviene
nel
mercato
,
l
'
elettore
non
conosce
in
anticipo
l
'
effetto
della
sua
scelta
,
perché
il
maggiore
o
minor
potere
del
partito
o
del
candidato
cui
ha
dato
il
voto
dipende
anche
dal
maggiore
o
minore
numero
di
voti
che
essi
riceveranno
da
altri
elettori
sui
quali
egli
non
esercita
di
solito
alcuna
influenza
.
In
un
sistema
maggioritario
,
in
cui
dei
due
candidati
in
lizza
l
'
uno
vince
e
l
'
altro
perde
,
chi
vota
per
il
candidato
perdente
ha
scambiato
il
proprio
voto
,
il
bene
che
egli
possiede
come
cittadino
che
gode
dei
diritti
politici
,
con
una
speranza
che
non
si
è
realizzata
.
Ma
anche
in
un
sistema
proporzionale
dove
ogni
voto
va
a
segno
,
il
maggiore
o
minore
effetto
del
mio
voto
come
datore
di
consenso
dipende
da
come
votano
gli
altri
,
cioè
da
una
circostanza
di
cui
ogni
elettore
non
può
avere
che
una
vaga
conoscenza
.
Anche
nel
caso
in
cui
il
voto
contribuisca
a
dare
potere
a
un
partito
o
a
un
candidato
,
non
è
detto
che
il
potere
da
questi
ricevuto
sia
tanto
grande
da
consentire
l
'
esaudimento
delle
domande
poste
dall
'
elettore
.
Superfluo
sottolineare
la
diversa
capacità
di
rispondere
alle
domande
degli
elettori
,
rispettivamente
,
di
un
partito
di
governo
e
di
un
partito
di
opposizione
.
Votando
,
l
'
elettore
non
sa
con
esattezza
in
anticipo
se
il
partito
o
il
candidato
che
egli
vota
farà
parte
del
governo
o
dell
'
opposizione
.
Vota
anche
in
questo
caso
a
suo
rischio
e
pericolo
,
offrendo
l
'
unico
bene
che
ha
nell
'
arena
politica
,
ancora
una
volta
,
per
scambiarlo
con
un
bene
soltanto
sperato
.
Il
rapporto
che
si
viene
instaurando
fra
l
'
elettore
e
l
'
eletto
è
simile
a
quello
di
un
contratto
aleatorio
,
in
cui
a
una
prestazione
certa
da
una
parte
corrisponde
una
prestazione
incerta
dall
'
altra
,
come
avviene
in
una
lotteria
.
(
La
miglior
prova
che
le
elezioni
vengono
percepite
come
una
sorta
di
lotteria
,
sta
nell
'
intensa
curiosità
con
cui
nei
giorni
successivi
al
voto
sono
seguite
le
operazioni
di
spoglio
delle
schede
)
.
L
'
altra
ragione
per
cui
l
'
analogia
del
mercato
politico
non
può
essere
presa
alla
lettera
sta
nella
varietà
e
complessità
delle
motivazioni
di
voto
.
Il
rapporto
tra
elettore
ed
eletto
si
può
assimilare
a
un
rapporto
di
scambio
,
paragonabile
a
quelli
che
avvengono
nel
mercato
,
solo
nel
caso
del
cosiddetto
voto
clientelare
,
nel
caso
cioè
in
cui
tra
elettore
ed
eletto
sia
avvenuta
un
'
intesa
personale
come
quella
che
passa
tra
patrono
e
cliente
,
e
il
primo
abbia
concordato
col
secondo
,
se
pure
sempre
con
un
margine
di
rischio
,
un
beneficio
specifico
,
come
l
'
assegnazione
di
una
pensione
,
di
una
casa
o
di
un
posto
.
Che
poi
il
cliente
sia
,
anziché
un
singolo
individuo
,
un
gruppo
d
'
interesse
che
ottiene
un
favore
economico
in
cambio
di
un
appoggio
politico
,
la
cosa
non
cambia
.
Ma
non
tutti
i
voti
sono
clientelari
.
Gli
studiosi
di
politica
(
mi
riferisco
in
particolare
a
Gianfranco
Pasquino
)
prendono
in
considerazione
,
accanto
al
voto
di
scambio
,
il
voto
di
appartenenza
,
che
è
il
voto
di
chi
si
è
identificato
talmente
in
un
determinato
partito
da
dare
ad
esso
il
proprio
appoggio
indipendentemente
dalle
decisioni
politiche
che
esso
prenderà
e
da
quelle
che
impedirà
,
e
quindi
dall
'
esigenza
di
soddisfare
interessi
individuali
e
specifici
;
e
il
voto
di
opinione
,
che
è
il
voto
dato
a
un
partito
per
una
certa
consonanza
o
concordanza
nelle
vedute
generali
,
nel
programma
globale
di
conservazione
o
di
riforma
,
senza
un
particolare
riguardo
ai
propri
interessi
immediati
.
Di
queste
ultime
due
motivazioni
di
voto
quella
che
si
contrappone
maggiormente
alla
motivazione
derivata
dall
'
interesse
personale
,
è
la
motivazione
che
sottostà
al
voto
di
opinione
.
Il
voto
di
appartenenza
è
per
certi
aspetti
un
voto
di
opinione
(
«
le
idee
del
partito
sono
le
mie
idee
»
)
,
sotto
altri
un
voto
di
scambio
(
«
gl
'
interessi
del
partito
sono
i
miei
stessi
interessi
»
)
.
Ma
entrambi
irrigiditi
:
infatti
,
fra
tutte
le
specie
di
voto
è
quello
più
stabile
.
Chi
vota
comunista
per
solidarietà
di
gruppo
continua
a
votare
pci
quale
che
sia
la
linea
politica
seguita
dai
dirigenti
(
fronte
popolare
,
compromesso
storico
,
alternativa
democratica
)
.
Chi
vota
democristiano
perché
è
cattolico
,
perché
ritiene
,
a
torto
o
a
ragione
,
che
la
democrazia
cristiana
difenda
gl
'
interessi
e
i
principi
dei
cattolici
,
continua
a
concederle
la
propria
fiducia
a
onta
degli
scandali
e
senza
tenere
il
minimo
conto
della
pratica
quotidiana
di
governo
.
Se
si
vuol
capire
perché
nelle
analisi
degli
osservatori
torni
sempre
più
insistentemente
l
'
immagine
del
mercato
politico
,
nonostante
la
varietà
delle
motivazioni
di
voto
,
bisogna
prender
coscienza
del
fatto
che
nelle
democrazie
più
consolidate
,
dove
la
ripetizione
delle
elezioni
rende
sempre
più
stretto
il
rapporto
fra
elettori
ed
eletti
,
si
manifesta
una
chiara
tendenza
alla
diminuzione
del
voto
di
opinione
e
all
'
aumento
del
voto
di
scambio
.
Il
voto
di
opinione
sopravvive
con
maggiore
intensità
nei
piccoli
partiti
che
hanno
minore
capacità
di
soddisfare
interessi
particolari
.
Occorre
se
mai
fare
attenzione
all
'
aumento
delle
astensioni
e
delle
schede
bianche
:
entrambi
gli
atteggiamenti
esprimono
una
vera
e
propria
opinione
.
Tanto
che
qualcuno
ha
potuto
affermare
che
mentre
i
partiti
raccolgono
sempre
più
voti
di
scambio
,
il
voto
di
opinione
si
rifugia
paradossalmente
in
coloro
che
non
vanno
a
votare
o
non
votano
nessuno
dei
partiti
in
gara
.
Queste
osservazioni
,
e
altre
che
si
potrebbero
fare
sulla
«
democrazia
reale
»
,
non
sono
irriverenti
.
Sono
semplicemente
realistiche
.
Servono
a
farci
capire
che
in
crisi
non
è
la
democrazia
ma
una
sua
falsa
immagine
.
StampaQuotidiana ,
La
metafora
del
«
palazzo
»
usata
sempre
più
frequentemente
nel
linguaggio
politico
corrente
,
per
indicare
,
con
intenzione
non
benevola
,
coloro
che
ci
governano
,
richiama
,
per
contrapposizione
,
l
'
analoga
metafora
della
«
piazza
»
,
di
cui
ci
si
serve
,
con
intenzione
parimenti
non
benevola
,
per
indicare
la
moltitudine
di
coloro
che
stanno
fuori
(
in
basso
)
e
non
hanno
altro
potere
che
quello
di
protestare
o
di
applaudire
:
«
analoga
»
,
perché
connota
un
insieme
di
persone
mediante
il
luogo
in
cui
si
trovano
,
come
«
casa
»
per
famiglia
,
«
caserma
»
per
truppa
,
«
castello
»
per
signore
,
«
reggia
»
per
monarca
,
e
,
passando
dal
nome
astratto
al
nome
proprio
,
«
Farnesina
»
per
corpo
diplomatico
italiano
.
A
commento
della
manifestazione
romana
del
marzo
scorso
,
promossa
da
un
sindacato
contro
una
minacciata
riduzione
della
scala
mobile
,
il
«
Corriere
della
Sera
»
intitolò
un
suo
articolo
Il
Parlamento
e
la
«
piazza
»
.
Recentemente
sulla
«
Stampa
»
il
titolo
annunciava
Studenti
in
«
piazza
»
e
nel
sottotitolo
si
leggeva
:
Palazzo
Chigi
risponde
in
tono
pacato
.
Ancor
più
recentemente
«
La
Repubblica
»
ha
dato
l
'
annuncio
che
Carniti
sarebbe
diventato
presidente
della
Rai
in
questo
modo
:
Entra
nel
Palazzo
un
uomo
di
«
piazza
»
.
Per
quanto
la
reiterazione
della
contrapposizione
sia
di
questi
ultimi
anni
(
e
chi
sa
quanti
altri
esempi
se
ne
potrebbero
dare
)
,
dovuta
a
una
celebre
invettiva
di
Pasolini
,
l
'
antitesi
«
palazzo
-
piazza
»
è
antica
e
appartiene
al
linguaggio
politico
tradizionale
.
In
un
articolo
del
primo
fascicolo
della
bella
rivista
dell
'
Istituto
italiano
di
cultura
a
Parigi
,
uscita
in
questi
giorni
col
titolo
«50
,
rue
de
Varenne
»
,
tutto
dedicato
al
tema
della
«
piazza
»
(
anche
se
prevalentemente
dal
punto
di
vista
architettonico
e
quindi
non
nel
suo
significato
metaforico
)
,
mi
cade
sottocchio
un
brano
di
uno
dei
Ricordi
di
Guicciardini
,
in
cui
si
legge
:
«
...
e
spesso
tra
il
palazzo
e
la
piazza
è
una
nebbia
sì
folta
o
un
muro
sì
grosso
che
...
tanto
sa
el
popolo
di
quello
che
fa
chi
governa
o
della
ragione
perché
lo
fa
,
quanto
delle
cose
che
si
fanno
in
India
»
.
Se
una
ricerca
su
questa
contrapposizione
,
soprattutto
sull
'
uso
di
«
piazza
»
nel
suo
significato
politico
,
non
fosse
ancora
stata
fatta
(
ma
non
si
sa
mai
)
,
varrebbe
la
pena
che
un
giovane
volenteroso
vi
si
accingesse
.
Intanto
non
mi
sembra
inopportuna
qualche
osservazione
generale
.
«
Piazza
»
è
uno
di
quei
tanti
termini
che
,
nati
nel
linguaggio
comune
,
diventati
sempre
più
popolari
attraverso
il
linguaggio
dei
giornali
,
possono
offrire
un
interessante
e
nuovo
campo
d
'
indagine
anche
allo
studioso
.
Nelle
espressioni
più
correnti
,
«
manifestazione
o
dimostrazione
di
piazza
»
,
«
scendere
o
andare
in
piazza
»
,
«
fare
appello
alla
piazza
»
,
o
addirittura
proverbiali
,
come
«
pane
in
piazza
e
giustizia
in
palazzo
»
,
la
parola
sta
a
indicare
una
moltitudine
di
persone
che
si
riuniscono
spontaneamente
e
volontariamente
,
o
vengono
convocate
da
chi
ha
voce
per
farsi
ubbidire
,
allo
scopo
di
manifestare
,
secondo
un
diverso
grado
d
'
intensità
,
uno
stato
d
'
animo
,
un
'
opinione
,
una
volontà
politica
,
che
possono
essere
tanto
di
protesta
,
come
avviene
di
solito
nei
regimi
democratici
,
in
cui
uno
dei
diritti
costituzionalmente
garantiti
è
il
diritto
di
riunione
in
pubblico
e
di
libera
manifestazione
del
proprio
pensiero
anche
attraverso
il
mezzo
della
riunione
pacifica
,
quanto
di
consenso
,
com
'
è
avvenuto
nel
nostro
paese
con
le
famose
«
adunate
»
fasciste
di
piazza
Venezia
,
dove
la
moltitudine
vi
confluiva
,
in
parte
di
propria
volontà
,
in
parte
perché
inquadrata
nelle
organizzazioni
di
massa
del
regime
.
Le
due
maggiori
caratteristiche
che
servono
a
definire
la
«
piazza
»
come
fenomeno
politico
sono
,
da
un
lato
,
la
partecipazione
(
o
la
mobilitazione
secondo
i
casi
)
di
un
numero
molto
alto
di
persone
,
e
,
dall
'
altro
,
il
luogo
aperto
della
riunione
.
Sulla
base
di
questi
due
elementi
la
«
piazza
»
si
distingue
da
altre
sedi
di
riunione
a
scopo
di
protesta
o
di
discussione
politica
,
più
ristrette
e
meno
aperte
,
come
il
salotto
o
il
caffè
,
l
'
uno
privato
,
l
'
altro
semipubblico
,
di
cui
soltanto
si
può
disporre
là
dove
le
libertà
civili
non
sono
riconosciute
.
A
differenza
dei
luoghi
dove
si
possono
riunire
soltanto
poche
persone
e
al
chiuso
,
la
«
piazza
»
non
è
sede
di
discussione
,
dove
si
vada
per
dibattere
un
problema
e
decidere
di
conseguenza
.
Coloro
che
vi
confluiscono
lo
fanno
perché
hanno
uno
scopo
comune
,
in
qualche
modo
già
prestabilito
.
Ascoltano
gli
oratori
di
parte
se
si
tratta
di
una
protesta
,
di
una
petizione
,
di
una
rivendicazione
nei
riguardi
dei
signori
del
palazzo
;
oppure
pendono
dalle
labbra
del
grande
demagogo
,
che
fissa
le
mete
,
dà
ordini
,
indica
il
nemico
da
abbattere
negli
avversari
del
governo
,
e
acclamano
.
A
differenza
dell
'
agorà
classica
,
la
«
piazza
»
tanto
nei
regimi
autocratici
,
quanto
nei
regimi
di
democrazia
indiretta
o
rappresentativa
,
non
è
neppure
un
luogo
dove
si
prendano
decisioni
:
le
decisioni
che
contano
o
sono
già
prese
dagli
stessi
partecipanti
(
si
manifesta
perché
si
vuole
un
certo
provvedimento
o
si
contesta
un
provvedimento
già
preso
)
,
oppure
dallo
stesso
dittatore
(
e
la
folla
parla
per
monosillabi
:
«
Sì
»
,
«
No
»
,
«
A
noi
!
»
)
.
In
un
regime
di
democrazia
rappresentativa
,
che
è
quello
che
c
'
interessa
,
la
«
piazza
»
è
la
più
visibile
conseguenza
del
diritto
di
riunione
illimitato
rispetto
al
numero
delle
persone
che
possono
esercitarlo
insieme
e
contemporaneamente
.
Prima
dell
'
avvento
dei
regimi
democratici
la
facoltà
concessa
ai
cittadini
di
riunirsi
per
presentare
petizioni
era
riservata
a
gruppi
di
pochi
,
non
più
di
una
decina
.
Altrimenti
la
riunione
è
illecita
,
ed
è
vietata
come
«
assembramento
»
,
o
peggio
come
«
tumulto
»
,
nei
casi
estremi
come
«
sedizione
»
.
Non
c
'
è
più
esatta
descrizione
di
come
un
accorrere
di
gente
per
protesta
si
trasformi
in
tumulto
che
quella
offertaci
da
Manzoni
nel
capitolo
XII
dei
Promessi
sposi
in
cui
si
comincia
a
parlare
di
«
piazze
»
e
strade
che
«
brulicavano
di
uomini
,
trasportati
da
una
rabbia
comune
,
predominati
da
un
pensiero
comune
,
conoscenti
o
estranei
,
senza
essersi
dati
l
'
intesa
,
quasi
senza
avvedersene
,
come
gocciole
sparse
sullo
stesso
pendio
»
e
si
finisce
con
quel
«
trambusto
»
che
«
andava
sempre
crescendo
»
,
perché
«
tutti
coloro
che
gli
pizzicavan
le
mani
di
far
qualche
bell
'
impresa
,
correvan
là
,
dove
gli
amici
erano
i
più
forti
,
e
l
'
impunità
sicura
»
.
«
Palazzo
»
e
«
piazza
»
sono
due
espressioni
polemiche
per
designare
,
rispettivamente
,
i
governanti
e
i
governati
,
soprattutto
il
loro
rapporto
d
'
incomprensione
reciproca
,
di
estraneità
,
di
rivalità
,
ancora
oggi
,
come
nel
brano
sopracitato
di
Guicciardini
.
E
si
richiamano
a
vicenda
,
negativamente
:
vista
dal
palazzo
la
piazza
è
il
luogo
della
libertà
licenziosa
;
visto
dalla
piazza
il
palazzo
è
il
luogo
dell
'
arbitrio
del
potere
.
Se
cade
l
'
uno
è
destinato
a
cadere
anche
l
'
altro
.
StampaQuotidiana ,
L
'
anno
finisce
nel
nostro
paese
sotto
il
segno
della
violenza
più
abietta
.
Mi
vado
sempre
più
convincendo
che
la
violenza
terroristica
,
specie
quella
rivolta
non
contro
il
personaggio
rappresentativo
di
un
potere
che
si
vuole
abbattere
,
ma
quella
che
si
scatena
contro
una
folla
ignara
,
scelta
a
caso
,
con
assoluta
indifferenza
,
sia
violenza
fine
a
se
stessa
.
La
violenza
per
la
violenza
.
O
per
lo
meno
l
'
enorme
sproporzione
tra
il
mezzo
e
il
fine
è
tale
che
nessuna
persona
ragionevole
riesce
a
far
valere
rispetto
a
tale
atto
la
massima
machiavellica
del
fine
che
giustifica
i
mezzi
.
Questa
massima
fondamentale
dell
'
etica
politica
,
e
non
solamente
dell
'
etica
politica
ma
di
ogni
etica
che
giudica
l
'
azione
,
qualsiasi
azione
,
non
in
base
a
principi
universali
ma
in
base
ai
risultati
,
richiede
per
essere
accettata
tre
condizioni
.
Primo
:
non
qualsiasi
fine
giustifica
qualsiasi
mezzo
.
Il
fine
che
giustifica
il
mezzo
deve
a
sua
volta
essere
giustificato
.
In
altre
parole
,
deve
essere
un
fine
buono
.
Ma
in
base
a
quale
criterio
si
distinguono
i
fini
buoni
dai
fini
cattivi
?
E
chi
giudica
quali
sono
i
fini
buoni
e
i
fini
cattivi
?
La
massima
machiavellica
lascia
questo
problema
completamente
aperto
.
L
'
etica
dei
risultati
rinvia
all
'
etica
dei
principi
in
un
circolo
senza
fine
.
Secondo
:
il
fine
deve
essere
non
solo
in
qualche
modo
giustificabile
ma
anche
con
una
certa
probabilità
raggiungibile
.
Nel
dramma
di
Camus
,
I
giusti
,
uno
dei
protagonisti
,
il
rivoluzionario
,
proclama
:
«
Noi
uccidiamo
per
costruire
un
mondo
ove
più
nessuno
ucciderà
»
,
applicando
la
massima
secondo
cui
il
fine
giustifica
i
mezzi
,
e
annunciando
un
fine
che
non
può
non
essere
universalmente
riconosciuto
come
moralmente
nobile
.
Ma
la
sua
compagna
lo
interrompe
:
«
E
se
così
non
fosse
?
»
Quante
volte
nella
storia
è
stata
compiuta
un
'
azione
moralmente
riprovevole
con
intenzione
di
perseguire
uno
scopo
nobile
,
ma
poi
,
«
non
è
stato
così
»
?
Terzo
:
pure
ammesso
che
il
fine
sia
nobile
,
il
che
vuol
dire
giustificabile
con
argomenti
di
carattere
etico
,
e
raggiungibile
con
una
certa
probabilità
,
il
che
vuol
dire
non
arbitrario
,
non
velleitario
,
non
ingenuamente
utopistico
,
i
mezzi
impiegati
debbono
essere
tali
da
far
presumere
in
base
al
senso
comune
che
siano
adeguati
al
fine
,
e
se
vengono
giudicati
in
base
allo
stesso
senso
comune
immorali
,
siano
anche
i
soli
mezzi
capaci
di
ottenere
quello
scopo
e
pertanto
siano
non
solo
opportuni
ma
anche
rigorosamente
necessari
.
In
un
atto
terroristico
come
quello
compiuto
la
sera
di
domenica
23
dicembre
,
non
si
ritrova
nessuna
di
queste
tre
condizioni
.
Anzitutto
qual
è
il
fine
?
Impossibile
il
giudizio
sulla
bontà
o
non
bontà
del
fine
,
se
non
si
sa
esattamente
quale
sia
il
fine
dichiarato
o
presunto
.
Generalmente
nell
'
atto
di
terrorismo
puro
il
fine
non
è
dichiarato
:
a
differenza
del
terrorista
che
colpisce
un
bersaglio
preciso
,
il
terrorista
il
cui
obiettivo
è
unicamente
quello
di
seminar
panico
in
una
folla
inerme
,
può
rivendicare
il
gesto
ma
non
ne
rivela
mai
lo
scopo
.
Per
dare
un
'
apparenza
di
giustificazione
razionale
a
questa
forma
di
terrorismo
si
è
creduto
,
dalla
strage
di
piazza
Fontana
in
poi
,
che
un
fine
più
o
meno
preciso
ma
reale
esistesse
(
e
in
questo
senso
si
può
parlare
di
fine
presunto
)
e
consistesse
nella
creazione
di
uno
stato
di
cose
cui
è
stato
dato
un
nome
:
destabilizzazione
.
Ma
che
significa
«
destabilizzare
»
?
Si
tratta
di
una
delle
tante
parole
del
linguaggio
politico
che
,
essendo
abitualmente
usate
nella
conversazione
quotidiana
,
si
finisce
di
convincersi
abbiano
un
significato
preciso
,
mentre
non
appena
si
tenta
di
definirle
ci
si
accorge
che
sono
mobili
,
fluide
,
inafferrabili
.
Proviamo
a
intendere
per
«
destabilizzare
»
il
provocare
,
in
una
compagine
sociale
,
uno
stato
di
confusione
tale
da
rendere
praticamente
impossibile
il
normale
funzionamento
di
un
sistema
politico
qualunque
esso
sia
(
non
è
detto
che
solo
i
regimi
democratici
possano
essere
oggetto
di
un
'
azione
destabilizzante
)
.
Ma
questo
fine
è
raggiungibile
?
Che
una
strage
anche
grandissima
,
in
un
solo
punto
del
territorio
nazionale
,
specie
quando
si
tratti
di
un
territorio
vasto
come
quello
italiano
,
possa
avere
conseguenze
tali
da
creare
le
condizioni
per
un
rivolgimento
capace
di
mutare
radicalmente
lo
stato
di
cose
vigente
,
è
poco
credibile
.
Del
resto
le
stragi
sinora
compiute
non
hanno
avuto
altro
esito
che
quello
di
seminare
panico
,
sollevare
indignazione
,
provocare
lutti
le
cui
conseguenze
private
sono
infinitamente
superiori
a
quelle
pubbliche
e
politiche
.
Il
corso
degli
eventi
sarebbe
stato
diverso
nel
nostro
paese
se
le
stragi
non
fossero
avvenute
?
Avremmo
avuto
governi
più
stabili
,
politici
meno
discussi
,
maggiore
o
minore
inflazione
,
maggiore
o
minore
disoccupazione
?
Non
dovrebbe
essere
allora
altrettanto
destabilizzante
un
terremoto
?
In
un
naufragio
non
muoiono
altrettante
vittime
innocenti
?
Ma
se
il
raggiungimento
del
fine
,
anche
di
quello
presunto
,
è
poco
probabile
,
non
si
dovrà
dedurre
che
i
mezzi
(
mi
riferisco
alla
terza
condizione
)
sono
di
per
sé
palesemente
inadeguati
?
Le
interpretazioni
possibili
di
una
simile
azione
sono
due
:
o
l
'
attore
è
irrazionale
oppure
il
mezzo
si
è
convertito
nel
fine
,
non
ha
un
fine
perché
è
esso
stesso
il
fine
.
Riguardo
all
'
azione
del
terrorismo
puro
,
io
propendo
per
questa
seconda
interpretazione
.
L
'
unico
fine
della
strage
è
la
strage
.
So
benissimo
di
correre
sul
filo
del
paradosso
.
Ma
cerco
di
far
capire
e
di
capire
io
stesso
che
vi
sono
azioni
umane
di
fronte
alle
quali
si
può
parlare
di
malvagità
assoluta
.
Se
è
vero
,
come
io
credo
sia
vero
,
che
la
moralità
assoluta
consista
nel
fare
il
bene
con
nessun
altro
scopo
che
quello
di
fare
il
bene
,
disinteressatamente
,
la
immoralità
assoluta
dovrà
consistere
nel
compiere
un
'
azione
malvagia
con
nessun
altro
scopo
che
quello
di
fare
il
male
.
Il
terrorista
che
fa
esplodere
la
bomba
in
un
treno
è
perfettamente
consapevole
del
fatto
che
le
vittime
designate
sono
innocenti
.
Non
sono
neppure
suoi
nemici
.
Non
sono
neppure
capri
espiatori
di
un
rito
propiziatorio
compiuto
per
placare
un
dio
irato
.
Sono
cose
vili
,
oggetti
di
nessun
conto
(
e
per
questo
l
'
uno
vale
l
'
altro
)
,
la
cui
distruzione
egli
affida
al
caso
per
mostrare
la
sua
cieca
volontà
di
potenza
,
la
sua
radicale
indifferenza
ad
ogni
fine
che
la
trascenda
.
StampaQuotidiana ,
L
'
impresa
militare
americana
contro
la
Libia
,
presentata
e
giustificata
come
una
risposta
legittima
a
un
atto
di
terrorismo
,
solleva
ancora
una
volta
l
'
eterno
problema
del
rapporto
fra
la
morale
comune
o
il
diritto
,
suo
fratello
minore
,
e
la
violenza
.
Eterno
,
perché
non
mai
risolto
e
probabilmente
insolubile
,
se
è
vero
,
e
io
credo
sia
vero
,
quel
che
diceva
Machiavelli
:
gli
uomini
«
hanno
ed
ebbero
sempre
le
stesse
passioni
»
,
ed
è
quindi
naturale
che
ne
derivino
gli
stessi
effetti
.
La
morale
comune
e
il
diritto
,
suo
fratello
minore
,
condannano
in
linea
di
principio
la
violenza
e
ammettono
che
l
'
unica
violenza
legittima
sia
quella
che
risponde
alla
violenza
dell
'
altro
,
almeno
in
date
circostanze
,
quando
non
è
possibile
diversa
risposta
.
Detto
altrimenti
,
la
violenza
di
un
soggetto
,
individuo
o
gruppo
che
sia
,
in
linea
di
principio
illecita
,
diventa
lecita
quando
in
una
data
situazione
rappresenta
il
solo
rimedio
possibile
alla
violenza
dell
'
altro
.
Illecita
è
la
violenza
dell
'
aggressore
,
o
originaria
,
lecita
la
violenza
di
chi
si
difende
,
o
derivata
.
Ma
in
un
sistema
in
cui
non
esiste
un
giudice
imparziale
al
di
sopra
delle
parti
,
o
se
esiste
non
è
tenuto
in
alcun
conto
,
come
accade
nel
sistema
dei
rapporti
internazionali
,
chi
decide
quale
sia
la
violenza
originaria
e
quale
quella
derivata
?
A
questa
domanda
non
è
difficile
dare
una
risposta
sulla
base
della
lezione
dei
fatti
:
la
violenza
originaria
è
sempre
,
per
ognuno
dei
due
contendenti
,
quella
dell
'
altro
.
Anche
nel
caso
che
l
'
aggressione
sia
venuta
palesemente
da
una
delle
parti
:
basta
considerare
l
'
aggressione
come
una
reazione
preventiva
a
una
violenza
minacciata
.
Gli
americani
bombardano
Tripoli
per
ritorsione
contro
la
bomba
di
Berlino
attribuita
a
Gheddafi
come
mandante
.
In
tal
modo
la
loro
violenza
viene
giustificata
come
derivata
.
Ma
il
terrorista
non
si
trova
affatto
in
imbarazzo
a
replicare
(
ed
è
infatti
un
suo
argomento
abituale
)
che
il
terrorismo
è
l
'
unico
atto
di
guerra
consentito
ai
piccoli
contro
i
grandi
ed
è
quindi
l
'
unica
reazione
possibile
,
ancorché
spietata
(
ma
se
non
fosse
spietata
non
sarebbe
una
risposta
efficace
)
,
alla
prepotenza
di
chi
esercita
ingiustamente
(
almeno
a
suo
giudizio
)
un
enorme
potere
.
Dunque
anche
la
sua
violenza
non
è
,
dal
suo
punto
di
vista
,
originaria
.
Provate
a
cercare
la
violenza
originaria
,
la
violenza
che
in
quanto
originaria
sia
da
considerarsi
sicuramente
illecita
.
Non
la
troverete
.
E
non
la
trovate
,
non
già
perché
non
ci
possa
essere
,
ma
perché
nessuno
dei
due
contendenti
ammetterà
mai
che
originaria
sia
la
propria
,
derivata
l
'
altrui
.
E
un
giudice
esterno
,
e
presumibilmente
imparziale
,
nel
sistema
internazionale
non
esiste
.
Esiste
la
pubblica
opinione
ma
,
come
tutti
possono
constatare
leggendo
i
giornali
in
questi
giorni
,
è
divisa
.
Ed
è
divisa
anche
perché
non
è
in
grado
di
conoscere
esattamente
le
cose
,
come
potrebbe
conoscerle
un
giudice
dopo
aver
esaminato
tutti
i
pro
e
tutti
i
contro
,
e
dopo
aver
avuto
accesso
a
tutte
le
prove
addotte
da
una
parte
e
dall
'
altra
.
Pur
non
dubitando
della
correttezza
del
governo
americano
,
sta
di
fatto
che
,
nel
nostro
caso
,
le
prove
vengono
da
una
sola
delle
parti
in
causa
.
Quel
che
è
peggio
,
siccome
ogni
atto
violento
per
giustificarsi
deve
rinviare
a
un
atto
violento
precedente
,
lo
stato
di
violenza
una
volta
cominciato
(
anche
se
non
si
sa
quando
e
per
colpa
di
chi
sia
davvero
cominciato
)
è
destinato
a
continuare
.
E
nel
continuare
,
la
violenza
cresce
di
intensità
e
di
estensione
.
Avviene
quel
fenomeno
che
si
chiama
«
spirale
»
della
violenza
.
Avviene
per
una
ragione
molto
semplice
:
come
si
legge
in
un
altro
grande
scrittore
politico
del
passato
,
è
naturale
che
chi
è
giudice
nella
propria
causa
sia
indotto
o
dall
'
«
indole
cattiva
»
o
dalle
«
passioni
»
o
dallo
«
spirito
di
vendetta
»
ad
andare
troppo
oltre
nella
reazione
e
a
commettere
a
sua
volta
,
anche
nel
caso
che
la
sua
risposta
sia
legittima
,
un
'
ingiustizia
.
Se
la
reazione
contenuta
nei
limiti
dell
'
entità
dell
'
offesa
è
una
violenza
derivata
,
per
quella
parte
in
cui
eccede
questi
limiti
diventa
originaria
.
In
quanto
originaria
,
può
provocare
una
ritorsione
che
diventa
a
sua
volta
derivata
e
quindi
legittima
.
Anche
il
diritto
penale
interno
stabilisce
che
nella
legittima
difesa
la
reazione
deve
essere
proporzionata
all
'
offesa
.
Ma
nei
rapporti
fra
due
nemici
che
non
riconoscono
al
di
sopra
di
loro
un
potere
comune
,
chi
decide
se
questa
proporzione
vi
sia
stata
?
Siccome
ancora
una
volta
ognuno
dei
due
contendenti
darà
probabilmente
un
giudizio
opposto
,
considerando
proporzionata
la
propria
difesa
,
sproporzionata
quella
dell
'
altro
,
sorgeranno
di
nuovo
ottime
ragioni
da
parte
di
entrambi
per
aggiungere
nuovi
anelli
alla
catena
.
Generalmente
questa
catena
termina
in
un
solo
modo
:
con
la
sconfitta
definitiva
di
una
delle
parti
.
Con
la
vittoria
del
più
forte
.
Poiché
non
si
è
potuto
fare
in
modo
che
quel
che
è
giusto
sia
forte
,
diceva
Pascal
,
si
è
fatto
in
modo
che
quel
che
è
forte
sia
giusto
.
Credo
che
non
sarà
diversa
la
conclusione
dell
'
attuale
conflitto
.
Le
azioni
politiche
si
giudicano
dai
risultati
.
La
legge
morale
non
c
'
entra
.
Il
giudizio
sulle
azioni
politiche
non
le
appartiene
.
Reagan
lo
ha
detto
più
volte
:
il
suo
scopo
è
quello
di
reprimere
e
sopprimere
,
alla
lunga
,
il
terrorismo
medio
-
orientale
.
Rispetto
a
questo
unico
metro
di
giudizio
della
sua
azione
,
è
troppo
presto
per
emettere
un
verdetto
.
Se
vi
sarà
una
recrudescenza
del
terrorismo
,
si
dirà
che
ha
avuto
torto
.
Se
si
attenuerà
o
cesserà
del
tutto
,
si
dirà
che
ha
avuto
ragione
.
Indipendentemente
dal
fatto
che
la
reazione
sia
stata
proporzionata
all
'
offesa
,
ossia
da
ogni
considerazione
di
principio
.
Il
fine
giustifica
i
mezzi
.
Ancora
Machiavelli
:
faccia
un
principe
in
modo
di
vincere
e
i
mezzi
«
saranno
sempre
giudicati
onorevoli
e
da
ciascuno
lodati
»
.