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Il potere in maschera ( Bobbio Norberto , 1984 )
StampaQuotidiana ,
La conclusione dell ' articolo precedente , in cui parlo di un « doppio Stato » a proposito dello Stato neocorporativo , è manifestamente forzata . Nella realtà , e senza forzature , un doppio Stato esiste davvero in Italia , ma non è quello neocorporativo : è lo Stato che deriva dalla sopravvivenza e dalla robusta consistenza di un potere invisibile accanto a quello visibile . Alcuni anni or sono uno studioso americano in un libro tradotto anche in italiano , I confini della legittimazione ( De Donato , Roma ) , per sottolineare l ' estensione del potere occulto negli Stati Uniti negli anni di Nixon , ha usato l ' espressione « the duali State » che corrisponde esattamente al nostro « doppio Stato » . Dei due presunti Stati di una società neocorporativa dicevo che erano entrambi compatibili coi principi fondamentali della democrazia . La stessa cosa non vale quando dei due Stati l ' uno è lo Stato visibile , l ' altro quello invisibile . Lo Stato invisibile è l ' antitesi radicale della democrazia . Si può definire la democrazia ( ed è stata di fatto definita ) nei modi più diversi . Ma non vi è definizione in cui possa mancare l ' elemento caratterizzante della visibilità o della trasparenza del potere . Governo democratico è quello che svolge la propria attività in pubblico , sotto gli occhi di tutti . E deve svolgere la propria attività sotto gli occhi di tutti perché ogni cittadino ha il diritto di essere posto in grado di formarsi una libera opinione sulle decisioni che vengono prese in suo nome . Altrimenti , per quale ragione dovrebbe essere chiamato a recarsi periodicamente alle urne , e su quali basi potrebbe esprimere il proprio voto di approvazione e di condanna ? Che il potere tenda a mettersi la maschera per non farsi riconoscere e per poter svolgere la propria azione lontano da sguardi indiscreti , è una vecchia storia . Questa vecchia storia ha anche un celebre nome che al solo pronunciarlo mette i brividi nella schiena : arcana imperii . Nella sua analisi magistrale del potere Elias Canetti ha scritto : « Il segreto sta nel nucleo più interno del potere » ( Massa e potere , Adelphi , Milano 1981 ) . I padri fondatori della democrazia pretesero di dar vita a una forma di governo che non avesse più maschera , in cui gli arcani del dominio fossero definitivamente aboliti e questo « nucleo interno » distrutto . Molte sono le promesse non mantenute della democrazia reale rispetto alla democrazia ideale . E la graduale sostituzione della rappresentanza degl ' interessi alla rappresentanza politica di cui mi sono occupato nell ' articolo precedente è una di queste . Ma rientra , insieme con altre , nel capitolo generale delle cosiddette « trasformazioni » della democrazia . Il potere occulto , no . Non trasforma la democrazia , la perverte . Non la colpisce più o meno gravemente in uno dei suoi organi vitali , la uccide . Di tutte le promesse non mantenute , è quella che maggiormente ne offende lo spirito , ne devia il corso naturale , ne vanifica lo scopo . Grazie ai risultati ormai noti della Commissione parlamentare d ' inchiesta presieduta dall ' on. Tina Anselmi , ai numerosi documenti resi pubblici , alle dichiarazioni di parlamentari e di personaggi variamente autorevoli , alle inchieste giornalistiche , sappiamo ormai sulla loggia segreta di Licio Gelli molto di più di quello che si venne a sapere in seguito alle perquisizioni nella villa di Arezzo e nell ' ufficio di Castiglion Fibocchi del marzo 1981 . Ma prima di allora io stesso avevo cominciato a parlare , se pure con una espressione che era apparsa eccessiva , di « criptogoverno » ( in un articolo sulla « Stampa » del 23 novembre 1980 ) . Ho ora sott ' occhio la voluminosa e documentata relazione di minoranza dell ' on. Massimo Teodori , del partito radicale , sulla medesima inchiesta . La tesi principale ivi sostenuta , secondo cui la loggia P2 sarebbe stata parte integrante del sistema dei partiti e pertanto debba essere considerata come un effetto diretto della degenerazione partitocratica della democrazia italiana , dalla quale sarebbe derivata una vera e propria dislocazione del potere fuori dalle sedi costituzionalmente riconosciute , si può anche discutere e non accettare integralmente . Ma è da ritenere fuori discussione che la loggia P2 , come rileva giustamente Teodori , abbia esercitato in alcuni momenti della nostra vita nazionale una influenza ben più ampia , profonda , determinante , che una semplice lobby e abbia costituito , per l ' appartenenza degli affiliati alle più alte gerarchie dello Stato e ai più elevati strati della società , alti funzionari , diplomatici , generali , giornalisti , e quel che è ancora più scandaloso , uomini politici di quella che si chiama - oh , ironia dei nomi ! - l ' area democratica del nostro sistema politico , una compiuta organizzazione di potere occulto presso , dietro , sotto ( o sopra ? ) lo Stato . Indipendentemente dalle conseguenze direttamente politiche , che forse non sono da sopravvalutare , la formazione di una simile rete di potere sotterraneo è di per se stessa una vergogna nazionale dalla quale dobbiamo redimerci per poter diventare pienamente credibili come soggetti di un regime democratico nel consesso internazionale . Senza pregiudizi , s ' intende , verso le persone , giacché non tutte sono egualmente responsabili , ma anche senza indulgenze . Non possiamo però fingere di non accorgerci che sin d ' ora ciò che è emerso dalla documentazione è una prova avvilente della mediocrità intellettuale e morale di una parte non piccola della nostra classe dirigente . Le rivelazioni sulla vita di Gelli sono tali da farci restare allibiti ( e inorriditi ) alla scoperta che la maggior parte di coloro che sono entrati volontariamente nella sua cerchia per sottomettersi alla protezione di un uomo che non aveva altro scopo che quello di estendere il proprio potere con qualsiasi mezzo , rendendo in cambio della protezione servigi presuntivamente illeciti per la loro stessa segretezza , siano personaggi quasi tutti di altissimo rango , e nessuno di essi abbia avuto in anni di commerci sospetti con il fondatore della loggia un moto di ribellione , e abbia compiuto un atto di resipiscenza . Sono considerato uno che vede sempre nero , un pessimista cronico . Eppure confesso che non avrei mai immaginato che la vita italiana fosse stata inquinata sino a questo punto , sino al punto in cui non sai se più indignarti della bassa qualità dell ' intrigo o del grande numero delle persone che vi hanno preso parte , per la spudoratezza di chi ha guidato il gioco o per la insensibilità di coloro che l ' hanno accettato , e dei quali molti vengono chiamati nella retorica di rito delle cerimonie ufficiali « servitori dello Stato » . La realtà ha superato questa volta la più catastrofica delle immaginazioni . Lo Stato democratico deve essere ripristinato nella sua integrità . Il potere occulto deve essere snidato ovunque si annidi , inflessibilmente . Non ci possono essere due Stati . Lo Stato italiano è uno solo , quello della Costituzione repubblicana . Al di fuori non c ' è che l ' antistato che deve essere abbattuto cominciando dal tetto ed arrivando , se mai sarà possibile , alle fondamenta .
Perché mai il referendum? ( Bobbio Norberto , 198 )
StampaQuotidiana ,
Per giudicare della bontà di una causa , nulla è meglio che vagliare la maggiore o minore forza degli argomenti che entrambe le parti impiegano per difenderla e dei controargomenti di cui si servono per combattere gli argomenti dell ' avversario . Sgombero subito il campo da un falso argomento addotto ripetutamente dai fautori del « sí » : l ' appello al principio « la legge è eguale per tutti » . Che la legge debba essere eguale per tutti non significa affatto che tutti debbano essere trattati in modo eguale . Sarebbe un ' insensatezza . L ' unico significato certo attribuibile alla massima , che si vede scritta sui frontoni di tutti i tribunali , è che la legge , qualsiasi legge , deve essere applicata imparzialmente a tutti , ricchi e poveri , nobili e plebei . Ciò che la cosiddetta « regola di giustizia » richiede è che siano trattati egualmente gli eguali e disegualmente i diseguali . Sono forse i giudici eguali agli altri cittadini rispetto all ' estensione della responsabilità civile ? Anche i fautori del « sí » riconoscono che non lo sono : qualunque sia l ' esito del voto , la responsabilità dei giudici sarà ad ogni modo diversa da quella dei singoli cittadini . Nell ' attuale disputa la massima non c ' entra assolutamente nulla . L ' invocarla come una buona ragione per indurre a votare « sí » è uno sproposito . Atteniamoci dunque agli argomenti razionali , vale a dire alle ragioni pro o contro , addotte sulla base di giudizi di fatto controllabili , sia rispetto alle premesse sia rispetto alle conseguenze . Nonostante il profluvio di parole che si è rovesciato in questi giorni sui giornali , questi argomenti sono sempre gli stessi . Chi vada a leggere ciò che si scrisse nella primavera del 1986 quando ebbe inizio la campagna per la raccolta delle firme , si renderà conto facilmente di quel che sto dicendo , anche se possono essere cambiati alcuni interlocutori , e identici interlocutori possono oggi sostenere tesi diverse da quelle di ieri . A ragion veduta si può dire che gli argomenti addotti da una parte e dall ' altra ruotano intorno a due temi fondamentali : i ) se il quesito posto sia conforme allo scopo , che sarebbe per i promotori una giustizia più giusta ; 2 ) ammesso che il quesito sia conforme allo scopo , se a sua volta sia conforme allo scopo lo strumento adottato per risolverlo , il referendum . I fautori del « no » sostengono che ci troviamo di fronte a un caso davvero singolare di un metodo sbagliato usato per risolvere una questione mal posta . Sul primo punto alle persone di buon senso è parso sin dall ' inizio incomprensibile perché dal gran mazzo di problemi insoluti relativi alla giustizia si sia estratto il problema della responsabilità civile . Tanto più che due dei proponenti facevano parte del governo , e di governi che non erano mai stati troppo zelanti nel cercare di risolvere gli altri problemi . Sinora i fautori del « sí » non hanno fatto nulla per aiutarci a capire . Attribuire la responsabilità dei malanni della giustizia ai giudici , sarebbe come far ricadere i malanni della scuola sui professori , della sanità sui medici e , perché no ? , tutti i guai del paese soltanto sulla classe politica . Che sia utile ridiscutere il problema della responsabilità civile dei giudici , non è ancora un buon argomento per considerarlo il problema principale , da risolvere prima di tutti gli altri . Si capisce come sia potuto nascere il sospetto che la funzione del referendum fosse unicamente quella di dare una lezione ai giudici troppo inframettenti . Non è il caso di fare il processo alle intenzioni . Ma siamo proprio sicuri che non gli attribuiscano questa funzione la maggior parte dei cittadini che voteranno « sí » ? Giorni fa un tassista , che si accalorava parlandomi di una lite scoppiata tra gruppi rivali di conduttori , mi disse che il Tar aveva dato loro ragione ma gli altri erano ricorsi al Consiglio di Stato . Però , aggiunse , siccome la sentenza sarà emanata dopo il referendum , « se ci danno torto gliela faremo pagare » . Un cittadino , non sprovveduto , riteneva dunque in buona fede che dopo la « valanga » dei « sí » , chi ha torto potrà d ' ora innanzi procedere non per far rivedere la sentenza ma per punire il giudice . Rinunciamo pure a fare il processo alle intenzioni dei promotori . Ma non siamo del tutto tranquilli sulle intenzioni dei bravi cittadini che risponderanno all ' appello del « sí » . Se ne rendono conto coloro che hanno variamente contribuito a costruire questa macchina di guerra contro la magistratura italiana ? E rendendosene conto , che cosa rispondono ? Quanto al secondo punto , l ' idoneità del referendum come strumento , l ' argomento contrario è fortissimo . All ' argomento secondo cui il problema della responsabilità civile del giudice non può essere risolto con un « sí » e con un « no » , non può essere data nessuna risposta convincente , tanto è vero che neppure i fautori del « sí » cercano di darla . Dopo l ' abrogazione tutti sanno che bisognerà ricominciare da capo . Il solo argomento addotto dai promotori è stato che lo scopo del referendum non era quello di decidere ciò che un referendum non può decidere ma quello di « stimolare » il legislatore a decidere . Che il nostro Parlamento abbia bisogno di stimoli per agire , come un individuo in stato di depressione permanente , è desolante . Ma lasciamo andare . Ora che lo stimolo sembra abbia prodotto il suo effetto , e più o meno tutti , compresa la maggior parte dei magistrati , sono d ' accordo sulla riforma , tanto che nella passata legislatura pareva che il « vuoto » stesse per essere colmato prima che si formasse , che necessità c ' è che la stimolazione continui ? Anche a questa domanda non sono riuscito a trovare che risposte vaghe , forse sarebbe meglio dire nessuna risposta . Il referendum da strumento diventa fine a se stesso . Il referendum per il referendum . Ovvero : perché il referendum ? Perché sì . Concludendo : chi ritiene non sia stata sufficientemente giustificata la scelta del quesito , dovrebbe rispondere « no » . Chi invece ritiene non sia stata sufficientemente giustificata la scelta del mezzo per risolverlo dovrebbe non andare a votare . Chi ritiene che non siano state sufficientemente giustificate entrambe può scegliere di votare « no » o di non votare .
Il paradosso della riforma ( Bobbio Norberto , 1987 )
StampaQuotidiana ,
Da qualche tempo si parla della riforma costituzionale con un fervore senza precedenti . Sono intervenute nel dibattito , forse per la prima volta contemporaneamente , le più alte autorità dello Stato , a cominciare dal presidente della Repubblica , che , con espressione felice , ha auspicato al paese una « democrazia più matura » . La discussione è nata circa una decina d ' anni fa , ha attraversato due legislature , l ' ottava e la nona , e ora si riaffaccia all ' inizio della decima . Sono stati scritti sull ' argomento migliaia di articoli , sono state date migliaia d ' interviste , sono stati pubblicati decine di libri di esperti . Sotto la direzione di Gianfranco Miglio si era costituito alcuni anni fa un gruppo di studio per la « nuova Costituzione » da cui sono usciti nel 1983 tre o quattro volumi molto commentati alla loro apparizione . Per ben due volte si è detto : questa sarà la legislatura della grande riforma . Ora è la terza . Eppure sinora la grande riforma non ha mosso neppure il primo passo . Né la grande né la piccola . Neppure la piccolissima , quella dei regolamenti parlamentari . Perché ? La spiegazione più semplice di cui tutti sono consapevoli ma che fingono d ' ignorare , è la seguente . L ' esigenza di cambiare la Costituzione nasce dalla constatazione , diventata ormai quasi ossessiva , che il nostro sistema politico è inefficiente . Ma è proprio l ' inefficienza del sistema che sinora ha reso difficile , se non impossibile , il cambiamento . La funzione del sistema politico è quella di produrre decisioni ovvero regole imperative per risolvere conflitti d ' interesse fra individui e fra gruppi al fine di renderne possibile la pacifica convivenza . Si dice che un sistema politico funziona bene quando riesce a prendere decisioni opportune nel più breve tempo possibile e con il minor dispendio di energie da parte dei decisori . Sotto questo aspetto il nostro sistema avrebbe dimostrato di non essere un buon sistema . Di qua l ' esigenza di riformarlo sveltendone le procedure . La maggior parte delle proposte sinora fatte convergono verso questo scopo , dalla modificazione del sistema bicamerale alla riforma dei regolamenti delle Camere , dall ' attribuzione di maggiore autorità al presidente del Consiglio al cambiamento della legge elettorale per diminuire il numero dei partiti e rendere meno affollate le coalizioni di governo . Queste proposte per essere attuate debbono trasformarsi in decisioni . Ma chi deve prendere queste decisioni ? Naturalmente gli stessi organi dello Stato di cui si chiede a gran voce la riforma perché decidono male . Con un ' aggravante in più : che le decisioni in materia costituzionale sono regolate da norme che le rendono più difficili . Il paradosso della riforma costituzionale , il paradosso che spiega la paralisi , è tutto qui : per riformare la Costituzione occorrono condizioni , per lo più aggravate , dalla cui mancanza è nata l ' esigenza di riformare la Costituzione . In altre parole , le condizioni che rendono necessaria la riforma sono quelle stesse che sinora l ' hanno resa impossibile . Se la riforma della Costituzione fosse un ' operazione facile , vorrebbe dire che il nostro sistema funziona bene . Ma se funzionasse bene , che bisogno ci sarebbe della riforma ? Siamo in un circolo vizioso , da cui non si sa bene come uscire . Ho voluto forzare un po ' il ragionamento unicamente per mostrare la reale difficoltà dell ' operazione , e per cercare di capire perché , nonostante la montagna di parole , non ne sia venuto fuori in tanti anni neppure il topolino di un fatto concreto . La discussione è ancora ferma ai preliminari : è meglio cominciare dalle grandi riforme e procedere verso le piccole o partire dalle piccole per salire a poco a poco alle grandi ? Conviene dare la precedenza alla Costituzione vera e propria oppure al sistema elettorale ? La prima alternativa sembra ormai risolta : si poteva cominciare dalle piccole riforme subito , ma ora , dopo tanti rinvii e tante aspettative deluse , non si può cominciare se non da qualche azione clamorosa . Dare una risposta alla seconda alternativa è più difficile , perché , se ci sono convergenze rispetto alla prima , rispetto a questa ogni partito va per conto suo e cerca di tirar l ' acqua al proprio mulino . E si capisce : non esiste una procedura elettorale da cui possano trarre vantaggio tutti i partiti . C ' è una sola procedura che a rigore renda a ciascuno il suo ed è la proporzionale pura con il minimo di correttivi . Ma , guarda caso , questa è proprio una delle cause del difetto del sistema per quel che riguarda la sua capacità operativa . Di qua un altro paradosso : il procedimento più equo dal punto di vista del modo di comporre il Parlamento è anche quello meno conveniente dal punto di vista del suo buon funzionamento . Si può mettere il problema anche in questo modo : i due organi più importanti per la formazione delle decisioni sono il Parlamento e il Governo . La proporzionale è la procedura migliore per la composizione del Parlamento che , se deve essere un organo rappresentativo , deve rispecchiare con la massima precisione gli orientamenti del paese . Per la capacità operativa del Governo , invece , occorre la drastica riduzione dei gruppi politici , che si può ottenere soltanto abolendo o correggendo la proporzionale . Queste difficoltà sono sotto gli occhi di tutti . Oggi rese se mai più gravi dal fatto che il naturale inizio di un serio dibattito avrebbe potuto essere una commissione parlamentare . Ma questo espediente è stato ormai bruciato durante la nona legislatura con la Commissione presieduta dall ' on. Bozzi , composta da alcuni dei più bravi giuristi italiani . Il risultato del lavoro della Commissione è stato una bella relazione , diventata rapidamente un documento d ' archivio , se non addirittura carta da macero . Nessuno oggi pensa di proporre la ripetizione della prova . Si parla d ' incontri bilaterali . Ma che cosa s ' intende ? Se s ' intende l ' incontro di un partito , per esempio quello di maggioranza relativa , con i principali partiti di governo e di opposizione , la cosa sarebbe possibile ma non sarebbe giusta . Se s ' intende l ' incontro di ogni partito con tutti gli altri , come si dovrebbe intendere alla lettera , ne verrebbe fuori una bella confusione . Dopo quasi dieci anni insomma sembra che si debba cominciare da capo . Ma ormai non si può più tornare indietro . La grande riforma è diventata una sfida per la nostra classe politica . Una sfida che essa deve vincere se non vuol perdere un ' altra parte della sua credibilità . A furia di fare della Costituzione il capro espiatorio di tutti i guai della repubblica , si è finito per screditarla . Non si può più tornare indietro ma non si può neppure fallire . Il fallimento sarebbe un ulteriore segno della crisi irreversibile del sistema democratico , che solleva più problemi di quelli che sia in grado di risolvere , e non riuscendo a risolvere i piccoli se ne pone di sempre più grandi . Come il giocatore che punta somme via via più alte per rifarsi delle perdite precedenti e alla fine perde tutto : oltre la camicia , anche l ' onore .
Come i polli nella stia ( Bobbio Norberto , 1981 )
StampaQuotidiana ,
Il problema dei rapporti fra intellettuali e potere è un tema ricorrente . In questi giorni si è svolto un convegno su questo tema , in occasione della pubblicazione del quarto volume degli « Annali della storia d ' Italia » einaudiana , intitolato appunto Intellettuali e potere . Nell ' ultima riunione del Comitato centrale Aldo Tortorella , responsabile dell ' organizzazione culturale del pci , ha svolto un ' ampia relazione in cui ripropone il tema del « ruolo delle istituzioni culturali per il rinnovamento e la trasformazione della società e dello Stato » . Si sta svolgendo a Roma un convegno promosso da intellettuali del psi , che dovrebbe concludersi , nientemeno , con « un manifesto per la cultura italiana » . Non sono passati molti giorni dalla conclusione dell ' Assemblea nazionale della dc , provocata o ispirata da uomini di cultura cattolici preoccupati del venir meno della tensione ideale nella lotta politica in Italia , il cui protagonista è da più di trent ' anni un partito che si chiama cristiano . Il tema è ricorrente , perché i rapporti fra politica e cultura sono difficili . All ' atteggiamento di diffidenza del politico per l ' intellettuale corrisponde un analogo atteggiamento di diffidenza dell ' intellettuale per il politico . Alcuni anni fa è stata pubblicata la traduzione italiana del libro di R . Hofstadter , Società e intellettuali in America ( Einaudi , Torino 1968 ) , che , pur riferendosi agli Stati Uniti degli anni del maccartismo , presenta un ' ampia documentazione storica sul tema del conflitto permanente fra l ' uomo politico che ha o crede di avere i piedi per terra e l ' idealista nelle nuvole , accusato di inventare progetti bellissimi ma irrealizzabili . Una versione recentissima e casalinga di questa antica avversione ho colto in un ' intervista pubblicata una settimana fa , in cui il ministro Marcora , volendo tirare le orecchie agli ottimisti , dice a un certo punto : « Sono un uomo pratico , io . Sono un vecchio lombardo , sto in politica da trent ' anni , non sono un intellettuale . Guardo al sodo » . Non ci vuole molta fantasia a immaginare una battuta diametralmente opposta in bocca a un intellettuale : « Sono un uomo che cerca di capire come vanno le cose . Non improvviso , ci penso su . Non sono un politico . Guardo nel fondo » . Proprio perché questi rapporti sono difficili , e sono difficili perché l ' intellettuale e il politico hanno vocazioni , ambizioni , progetti di vita , capacità diverse , e non c ' è gioco di prestigio dialettico che valga a mediare o a superare queste differenze , il problema non si risolve con alternative drastiche come questa : « L ' intellettuale è un seminatore di dubbi » ( così Rosellina Balbi sulla « Repubblica » ) . « No , è un raccoglitore di certezze » ( così , almeno sembra , Sanguineti sull ' « Unità » ) . Per quanto il problema dei rapporti fra intellettuali e potere sia un tema ricorrente , o forse proprio per questo , non è un problema cui si possa dare una soluzione netta una volta per sempre . E non si può almeno per due ragioni . Prima di tutto perché questa benedetta categoria degl ' intellettuali è vasta , varia , divisa , e ogni volta che se ne parla bisogna intendersi bene di che cosa si vuol parlare . In secondo luogo , perché , dato per ammesso che i rapporti tra gli intellettuali ( ma quali intellettuali ? ) e il potere siano difficili , non è affatto detto siano sempre della stessa natura . Alcuni anni fa mi è accaduto di distinguere gl ' intellettuali che ho chiamato « esperti » , da quelli che ho chiamato « ideologi » . Vedo che la distinzione è stata ripresa da Corrado Vivanti , se pure con qualche riserva , nella prefazione al volume degli annali einaudiani dianzi citato . Mi sono accorto dopo che nel notissimo rapporto della Commissione trilaterale sulla crisi della democrazia si distinguono gli intellettuali tecnocrati da quelli « orientati verso i valori » ( « value - oriented » ) : distinzione analoga alla mia , se pure caricata di un giudizio di valore , positivo per i primi , negativo per i secondi , lontanissimo dalle mie intenzioni . La distinzione è rilevante , a mio parere , perché il rapporto fra intellettuali e potere cambia secondo che ci si riferisca agli esperti o agli ideologi . I primi offrono ai politici conoscenze , informazioni , dati elaborati ; i secondi principi , direttive , prospettive di azione . Nella irrequietezza degl ' intellettuali che hanno agitato le acque stagnanti della democrazia cristiana vedo lo stato d ' animo tipico dell ' intellettuale che fa appello ai valori , chiede il ritorno ai principi primi , e inalbera la questione morale ; al contrario , nel rivolgersi , del resto non per la prima volta , del partito comunista agli uomini di cultura , vedo soprattutto l ' interesse che ha questo partito , depositario dei principi che lo hanno fatto nascere e ai quali non può abdicare ( pur potendoli aggiornare ) senza venir meno alla propria funzione di partito - guida , nell ' attrarre a sé uomini esperti nei diversi campi del sapere scientifico . In questi due percorsi contrari dell ' uomo di principi verso un partito prammatico e del partito di principi verso gli esperti , si possono cogliere , da due parti diverse , anzi opposte , i due vizi principali della nostra vita politica : senza alti ideali per quel che riguarda il partito maggiore e di maggior governo ; senza gli strumenti conoscitivi necessari per la trasformazione di uno Stato diventato anacronistico , per quel che riguarda i partiti e i movimenti della sinistra ( che non possono pretendere di trasformare il mondo , secondo il vecchio detto di Marx , se non dopo averlo compreso ) . L ' altra ragione per cui il rapporto fra intellettuali e potere suscita tante discussioni dipende dal fatto che non si tratta di un rapporto a senso unico . Molte inutili discussioni nascono dallo scambiare l ' analisi di questo rapporto a molte direzioni con il desiderio che il rapporto sia quello che ciascuno di noi ritiene giusto . Questo rapporto cambia secondo l ' idea che i singoli intellettuali hanno della loro funzione nella società ( idea dietro la quale ci può essere addirittura una visione globale del mondo ) , e secondo le circostanze storiche . C ' è chi esalta la vita contemplativa in paragone a quella attiva e dispregia coloro che si perdono nelle cure del mondo . C ' è per contrasto chi ritiene che l ' uomo di cultura abbia il dovere di impegnarsi nell ' azione politica , perché al di fuori della comunità ordinata al bene comune non c ' è salvezza . Chi ha ragione e chi ha torto ? Ci sono coloro che adoperano le armi proprie dell ' intelligenza ( le idee , le opinioni , le credenze , le dottrine , gl ' ideali ) per combattere il potere costituito e naturalmente per costituirne un altro che ritengono migliore . E ci sono per contrasto coloro che esercitano la loro influenza per consolidare il governo del loro paese ( sono i cosiddetti « organizzatori del consenso » ) . Ancora una volta , chi ha ragione e chi ha torto ? Ma si può mai comparare chi promuove il consenso per salvare uno Stato democratico minacciato dalla violenza eversiva da destra e da sinistra , uno Stato che ammette il dissenso , con chi si piega a sollecitare consensi a uno Stato totalitario dove i dissenzienti sono puniti o soppressi ? Sono domande retoriche , ma valgono a far capire che il problema del rapporto fra intellettuali e potere ha molti aspetti e non può avere una sola risposta , e di conseguenza la domanda così frequentemente e fastidiosamente ripetuta quale debba essere la politica degl ' intellettuali verso i partiti o dei partiti verso gli intellettuali , è completamente priva di senso , se non si specifica quali intellettuali , in quale contesto , e per quali obiettivi . Una cosa è certa ( anche il « seminatore di dubbi » può permettersi talora di avere qualche certezza ) : alla crisi politica generale che è sotto gli occhi di tutti - basti pensare che il problema dei rapporti Est - Ovest è ben lontano dall ' essere risolto , e già si pone con forza il problema dei rapporti Nord - Sud , la cui soluzione dipende dalla soluzione del primo - , corrisponde una crisi delle idee , anzi , com ' è stato detto più volte , una crisi delle idee per risolvere la crisi . Di fronte alla quale noi ci teniamo le nostre piccole e domestiche crisi di governo che , paragonate alla tragicità dei conflitti che agitano la fine di questo nostro tragico secolo , ci appaiono come zuffe di polli in una stia .
Le gocce d'acqua ( Bobbio Norberto , 1981 )
StampaQuotidiana ,
Sulla caduta di tensione ideale nella lotta politica in Italia in questi ultimi anni ritengo non si possa non essere d ' accordo con quanto ha detto l ' on. Berlinguer nella nota intervista sulla « Repubblica » del 28 luglio . L ' argomento è stato opportunamente ripreso , fra gli altri , da Antonio Giolitti , il 5 agosto . Ma tanto Berlinguer quanto Giolitti , attribuendo ogni colpa ai partiti , o a certi partiti , sembrano volerne scagionare gli italiani confrontando il voto dato nei referendum con quello delle normali elezioni politiche e amministrative . Per il primo , col voto « libero da ogni condizionamento dei partiti » , che hanno espresso in occasione dei referendum sul divorzio nel 1974 e sull ' aborto nel 1981 , gli italiani avrebbero fornito « l ' immagine di un paese liberissimo e moderno » e avrebbero dato « un voto di progresso » ; il secondo si domanda : « Come mai i governati , di fronte a un referendum , mostrano di volere e sapere scegliere , e non altrettanto di fronte a elezioni in cui competono i partiti ? » L ' argomento non mi convince , almeno per due ragioni : anzitutto , perché nei vari referendum che si sono svolti sinora il risultato è stato la conservazione delle leggi approvate in Parlamento , e quindi dai partiti ; in secondo luogo , specie per quel che riguarda l ' ultima tornata , il voto favorevole alla liberalizzazione dell ' aborto non è stato un voto di progresso ma semplicemente di comodo ( in fondo l ' aborto libero rende meno responsabile la coppia nel rapporto sessuale , specie l ' uomo , e una legge che libera il cittadino da una responsabilità non è mai una legge progressiva ) , per non parlare della schiacciante maggioranza in favore dell ' ergastolo , di cui non mi sento di lodare né la sorprendente modernità né l ' audace spirito progressivo . Se gli italiani siano migliori o peggiori della classe politica che li rappresenta , e li rappresenta perché essi stessi la scelgono , è una domanda cui è difficile dare una risposta . Ma non vedo come si possa scartare del tutto l ' ipotesi che gli uni e l ' altra si assomiglino come due gocce d ' acqua . Dopo più d ' un secolo di democrazia rappresentativa siamo troppo smaliziati per conservare l ' illusione dei primi fautori del sistema parlamentare , che le elezioni dei governanti siano la procedura più adatta per la scelta dei migliori . Anche se non è detto che sempre siano proprio i peggiori a essere scelti . In un regime democratico il potere si misura a voti . Più voti significa più potere . Con questo non voglio dire che bastino i voti , perché il potere dipende anche dal posto che un partito occupa nello schieramento dei partiti e nelle coalizioni di maggioranza , e sino ad ora è indubbio che i partiti alleati della democrazia cristiana hanno avuto un potere superiore alla loro forza elettorale . Ma i voti sono necessari . Ora , se la maggior parte dei partiti vanno a caccia di voti , e li ottengono , e addirittura li aumentano , senza sbandierare la questione morale , anzi facendo finta di niente e parlandone il meno possibile ( e considerando con un certo altezzoso fastidio coloro che ne parlano ) , senza proclamare ai quattro venti i loro ideali ( posto che ne abbiano ) , ma promettendo posti , miglioramenti economici , erogazioni pubbliche per faccende private , e amministrando saggiamente la paura del peggio , è segno che conoscono bene con chi hanno da fare . Del resto , si sa quali sono stati i principi ideali che hanno presieduto sin dall ' origine alla formazione di un partito dei cattolici : la difesa di alcuni valori cristiani minacciati dall ' inarrestabile e forse inevitabile processo di secolarizzazione che accompagna lo sviluppo delle società industriali . Strano , ma le sole due volte che la democrazia cristiana ha difeso con fermezza questi principi ideali , in occasione dei due referendum sul divorzio e sull ' aborto , è rimasta in minoranza . Le uniche due grandi battaglie perdute dal partito dei cattolici sono quelle in cui ha messo in gioco la sua grande forza elettorale in difesa di principi . Quale miglior prova che i principi non rendono ? Ma si può sapere perché non rendono ? In fondo mi pare che anche per il partito comunista si possa fare lo stesso ragionamento . Il grande balzo in avanti è avvenuto nel 1975 e nel 1976 , quando il partito continuava a considerarsi un partito non solo marxista ma anche leninista . Più di un terzo degli italiani erano diventati marxisti e leninisti ? Non vorrei sbagliare , ma mi parrebbe lecito affermare che per la maggior parte di coloro che hanno votato il partito comunista i grandi ideali del marxismo abbiano avuto la stessa forza di attrazione che i principi evangelici per la democrazia cristiana . Si grida agli scandali . Ma gli scandali non sono una prerogativa della classe politica . Abbiamo già dimenticato i casi clamorosi di corruzione nello sport nazionale , il calcio ? E non abbiamo assistito in questa circostanza allo stesso fenomeno di fedeltà al proprio gruppo che fa dire ( ahimè , con orgoglio ) : « Torto o ragione , è la mia patria » ? Torto o ragione , è la mia squadra , torto o ragione , è il mio partito . E che dire degli scandali di cui sono state protagoniste talune istituzioni bancarie , scandali che hanno gettato il discredito su istituzioni che dovrebbero fondare il loro potere e il loro prestigio sulla loro credibilità ? Naturalmente , per l ' onore di una nazione è offesa meno grave , più sopportabile , un calciatore corrotto che un politico corrotto o sospettato di corruzione . Ma la gente ci è abituata . Una vecchia diffidenza per la politica e per chi fa della politica il proprio mestiere , dà per ammesso e scontato che il politico sia più un profittatore che un idealista . Sono riflessioni amare , lo so , che qualcuno potrebbe considerare anche ingiuste . Ma è meglio guardarsi in faccia e vedere la questione da tutti i lati , dall ' alto e dal basso , dal diritto e dal rovescio . Non già che l ' Italia sia un paese , com ' è stato spesso rappresentato , soltanto di cinici o di conformisti . Ci sono grandi energie morali , di cui ci rendiamo conto nella nostra vita di tutti i giorni . Ma nella vita politica stentano a farsi luce . Certo , sarebbe compito di una classe politica degna di questo nome risvegliarle là dove sono assopite , suscitarle là dove si sono spente , aiutarle a esprimersi , a riconoscersi , ad acquistare coscienza della propria funzione non solo nella vita privata ma anche nella pubblica . Fare emergere le nostre virtù anziché blandire i nostri difetti . Ma forse chiediamo troppo . Eppure abbiamo la convinzione profonda che una democrazia può essere uccisa dalla violenza esterna , ma muore anche per interna consunzione .
Mercato politico ( Bobbio Norberto , 1983 )
StampaQuotidiana ,
La recente ristampa delle opere principali di Gaetano Mosca ( Scritti politici , a cura di Giorgio Sola , 2 voll . , Utet , Torino 1982 ) potrà richiamare l ' attenzione del lettore di oggi sulla critica del sistema parlamentare di un secolo fa , di cui Mosca fu uno dei più autorevoli rappresentanti . Dopo aver affermato che le istituzioni politiche debbono essere tali da non porre gli uomini nella condizione di perseguire soltanto il proprio interesse a danno del senso morale , osserva che il sistema parlamentare « è congegnato in modo da riuscire una generale e sistematica contraddizione di questa massima » . Segue il commento : « Tutti in esso , dal più alto al più basso , dal ministro all ' elettore , trovano il loro privato interesse nel tradire quegli interessi pubblici che loro sono affidati . Tutti devono , per farsi avanti e sostenersi , favorire gli aderenti e gli amici a scapito del buon andamento degli affari , della coscienza e della giustizia » . E poco più avanti : « Procedendo così siamo ridotti a tale che ormai , in molti rami della pubblica azienda , non si può più avere a che fare col governo usando dei soli modi onesti e legali , e bisogna fare il camorrista se non si vuol subire un atto di camorra » . E proprio il caso di dire : nulla di nuovo sotto il sole . Non si rendeva conto il giovane Mosca ( quando scrisse quelle pagine aveva venticinque anni ) che il male lamentato ineriva al sistema democratico in quanto tale , più specificamente al sistema della democrazia rappresentativa , ovvero al regime in cui il potere di prendere le decisioni collettive spetta ai rappresentanti del popolo e il diritto di rappresentare il popolo dipende dal beneplacito degli elettori : se la caccia al favore dell ' elettore da parte del deputato era un male , era un male necessario e , chi sa , rispetto ad altri sistemi politici , un male minore . Però l ' amarezza di Mosca e di tutti gli altri critici del sistema parlamentare era perfettamente spiegabile con la delusione che la pratica quotidiana aveva in loro suscitato rispetto alle speranze delle origini . Alla fine del Settecento , uno dei maggiori scrittori politici americani , James Madison , aveva esaltato lo Stato rappresentativo che stava facendo le prime prove negli Stati Uniti , sostenendo che la delega dell ' azione governativa a un piccolo numero di cittadini eletto dagli altri avrebbe dato vita a « un corpo scelto di cittadini , la cui provata saggezza avrebbe potuto meglio discernere l ' interesse effettivo del proprio paese , e il cui patriottismo e la cui sete di giustizia avrebbe reso meno probabile che si sacrificasse il bene del paese a considerazioni particolarissime e transitorie » . Occorre anche aggiungere che i costituenti del tempo non si erano affidati soltanto alla presunta lungimiranza degli elettori : infatti , come si poteva credere sul serio che il cittadino chiamato a scegliere chi avrebbe dovuto decidere per lui non scegliesse la persona o il partito da cui poteva trarre il maggior tornaconto ? Giacché non era possibile che l ' elettore rinunciasse a fare richieste interessate , non vi era altro rimedio che quello di imporre all ' eletto di non tenerne conto . Così fu formulato e fatto valere il principio , passato alla storia col nome di « divieto di mandato imperativo » , secondo cui gli eletti avrebbero dovuto prendere le decisioni di cui erano investiti nel solo interesse della nazione in generale , ad onta delle richieste particolaristiche e campanilistiche ( oggi si direbbe corporative e clientelari ) di coloro che li avevano mandati col loro voto in Parlamento . Nella Costituzione francese del 1791 fu introdotto il seguente articolo : « I rappresentanti nominati nei dipartimenti non saranno rappresentanti di un dipartimento particolare , ma dell ' intera nazione , e non potrà essere dato loro alcun mandato » . Con l ' introduzione e l ' applicazione di questa regola generale ( una delle vere e proprie regole del gioco della democrazia rappresentativa ) si voleva che la rappresentanza parlamentare non riproducesse più gl ' inconvenienti della tradizionale rappresentanza corporativa , in base alla quale chi riceve la delega a rappresentare la propria corporazione deve fare esclusivamente gl ' interessi di questa , e s ' imponeva un vincolo formale alla naturale tendenza dell ' eletto ad accaparrarsi i favori di coloro da cui dipende la sua elezione , cui corrisponde la tendenza altrettanto naturale dell ' elettore a scegliere il candidato più disposto a proteggerlo . Da allora , il principio è diventato un elemento fondamentale della democrazia rappresentativa . Per restare in casa nostra lo Statuto albertino stabiliva che : i deputati rappresentano la nazione in generale e non le sole province in cui furono eletti , Nessun mandato imperativo può loro darsi dagli elettori » ( art. 41 ) ; la Costituzione repubblicana ripete : « Ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato » ( art. 67 ) . Mai divieto è stato più trasgredito . Non si capisce neppure come avrebbe potuto essere rispettato , anzitutto perché l ' interesse nazionale ciascuno l ' interpreta a suo modo e ogni partito crede , magari anche in buona fede , che l ' interesse del partito coincida con l ' interesse della nazione , e poi perché nella gara elettorale viene premiato in genere il rappresentante o il partito che si è preoccupato non tanto dell ' interesse nazionale quanto di quello dei propri clienti . Il divieto di mandato imperativo è una regola senza sanzione . Anzi , l ' unica sanzione temibile per il rappresentante o il partito è quella che viene dalla trasgressione della regola opposta , dalla regola cioè che impone , o per lo meno consiglia , di soddisfare il più possibile le richieste dei propri elettori . Elettori ed eletti sono legati a filo doppio . Il loro rapporto è un rapporto di « do ut des » , un vero e proprio rapporto di scambio , in cui l ' uno col proprio voto attribuisce all ' altro un potere da cui si aspetta un beneficio e l ' altro dispensa un beneficio da cui si aspetta il consenso . Forzando , ma non troppo , l ' analogia tra lo scambio politico e lo scambio economico , si può dire che l ' elettore è un produttore e l ' eletto un consumatore di potere , e inversamente l ' elettore è un produttore e l ' eletto un consumatore di consenso . L ' idea , del resto non nuova , che la democrazia possa essere paragonata a un grande e libero mercato la cui merce principale è il voto non è esaltante . Ma è da tener sempre presente per capire il comportamento degli uomini politici specie nell ' imminenza di elezioni . Come il mercato economico , anche il mercato politico sfugge a ogni controllo che si voglia imporre dall ' alto e anche da questo punto di vista l ' analogia regge alla prova dei fatti .
Quel voto di scambio ( Bobbio Norberto , 1983 )
StampaQuotidiana ,
L ' analogia tra mercato economico e mercato politico deve essere però presa con una certa cautela . L ' analogia è fondata sulla considerazione che tra l ' elettore e l ' eletto si può configurare un rapporto di « do ut des » , come quello che avviene nel mercato tra compratore e venditore . Ciò che l ' elettore dà al partito o alla persona cui concede il proprio voto è il bene politico per eccellenza , il potere , ovvero la capacità di ottenere effetti desiderati . Ciò che egli si aspetta in cambio è che il potere così conferito venga esercitato a suo vantaggio . Ma a differenza di quel che avviene nel mercato , l ' elettore non conosce in anticipo l ' effetto della sua scelta , perché il maggiore o minor potere del partito o del candidato cui ha dato il voto dipende anche dal maggiore o minore numero di voti che essi riceveranno da altri elettori sui quali egli non esercita di solito alcuna influenza . In un sistema maggioritario , in cui dei due candidati in lizza l ' uno vince e l ' altro perde , chi vota per il candidato perdente ha scambiato il proprio voto , il bene che egli possiede come cittadino che gode dei diritti politici , con una speranza che non si è realizzata . Ma anche in un sistema proporzionale dove ogni voto va a segno , il maggiore o minore effetto del mio voto come datore di consenso dipende da come votano gli altri , cioè da una circostanza di cui ogni elettore non può avere che una vaga conoscenza . Anche nel caso in cui il voto contribuisca a dare potere a un partito o a un candidato , non è detto che il potere da questi ricevuto sia tanto grande da consentire l ' esaudimento delle domande poste dall ' elettore . Superfluo sottolineare la diversa capacità di rispondere alle domande degli elettori , rispettivamente , di un partito di governo e di un partito di opposizione . Votando , l ' elettore non sa con esattezza in anticipo se il partito o il candidato che egli vota farà parte del governo o dell ' opposizione . Vota anche in questo caso a suo rischio e pericolo , offrendo l ' unico bene che ha nell ' arena politica , ancora una volta , per scambiarlo con un bene soltanto sperato . Il rapporto che si viene instaurando fra l ' elettore e l ' eletto è simile a quello di un contratto aleatorio , in cui a una prestazione certa da una parte corrisponde una prestazione incerta dall ' altra , come avviene in una lotteria . ( La miglior prova che le elezioni vengono percepite come una sorta di lotteria , sta nell ' intensa curiosità con cui nei giorni successivi al voto sono seguite le operazioni di spoglio delle schede ) . L ' altra ragione per cui l ' analogia del mercato politico non può essere presa alla lettera sta nella varietà e complessità delle motivazioni di voto . Il rapporto tra elettore ed eletto si può assimilare a un rapporto di scambio , paragonabile a quelli che avvengono nel mercato , solo nel caso del cosiddetto voto clientelare , nel caso cioè in cui tra elettore ed eletto sia avvenuta un ' intesa personale come quella che passa tra patrono e cliente , e il primo abbia concordato col secondo , se pure sempre con un margine di rischio , un beneficio specifico , come l ' assegnazione di una pensione , di una casa o di un posto . Che poi il cliente sia , anziché un singolo individuo , un gruppo d ' interesse che ottiene un favore economico in cambio di un appoggio politico , la cosa non cambia . Ma non tutti i voti sono clientelari . Gli studiosi di politica ( mi riferisco in particolare a Gianfranco Pasquino ) prendono in considerazione , accanto al voto di scambio , il voto di appartenenza , che è il voto di chi si è identificato talmente in un determinato partito da dare ad esso il proprio appoggio indipendentemente dalle decisioni politiche che esso prenderà e da quelle che impedirà , e quindi dall ' esigenza di soddisfare interessi individuali e specifici ; e il voto di opinione , che è il voto dato a un partito per una certa consonanza o concordanza nelle vedute generali , nel programma globale di conservazione o di riforma , senza un particolare riguardo ai propri interessi immediati . Di queste ultime due motivazioni di voto quella che si contrappone maggiormente alla motivazione derivata dall ' interesse personale , è la motivazione che sottostà al voto di opinione . Il voto di appartenenza è per certi aspetti un voto di opinione ( « le idee del partito sono le mie idee » ) , sotto altri un voto di scambio ( « gl ' interessi del partito sono i miei stessi interessi » ) . Ma entrambi irrigiditi : infatti , fra tutte le specie di voto è quello più stabile . Chi vota comunista per solidarietà di gruppo continua a votare pci quale che sia la linea politica seguita dai dirigenti ( fronte popolare , compromesso storico , alternativa democratica ) . Chi vota democristiano perché è cattolico , perché ritiene , a torto o a ragione , che la democrazia cristiana difenda gl ' interessi e i principi dei cattolici , continua a concederle la propria fiducia a onta degli scandali e senza tenere il minimo conto della pratica quotidiana di governo . Se si vuol capire perché nelle analisi degli osservatori torni sempre più insistentemente l ' immagine del mercato politico , nonostante la varietà delle motivazioni di voto , bisogna prender coscienza del fatto che nelle democrazie più consolidate , dove la ripetizione delle elezioni rende sempre più stretto il rapporto fra elettori ed eletti , si manifesta una chiara tendenza alla diminuzione del voto di opinione e all ' aumento del voto di scambio . Il voto di opinione sopravvive con maggiore intensità nei piccoli partiti che hanno minore capacità di soddisfare interessi particolari . Occorre se mai fare attenzione all ' aumento delle astensioni e delle schede bianche : entrambi gli atteggiamenti esprimono una vera e propria opinione . Tanto che qualcuno ha potuto affermare che mentre i partiti raccolgono sempre più voti di scambio , il voto di opinione si rifugia paradossalmente in coloro che non vanno a votare o non votano nessuno dei partiti in gara . Queste osservazioni , e altre che si potrebbero fare sulla « democrazia reale » , non sono irriverenti . Sono semplicemente realistiche . Servono a farci capire che in crisi non è la democrazia ma una sua falsa immagine .
Il Palazzo e la Piazza ( Bobbio Norberto , 1986 )
StampaQuotidiana ,
La metafora del « palazzo » usata sempre più frequentemente nel linguaggio politico corrente , per indicare , con intenzione non benevola , coloro che ci governano , richiama , per contrapposizione , l ' analoga metafora della « piazza » , di cui ci si serve , con intenzione parimenti non benevola , per indicare la moltitudine di coloro che stanno fuori ( in basso ) e non hanno altro potere che quello di protestare o di applaudire : « analoga » , perché connota un insieme di persone mediante il luogo in cui si trovano , come « casa » per famiglia , « caserma » per truppa , « castello » per signore , « reggia » per monarca , e , passando dal nome astratto al nome proprio , « Farnesina » per corpo diplomatico italiano . A commento della manifestazione romana del marzo scorso , promossa da un sindacato contro una minacciata riduzione della scala mobile , il « Corriere della Sera » intitolò un suo articolo Il Parlamento e la « piazza » . Recentemente sulla « Stampa » il titolo annunciava Studenti in « piazza » e nel sottotitolo si leggeva : Palazzo Chigi risponde in tono pacato . Ancor più recentemente « La Repubblica » ha dato l ' annuncio che Carniti sarebbe diventato presidente della Rai in questo modo : Entra nel Palazzo un uomo di « piazza » . Per quanto la reiterazione della contrapposizione sia di questi ultimi anni ( e chi sa quanti altri esempi se ne potrebbero dare ) , dovuta a una celebre invettiva di Pasolini , l ' antitesi « palazzo - piazza » è antica e appartiene al linguaggio politico tradizionale . In un articolo del primo fascicolo della bella rivista dell ' Istituto italiano di cultura a Parigi , uscita in questi giorni col titolo «50 , rue de Varenne » , tutto dedicato al tema della « piazza » ( anche se prevalentemente dal punto di vista architettonico e quindi non nel suo significato metaforico ) , mi cade sottocchio un brano di uno dei Ricordi di Guicciardini , in cui si legge : « ... e spesso tra il palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o un muro sì grosso che ... tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa , quanto delle cose che si fanno in India » . Se una ricerca su questa contrapposizione , soprattutto sull ' uso di « piazza » nel suo significato politico , non fosse ancora stata fatta ( ma non si sa mai ) , varrebbe la pena che un giovane volenteroso vi si accingesse . Intanto non mi sembra inopportuna qualche osservazione generale . « Piazza » è uno di quei tanti termini che , nati nel linguaggio comune , diventati sempre più popolari attraverso il linguaggio dei giornali , possono offrire un interessante e nuovo campo d ' indagine anche allo studioso . Nelle espressioni più correnti , « manifestazione o dimostrazione di piazza » , « scendere o andare in piazza » , « fare appello alla piazza » , o addirittura proverbiali , come « pane in piazza e giustizia in palazzo » , la parola sta a indicare una moltitudine di persone che si riuniscono spontaneamente e volontariamente , o vengono convocate da chi ha voce per farsi ubbidire , allo scopo di manifestare , secondo un diverso grado d ' intensità , uno stato d ' animo , un ' opinione , una volontà politica , che possono essere tanto di protesta , come avviene di solito nei regimi democratici , in cui uno dei diritti costituzionalmente garantiti è il diritto di riunione in pubblico e di libera manifestazione del proprio pensiero anche attraverso il mezzo della riunione pacifica , quanto di consenso , com ' è avvenuto nel nostro paese con le famose « adunate » fasciste di piazza Venezia , dove la moltitudine vi confluiva , in parte di propria volontà , in parte perché inquadrata nelle organizzazioni di massa del regime . Le due maggiori caratteristiche che servono a definire la « piazza » come fenomeno politico sono , da un lato , la partecipazione ( o la mobilitazione secondo i casi ) di un numero molto alto di persone , e , dall ' altro , il luogo aperto della riunione . Sulla base di questi due elementi la « piazza » si distingue da altre sedi di riunione a scopo di protesta o di discussione politica , più ristrette e meno aperte , come il salotto o il caffè , l ' uno privato , l ' altro semipubblico , di cui soltanto si può disporre là dove le libertà civili non sono riconosciute . A differenza dei luoghi dove si possono riunire soltanto poche persone e al chiuso , la « piazza » non è sede di discussione , dove si vada per dibattere un problema e decidere di conseguenza . Coloro che vi confluiscono lo fanno perché hanno uno scopo comune , in qualche modo già prestabilito . Ascoltano gli oratori di parte se si tratta di una protesta , di una petizione , di una rivendicazione nei riguardi dei signori del palazzo ; oppure pendono dalle labbra del grande demagogo , che fissa le mete , dà ordini , indica il nemico da abbattere negli avversari del governo , e acclamano . A differenza dell ' agorà classica , la « piazza » tanto nei regimi autocratici , quanto nei regimi di democrazia indiretta o rappresentativa , non è neppure un luogo dove si prendano decisioni : le decisioni che contano o sono già prese dagli stessi partecipanti ( si manifesta perché si vuole un certo provvedimento o si contesta un provvedimento già preso ) , oppure dallo stesso dittatore ( e la folla parla per monosillabi : « Sì » , « No » , « A noi ! » ) . In un regime di democrazia rappresentativa , che è quello che c ' interessa , la « piazza » è la più visibile conseguenza del diritto di riunione illimitato rispetto al numero delle persone che possono esercitarlo insieme e contemporaneamente . Prima dell ' avvento dei regimi democratici la facoltà concessa ai cittadini di riunirsi per presentare petizioni era riservata a gruppi di pochi , non più di una decina . Altrimenti la riunione è illecita , ed è vietata come « assembramento » , o peggio come « tumulto » , nei casi estremi come « sedizione » . Non c ' è più esatta descrizione di come un accorrere di gente per protesta si trasformi in tumulto che quella offertaci da Manzoni nel capitolo XII dei Promessi sposi in cui si comincia a parlare di « piazze » e strade che « brulicavano di uomini , trasportati da una rabbia comune , predominati da un pensiero comune , conoscenti o estranei , senza essersi dati l ' intesa , quasi senza avvedersene , come gocciole sparse sullo stesso pendio » e si finisce con quel « trambusto » che « andava sempre crescendo » , perché « tutti coloro che gli pizzicavan le mani di far qualche bell ' impresa , correvan là , dove gli amici erano i più forti , e l ' impunità sicura » . « Palazzo » e « piazza » sono due espressioni polemiche per designare , rispettivamente , i governanti e i governati , soprattutto il loro rapporto d ' incomprensione reciproca , di estraneità , di rivalità , ancora oggi , come nel brano sopracitato di Guicciardini . E si richiamano a vicenda , negativamente : vista dal palazzo la piazza è il luogo della libertà licenziosa ; visto dalla piazza il palazzo è il luogo dell ' arbitrio del potere . Se cade l ' uno è destinato a cadere anche l ' altro .
La violenza oscura ( Bobbio Norberto , 1984 )
StampaQuotidiana ,
L ' anno finisce nel nostro paese sotto il segno della violenza più abietta . Mi vado sempre più convincendo che la violenza terroristica , specie quella rivolta non contro il personaggio rappresentativo di un potere che si vuole abbattere , ma quella che si scatena contro una folla ignara , scelta a caso , con assoluta indifferenza , sia violenza fine a se stessa . La violenza per la violenza . O per lo meno l ' enorme sproporzione tra il mezzo e il fine è tale che nessuna persona ragionevole riesce a far valere rispetto a tale atto la massima machiavellica del fine che giustifica i mezzi . Questa massima fondamentale dell ' etica politica , e non solamente dell ' etica politica ma di ogni etica che giudica l ' azione , qualsiasi azione , non in base a principi universali ma in base ai risultati , richiede per essere accettata tre condizioni . Primo : non qualsiasi fine giustifica qualsiasi mezzo . Il fine che giustifica il mezzo deve a sua volta essere giustificato . In altre parole , deve essere un fine buono . Ma in base a quale criterio si distinguono i fini buoni dai fini cattivi ? E chi giudica quali sono i fini buoni e i fini cattivi ? La massima machiavellica lascia questo problema completamente aperto . L ' etica dei risultati rinvia all ' etica dei principi in un circolo senza fine . Secondo : il fine deve essere non solo in qualche modo giustificabile ma anche con una certa probabilità raggiungibile . Nel dramma di Camus , I giusti , uno dei protagonisti , il rivoluzionario , proclama : « Noi uccidiamo per costruire un mondo ove più nessuno ucciderà » , applicando la massima secondo cui il fine giustifica i mezzi , e annunciando un fine che non può non essere universalmente riconosciuto come moralmente nobile . Ma la sua compagna lo interrompe : « E se così non fosse ? » Quante volte nella storia è stata compiuta un ' azione moralmente riprovevole con intenzione di perseguire uno scopo nobile , ma poi , « non è stato così » ? Terzo : pure ammesso che il fine sia nobile , il che vuol dire giustificabile con argomenti di carattere etico , e raggiungibile con una certa probabilità , il che vuol dire non arbitrario , non velleitario , non ingenuamente utopistico , i mezzi impiegati debbono essere tali da far presumere in base al senso comune che siano adeguati al fine , e se vengono giudicati in base allo stesso senso comune immorali , siano anche i soli mezzi capaci di ottenere quello scopo e pertanto siano non solo opportuni ma anche rigorosamente necessari . In un atto terroristico come quello compiuto la sera di domenica 23 dicembre , non si ritrova nessuna di queste tre condizioni . Anzitutto qual è il fine ? Impossibile il giudizio sulla bontà o non bontà del fine , se non si sa esattamente quale sia il fine dichiarato o presunto . Generalmente nell ' atto di terrorismo puro il fine non è dichiarato : a differenza del terrorista che colpisce un bersaglio preciso , il terrorista il cui obiettivo è unicamente quello di seminar panico in una folla inerme , può rivendicare il gesto ma non ne rivela mai lo scopo . Per dare un ' apparenza di giustificazione razionale a questa forma di terrorismo si è creduto , dalla strage di piazza Fontana in poi , che un fine più o meno preciso ma reale esistesse ( e in questo senso si può parlare di fine presunto ) e consistesse nella creazione di uno stato di cose cui è stato dato un nome : destabilizzazione . Ma che significa « destabilizzare » ? Si tratta di una delle tante parole del linguaggio politico che , essendo abitualmente usate nella conversazione quotidiana , si finisce di convincersi abbiano un significato preciso , mentre non appena si tenta di definirle ci si accorge che sono mobili , fluide , inafferrabili . Proviamo a intendere per « destabilizzare » il provocare , in una compagine sociale , uno stato di confusione tale da rendere praticamente impossibile il normale funzionamento di un sistema politico qualunque esso sia ( non è detto che solo i regimi democratici possano essere oggetto di un ' azione destabilizzante ) . Ma questo fine è raggiungibile ? Che una strage anche grandissima , in un solo punto del territorio nazionale , specie quando si tratti di un territorio vasto come quello italiano , possa avere conseguenze tali da creare le condizioni per un rivolgimento capace di mutare radicalmente lo stato di cose vigente , è poco credibile . Del resto le stragi sinora compiute non hanno avuto altro esito che quello di seminare panico , sollevare indignazione , provocare lutti le cui conseguenze private sono infinitamente superiori a quelle pubbliche e politiche . Il corso degli eventi sarebbe stato diverso nel nostro paese se le stragi non fossero avvenute ? Avremmo avuto governi più stabili , politici meno discussi , maggiore o minore inflazione , maggiore o minore disoccupazione ? Non dovrebbe essere allora altrettanto destabilizzante un terremoto ? In un naufragio non muoiono altrettante vittime innocenti ? Ma se il raggiungimento del fine , anche di quello presunto , è poco probabile , non si dovrà dedurre che i mezzi ( mi riferisco alla terza condizione ) sono di per sé palesemente inadeguati ? Le interpretazioni possibili di una simile azione sono due : o l ' attore è irrazionale oppure il mezzo si è convertito nel fine , non ha un fine perché è esso stesso il fine . Riguardo all ' azione del terrorismo puro , io propendo per questa seconda interpretazione . L ' unico fine della strage è la strage . So benissimo di correre sul filo del paradosso . Ma cerco di far capire e di capire io stesso che vi sono azioni umane di fronte alle quali si può parlare di malvagità assoluta . Se è vero , come io credo sia vero , che la moralità assoluta consista nel fare il bene con nessun altro scopo che quello di fare il bene , disinteressatamente , la immoralità assoluta dovrà consistere nel compiere un ' azione malvagia con nessun altro scopo che quello di fare il male . Il terrorista che fa esplodere la bomba in un treno è perfettamente consapevole del fatto che le vittime designate sono innocenti . Non sono neppure suoi nemici . Non sono neppure capri espiatori di un rito propiziatorio compiuto per placare un dio irato . Sono cose vili , oggetti di nessun conto ( e per questo l ' uno vale l ' altro ) , la cui distruzione egli affida al caso per mostrare la sua cieca volontà di potenza , la sua radicale indifferenza ad ogni fine che la trascenda .
La catena dei violenti ( Bobbio Norberto , 1986 )
StampaQuotidiana ,
L ' impresa militare americana contro la Libia , presentata e giustificata come una risposta legittima a un atto di terrorismo , solleva ancora una volta l ' eterno problema del rapporto fra la morale comune o il diritto , suo fratello minore , e la violenza . Eterno , perché non mai risolto e probabilmente insolubile , se è vero , e io credo sia vero , quel che diceva Machiavelli : gli uomini « hanno ed ebbero sempre le stesse passioni » , ed è quindi naturale che ne derivino gli stessi effetti . La morale comune e il diritto , suo fratello minore , condannano in linea di principio la violenza e ammettono che l ' unica violenza legittima sia quella che risponde alla violenza dell ' altro , almeno in date circostanze , quando non è possibile diversa risposta . Detto altrimenti , la violenza di un soggetto , individuo o gruppo che sia , in linea di principio illecita , diventa lecita quando in una data situazione rappresenta il solo rimedio possibile alla violenza dell ' altro . Illecita è la violenza dell ' aggressore , o originaria , lecita la violenza di chi si difende , o derivata . Ma in un sistema in cui non esiste un giudice imparziale al di sopra delle parti , o se esiste non è tenuto in alcun conto , come accade nel sistema dei rapporti internazionali , chi decide quale sia la violenza originaria e quale quella derivata ? A questa domanda non è difficile dare una risposta sulla base della lezione dei fatti : la violenza originaria è sempre , per ognuno dei due contendenti , quella dell ' altro . Anche nel caso che l ' aggressione sia venuta palesemente da una delle parti : basta considerare l ' aggressione come una reazione preventiva a una violenza minacciata . Gli americani bombardano Tripoli per ritorsione contro la bomba di Berlino attribuita a Gheddafi come mandante . In tal modo la loro violenza viene giustificata come derivata . Ma il terrorista non si trova affatto in imbarazzo a replicare ( ed è infatti un suo argomento abituale ) che il terrorismo è l ' unico atto di guerra consentito ai piccoli contro i grandi ed è quindi l ' unica reazione possibile , ancorché spietata ( ma se non fosse spietata non sarebbe una risposta efficace ) , alla prepotenza di chi esercita ingiustamente ( almeno a suo giudizio ) un enorme potere . Dunque anche la sua violenza non è , dal suo punto di vista , originaria . Provate a cercare la violenza originaria , la violenza che in quanto originaria sia da considerarsi sicuramente illecita . Non la troverete . E non la trovate , non già perché non ci possa essere , ma perché nessuno dei due contendenti ammetterà mai che originaria sia la propria , derivata l ' altrui . E un giudice esterno , e presumibilmente imparziale , nel sistema internazionale non esiste . Esiste la pubblica opinione ma , come tutti possono constatare leggendo i giornali in questi giorni , è divisa . Ed è divisa anche perché non è in grado di conoscere esattamente le cose , come potrebbe conoscerle un giudice dopo aver esaminato tutti i pro e tutti i contro , e dopo aver avuto accesso a tutte le prove addotte da una parte e dall ' altra . Pur non dubitando della correttezza del governo americano , sta di fatto che , nel nostro caso , le prove vengono da una sola delle parti in causa . Quel che è peggio , siccome ogni atto violento per giustificarsi deve rinviare a un atto violento precedente , lo stato di violenza una volta cominciato ( anche se non si sa quando e per colpa di chi sia davvero cominciato ) è destinato a continuare . E nel continuare , la violenza cresce di intensità e di estensione . Avviene quel fenomeno che si chiama « spirale » della violenza . Avviene per una ragione molto semplice : come si legge in un altro grande scrittore politico del passato , è naturale che chi è giudice nella propria causa sia indotto o dall ' « indole cattiva » o dalle « passioni » o dallo « spirito di vendetta » ad andare troppo oltre nella reazione e a commettere a sua volta , anche nel caso che la sua risposta sia legittima , un ' ingiustizia . Se la reazione contenuta nei limiti dell ' entità dell ' offesa è una violenza derivata , per quella parte in cui eccede questi limiti diventa originaria . In quanto originaria , può provocare una ritorsione che diventa a sua volta derivata e quindi legittima . Anche il diritto penale interno stabilisce che nella legittima difesa la reazione deve essere proporzionata all ' offesa . Ma nei rapporti fra due nemici che non riconoscono al di sopra di loro un potere comune , chi decide se questa proporzione vi sia stata ? Siccome ancora una volta ognuno dei due contendenti darà probabilmente un giudizio opposto , considerando proporzionata la propria difesa , sproporzionata quella dell ' altro , sorgeranno di nuovo ottime ragioni da parte di entrambi per aggiungere nuovi anelli alla catena . Generalmente questa catena termina in un solo modo : con la sconfitta definitiva di una delle parti . Con la vittoria del più forte . Poiché non si è potuto fare in modo che quel che è giusto sia forte , diceva Pascal , si è fatto in modo che quel che è forte sia giusto . Credo che non sarà diversa la conclusione dell ' attuale conflitto . Le azioni politiche si giudicano dai risultati . La legge morale non c ' entra . Il giudizio sulle azioni politiche non le appartiene . Reagan lo ha detto più volte : il suo scopo è quello di reprimere e sopprimere , alla lunga , il terrorismo medio - orientale . Rispetto a questo unico metro di giudizio della sua azione , è troppo presto per emettere un verdetto . Se vi sarà una recrudescenza del terrorismo , si dirà che ha avuto torto . Se si attenuerà o cesserà del tutto , si dirà che ha avuto ragione . Indipendentemente dal fatto che la reazione sia stata proporzionata all ' offesa , ossia da ogni considerazione di principio . Il fine giustifica i mezzi . Ancora Machiavelli : faccia un principe in modo di vincere e i mezzi « saranno sempre giudicati onorevoli e da ciascuno lodati » .