StampaQuotidiana ,
Chi
s
'
era
immaginato
che
le
proteste
degli
abusivi
siciliani
fossero
una
subitanea
esplosione
di
rabbia
,
è
costretto
a
ricredersi
.
A
più
di
un
mese
dalla
marcia
su
Roma
dei
trentamila
,
avvenuta
il
17
febbraio
,
il
movimento
è
passato
dalla
protesta
pacifica
all
'
azione
illegale
di
massa
.
Un
'
azione
che
in
quanto
tale
avrebbe
dovuto
essere
fermamente
condannata
dal
governo
e
dall
'
opposizione
.
Anche
dall
'
opposizione
che
,
sino
a
prova
contraria
,
è
l
'
opposizione
di
uno
Stato
democratico
.
Ciò
che
è
avvenuto
in
Sicilia
è
uno
degli
episodi
più
gravi
,
forse
il
più
grave
,
di
disobbedienza
civile
,
che
il
nostro
paese
abbia
conosciuto
in
questi
quarant
'
anni
.
Oggetto
in
un
primo
tempo
d
'
istigazione
,
cui
non
sono
stati
estranei
alcuni
sindaci
,
la
disobbedienza
è
ora
oggetto
di
una
vera
e
propria
minaccia
,
compiuta
con
azioni
di
continuata
violenza
.
Per
«
disobbedienza
civile
»
s
'
intende
quella
particolare
forma
di
disobbedienza
che
viene
attuata
allo
scopo
immediato
di
mostrare
pubblicamente
che
la
legge
cui
si
dovrebbe
prestare
obbedienza
è
ingiusta
e
allo
scopo
mediato
d
'
indurre
il
governo
a
cambiarla
.
Abitualmente
viene
accompagnata
da
giustificazioni
tali
da
farla
apparire
non
solo
lecita
ma
anche
doverosa
,
e
da
esigere
che
venga
tollerata
,
contrariamente
a
qualsiasi
altra
trasgressione
,
dalle
pubbliche
autorità
.
Si
chiama
«
civile
»
perché
chi
la
compie
ritiene
di
non
venir
meno
al
proprio
dovere
di
cittadino
,
anzi
ritiene
di
comportarsi
da
buon
cittadino
piuttosto
disobbedendo
che
obbedendo
.
Per
questo
suo
carattere
dimostrativo
tende
a
esprimersi
in
pubblico
a
differenza
dalla
disobbedienza
comune
la
quale
per
raggiungere
il
proprio
scopo
deve
nascondersi
.
La
disobbedienza
civile
può
essere
giudicata
da
due
punti
di
vista
:
l
'
uno
strettamente
giuridico
,
l
'
altro
etico
.
Dal
punto
di
vista
dello
stretto
diritto
ogni
forma
di
disobbedienza
è
da
considerarsi
in
generale
illecita
.
La
nostra
Costituzione
stabilisce
all
'
art.
54
che
«
tutti
i
cittadini
hanno
il
dovere
di
essere
fedeli
alla
Repubblica
e
di
osservarne
la
Costituzione
e
le
leggi
»
.
Non
c
'
è
bisogno
di
consultare
un
libro
di
logica
per
rendersi
conto
che
l
'
obbligo
di
osservare
le
leggi
implica
il
divieto
di
non
osservarle
.
A
maggior
ragione
in
un
regime
democratico
.
Nel
quale
ai
cittadini
è
riconosciuto
il
diritto
di
riunirsi
e
di
associarsi
pacificamente
per
protestare
contro
una
legge
che
ritengono
ingiusta
e
impedirne
l
'
approvazione
o
promuoverne
l
'
abrogazione
.
Un
regime
democratico
può
essere
definito
come
quello
in
cui
alla
disobbedienza
civile
,
che
è
l
'
extrema
ratio
cui
possono
ricorrere
i
sudditi
di
un
regime
dispotico
,
si
sostituisce
il
diritto
di
protesta
e
oltre
la
protesta
il
diritto
di
partecipare
direttamente
o
indirettamente
alla
formazione
delle
leggi
.
Dal
diritto
sacrosanto
di
protestare
contro
l
'
emanazione
di
una
legge
non
discende
il
diritto
di
non
osservarla
dopo
che
essa
sia
stata
democraticamente
approvata
.
Così
pure
dal
dovere
di
osservare
una
legge
non
discende
l
'
obbligo
di
rinunciare
a
protestare
affinché
sia
modificata
o
abrogata
.
Vi
sono
due
modi
per
reagire
a
una
legge
che
si
considera
ingiusta
:
la
protesta
e
la
disobbedienza
.
In
un
regime
dispotico
sono
proibiti
tutti
e
due
.
In
un
regime
democratico
è
ammesso
il
primo
e
non
il
secondo
.
Non
esiste
alcun
regime
politico
in
cui
siano
ammessi
entrambi
.
Il
che
vuol
dire
che
la
disobbedienza
civile
può
essere
attuata
,
in
ogni
caso
,
sempre
e
soltanto
a
proprio
rischio
e
pericolo
.
Che
all
'
istigazione
abbiano
sin
dall
'
inizio
partecipato
non
soltanto
semplici
cittadini
ma
anche
persone
investite
di
pubblica
autorità
,
rende
la
«
rivolta
»
siciliana
ancora
più
preoccupante
.
Mi
pare
che
il
caso
non
abbia
precedenti
,
e
bisogna
ammettere
che
come
precedente
è
di
una
gravità
eccezionale
.
Tra
i
mille
segni
di
disgregazione
della
nostra
vita
civile
,
è
uno
dei
più
funesti
.
Uomini
chiamati
a
provvedere
all
'
interesse
pubblico
proteggono
i
più
sfacciati
e
insolenti
interessi
privati
.
Invece
di
reprimere
gli
abusi
li
difendono
e
difendendoli
li
favoriscono
.
Invece
di
mettersi
dalla
parte
dei
pochi
onesti
danno
voce
ai
molti
che
onesti
non
sono
stati
.
Giustificandoli
con
argomenti
spesso
speciosi
(
in
Sicilia
non
ci
sarebbero
abusi
per
causa
di
speculazione
)
li
incoraggiano
a
perseverare
nell
'
oltraggio
alle
leggi
e
nella
violenza
contro
lo
Stato
.
Diverso
è
il
punto
di
vista
morale
.
La
disobbedienza
civile
può
essere
in
alcuni
casi
moralmente
giustificata
.
Ma
occorre
che
la
causa
sia
nobile
.
Occorre
,
per
usare
una
nota
formula
giuridica
,
«
l
'
aver
agito
per
motivi
di
particolare
valore
morale
e
sociale
»
.
Giustifichiamo
(
e
ammiriamo
)
la
disobbedienza
dei
neri
nell
'
Africa
del
Sud
.
Ci
siamo
schierati
dalla
parte
dei
neri
che
negli
Stati
Uniti
entravano
pacificamente
in
un
locale
pubblico
o
in
un
autobus
riservato
ai
soli
bianchi
.
Ma
rispetto
a
questi
esempi
,
le
parti
sono
,
nell
'
attuale
vicenda
siciliana
,
invertite
.
Lo
scopo
della
rivolta
è
la
difesa
non
già
di
un
diritto
conculcato
ma
della
violazione
di
un
diritto
.
L
'
impunità
viene
chiesta
non
contro
il
sopruso
altrui
ma
per
non
subire
le
conseguenze
della
propria
condotta
sin
dall
'
inizio
giuridicamente
illecita
e
in
molti
casi
socialmente
rovinosa
.
Si
disobbedisce
non
per
non
essere
più
sottoposti
a
una
legge
iniqua
,
ma
per
essere
autorizzati
da
una
legge
che
sarebbe
non
meno
iniqua
a
perpetuare
uno
stato
d
'
ingiustizia
.
Il
nostro
Stato
di
diritto
è
una
nave
che
fa
acqua
da
tutte
le
parti
.
Ma
il
consentire
che
ognuno
si
faccia
la
legge
che
vuole
,
e
il
cittadino
rispettoso
delle
leggi
paghi
anche
per
coloro
che
non
le
rispettano
,
è
assolutamente
intollerabile
.
E
anche
il
modo
più
sicuro
e
più
rapido
per
farla
affondare
.
StampaQuotidiana ,
Da
quando
è
scoppiata
la
«
questione
morale
»
non
si
parla
d
'
altro
.
E
giustamente
ne
ha
parlato
il
presidente
della
Repubblica
nel
suo
messaggio
di
fine
d
'
anno
.
Ma
non
mi
pare
si
siano
fatti
grandi
sforzi
per
capire
di
che
si
tratta
.
A
giudicare
dall
'
occasione
da
cui
è
nata
(
lo
scandalo
del
petrolio
e
l
'
affare
Pecorelli
)
sembra
si
voglia
intendere
che
gli
uomini
politici
debbono
essere
persone
oneste
nel
senso
comune
della
parola
,
persone
cioè
che
non
rubano
,
non
mentono
,
non
commettono
nessuno
di
quei
reati
che
sono
puniti
dal
codice
penale
in
quanto
giudicate
azioni
che
le
persone
perbene
non
dovrebbero
compiere
.
Questa
interpretazione
è
tanto
diffusa
che
il
partito
comunista
ha
ritenuto
di
dover
proporre
come
una
svolta
nella
storia
delle
nostre
istituzioni
un
governo
degli
onesti
.
Che
la
questione
morale
debba
essere
interpretata
anche
in
questo
modo
,
è
fuori
discussione
.
Fuori
discussione
perché
ovvio
.
Non
si
vede
infatti
perché
chi
fa
politica
debba
essere
sottratto
agli
obblighi
cui
è
sottoposto
l
'
uomo
comune
.
Non
esiste
una
morale
pubblica
distinta
dalla
morale
privata
.
Se
mai
,
l
'
uomo
pubblico
dovrebbe
essere
più
scrupoloso
nel
rispetto
degli
obblighi
morali
e
di
quelli
giuridici
(
ma
questi
sono
generalmente
obblighi
morali
sanzionati
dallo
Stato
)
per
la
semplice
ragione
che
le
sue
infrazioni
sono
più
dannose
alla
collettività
di
quelle
dell
'
uomo
comune
.
Non
ignoro
che
il
problema
dei
rapporti
fra
politica
e
morale
è
molto
più
intricato
,
che
in
politica
vale
il
principio
che
il
fine
giustifica
i
mezzi
,
che
gli
Stati
non
si
governano
coi
pater
noster
,
e
via
discorrendo
.
Ma
,
girata
e
rigirata
da
tutte
le
parti
,
la
famigerata
dottrina
della
ragion
di
Stato
significa
soltanto
questo
:
che
l
'
uomo
di
Stato
si
viene
a
trovare
talora
in
circostanze
eccezionali
(
si
badi
«
eccezionali
»
)
a
dover
prendere
decisioni
riguardanti
il
bene
comune
(
si
badi
«
il
bene
comune
»
)
che
non
possono
essere
prese
se
non
violando
regole
della
morale
corrente
.
Ciò
che
giustifica
un
mezzo
moralmente
discutibile
è
soltanto
la
nobiltà
del
fine
,
e
la
sua
eccezionalità
.
Il
che
poi
non
è
neppure
una
condizione
particolare
dell
'
uomo
politico
perché
lo
stato
di
necessità
vale
come
giustificazione
anche
per
l
'
uomo
comune
.
Che
l
'
essenza
del
problema
stia
nella
nobiltà
del
fine
lo
ha
detto
molto
bene
Ceronetti
in
un
articolo
sulla
«
Stampa
»
due
settimane
fa
.
Che
il
fine
giustifichi
i
mezzi
non
vuol
dire
che
i
mezzi
siano
giustificati
da
qualsiasi
fine
.
La
stessa
celebre
frase
di
Machiavelli
dice
che
«
i
mezzi
saranno
sempre
iudicati
onorevoli
e
da
ciascuno
laudati
»
quando
il
principe
riesce
a
«
vincere
»
e
a
«
mantenere
lo
Stato
»
.
Quale
sia
la
nobiltà
del
fine
per
cui
alcuni
dei
nostri
uomini
politici
commettono
atti
disonesti
e
offendono
la
morale
comune
,
non
è
dato
capire
.
C
'
è
il
sospetto
che
il
dilagare
della
corruzione
sia
dovuto
prevalentemente
al
bisogno
di
denaro
per
sostenere
una
campagna
elettorale
o
per
mantenere
in
vita
una
corrente
di
partito
.
Non
che
grandi
,
alcuni
di
questi
fini
sono
politicamente
tutt
'
altro
che
corretti
.
Si
tratta
,
sì
,
di
vincere
,
non
una
guerra
,
bensì
le
elezioni
.
Si
tratta
di
conservare
non
lo
Stato
,
bensì
il
proprio
potere
personale
.
La
massima
che
il
fine
giustifica
i
mezzi
è
di
per
se
stessa
discutibile
.
E
non
solo
discutibile
ma
insostenibile
quando
il
fine
che
dovrebbe
giustificare
i
mezzi
è
esso
stesso
ingiustificabile
.
Tutto
questo
,
come
ho
detto
,
è
ovvio
,
ma
non
esaurisce
il
problema
.
Qualsiasi
trattato
di
morale
distingue
la
morale
generale
che
regola
l
'
azione
di
tutti
gli
uomini
,
e
al
cui
rispetto
quindi
tutti
sono
tenuti
,
dalle
morali
speciali
cui
sono
sottoposti
gl
'
individui
in
quanto
appartengono
a
una
determinata
classe
o
gruppo
o
categoria
o
professione
.
Accanto
alla
morale
comune
ci
sono
le
etiche
del
medico
e
del
sacerdote
,
del
giudice
e
del
commerciante
,
dell
'
insegnante
e
del
giornalista
.
In
ognuna
di
queste
valgono
obblighi
specifici
,
e
anche
specifiche
esenzioni
di
obblighi
.
Un
medico
ha
l
'
obbligo
di
accorrere
alla
chiamata
di
un
malato
grave
anche
fuori
della
sua
ora
d
'
ufficio
,
ma
è
esentato
dall
'
obbligo
di
dire
allo
stesso
malato
la
verità
sulla
gravità
della
malattia
.
Ogni
professione
ha
il
suo
codice
morale
,
che
con
parola
dotta
e
pretenziosa
si
chiama
«
deontologia
»
.
Tra
le
morali
speciali
vi
è
anche
la
morale
dell
'
uomo
politico
.
Tanto
più
poi
quando
anche
la
politica
è
diventata
una
professione
.
Per
capire
la
specificità
dei
diversi
codici
morali
occorre
aver
di
mira
la
funzione
sociale
delle
diverse
Categorie
cui
si
riferiscono
.
Dalla
considerazione
che
la
funzione
sociale
del
medico
è
quella
di
provvedere
alla
guarigione
degli
infermi
nascono
tutti
quei
problemi
delicatissimi
di
etica
medica
che
vanno
dall
'
eutanasia
al
prolungamento
artificiale
di
una
vita
condannata
.
La
funzione
sociale
dell
'
attività
politica
è
quella
di
perseguire
,
e
possibilmente
conseguire
,
l
'
interesse
pubblico
.
Di
qua
deriva
l
'
etica
specifica
di
chi
si
dedica
all
'
attività
politica
,
il
suo
codice
morale
.
C
'
è
una
distinzione
che
corre
lungo
tutta
la
storia
del
pensiero
politico
,
la
distinzione
fra
buon
governo
e
malgoverno
,
fondata
sulla
distinzione
fra
il
governante
che
persegue
il
bene
comune
e
quello
che
persegue
il
bene
proprio
.
L
'
etica
specifica
dell
'
uomo
pubblico
è
quella
in
cui
la
distinzione
fra
l
'
azione
buona
e
l
'
azione
cattiva
corre
parallelamente
alla
distinzione
fra
l
'
azione
volta
al
bene
comune
e
quella
volta
al
bene
individuale
.
Ne
deriva
che
l
'
uomo
politico
ha
oltre
ai
doveri
di
tutti
anche
i
doveri
che
gli
spettano
in
quanto
uomo
politico
.
Questi
ultimi
sono
strettamente
connessi
alla
funzione
specifica
della
sua
attività
.
La
funzione
specifica
dell
'
attività
politica
è
il
buon
governo
come
la
funzione
specifica
del
medico
è
quella
di
ben
curare
,
quella
del
giudice
di
ben
giudicare
,
dell
'
insegnante
di
ben
insegnare
.
No
,
quando
si
pone
la
questione
morale
con
riferimento
all
'
azione
del
politico
,
non
si
tratta
soltanto
del
governo
degli
onesti
nel
senso
generico
della
parola
.
Si
tratta
del
governo
di
uomini
che
antepongano
l
'
interesse
dello
Stato
al
proprio
,
a
quello
del
proprio
partito
,
della
propria
corrente
,
del
proprio
clan
,
di
uomini
che
rispettino
non
solo
le
regole
della
morale
comune
ma
anche
quelle
della
propria
morale
professionale
.
Uno
dei
maggiori
rimproveri
che
oggi
l
'
uomo
della
strada
,
l
'
uomo
della
morale
comune
,
muove
alla
nostra
classe
politica
nel
suo
insieme
è
di
subordinare
l
'
interesse
pubblico
che
è
il
fine
specifico
della
sua
azione
specifica
all
'
interesse
privato
,
di
approfittare
del
potere
pubblico
che
deve
essere
esercitato
solo
in
vista
del
bene
comune
per
accrescere
il
proprio
potere
personale
.
Una
volta
si
diceva
che
cattivo
governante
è
colui
che
mira
a
soddisfare
il
bene
proprio
anziché
a
provvedere
al
bene
comune
.
Oggi
si
dice
che
il
malgoverno
consiste
nel
considerare
gli
affari
di
Stato
come
affari
privati
.
Le
parole
cambiano
ma
la
sostanza
è
la
stessa
.
In
questo
senso
,
e
solo
in
questo
senso
,
la
questione
morale
è
anche
una
questione
politica
.
Una
questione
politica
che
nessun
ritocco
della
Costituzione
potrà
mai
risolvere
.
Dai
buoni
costumi
possono
nascere
buone
leggi
.
Ma
non
bastano
le
buone
leggi
a
produrre
buoni
costumi
.
StampaQuotidiana ,
In
un
articolo
di
alcuni
mesi
orsono
(
Il
potere
invisibile
,
«
La
Stampa
»
,
23
novembre
1980
)
avevo
definito
la
democrazia
il
governo
del
potere
visibile
,
e
avevo
constatato
amaramente
che
nel
nostro
paese
il
potere
invisibile
non
solo
non
era
stato
debellato
ma
aveva
continuato
a
prosperare
e
a
dilatarsi
in
tutte
le
direzioni
.
Scrivevo
:
«
Non
si
capisce
nulla
del
nostro
sistema
di
potere
se
non
si
è
disposti
ad
ammettere
che
al
di
sotto
del
governo
visibile
c
'
è
un
governo
che
agisce
nella
penombra
(
il
cosiddetto
"
sottogoverno
"
)
e
ancora
più
in
fondo
un
governo
che
agisce
nella
più
assoluta
oscurità
e
che
potrebbe
essere
chiamato
"
criptogoverno
"
»
.
Vi
è
sempre
stato
e
sempre
vi
sarà
un
potere
invisibile
contro
lo
Stato
,
che
comprende
le
associazioni
a
delinquere
,
la
mafia
,
le
associazioni
sovversive
,
i
gruppi
di
cospiratori
,
di
terroristi
(
la
sigla
della
famigerata
Oas
significava
Organisation
d
'
armée
secrète
)
.
Vi
è
sempre
stato
,
e
purtroppo
sembra
che
non
se
ne
possa
fare
a
meno
,
un
potere
invisibile
dentro
lo
Stato
,
che
comprende
i
servizi
segreti
per
la
sicurezza
interna
ed
esterna
dello
Stato
,
l
'
organizzazione
dello
spionaggio
e
del
controspionaggio
.
Ciò
che
in
un
regime
democratico
è
assolutamente
inammissibile
è
l
'
esistenza
di
un
potere
invisibile
che
agisce
accanto
a
quello
dello
Stato
,
insieme
dentro
e
contro
,
sotto
certi
aspetti
concorrente
,
sotto
altri
connivente
,
che
si
vale
del
segreto
non
proprio
per
abbatterlo
ma
neppure
per
servirlo
.
Se
ne
vale
principalmente
per
aggirare
o
addirittura
violare
impunemente
le
leggi
,
oppure
per
ottenere
favori
straordinari
o
illeciti
.
Un
potere
che
compie
atti
politicamente
rilevanti
senza
avere
alcuna
responsabilità
politica
,
anzi
cercando
di
sottrarsi
attraverso
la
segretezza
anche
alle
normali
responsabilità
civili
,
amministrative
e
penali
.
Tralascio
di
discutere
il
problema
dal
punto
di
vista
morale
,
anche
se
non
sono
il
solo
a
essere
disgustato
del
malcostume
imperversante
e
ho
provato
quasi
vergogna
nel
leggere
tutti
quei
nomi
di
persone
altolocate
unite
non
si
sa
da
che
cosa
,
se
non
da
un
desiderio
smodato
di
potere
,
da
ambizioni
spropositate
,
o
soltanto
da
fatue
vanità
.
Non
dubito
che
il
trarre
vantaggi
personali
di
carriera
,
di
potere
e
di
ricchezza
da
un
'
affiliazione
segreta
sia
moralmente
riprovevole
,
e
che
dia
un
ben
miserabile
spettacolo
di
sé
un
paese
in
cui
un
così
gran
numero
di
personaggi
appartenenti
alla
classe
dirigente
,
alla
classe
«
eletta
»
,
come
si
diceva
una
volta
(
e
come
oggi
non
si
potrebbe
più
dire
)
,
entra
a
far
parte
di
associazioni
che
si
nascondono
per
nascondere
.
Non
discuto
la
questione
morale
perché
non
ce
n
'
è
bisogno
.
Mi
fermo
alla
questione
politica
che
basta
da
sola
a
permettere
di
esprimere
un
giudizio
severo
nei
riguardi
di
un
'
associazione
il
cui
unico
scopo
reale
,
al
di
fuori
degli
scopi
dichiarati
,
è
di
esercitare
un
potere
occulto
:
dico
«
unico
»
almeno
sino
a
che
qualcuno
,
meglio
se
è
membro
dell
'
associazione
stessa
,
me
ne
saprà
indicare
un
altro
.
Anch
'
io
,
come
Vittorio
Gorresio
,
sarei
contento
di
capire
per
quali
ragioni
personaggi
già
potenti
per
ricchezza
o
per
condizione
sociale
(
non
mi
risulta
che
nella
famosa
lista
vi
siano
operai
,
modesti
impiegati
,
la
solita
gente
che
tira
la
carretta
)
sentano
il
bisogno
di
associarsi
con
uomini
di
malaffare
o
politicamente
sospetti
.
Abbiamo
forse
dimenticato
che
«
repubblica
»
viene
da
«
res
publica
»
,
e
che
«
res
publica
»
significa
cosa
pubblica
,
nel
duplice
senso
di
governo
del
pubblico
e
di
governo
in
pubblico
?
Governo
del
pubblico
significa
governo
del
popolo
,
e
non
di
uno
o
di
pochi
;
governo
in
pubblico
significa
che
gli
atti
del
potere
,
o
vengono
esercitati
direttamente
davanti
al
popolo
,
oppure
vengono
in
varie
forme
fatti
conoscere
ai
naturali
destinatari
e
non
diventano
ufficialmente
validi
sino
a
che
non
hanno
ricevuto
la
dovuta
pubblicità
.
Vi
sono
due
tipi
ideali
di
forme
di
governo
,
opposte
l
'
una
all
'
altra
:
democrazia
e
autocrazia
.
La
democrazia
avanza
e
l
'
autocrazia
retrocede
via
via
che
il
potere
diventa
sempre
più
visibile
e
gli
arcana
imperii
,
i
segreti
di
Stato
,
da
regola
diventano
eccezione
,
un
'
eccezione
accolta
in
ambiti
sempre
più
ristretti
e
tassativamente
stabiliti
.
All
'
inizio
del
Cinquecento
Francesco
Guicciardini
poteva
scrivere
tranquillamente
senza
suscitare
scandalo
:
«
E
'
incredibile
quanto
giovi
a
chi
ha
amministrazione
che
le
cose
sue
siano
segrete
»
.
Ma
alla
fine
del
Settecento
Michele
Natale
(
il
vescovo
di
Vico
giustiziato
a
Napoli
il
20
agosto
1799
)
scriverà
nel
Catechismo
repubblicano
:
«
Vi
è
niente
di
segreto
nel
governo
democratico
?
Tutte
le
operazioni
dei
governanti
devono
essere
note
al
Popolo
Sovrano
»
.
Non
esiste
democrazia
senza
opinione
pubblica
,
senza
la
formazione
di
un
pubblico
che
pretende
di
avere
diritto
a
essere
informato
delle
decisioni
che
vengono
prese
nell
'
interesse
collettivo
e
di
esprimere
su
di
esse
la
propria
libera
critica
.
Qualsiasi
forma
di
potere
occulto
,
rendendo
vano
questo
diritto
,
distrugge
uno
dei
pilastri
su
cui
si
regge
il
governo
democratico
.
Del
resto
chi
promuove
forme
di
potere
occulto
e
chi
vi
aderisce
vuole
proprio
questo
:
sottrarre
le
proprie
azioni
al
controllo
democratico
,
non
sottostare
agli
obblighi
che
una
qualsiasi
costituzione
democratica
impone
a
chi
detiene
il
potere
di
prendere
decisioni
vincolanti
per
tutti
i
cittadini
,
se
mai
,
al
contrario
,
controllare
lo
Stato
senza
essere
a
sua
volta
controllato
.
Nello
Stato
dispotico
il
sovrano
vede
senza
essere
visto
.
L
'
ideale
di
ogni
forma
di
potere
occulto
è
che
il
sovrano
,
che
nella
democrazia
è
il
popolo
,
agendo
alla
luce
del
sole
,
possa
essere
visto
e
non
veda
.
Fra
i
vari
malanni
della
nostra
democrazia
l
'
estensione
sempre
più
ampia
di
zone
di
potere
occulto
non
è
dei
meno
gravi
.
Ma
sarebbe
ancora
più
grave
se
la
zona
che
è
stata
ora
scoperta
fosse
di
nuovo
ricoperta
.
Già
gli
amici
e
gli
amici
degli
amici
si
apprestano
a
«
fare
quadrato
»
non
per
difendere
le
istituzioni
democratiche
ma
per
difendere
il
proprio
partito
,
il
proprio
gruppo
,
il
proprio
clan
.
L
'
unico
modo
per
difendere
le
istituzioni
democratiche
è
quello
di
fare
quadrato
intorno
a
coloro
che
non
hanno
mai
avuto
la
tentazione
di
sprofondare
nel
sottosuolo
per
non
farsi
riconoscere
.
Sono
molti
per
fortuna
.
Ma
debbono
avere
coraggio
e
agire
di
conseguenza
.
Nessuno
vuole
,
intendiamoci
,
che
non
si
facciano
le
debite
distinzioni
:
che
non
si
distinguano
i
colpevoli
dagli
innocenti
,
gli
scaltri
dagli
sprovveduti
,
coloro
che
hanno
ordito
la
ragnatela
da
coloro
che
vi
sono
caduti
.
Personalmente
io
ho
persino
qualche
dubbio
circa
la
precipitazione
con
cui
la
lista
è
stata
pubblicata
.
Ma
sia
chiaro
:
distinguere
,
non
estinguere
.
StampaQuotidiana ,
Ancora
una
crisi
.
Si
è
sempre
detto
che
le
crisi
non
dovevano
essere
al
buio
.
Ma
più
al
buio
di
così
?
Si
è
ammesso
che
una
crisi
poteva
essere
al
buio
purché
fosse
«
pilotata
»
.
Ma
c
'
è
il
pilota
?
E
se
c
'
è
,
si
può
sapere
chi
è
?
Dal
1968
,
da
quando
è
cominciata
la
degenerazione
del
nostro
sistema
politico
con
quattro
legislature
interrotte
anzitempo
,
e
una
quinta
,
la
presente
,
sulla
cui
fine
naturale
nessuno
è
disposto
a
giurare
,
anche
i
tempi
dei
governi
si
sono
accorciati
:
quindici
in
dodici
anni
rispetto
ai
venticinque
dei
primi
ventitrè
.
Mi
domando
se
questi
dati
di
fatto
siano
presenti
ai
nostri
governanti
e
perché
,
essendo
impossibile
che
siano
a
loro
ignoti
,
non
ne
tengano
il
minimo
conto
.
La
nostra
classe
politica
ha
inventato
non
la
rivoluzione
permanente
ma
la
crisi
permanente
.
Mai
una
volta
che
i
protagonisti
si
degnino
di
spiegare
ai
loro
elettori
,
di
fronte
ai
quali
sono
o
dovrebbero
essere
responsabili
dei
loro
atti
,
quali
siano
la
ragione
e
la
necessità
di
una
nuova
crisi
che
in
genere
scoppia
improvvisa
come
un
temporale
,
anche
se
se
n
'
è
sentito
talvolta
da
lontano
il
brontolio
.
Si
scopre
un
centro
di
potere
occulto
,
dove
ci
sono
corruttori
,
corrotti
e
corrompibili
?
Un
governo
di
persone
responsabili
,
un
governo
autorevole
,
sospende
subito
i
ministri
sospettati
,
prende
rapidamente
provvedimenti
per
diminuire
il
danno
e
il
discredito
che
le
istituzioni
democratiche
ricevono
da
una
scoperta
così
scandalosa
,
cerca
di
far
luce
al
più
presto
sull
'
associazione
segreta
contraria
alla
Costituzione
ed
eventualmente
la
scioglie
.
Niente
di
tutto
questo
:
il
governo
si
dimette
,
apre
la
crisi
,
e
quindi
lascia
tutti
i
problemi
non
risolti
per
trovarseli
aggravati
quando
la
crisi
sarà
finita
.
Un
governo
di
persone
responsabili
.
Responsabili
di
fronte
a
chi
?
Responsabili
rispetto
a
che
cosa
?
Si
è
discusso
in
questi
giorni
in
un
convegno
a
cui
io
stesso
ho
partecipato
il
tema
della
responsabilità
politica
,
un
tema
da
affrontare
con
spirito
realistico
e
strumenti
concettuali
adeguati
.
Quando
si
dice
di
una
persona
che
è
responsabile
si
possono
intendere
due
cose
diverse
:
a
)
che
risponde
delle
proprie
azioni
di
fronte
a
qualcuno
che
sta
sopra
di
lui
;
b
)
che
agisce
rendendosi
esatto
conto
delle
conseguenze
delle
proprie
azioni
.
Proviamo
a
verificare
l
'
esattezza
di
questi
due
aspetti
del
problema
considerando
il
termine
contrario
:
irresponsabile
.
Nel
linguaggio
del
diritto
costituzionale
si
dice
che
un
organo
è
irresponsabile
,
quando
essendo
al
vertice
del
sistema
non
ha
nessuno
al
di
sopra
di
sé
cui
rispondere
delle
proprie
azioni
politiche
(
si
tratta
di
una
caratteristica
tradizionale
del
sovrano
che
vale
,
in
base
all
'
art.
90
della
nostra
Costituzione
,
anche
per
il
presidente
della
Repubblica
)
.
Ma
quando
dico
,
ad
esempio
,
che
uno
di
quei
centauri
catafratti
come
un
guerriero
antico
che
corre
all
'
impazzata
in
una
via
della
città
con
la
sua
motocicletta
fragorosa
,
è
un
irresponsabile
,
voglio
dire
non
già
che
non
risponde
della
sua
azione
di
fronte
a
nessuno
,
ma
che
si
comporta
da
scriteriato
,
da
individuo
che
agisce
senza
tener
conto
delle
conseguenze
della
propria
azione
.
La
gente
dice
sempre
più
spesso
che
la
maggior
parte
dei
nostri
uomini
politici
sono
degli
irresponsabili
.
Ma
in
che
senso
lo
dice
?
Nel
senso
che
non
rispondono
di
fronte
a
nessuno
?
o
nel
senso
che
agiscono
senza
preoccuparsi
troppo
dei
malanni
che
la
loro
azione
produce
?
Credo
che
nell
'
opinione
pubblica
prevalga
il
secondo
significato
,
specie
di
fronte
alle
crisi
di
governo
,
che
sono
giustamente
percepite
come
una
malattia
del
sistema
,
onde
l
'
impressione
che
tanto
più
frequenti
le
crisi
tanto
più
grave
il
malato
.
Nel
giudizio
comune
la
crisi
di
governo
è
un
atto
che
richiede
ponderazione
e
prudenza
.
L
'
esperienza
di
questi
anni
dovrebbe
aver
insegnato
che
crisi
di
governo
non
ponderate
e
imprudenti
impediscono
alla
legislatura
di
arrivare
sino
alla
fine
:
una
legislatura
non
sopporta
più
di
cinque
governi
,
in
media
uno
all
'
anno
.
La
presente
è
già
giunta
al
quarto
(
dopo
due
governi
Cossiga
e
uno
Forlani
)
ad
appena
due
anni
dall
'
inizio
con
un
'
accelerazione
senza
precedenti
:
un
governo
ogni
sei
mesi
.
Dal
governo
annuale
al
governo
semestrale
.
A
quando
quello
mensile
?
Mentre
i
governi
si
accorciano
,
le
crisi
si
allungano
.
E
quando
le
crisi
si
allungano
,
le
legislature
si
accorciano
.
Il
presidente
Pertini
,
che
non
è
responsabile
nel
primo
significato
del
termine
ma
ha
un
alto
senso
di
responsabilità
nel
secondo
(
il
che
prova
quanto
i
due
significati
debbano
essere
tenuti
distinti
)
,
ha
più
volte
dichiarato
che
non
intende
sciogliere
ancora
una
volta
il
Parlamento
.
Ha
capito
benissimo
che
la
fine
prematura
della
legislatura
sarebbe
un
colpo
mortale
inferto
al
sistema
democratico
.
Ma
l
'
hanno
capito
coloro
che
sono
responsabili
,
nel
senso
costituzionale
,
del
governo
del
paese
?
Quando
appaiono
sugli
schermi
della
televisione
questi
timonieri
più
bravi
nel
pilotare
le
crisi
che
i
governi
,
appaiono
sereni
,
sicuri
di
sé
,
non
sfiorati
da
dubbi
sulla
rotta
da
seguire
,
come
se
fossero
già
in
vista
del
porto
.
Lo
spettatore
si
domanda
con
un
senso
di
angoscia
:
sono
o
non
sono
coscienti
del
lento
ma
inesorabile
logoramento
del
regime
democratico
provocato
da
queste
crisi
,
sempre
brevi
a
parole
,
sempre
lunghe
nei
fatti
,
tanto
promettenti
quando
si
aprono
quanto
deludenti
quando
si
chiudono
?
Ma
se
fossero
davvero
coscienti
si
comporterebbero
davvero
in
questo
modo
?
Ma
allora
sono
degli
incoscienti
?
A
questa
domanda
si
può
rispondere
soltanto
prendendo
in
considerazione
l
'
altra
faccia
del
problema
e
ponendosi
una
diversa
domanda
:
«
Verso
chi
sono
responsabili
?
»
Viene
la
tentazione
di
rispondere
:
«
Verso
nessuno
»
.
Quando
debbono
cadere
le
teste
,
cadono
generalmente
quelle
degli
altri
.
Tanto
che
a
giudicare
dalle
teste
che
cadono
,
si
dovrebbe
concludere
che
la
nostra
classe
politica
conti
il
maggior
numero
di
cittadini
illibati
e
incorruttibili
.
Eppure
in
un
sistema
democratico
non
dovrebbe
rispondere
,
la
classe
politica
,
agli
elettori
?
Le
elezioni
popolari
non
dovrebbero
servire
a
discriminare
i
buoni
dai
cattivi
reggitori
,
gli
onesti
dai
disonesti
?
Ma
è
proprio
così
?
Purtroppo
non
è
così
.
La
reale
potenza
dei
partiti
sta
nella
capacità
che
essi
hanno
di
controllare
i
loro
controllori
.
I
risultati
elettorali
di
questi
anni
sono
lì
a
dimostrare
che
la
cosiddetta
verifica
periodica
del
consenso
in
cui
consiste
l
'
essenza
della
democrazia
si
svolge
in
modo
da
dare
alla
classe
politica
che
ci
ha
governato
sinora
la
tranquilla
coscienza
che
viene
dall
'
aver
sottoposto
la
propria
azione
al
verdetto
del
popolo
,
e
insieme
la
convinzione
di
aver
ben
meritato
della
salvezza
della
patria
.
Controllando
i
propri
controllori
essa
finisce
per
essere
responsabile
,
sì
,
ma
solo
di
fronte
a
se
stessa
.
In
tal
modo
,
il
sistema
è
,
almeno
sino
ad
ora
,
bloccato
.
Ma
chi
è
in
grado
di
sbloccarlo
?
StampaQuotidiana ,
La
frequenza
con
cui
ricorre
nel
linguaggio
politico
quotidiano
l
'
espressione
«
patto
sociale
»
merita
qualche
riflessione
.
L
'
idea
che
lo
Stato
sia
derivato
da
un
patto
degl
'
individui
che
lo
compongono
e
lo
hanno
istituito
per
rendere
possibile
una
convivenza
stabile
e
pacifica
risale
agli
antichi
,
ed
è
diventata
dominante
nell
'
età
moderna
attraverso
le
dottrine
cosiddette
«
contrattualistiche
»
.
Ma
queste
dottrine
,
da
Hobbes
a
Kant
,
hanno
concepito
il
«
contratto
sociale
»
come
una
specie
di
«
fiat
»
divino
,
un
atto
di
creazione
e
di
fondazione
,
che
si
esaurisce
nel
momento
stesso
in
cui
nasce
la
sua
creatura
,
lo
Stato
.
Una
volta
costituito
,
lo
Stato
si
erge
al
di
sopra
degli
individui
che
gli
hanno
dato
vita
con
il
loro
accordo
,
e
la
sua
volontà
si
esprime
d
'
ora
innanzi
in
forma
di
legge
,
cioè
di
comando
al
di
sopra
delle
parti
.
Come
modo
di
prendere
decisioni
comuni
,
il
contratto
viene
degradato
a
istituto
del
diritto
privato
,
di
un
diritto
che
,
usciti
gl
'
individui
dallo
stato
di
natura
,
riceve
legittimità
ed
efficacia
dal
riconoscimento
dello
Stato
.
Tutt
'
al
più
,
se
lo
Stato
nato
da
quell
'
accordo
è
uno
Stato
democratico
,
uno
Stato
il
cui
fondamento
di
legittimità
risiede
nel
consenso
,
il
contratto
iniziale
deve
essere
periodicamente
rinnovato
attraverso
libere
elezioni
dell
'
organo
o
degli
organi
principali
cui
è
attribuito
il
potere
di
prendere
decisioni
vincolanti
per
tutta
la
collettività
.
In
questo
modello
ideale
i
soggetti
principali
del
rapporto
politico
sono
,
da
un
lato
,
gl
'
individui
singoli
che
decidono
di
istituire
lo
Stato
,
dall
'
altro
il
sovrano
che
secondo
le
diverse
interpretazioni
del
contratto
sociale
è
,
o
egli
stesso
una
delle
parti
contraenti
,
oppure
un
terzo
a
favore
del
quale
il
contratto
viene
stipulato
dagli
individui
desiderosi
di
uscire
dallo
stato
di
natura
.
Non
c
'
è
posto
in
questo
modello
per
i
corpi
intermedi
,
i
gruppi
sociali
,
le
corporazioni
,
insomma
per
le
società
particolari
,
che
stanno
in
mezzo
fra
i
singoli
e
la
società
globale
(
la
società
politica
o
civile
,
della
tradizione
)
.
O
per
lo
meno
esse
non
svolgono
la
parte
del
protagonista
nella
formazione
dello
Stato
.
Stanno
dentro
allo
Stato
,
come
del
resto
gl
'
individui
dopo
che
lo
Stato
è
istituito
,
ma
,
a
differenza
degli
individui
,
non
hanno
contribuito
a
formarlo
,
né
sono
chiamati
a
dare
a
esso
una
periodica
legittimazione
.
Quando
oggi
si
parla
di
«
patto
sociale
»
,
ci
si
riferisce
invece
a
una
forma
di
rapporto
politico
in
cui
i
protagonisti
sono
proprio
quei
corpi
intermedi
di
cui
la
dottrina
tradizionale
del
contratto
sociale
aveva
ritenuto
di
potere
non
tener
conto
.
Che
cosa
è
successo
?
È
toccata
anche
al
modello
astratto
del
contratto
sociale
la
sorte
di
tutti
i
modelli
astratti
:
la
realtà
il
più
delle
volte
li
ignora
e
procede
per
conto
suo
.
Ciò
che
caratterizza
le
moderne
società
industriali
e
democratiche
sono
la
molteplicità
,
la
varietà
,
l
'
influenza
,
delle
società
particolari
in
permanente
conflitto
fra
di
loro
.
Non
a
caso
vengono
chiamate
con
una
connotazione
ormai
ricorrente
«
pluralistiche
»
,
o
«
poliarchiche
»
.
Che
vuol
dire
:
a
più
centri
di
potere
.
Le
forze
sociali
(
intendi
i
sindacati
)
e
le
forze
politiche
(
intendi
i
partiti
)
,
che
appaiono
continuamente
sulla
scena
politica
come
gli
attori
principali
,
non
sono
né
gl
'
individui
né
lo
Stato
nel
suo
complesso
,
i
due
protagonisti
del
rapporto
politico
secondo
il
modello
tradizionale
.
Sono
le
società
particolari
che
la
dottrina
tradizionale
aveva
espunto
dal
proprio
modello
.
Recentemente
è
uscito
in
traduzione
italiana
(
con
introduzione
di
Angelo
Scivoletto
)
un
libro
ben
noto
agli
studiosi
,
Poliarchia
,
di
Robert
Dahl
(
Franco
Angeli
editore
,
Milano
1980
)
.
Secondo
Dahl
,
la
caratteristica
saliente
delle
poliarchie
è
,
oltre
l
'
estensione
della
partecipazione
popolare
,
la
presenza
di
una
forte
competitività
.
Ma
questa
caratteristica
non
sarebbe
completa
se
non
si
aggiungesse
che
i
soggetti
attivi
,
rilevanti
,
determinanti
,
della
competizione
,
non
sono
gl
'
individui
.
Sono
enti
collettivi
:
o
grandi
gruppi
organizzati
,
come
i
sindacati
e
i
partiti
,
oppure
grandi
organizzazioni
,
come
le
imprese
(
non
importa
se
private
,
pubbliche
o
semipubbliche
)
.
Più
che
una
società
non
egemonica
,
come
la
definisce
Dahl
,
la
nostra
società
poliarchica
è
contrassegnata
dall
'
esistenza
di
più
gruppi
tendenzialmente
egemoni
in
concorrenza
fra
loro
.
Partendo
dalla
concezione
monistica
dello
Stato
,
che
ha
accompagnato
la
formazione
dello
Stato
moderno
,
costruito
idealmente
come
antitesi
alla
società
medievale
,
si
è
spesso
manifestata
una
tendenza
a
considerare
lo
Stato
unitario
come
modello
ideale
anche
per
la
società
internazionale
.
Se
pure
con
una
certa
forzatura
,
mi
pare
si
possa
dire
che
nella
realtà
è
avvenuto
il
processo
inverso
.
Lo
Stato
poliarchico
contemporaneo
assomiglia
sempre
più
alla
società
internazionale
,
disarticolato
com
'
è
in
tanti
potentati
quasi
sovrani
,
la
cui
competizione
trova
soluzioni
provvisorie
(
tregue
,
non
paci
)
attraverso
laboriosi
e
spesso
lunghi
negoziati
,
che
finiscono
in
accordi
,
come
sono
i
contratti
collettivi
fra
le
forze
sociali
,
o
le
coalizioni
fra
le
forze
politiche
(
si
badi
,
«
coalizione
»
è
un
termine
proprio
del
diritto
internazionale
)
,
sottoposti
,
gli
uni
e
le
altre
,
alla
clausola
di
validità
a
parità
di
condizioni
(
che
corrisponde
al
«
rebus
sic
stantibus
»
dei
trattati
internazionali
)
.
Da
questa
constatazione
discendono
alcune
conseguenze
destinate
a
mutare
l
'
immagine
ideale
dello
Stato
moderno
.
Ne
indico
tre
.
Come
possiamo
osservare
ogni
giorno
,
in
una
situazione
di
forte
competitività
fra
gruppi
potenti
,
il
governo
o
agisce
egli
stesso
come
parte
in
causa
,
oppure
svolge
la
propria
azione
come
mediatore
delle
parti
in
conflitto
e
alla
fine
come
garante
(
spesso
impotente
)
dell
'
accordo
intervenuto
.
In
nessuno
dei
due
casi
la
sua
azione
rispecchia
l
'
immagine
tramandata
per
secoli
del
potere
statale
come
potere
sovrano
.
In
contrasto
col
mito
del
governo
forte
si
va
formulando
l
'
ipotesi
del
governo
debole
,
la
cui
debolezza
non
è
patologica
ma
fisiologica
.
Il
principio
della
supremazia
della
legge
richiede
in
una
società
democratica
il
rispetto
della
regola
della
maggioranza
,
espediente
tecnico
indispensabile
dove
coloro
che
debbono
prendere
una
decisione
sono
molti
,
in
una
situazione
in
cui
,
se
fosse
richiesta
l
'
unanimità
,
la
decisione
sarebbe
praticamente
impossibile
.
Al
contrario
,
la
soluzione
di
un
conflitto
mediante
accordo
rappresenta
una
decisione
presa
all
'
unanimità
,
in
quanto
è
valida
solo
se
è
accettata
da
entrambe
le
parti
.
Come
tale
,
è
possibile
soltanto
là
dove
i
contraenti
sono
due
o
poco
più
.
Ma
là
dove
i
contraenti
sono
due
o
poco
più
,
è
segno
che
i
singoli
individui
sono
esautorati
,
non
contano
nulla
(
gli
unici
individui
che
entrano
in
scena
sono
i
leaders
dei
gruppi
)
.
Infine
,
una
società
poliarchica
è
una
società
a
equilibrio
instabile
,
che
deve
essere
continuamente
ricomposto
,
senza
che
vi
siano
regole
generali
,
accettate
da
tutti
,
per
questa
ricomposizione
.
Si
consideri
la
facilità
con
cui
si
fanno
e
disfanno
le
coalizioni
di
governo
(
lo
stesso
si
può
dire
dei
contratti
collettivi
)
.
Nella
teoria
politica
classica
,
il
tema
dell
'
equilibrio
si
riferiva
al
rapporto
interno
fra
i
tre
poteri
dello
Stato
,
dei
quali
nessuno
dovrebbe
prevaricare
sugli
altri
due
.
Oggi
il
problema
dell
'
equilibrio
di
cui
si
deve
preoccupare
una
teoria
politica
all
'
altezza
dei
tempi
è
quello
delle
parti
sociali
.
Ma
si
tratta
di
un
equilibrio
per
cui
non
sono
state
fissate
regole
costituzionali
e
vale
come
unico
principio
equilibratore
il
diritto
del
più
forte
.
StampaQuotidiana ,
Ci
sono
parole
che
il
linguaggio
comune
cede
al
linguaggio
dotto
,
e
viceversa
vi
sono
parole
che
il
linguaggio
dotto
cede
al
linguaggio
comune
.
Questo
secondo
tipo
di
prestito
sta
avvenendo
in
questi
giorni
per
la
parola
«
decisionismo
»
.
Ma
la
cessione
è
avvenuta
con
la
totale
perdita
del
significato
originario
.
Ho
l
'
impressione
che
coloro
che
parlano
di
decisionismo
a
proposito
della
decisione
del
governo
di
far
approvare
al
Parlamento
il
decreto
sulla
scala
mobile
non
se
ne
siano
accorti
,
e
quindi
stiano
dando
al
termine
un
significato
completamente
diverso
da
quello
in
uso
nel
linguaggio
dotto
.
Un
significato
che
non
può
non
ingenerare
confusione
e
intorbidare
le
acque
già
abbastanza
limacciose
del
dibattito
politico
.
Come
tutti
gli
«
ismi
»
,
«
decisionismo
»
designa
non
un
fatto
,
non
un
comportamento
,
né
una
serie
di
fatti
o
di
comportamenti
,
ma
una
teoria
.
Si
tratta
della
teoria
giuridica
dello
scrittore
di
destra
,
Cari
Schmitt
,
nota
da
tempo
agli
addetti
ai
lavori
,
riscoperta
in
questi
ultimi
anni
,
e
rimessa
in
circolazione
,
non
si
sa
bene
con
quale
intenzione
,
da
alcuni
giuristi
e
scrittori
politici
di
sinistra
,
sempre
in
polemica
con
la
teoria
meramente
formale
della
democrazia
(
l
'
unica
,
a
mio
parere
,
sensata
e
accettabile
)
,
anche
a
prezzo
di
andare
a
braccetto
con
la
vecchia
(
e
nuova
ma
non
rinnovata
)
destra
reazionaria
.
Secondo
Schmitt
,
le
norme
giuridiche
non
sono
,
come
hanno
sempre
sostenuto
i
fautori
dello
Stato
di
diritto
,
ovvero
dello
Stato
in
cui
il
potere
politico
è
sottoposto
al
diritto
,
il
prodotto
di
un
potere
autorizzato
a
creare
diritto
secondo
le
norme
di
una
costituzione
che
stabilisce
chi
ha
il
potere
di
emanare
norme
giuridiche
e
con
quali
procedure
,
ma
sono
(
o
dovrebbero
essere
)
il
prodotto
di
una
pura
decisione
del
potere
in
quanto
tale
.
Insomma
,
il
decisionismo
è
una
teoria
del
diritto
che
si
contrappone
a
un
'
altra
teoria
del
diritto
,
il
cosiddetto
normativismo
,
e
vi
si
contrappone
perché
sostiene
il
primato
della
politica
sul
diritto
,
mentre
i
fautori
dello
Stato
di
diritto
e
della
democrazia
come
insieme
di
regole
del
gioco
per
la
formazione
della
volontà
politica
,
sostengono
al
contrario
il
primato
del
diritto
sulla
politica
.
Ora
ciò
che
sta
avvenendo
in
Italia
non
ha
niente
a
che
vedere
con
la
disputa
dottrinale
degli
anni
della
repubblica
di
Weimar
tra
fautori
dello
Stato
democratico
e
fautori
dello
Stato
autocratico
.
Ciò
di
cui
si
sta
discutendo
oggi
in
Italia
è
se
una
certa
decisione
possa
o
debba
essere
presa
in
seguito
all
'
accordo
tra
le
parti
o
in
seguito
a
una
deliberazione
del
Parlamento
.
Il
decisionismo
come
teoria
secondo
la
quale
il
diritto
è
in
ultima
istanza
sempre
il
prodotto
di
un
potere
di
fatto
non
c
'
entra
nulla
.
Tanto
la
decisione
presa
in
seguito
a
un
accordo
tra
parti
autorizzate
dalla
Costituzione
a
decidere
quanto
la
decisione
presa
da
un
organo
collegiale
autorizzato
dalla
stessa
Costituzione
a
prendere
decisioni
vincolanti
per
tutta
la
collettività
,
com
'
è
il
Parlamento
,
sono
decisioni
regolate
dal
diritto
.
Naturalmente
si
può
discutere
quale
delle
due
procedure
,
quella
che
prevede
che
la
decisione
sia
presa
in
seguito
ad
accordo
tra
le
parti
interessate
oppure
quella
che
attribuisce
il
diritto
di
decidere
a
un
organo
che
può
prendere
la
decisione
in
base
alla
regola
della
maggioranza
,
sia
più
opportuna
o
addirittura
,
in
una
determinata
situazione
e
in
una
data
materia
,
più
legittima
o
più
conforme
alla
Costituzione
.
Ma
una
tale
discussione
non
riguarda
affatto
la
disputa
dottrinale
per
cui
è
nata
in
altri
tempi
la
teoria
del
decisionismo
.
Con
ciò
non
si
vuole
negare
che
ci
siano
differenze
tra
le
due
procedure
.
Ma
si
tratta
di
differenze
che
sono
totalmente
al
di
là
della
disputa
tra
normativisti
e
decisionisti
.
La
prima
differenza
è
molto
semplice
:
quando
una
decisione
viene
presa
in
seguito
a
un
accordo
tra
le
parti
,
è
ovvio
che
la
decisione
debba
essere
presa
all
'
unanimità
.
Se
una
delle
due
parti
non
accetta
l
'
accordo
,
la
decisione
è
impossibile
;
se
la
decisione
è
presa
,
è
segno
che
il
consenso
è
stato
dato
da
tutte
e
due
le
parti
,
ed
essendo
solo
due
i
soggetti
della
decisione
la
decisione
è
unanime
.
Quando
una
decisione
è
presa
invece
da
un
organo
collegiale
composto
da
una
pluralità
di
persone
,
basta
di
solito
,
affinché
una
decisione
venga
considerata
valida
,
la
maggioranza
.
La
regola
della
maggioranza
è
la
regola
democratica
per
eccellenza
non
già
perché
sia
antidemocratica
la
regola
dell
'
unanimità
,
ma
perché
la
regola
dell
'
unanimità
è
applicabile
soltanto
in
pochi
casi
,
tra
cui
quello
in
cui
i
soggetti
chiamati
a
prendere
una
decisione
siano
due
,
oppure
il
gruppo
formato
da
più
individui
sia
tanto
omogeneo
che
si
possa
prevedere
una
identità
di
interessi
o
di
opinioni
fra
i
suoi
membri
.
In
qualsiasi
altro
caso
la
regola
o
non
è
applicabile
perché
paralizza
la
possibilità
stessa
di
arrivare
a
una
decisione
,
oppure
è
ingiusta
perché
attribuisce
a
un
solo
membro
del
gruppo
il
diritto
di
veto
.
Una
seconda
differenza
è
meno
ovvia
e
per
questo
meriterebbe
ben
altra
riflessione
.
Il
regime
parlamentare
è
nato
con
la
netta
contrapposizione
tra
rappresentanza
politica
e
rappresentanza
degl
'
interessi
.
Per
rappresentanza
politica
distinta
dalla
rappresentanza
degl
'
interessi
si
è
sempre
intesa
la
rappresentanza
degl
'
interessi
generali
contrapposta
alla
rappresentanza
d
'
interessi
particolari
.
Proprio
per
distinguere
queste
due
forme
di
rappresentanza
e
per
affermare
la
supremazia
della
prima
sulla
seconda
è
stato
introdotto
in
tutte
le
costituzioni
democratiche
dalla
Costituzione
francese
del
1791
in
poi
il
divieto
di
mandato
imperativo
ovvero
l
'
obbligo
imposto
ai
rappresentanti
una
volta
eletti
di
difendere
interessi
non
corporativi
.
Che
questo
principio
oggi
.
sia
continuamente
violato
,
è
una
realtà
che
io
stesso
ho
già
rilevato
più
volte
.
Ma
resta
il
fatto
che
la
rappresentanza
parlamentare
è
pur
sempre
meno
particolaristica
,
nonostante
forti
tendenze
in
contrario
,
che
la
rappresentanza
di
grandi
gruppi
organizzati
come
le
associazioni
operaie
e
padronali
che
si
accordano
,
quando
riescono
ad
accordarsi
,
unicamente
allo
scopo
di
regolare
i
loro
reciproci
rapporti
.
Non
c
'
è
dubbio
che
una
decisione
presa
in
base
alla
procedura
dell
'
accordo
fra
le
parti
sia
una
rivincita
della
rappresentanza
degl
'
interessi
su
quella
politica
.
Se
diventasse
la
procedura
maestra
per
prendere
decisioni
collettive
,
sarebbe
,
anzi
,
la
fine
della
rappresentanza
politica
,
e
segnerebbe
la
sconfitta
di
una
delle
battaglie
secolari
di
ogni
governo
democratico
.
La
decisione
per
accordo
tra
grandi
organizzazioni
in
naturale
conflitto
tra
loro
,
la
cosiddetta
«
concertazione
»
,
è
un
aspetto
,
forse
l
'
aspetto
saliente
,
di
quella
nuova
forma
di
Stato
che
viene
chiamato
,
a
torto
o
a
ragione
,
Stato
neocorporativo
,
e
in
cui
alcuni
osservatori
sono
indotti
a
vedere
una
delle
ragioni
principali
di
quella
«
trasformazione
»
della
democrazia
cui
non
si
può
non
guardare
con
una
certa
preoccupazione
.
Se
per
decisionismo
s
'
intende
un
po
'
rozzamente
una
svolta
nello
sviluppo
della
democrazia
,
non
è
detto
che
questa
non
si
trovi
proprio
nella
prevalenza
della
rappresentanza
degl
'
interessi
sulla
rappresentanza
politica
,
prevalenza
di
cui
può
essere
considerata
una
manifestazione
la
tendenza
neocorporativa
assai
più
che
la
riconduzione
del
flusso
delle
decisioni
necessarie
a
governare
nell
'
alveo
dei
rapporti
tra
governo
e
Parlamento
.
StampaQuotidiana ,
Uno
dei
temi
maggiormente
discussi
in
questi
ultimi
anni
fra
studiosi
che
s
'
interrogano
sullo
stato
attuale
della
democrazia
,
è
il
neocorporativismo
.
Il
tema
è
stato
dibattuto
,
a
dire
il
vero
,
più
fuori
d
'
Italia
che
nel
nostro
paese
,
ma
da
due
o
tre
anni
anche
da
noi
il
dibattito
è
cominciato
e
procede
a
ritmo
sempre
più
accelerato
.
Dopo
la
raccolta
di
saggi
,
La
società
neocorporativa
,
a
cura
di
M
.
Maraffi
,
uscita
nel
1981
presso
Il
Mulino
di
Bologna
,
sono
apparse
a
brevissima
distanza
di
tempo
,
presso
lo
stesso
editore
,
altre
due
raccolte
di
articoli
(
in
gran
parte
stranieri
)
sull
'
argomento
,
L
'
organizzazione
degli
interessi
dell
'
Europa
occidentali
(
1983
)
e
La
politica
degli
interessi
nei
paesi
industrializzati
(
1984
)
nonché
il
libro
,
ben
documentato
e
ben
ragionato
,
di
L
.
Bordogna
e
G
.
Provasi
,
Politica
,
economia
i
rappresentanza
degli
interessi
,
che
reca
un
sottotitolo
già
di
per
se
stesso
significativo
:
Uno
studio
sulle
recenti
difficoltà
delle
democrazie
occidentali
.
Ai
lettori
che
non
sono
al
corrente
del
dibattito
fra
gli
addetti
ai
lavori
e
hanno
invece
reminiscenze
storiche
in
cui
il
termine
«
corporativismo
»
è
legato
alla
dottrina
fascista
oppure
hanno
nell
'
orecchio
il
gergo
giornalistico
e
corrente
in
cui
per
società
corporativa
s
'
intende
una
società
frammentata
in
tanti
piccoli
gruppi
che
tendono
a
far
prevalere
i
loro
interessi
particolaristici
sugli
interessi
generali
,
occorre
rivolgere
due
avvertimenti
:
a
)
quando
oggi
si
parla
di
neocorporativismo
,
ci
si
riferisce
a
un
assetto
che
si
è
venuto
formando
in
società
democratiche
,
anzi
in
alcune
delle
democrazie
europee
più
avanzate
,
come
la
Svezia
,
tanto
che
è
diventata
ormai
abituale
la
distinzione
fra
corporativismo
statale
o
fascista
e
corporativismo
sociale
o
democratico
;
b
)
il
neocorporativismo
non
ha
niente
a
che
vedere
con
il
fenomeno
spesso
lamentato
,
specie
in
Italia
,
della
disgregazione
del
tessuto
sociale
in
tanti
gruppi
e
gruppuscoli
rivali
,
le
cui
rivendicazioni
indisciplinate
e
quindi
imprevedibili
rendono
sempre
più
difficile
il
governo
della
società
globale
.
Anzi
,
in
un
certo
senso
,
è
proprio
l
'
opposto
:
si
chiama
oggi
assetto
neocorporativo
quello
in
cui
si
è
formata
la
massima
concentrazione
delle
organizzazioni
degli
interessi
(
volgarmente
i
sindacati
)
e
queste
organizzazioni
prendono
decisioni
collettive
di
grande
rilievo
per
tutta
la
società
attraverso
i
loro
rappresentanti
al
vertice
insieme
con
organi
del
governo
.
Per
capire
la
ragione
di
questa
terminologia
che
può
apparire
ad
alcuni
fuorviante
,
bisogna
rendersi
conto
che
per
«
corporativismo
»
in
generale
nel
linguaggio
tecnico
ormai
consolidato
s
'
intendono
principalmente
due
cose
:
a
)
una
dottrina
che
propugna
la
collaborazione
delle
due
grandi
classi
antagonistiche
dei
datori
di
lavoro
e
dei
lavoratori
,
anziché
il
conflitto
permanente
risolto
di
volta
in
volta
con
aggiustamenti
non
solo
dei
contenuti
ma
anche
delle
regole
di
gioco
,
oppure
la
sopraffazione
di
una
classe
sull
'
altra
;
b
)
uno
strumento
istituzionale
fondamentale
,
consistente
nella
sostituzione
della
rappresentanza
immediata
degli
interessi
particolari
in
contrasto
,
detta
anche
rappresentanza
corporativa
,
alla
rappresentanza
politica
,
propria
della
democrazia
rappresentativa
,
in
cui
l
'
eletto
,
non
vincolato
al
mandato
dei
suoi
elettori
,
deve
provvedere
esclusivamente
agli
interessi
generali
.
Varie
sono
le
ragioni
per
cui
in
Italia
il
dibattito
sul
neocorporativismo
ha
stentato
a
farsi
strada
.
Anzitutto
,
vi
è
una
questione
di
principio
:
la
dottrina
liberale
democratica
italiana
ha
costantemente
rifiutato
di
riconoscere
la
legittimità
di
una
rappresentanza
degli
interessi
accanto
a
quella
politica
,
e
ne
è
prova
la
nostra
Costituzione
che
l
'
ha
relegata
in
un
istituto
secondario
,
il
Consiglio
nazionale
dell
'
economia
e
del
lavoro
,
che
ha
potere
unicamente
consultivo
,
e
che
,
oltretutto
,
è
nato
morto
,
e
non
appena
risuscitato
,
è
subito
rimorto
.
In
secondo
luogo
sono
da
prendere
in
considerazione
le
condizioni
stesse
in
cui
si
è
svolto
in
questi
anni
in
Italia
il
conflitto
sociale
,
ben
di
verso
,
almeno
sino
ad
ora
,
da
quello
dei
paesi
in
cui
si
è
venuto
assestando
a
poco
a
poco
nel
dopoguerra
un
sistema
neocorporativo
.
Questo
esiste
soltanto
nei
paesi
in
cui
vi
è
stato
un
forte
partito
socialdemocratico
,
tanto
forte
da
essere
diventato
per
periodi
più
o
meno
lunghi
partito
di
governo
,
il
partito
che
è
stato
chiamato
del
«
compromesso
»
,
ovvero
dell
'
accettazione
temporanea
del
sistema
capitalistico
corretto
da
politiche
redistributive
.
In
Italia
il
più
forte
partito
della
classe
operaia
non
è
e
non
vuole
essere
un
partito
socialdemocratico
e
nulla
vi
è
di
più
estraneo
alla
sua
«
filosofia
»
e
a
quella
dei
maggiori
sindacati
,
anche
di
quelli
di
matrice
non
comunista
,
che
l
'
idea
del
compromesso
sociale
,
da
non
confondersi
con
il
compromesso
politico
,
che
invece
è
parte
integrante
della
strategia
del
partito
comunista
(
ma
la
differenza
fra
i
due
tipi
di
compromesso
richiederebbe
un
lungo
discorso
che
rimando
ad
altra
occasione
)
.
Dal
punto
di
vista
del
sistema
politico
nel
suo
complesso
,
l
'
assetto
neocorporativo
rappresenta
uno
spostamento
del
luogo
classico
delle
decisioni
collettive
,
che
in
un
sistema
parlamentare
risiede
nel
Parlamento
e
nel
governo
,
mentre
nell
'
assetto
neocorporativo
la
decisione
è
presa
al
di
fuori
del
parlamento
e
del
governo
,
che
rappresenta
,
nella
più
favorevole
delle
ipotesi
,
solo
una
delle
due
parti
in
conflitto
.
Di
questi
due
sistemi
decisionali
,
il
primo
è
completamente
istituzionalizzato
,
l
'
altro
è
un
sistema
ancora
debolmente
o
non
affatto
istituzionalizzato
che
,
emerso
a
poco
a
poco
dalla
società
civile
,
costituisce
uno
dei
fenomeni
più
appariscenti
della
«
trasformazione
»
della
democrazia
tuttora
in
corso
.
A
un
fenomeno
di
questo
genere
non
può
non
far
pensare
il
contrasto
che
si
è
avuto
qualche
mese
fa
in
Italia
fra
governo
e
opposizione
rispetto
al
modo
di
prendere
la
decisione
sul
costo
del
lavoro
.
Si
è
trattato
infatti
di
un
contrasto
fra
due
procedure
alternative
per
la
formazione
delle
decisioni
collettive
:
mediante
accordo
fra
le
parti
in
cui
lo
Stato
entra
soltanto
come
mediatore
,
oppure
attraverso
la
formazione
della
maggioranza
nella
sede
propria
della
rappresentanza
politica
.
Si
potrebbe
parlare
addirittura
di
una
vera
e
propria
forma
di
«
doppio
Stato
»
,
non
nel
senso
del
contrasto
fra
Stato
normativo
e
Stato
discrezionale
,
analizzato
a
suo
tempo
da
Ernst
Fraenkel
,
ma
nel
senso
del
contrasto
fra
due
procedure
di
decisione
,
che
si
escludono
a
vicenda
,
pur
essendo
entrambe
compatibili
,
sui
principi
fondamentali
della
democrazia
,
secondo
la
quale
una
decisione
collettiva
deve
essere
legittimata
in
ultima
istanza
dal
consenso
diretto
o
indiretto
degli
interessati
.
StampaQuotidiana ,
La
conclusione
dell
'
articolo
precedente
,
in
cui
parlo
di
un
«
doppio
Stato
»
a
proposito
dello
Stato
neocorporativo
,
è
manifestamente
forzata
.
Nella
realtà
,
e
senza
forzature
,
un
doppio
Stato
esiste
davvero
in
Italia
,
ma
non
è
quello
neocorporativo
:
è
lo
Stato
che
deriva
dalla
sopravvivenza
e
dalla
robusta
consistenza
di
un
potere
invisibile
accanto
a
quello
visibile
.
Alcuni
anni
or
sono
uno
studioso
americano
in
un
libro
tradotto
anche
in
italiano
,
I
confini
della
legittimazione
(
De
Donato
,
Roma
)
,
per
sottolineare
l
'
estensione
del
potere
occulto
negli
Stati
Uniti
negli
anni
di
Nixon
,
ha
usato
l
'
espressione
«
the
duali
State
»
che
corrisponde
esattamente
al
nostro
«
doppio
Stato
»
.
Dei
due
presunti
Stati
di
una
società
neocorporativa
dicevo
che
erano
entrambi
compatibili
coi
principi
fondamentali
della
democrazia
.
La
stessa
cosa
non
vale
quando
dei
due
Stati
l
'
uno
è
lo
Stato
visibile
,
l
'
altro
quello
invisibile
.
Lo
Stato
invisibile
è
l
'
antitesi
radicale
della
democrazia
.
Si
può
definire
la
democrazia
(
ed
è
stata
di
fatto
definita
)
nei
modi
più
diversi
.
Ma
non
vi
è
definizione
in
cui
possa
mancare
l
'
elemento
caratterizzante
della
visibilità
o
della
trasparenza
del
potere
.
Governo
democratico
è
quello
che
svolge
la
propria
attività
in
pubblico
,
sotto
gli
occhi
di
tutti
.
E
deve
svolgere
la
propria
attività
sotto
gli
occhi
di
tutti
perché
ogni
cittadino
ha
il
diritto
di
essere
posto
in
grado
di
formarsi
una
libera
opinione
sulle
decisioni
che
vengono
prese
in
suo
nome
.
Altrimenti
,
per
quale
ragione
dovrebbe
essere
chiamato
a
recarsi
periodicamente
alle
urne
,
e
su
quali
basi
potrebbe
esprimere
il
proprio
voto
di
approvazione
e
di
condanna
?
Che
il
potere
tenda
a
mettersi
la
maschera
per
non
farsi
riconoscere
e
per
poter
svolgere
la
propria
azione
lontano
da
sguardi
indiscreti
,
è
una
vecchia
storia
.
Questa
vecchia
storia
ha
anche
un
celebre
nome
che
al
solo
pronunciarlo
mette
i
brividi
nella
schiena
:
arcana
imperii
.
Nella
sua
analisi
magistrale
del
potere
Elias
Canetti
ha
scritto
:
«
Il
segreto
sta
nel
nucleo
più
interno
del
potere
»
(
Massa
e
potere
,
Adelphi
,
Milano
1981
)
.
I
padri
fondatori
della
democrazia
pretesero
di
dar
vita
a
una
forma
di
governo
che
non
avesse
più
maschera
,
in
cui
gli
arcani
del
dominio
fossero
definitivamente
aboliti
e
questo
«
nucleo
interno
»
distrutto
.
Molte
sono
le
promesse
non
mantenute
della
democrazia
reale
rispetto
alla
democrazia
ideale
.
E
la
graduale
sostituzione
della
rappresentanza
degl
'
interessi
alla
rappresentanza
politica
di
cui
mi
sono
occupato
nell
'
articolo
precedente
è
una
di
queste
.
Ma
rientra
,
insieme
con
altre
,
nel
capitolo
generale
delle
cosiddette
«
trasformazioni
»
della
democrazia
.
Il
potere
occulto
,
no
.
Non
trasforma
la
democrazia
,
la
perverte
.
Non
la
colpisce
più
o
meno
gravemente
in
uno
dei
suoi
organi
vitali
,
la
uccide
.
Di
tutte
le
promesse
non
mantenute
,
è
quella
che
maggiormente
ne
offende
lo
spirito
,
ne
devia
il
corso
naturale
,
ne
vanifica
lo
scopo
.
Grazie
ai
risultati
ormai
noti
della
Commissione
parlamentare
d
'
inchiesta
presieduta
dall
'
on.
Tina
Anselmi
,
ai
numerosi
documenti
resi
pubblici
,
alle
dichiarazioni
di
parlamentari
e
di
personaggi
variamente
autorevoli
,
alle
inchieste
giornalistiche
,
sappiamo
ormai
sulla
loggia
segreta
di
Licio
Gelli
molto
di
più
di
quello
che
si
venne
a
sapere
in
seguito
alle
perquisizioni
nella
villa
di
Arezzo
e
nell
'
ufficio
di
Castiglion
Fibocchi
del
marzo
1981
.
Ma
prima
di
allora
io
stesso
avevo
cominciato
a
parlare
,
se
pure
con
una
espressione
che
era
apparsa
eccessiva
,
di
«
criptogoverno
»
(
in
un
articolo
sulla
«
Stampa
»
del
23
novembre
1980
)
.
Ho
ora
sott
'
occhio
la
voluminosa
e
documentata
relazione
di
minoranza
dell
'
on.
Massimo
Teodori
,
del
partito
radicale
,
sulla
medesima
inchiesta
.
La
tesi
principale
ivi
sostenuta
,
secondo
cui
la
loggia
P2
sarebbe
stata
parte
integrante
del
sistema
dei
partiti
e
pertanto
debba
essere
considerata
come
un
effetto
diretto
della
degenerazione
partitocratica
della
democrazia
italiana
,
dalla
quale
sarebbe
derivata
una
vera
e
propria
dislocazione
del
potere
fuori
dalle
sedi
costituzionalmente
riconosciute
,
si
può
anche
discutere
e
non
accettare
integralmente
.
Ma
è
da
ritenere
fuori
discussione
che
la
loggia
P2
,
come
rileva
giustamente
Teodori
,
abbia
esercitato
in
alcuni
momenti
della
nostra
vita
nazionale
una
influenza
ben
più
ampia
,
profonda
,
determinante
,
che
una
semplice
lobby
e
abbia
costituito
,
per
l
'
appartenenza
degli
affiliati
alle
più
alte
gerarchie
dello
Stato
e
ai
più
elevati
strati
della
società
,
alti
funzionari
,
diplomatici
,
generali
,
giornalisti
,
e
quel
che
è
ancora
più
scandaloso
,
uomini
politici
di
quella
che
si
chiama
-
oh
,
ironia
dei
nomi
!
-
l
'
area
democratica
del
nostro
sistema
politico
,
una
compiuta
organizzazione
di
potere
occulto
presso
,
dietro
,
sotto
(
o
sopra
?
)
lo
Stato
.
Indipendentemente
dalle
conseguenze
direttamente
politiche
,
che
forse
non
sono
da
sopravvalutare
,
la
formazione
di
una
simile
rete
di
potere
sotterraneo
è
di
per
se
stessa
una
vergogna
nazionale
dalla
quale
dobbiamo
redimerci
per
poter
diventare
pienamente
credibili
come
soggetti
di
un
regime
democratico
nel
consesso
internazionale
.
Senza
pregiudizi
,
s
'
intende
,
verso
le
persone
,
giacché
non
tutte
sono
egualmente
responsabili
,
ma
anche
senza
indulgenze
.
Non
possiamo
però
fingere
di
non
accorgerci
che
sin
d
'
ora
ciò
che
è
emerso
dalla
documentazione
è
una
prova
avvilente
della
mediocrità
intellettuale
e
morale
di
una
parte
non
piccola
della
nostra
classe
dirigente
.
Le
rivelazioni
sulla
vita
di
Gelli
sono
tali
da
farci
restare
allibiti
(
e
inorriditi
)
alla
scoperta
che
la
maggior
parte
di
coloro
che
sono
entrati
volontariamente
nella
sua
cerchia
per
sottomettersi
alla
protezione
di
un
uomo
che
non
aveva
altro
scopo
che
quello
di
estendere
il
proprio
potere
con
qualsiasi
mezzo
,
rendendo
in
cambio
della
protezione
servigi
presuntivamente
illeciti
per
la
loro
stessa
segretezza
,
siano
personaggi
quasi
tutti
di
altissimo
rango
,
e
nessuno
di
essi
abbia
avuto
in
anni
di
commerci
sospetti
con
il
fondatore
della
loggia
un
moto
di
ribellione
,
e
abbia
compiuto
un
atto
di
resipiscenza
.
Sono
considerato
uno
che
vede
sempre
nero
,
un
pessimista
cronico
.
Eppure
confesso
che
non
avrei
mai
immaginato
che
la
vita
italiana
fosse
stata
inquinata
sino
a
questo
punto
,
sino
al
punto
in
cui
non
sai
se
più
indignarti
della
bassa
qualità
dell
'
intrigo
o
del
grande
numero
delle
persone
che
vi
hanno
preso
parte
,
per
la
spudoratezza
di
chi
ha
guidato
il
gioco
o
per
la
insensibilità
di
coloro
che
l
'
hanno
accettato
,
e
dei
quali
molti
vengono
chiamati
nella
retorica
di
rito
delle
cerimonie
ufficiali
«
servitori
dello
Stato
»
.
La
realtà
ha
superato
questa
volta
la
più
catastrofica
delle
immaginazioni
.
Lo
Stato
democratico
deve
essere
ripristinato
nella
sua
integrità
.
Il
potere
occulto
deve
essere
snidato
ovunque
si
annidi
,
inflessibilmente
.
Non
ci
possono
essere
due
Stati
.
Lo
Stato
italiano
è
uno
solo
,
quello
della
Costituzione
repubblicana
.
Al
di
fuori
non
c
'
è
che
l
'
antistato
che
deve
essere
abbattuto
cominciando
dal
tetto
ed
arrivando
,
se
mai
sarà
possibile
,
alle
fondamenta
.
StampaQuotidiana ,
Per
giudicare
della
bontà
di
una
causa
,
nulla
è
meglio
che
vagliare
la
maggiore
o
minore
forza
degli
argomenti
che
entrambe
le
parti
impiegano
per
difenderla
e
dei
controargomenti
di
cui
si
servono
per
combattere
gli
argomenti
dell
'
avversario
.
Sgombero
subito
il
campo
da
un
falso
argomento
addotto
ripetutamente
dai
fautori
del
«
sí
»
:
l
'
appello
al
principio
«
la
legge
è
eguale
per
tutti
»
.
Che
la
legge
debba
essere
eguale
per
tutti
non
significa
affatto
che
tutti
debbano
essere
trattati
in
modo
eguale
.
Sarebbe
un
'
insensatezza
.
L
'
unico
significato
certo
attribuibile
alla
massima
,
che
si
vede
scritta
sui
frontoni
di
tutti
i
tribunali
,
è
che
la
legge
,
qualsiasi
legge
,
deve
essere
applicata
imparzialmente
a
tutti
,
ricchi
e
poveri
,
nobili
e
plebei
.
Ciò
che
la
cosiddetta
«
regola
di
giustizia
»
richiede
è
che
siano
trattati
egualmente
gli
eguali
e
disegualmente
i
diseguali
.
Sono
forse
i
giudici
eguali
agli
altri
cittadini
rispetto
all
'
estensione
della
responsabilità
civile
?
Anche
i
fautori
del
«
sí
»
riconoscono
che
non
lo
sono
:
qualunque
sia
l
'
esito
del
voto
,
la
responsabilità
dei
giudici
sarà
ad
ogni
modo
diversa
da
quella
dei
singoli
cittadini
.
Nell
'
attuale
disputa
la
massima
non
c
'
entra
assolutamente
nulla
.
L
'
invocarla
come
una
buona
ragione
per
indurre
a
votare
«
sí
»
è
uno
sproposito
.
Atteniamoci
dunque
agli
argomenti
razionali
,
vale
a
dire
alle
ragioni
pro
o
contro
,
addotte
sulla
base
di
giudizi
di
fatto
controllabili
,
sia
rispetto
alle
premesse
sia
rispetto
alle
conseguenze
.
Nonostante
il
profluvio
di
parole
che
si
è
rovesciato
in
questi
giorni
sui
giornali
,
questi
argomenti
sono
sempre
gli
stessi
.
Chi
vada
a
leggere
ciò
che
si
scrisse
nella
primavera
del
1986
quando
ebbe
inizio
la
campagna
per
la
raccolta
delle
firme
,
si
renderà
conto
facilmente
di
quel
che
sto
dicendo
,
anche
se
possono
essere
cambiati
alcuni
interlocutori
,
e
identici
interlocutori
possono
oggi
sostenere
tesi
diverse
da
quelle
di
ieri
.
A
ragion
veduta
si
può
dire
che
gli
argomenti
addotti
da
una
parte
e
dall
'
altra
ruotano
intorno
a
due
temi
fondamentali
:
i
)
se
il
quesito
posto
sia
conforme
allo
scopo
,
che
sarebbe
per
i
promotori
una
giustizia
più
giusta
;
2
)
ammesso
che
il
quesito
sia
conforme
allo
scopo
,
se
a
sua
volta
sia
conforme
allo
scopo
lo
strumento
adottato
per
risolverlo
,
il
referendum
.
I
fautori
del
«
no
»
sostengono
che
ci
troviamo
di
fronte
a
un
caso
davvero
singolare
di
un
metodo
sbagliato
usato
per
risolvere
una
questione
mal
posta
.
Sul
primo
punto
alle
persone
di
buon
senso
è
parso
sin
dall
'
inizio
incomprensibile
perché
dal
gran
mazzo
di
problemi
insoluti
relativi
alla
giustizia
si
sia
estratto
il
problema
della
responsabilità
civile
.
Tanto
più
che
due
dei
proponenti
facevano
parte
del
governo
,
e
di
governi
che
non
erano
mai
stati
troppo
zelanti
nel
cercare
di
risolvere
gli
altri
problemi
.
Sinora
i
fautori
del
«
sí
»
non
hanno
fatto
nulla
per
aiutarci
a
capire
.
Attribuire
la
responsabilità
dei
malanni
della
giustizia
ai
giudici
,
sarebbe
come
far
ricadere
i
malanni
della
scuola
sui
professori
,
della
sanità
sui
medici
e
,
perché
no
?
,
tutti
i
guai
del
paese
soltanto
sulla
classe
politica
.
Che
sia
utile
ridiscutere
il
problema
della
responsabilità
civile
dei
giudici
,
non
è
ancora
un
buon
argomento
per
considerarlo
il
problema
principale
,
da
risolvere
prima
di
tutti
gli
altri
.
Si
capisce
come
sia
potuto
nascere
il
sospetto
che
la
funzione
del
referendum
fosse
unicamente
quella
di
dare
una
lezione
ai
giudici
troppo
inframettenti
.
Non
è
il
caso
di
fare
il
processo
alle
intenzioni
.
Ma
siamo
proprio
sicuri
che
non
gli
attribuiscano
questa
funzione
la
maggior
parte
dei
cittadini
che
voteranno
«
sí
»
?
Giorni
fa
un
tassista
,
che
si
accalorava
parlandomi
di
una
lite
scoppiata
tra
gruppi
rivali
di
conduttori
,
mi
disse
che
il
Tar
aveva
dato
loro
ragione
ma
gli
altri
erano
ricorsi
al
Consiglio
di
Stato
.
Però
,
aggiunse
,
siccome
la
sentenza
sarà
emanata
dopo
il
referendum
,
«
se
ci
danno
torto
gliela
faremo
pagare
»
.
Un
cittadino
,
non
sprovveduto
,
riteneva
dunque
in
buona
fede
che
dopo
la
«
valanga
»
dei
«
sí
»
,
chi
ha
torto
potrà
d
'
ora
innanzi
procedere
non
per
far
rivedere
la
sentenza
ma
per
punire
il
giudice
.
Rinunciamo
pure
a
fare
il
processo
alle
intenzioni
dei
promotori
.
Ma
non
siamo
del
tutto
tranquilli
sulle
intenzioni
dei
bravi
cittadini
che
risponderanno
all
'
appello
del
«
sí
»
.
Se
ne
rendono
conto
coloro
che
hanno
variamente
contribuito
a
costruire
questa
macchina
di
guerra
contro
la
magistratura
italiana
?
E
rendendosene
conto
,
che
cosa
rispondono
?
Quanto
al
secondo
punto
,
l
'
idoneità
del
referendum
come
strumento
,
l
'
argomento
contrario
è
fortissimo
.
All
'
argomento
secondo
cui
il
problema
della
responsabilità
civile
del
giudice
non
può
essere
risolto
con
un
«
sí
»
e
con
un
«
no
»
,
non
può
essere
data
nessuna
risposta
convincente
,
tanto
è
vero
che
neppure
i
fautori
del
«
sí
»
cercano
di
darla
.
Dopo
l
'
abrogazione
tutti
sanno
che
bisognerà
ricominciare
da
capo
.
Il
solo
argomento
addotto
dai
promotori
è
stato
che
lo
scopo
del
referendum
non
era
quello
di
decidere
ciò
che
un
referendum
non
può
decidere
ma
quello
di
«
stimolare
»
il
legislatore
a
decidere
.
Che
il
nostro
Parlamento
abbia
bisogno
di
stimoli
per
agire
,
come
un
individuo
in
stato
di
depressione
permanente
,
è
desolante
.
Ma
lasciamo
andare
.
Ora
che
lo
stimolo
sembra
abbia
prodotto
il
suo
effetto
,
e
più
o
meno
tutti
,
compresa
la
maggior
parte
dei
magistrati
,
sono
d
'
accordo
sulla
riforma
,
tanto
che
nella
passata
legislatura
pareva
che
il
«
vuoto
»
stesse
per
essere
colmato
prima
che
si
formasse
,
che
necessità
c
'
è
che
la
stimolazione
continui
?
Anche
a
questa
domanda
non
sono
riuscito
a
trovare
che
risposte
vaghe
,
forse
sarebbe
meglio
dire
nessuna
risposta
.
Il
referendum
da
strumento
diventa
fine
a
se
stesso
.
Il
referendum
per
il
referendum
.
Ovvero
:
perché
il
referendum
?
Perché
sì
.
Concludendo
:
chi
ritiene
non
sia
stata
sufficientemente
giustificata
la
scelta
del
quesito
,
dovrebbe
rispondere
«
no
»
.
Chi
invece
ritiene
non
sia
stata
sufficientemente
giustificata
la
scelta
del
mezzo
per
risolverlo
dovrebbe
non
andare
a
votare
.
Chi
ritiene
che
non
siano
state
sufficientemente
giustificate
entrambe
può
scegliere
di
votare
«
no
»
o
di
non
votare
.
StampaQuotidiana ,
Da
qualche
tempo
si
parla
della
riforma
costituzionale
con
un
fervore
senza
precedenti
.
Sono
intervenute
nel
dibattito
,
forse
per
la
prima
volta
contemporaneamente
,
le
più
alte
autorità
dello
Stato
,
a
cominciare
dal
presidente
della
Repubblica
,
che
,
con
espressione
felice
,
ha
auspicato
al
paese
una
«
democrazia
più
matura
»
.
La
discussione
è
nata
circa
una
decina
d
'
anni
fa
,
ha
attraversato
due
legislature
,
l
'
ottava
e
la
nona
,
e
ora
si
riaffaccia
all
'
inizio
della
decima
.
Sono
stati
scritti
sull
'
argomento
migliaia
di
articoli
,
sono
state
date
migliaia
d
'
interviste
,
sono
stati
pubblicati
decine
di
libri
di
esperti
.
Sotto
la
direzione
di
Gianfranco
Miglio
si
era
costituito
alcuni
anni
fa
un
gruppo
di
studio
per
la
«
nuova
Costituzione
»
da
cui
sono
usciti
nel
1983
tre
o
quattro
volumi
molto
commentati
alla
loro
apparizione
.
Per
ben
due
volte
si
è
detto
:
questa
sarà
la
legislatura
della
grande
riforma
.
Ora
è
la
terza
.
Eppure
sinora
la
grande
riforma
non
ha
mosso
neppure
il
primo
passo
.
Né
la
grande
né
la
piccola
.
Neppure
la
piccolissima
,
quella
dei
regolamenti
parlamentari
.
Perché
?
La
spiegazione
più
semplice
di
cui
tutti
sono
consapevoli
ma
che
fingono
d
'
ignorare
,
è
la
seguente
.
L
'
esigenza
di
cambiare
la
Costituzione
nasce
dalla
constatazione
,
diventata
ormai
quasi
ossessiva
,
che
il
nostro
sistema
politico
è
inefficiente
.
Ma
è
proprio
l
'
inefficienza
del
sistema
che
sinora
ha
reso
difficile
,
se
non
impossibile
,
il
cambiamento
.
La
funzione
del
sistema
politico
è
quella
di
produrre
decisioni
ovvero
regole
imperative
per
risolvere
conflitti
d
'
interesse
fra
individui
e
fra
gruppi
al
fine
di
renderne
possibile
la
pacifica
convivenza
.
Si
dice
che
un
sistema
politico
funziona
bene
quando
riesce
a
prendere
decisioni
opportune
nel
più
breve
tempo
possibile
e
con
il
minor
dispendio
di
energie
da
parte
dei
decisori
.
Sotto
questo
aspetto
il
nostro
sistema
avrebbe
dimostrato
di
non
essere
un
buon
sistema
.
Di
qua
l
'
esigenza
di
riformarlo
sveltendone
le
procedure
.
La
maggior
parte
delle
proposte
sinora
fatte
convergono
verso
questo
scopo
,
dalla
modificazione
del
sistema
bicamerale
alla
riforma
dei
regolamenti
delle
Camere
,
dall
'
attribuzione
di
maggiore
autorità
al
presidente
del
Consiglio
al
cambiamento
della
legge
elettorale
per
diminuire
il
numero
dei
partiti
e
rendere
meno
affollate
le
coalizioni
di
governo
.
Queste
proposte
per
essere
attuate
debbono
trasformarsi
in
decisioni
.
Ma
chi
deve
prendere
queste
decisioni
?
Naturalmente
gli
stessi
organi
dello
Stato
di
cui
si
chiede
a
gran
voce
la
riforma
perché
decidono
male
.
Con
un
'
aggravante
in
più
:
che
le
decisioni
in
materia
costituzionale
sono
regolate
da
norme
che
le
rendono
più
difficili
.
Il
paradosso
della
riforma
costituzionale
,
il
paradosso
che
spiega
la
paralisi
,
è
tutto
qui
:
per
riformare
la
Costituzione
occorrono
condizioni
,
per
lo
più
aggravate
,
dalla
cui
mancanza
è
nata
l
'
esigenza
di
riformare
la
Costituzione
.
In
altre
parole
,
le
condizioni
che
rendono
necessaria
la
riforma
sono
quelle
stesse
che
sinora
l
'
hanno
resa
impossibile
.
Se
la
riforma
della
Costituzione
fosse
un
'
operazione
facile
,
vorrebbe
dire
che
il
nostro
sistema
funziona
bene
.
Ma
se
funzionasse
bene
,
che
bisogno
ci
sarebbe
della
riforma
?
Siamo
in
un
circolo
vizioso
,
da
cui
non
si
sa
bene
come
uscire
.
Ho
voluto
forzare
un
po
'
il
ragionamento
unicamente
per
mostrare
la
reale
difficoltà
dell
'
operazione
,
e
per
cercare
di
capire
perché
,
nonostante
la
montagna
di
parole
,
non
ne
sia
venuto
fuori
in
tanti
anni
neppure
il
topolino
di
un
fatto
concreto
.
La
discussione
è
ancora
ferma
ai
preliminari
:
è
meglio
cominciare
dalle
grandi
riforme
e
procedere
verso
le
piccole
o
partire
dalle
piccole
per
salire
a
poco
a
poco
alle
grandi
?
Conviene
dare
la
precedenza
alla
Costituzione
vera
e
propria
oppure
al
sistema
elettorale
?
La
prima
alternativa
sembra
ormai
risolta
:
si
poteva
cominciare
dalle
piccole
riforme
subito
,
ma
ora
,
dopo
tanti
rinvii
e
tante
aspettative
deluse
,
non
si
può
cominciare
se
non
da
qualche
azione
clamorosa
.
Dare
una
risposta
alla
seconda
alternativa
è
più
difficile
,
perché
,
se
ci
sono
convergenze
rispetto
alla
prima
,
rispetto
a
questa
ogni
partito
va
per
conto
suo
e
cerca
di
tirar
l
'
acqua
al
proprio
mulino
.
E
si
capisce
:
non
esiste
una
procedura
elettorale
da
cui
possano
trarre
vantaggio
tutti
i
partiti
.
C
'
è
una
sola
procedura
che
a
rigore
renda
a
ciascuno
il
suo
ed
è
la
proporzionale
pura
con
il
minimo
di
correttivi
.
Ma
,
guarda
caso
,
questa
è
proprio
una
delle
cause
del
difetto
del
sistema
per
quel
che
riguarda
la
sua
capacità
operativa
.
Di
qua
un
altro
paradosso
:
il
procedimento
più
equo
dal
punto
di
vista
del
modo
di
comporre
il
Parlamento
è
anche
quello
meno
conveniente
dal
punto
di
vista
del
suo
buon
funzionamento
.
Si
può
mettere
il
problema
anche
in
questo
modo
:
i
due
organi
più
importanti
per
la
formazione
delle
decisioni
sono
il
Parlamento
e
il
Governo
.
La
proporzionale
è
la
procedura
migliore
per
la
composizione
del
Parlamento
che
,
se
deve
essere
un
organo
rappresentativo
,
deve
rispecchiare
con
la
massima
precisione
gli
orientamenti
del
paese
.
Per
la
capacità
operativa
del
Governo
,
invece
,
occorre
la
drastica
riduzione
dei
gruppi
politici
,
che
si
può
ottenere
soltanto
abolendo
o
correggendo
la
proporzionale
.
Queste
difficoltà
sono
sotto
gli
occhi
di
tutti
.
Oggi
rese
se
mai
più
gravi
dal
fatto
che
il
naturale
inizio
di
un
serio
dibattito
avrebbe
potuto
essere
una
commissione
parlamentare
.
Ma
questo
espediente
è
stato
ormai
bruciato
durante
la
nona
legislatura
con
la
Commissione
presieduta
dall
'
on.
Bozzi
,
composta
da
alcuni
dei
più
bravi
giuristi
italiani
.
Il
risultato
del
lavoro
della
Commissione
è
stato
una
bella
relazione
,
diventata
rapidamente
un
documento
d
'
archivio
,
se
non
addirittura
carta
da
macero
.
Nessuno
oggi
pensa
di
proporre
la
ripetizione
della
prova
.
Si
parla
d
'
incontri
bilaterali
.
Ma
che
cosa
s
'
intende
?
Se
s
'
intende
l
'
incontro
di
un
partito
,
per
esempio
quello
di
maggioranza
relativa
,
con
i
principali
partiti
di
governo
e
di
opposizione
,
la
cosa
sarebbe
possibile
ma
non
sarebbe
giusta
.
Se
s
'
intende
l
'
incontro
di
ogni
partito
con
tutti
gli
altri
,
come
si
dovrebbe
intendere
alla
lettera
,
ne
verrebbe
fuori
una
bella
confusione
.
Dopo
quasi
dieci
anni
insomma
sembra
che
si
debba
cominciare
da
capo
.
Ma
ormai
non
si
può
più
tornare
indietro
.
La
grande
riforma
è
diventata
una
sfida
per
la
nostra
classe
politica
.
Una
sfida
che
essa
deve
vincere
se
non
vuol
perdere
un
'
altra
parte
della
sua
credibilità
.
A
furia
di
fare
della
Costituzione
il
capro
espiatorio
di
tutti
i
guai
della
repubblica
,
si
è
finito
per
screditarla
.
Non
si
può
più
tornare
indietro
ma
non
si
può
neppure
fallire
.
Il
fallimento
sarebbe
un
ulteriore
segno
della
crisi
irreversibile
del
sistema
democratico
,
che
solleva
più
problemi
di
quelli
che
sia
in
grado
di
risolvere
,
e
non
riuscendo
a
risolvere
i
piccoli
se
ne
pone
di
sempre
più
grandi
.
Come
il
giocatore
che
punta
somme
via
via
più
alte
per
rifarsi
delle
perdite
precedenti
e
alla
fine
perde
tutto
:
oltre
la
camicia
,
anche
l
'
onore
.