StampaQuotidiana ,
Il
problema
dei
rapporti
fra
intellettuali
e
potere
è
un
tema
ricorrente
.
In
questi
giorni
si
è
svolto
un
convegno
su
questo
tema
,
in
occasione
della
pubblicazione
del
quarto
volume
degli
«
Annali
della
storia
d
'
Italia
»
einaudiana
,
intitolato
appunto
Intellettuali
e
potere
.
Nell
'
ultima
riunione
del
Comitato
centrale
Aldo
Tortorella
,
responsabile
dell
'
organizzazione
culturale
del
pci
,
ha
svolto
un
'
ampia
relazione
in
cui
ripropone
il
tema
del
«
ruolo
delle
istituzioni
culturali
per
il
rinnovamento
e
la
trasformazione
della
società
e
dello
Stato
»
.
Si
sta
svolgendo
a
Roma
un
convegno
promosso
da
intellettuali
del
psi
,
che
dovrebbe
concludersi
,
nientemeno
,
con
«
un
manifesto
per
la
cultura
italiana
»
.
Non
sono
passati
molti
giorni
dalla
conclusione
dell
'
Assemblea
nazionale
della
dc
,
provocata
o
ispirata
da
uomini
di
cultura
cattolici
preoccupati
del
venir
meno
della
tensione
ideale
nella
lotta
politica
in
Italia
,
il
cui
protagonista
è
da
più
di
trent
'
anni
un
partito
che
si
chiama
cristiano
.
Il
tema
è
ricorrente
,
perché
i
rapporti
fra
politica
e
cultura
sono
difficili
.
All
'
atteggiamento
di
diffidenza
del
politico
per
l
'
intellettuale
corrisponde
un
analogo
atteggiamento
di
diffidenza
dell
'
intellettuale
per
il
politico
.
Alcuni
anni
fa
è
stata
pubblicata
la
traduzione
italiana
del
libro
di
R
.
Hofstadter
,
Società
e
intellettuali
in
America
(
Einaudi
,
Torino
1968
)
,
che
,
pur
riferendosi
agli
Stati
Uniti
degli
anni
del
maccartismo
,
presenta
un
'
ampia
documentazione
storica
sul
tema
del
conflitto
permanente
fra
l
'
uomo
politico
che
ha
o
crede
di
avere
i
piedi
per
terra
e
l
'
idealista
nelle
nuvole
,
accusato
di
inventare
progetti
bellissimi
ma
irrealizzabili
.
Una
versione
recentissima
e
casalinga
di
questa
antica
avversione
ho
colto
in
un
'
intervista
pubblicata
una
settimana
fa
,
in
cui
il
ministro
Marcora
,
volendo
tirare
le
orecchie
agli
ottimisti
,
dice
a
un
certo
punto
:
«
Sono
un
uomo
pratico
,
io
.
Sono
un
vecchio
lombardo
,
sto
in
politica
da
trent
'
anni
,
non
sono
un
intellettuale
.
Guardo
al
sodo
»
.
Non
ci
vuole
molta
fantasia
a
immaginare
una
battuta
diametralmente
opposta
in
bocca
a
un
intellettuale
:
«
Sono
un
uomo
che
cerca
di
capire
come
vanno
le
cose
.
Non
improvviso
,
ci
penso
su
.
Non
sono
un
politico
.
Guardo
nel
fondo
»
.
Proprio
perché
questi
rapporti
sono
difficili
,
e
sono
difficili
perché
l
'
intellettuale
e
il
politico
hanno
vocazioni
,
ambizioni
,
progetti
di
vita
,
capacità
diverse
,
e
non
c
'
è
gioco
di
prestigio
dialettico
che
valga
a
mediare
o
a
superare
queste
differenze
,
il
problema
non
si
risolve
con
alternative
drastiche
come
questa
:
«
L
'
intellettuale
è
un
seminatore
di
dubbi
»
(
così
Rosellina
Balbi
sulla
«
Repubblica
»
)
.
«
No
,
è
un
raccoglitore
di
certezze
»
(
così
,
almeno
sembra
,
Sanguineti
sull
'
«
Unità
»
)
.
Per
quanto
il
problema
dei
rapporti
fra
intellettuali
e
potere
sia
un
tema
ricorrente
,
o
forse
proprio
per
questo
,
non
è
un
problema
cui
si
possa
dare
una
soluzione
netta
una
volta
per
sempre
.
E
non
si
può
almeno
per
due
ragioni
.
Prima
di
tutto
perché
questa
benedetta
categoria
degl
'
intellettuali
è
vasta
,
varia
,
divisa
,
e
ogni
volta
che
se
ne
parla
bisogna
intendersi
bene
di
che
cosa
si
vuol
parlare
.
In
secondo
luogo
,
perché
,
dato
per
ammesso
che
i
rapporti
tra
gli
intellettuali
(
ma
quali
intellettuali
?
)
e
il
potere
siano
difficili
,
non
è
affatto
detto
siano
sempre
della
stessa
natura
.
Alcuni
anni
fa
mi
è
accaduto
di
distinguere
gl
'
intellettuali
che
ho
chiamato
«
esperti
»
,
da
quelli
che
ho
chiamato
«
ideologi
»
.
Vedo
che
la
distinzione
è
stata
ripresa
da
Corrado
Vivanti
,
se
pure
con
qualche
riserva
,
nella
prefazione
al
volume
degli
annali
einaudiani
dianzi
citato
.
Mi
sono
accorto
dopo
che
nel
notissimo
rapporto
della
Commissione
trilaterale
sulla
crisi
della
democrazia
si
distinguono
gli
intellettuali
tecnocrati
da
quelli
«
orientati
verso
i
valori
»
(
«
value
-
oriented
»
)
:
distinzione
analoga
alla
mia
,
se
pure
caricata
di
un
giudizio
di
valore
,
positivo
per
i
primi
,
negativo
per
i
secondi
,
lontanissimo
dalle
mie
intenzioni
.
La
distinzione
è
rilevante
,
a
mio
parere
,
perché
il
rapporto
fra
intellettuali
e
potere
cambia
secondo
che
ci
si
riferisca
agli
esperti
o
agli
ideologi
.
I
primi
offrono
ai
politici
conoscenze
,
informazioni
,
dati
elaborati
;
i
secondi
principi
,
direttive
,
prospettive
di
azione
.
Nella
irrequietezza
degl
'
intellettuali
che
hanno
agitato
le
acque
stagnanti
della
democrazia
cristiana
vedo
lo
stato
d
'
animo
tipico
dell
'
intellettuale
che
fa
appello
ai
valori
,
chiede
il
ritorno
ai
principi
primi
,
e
inalbera
la
questione
morale
;
al
contrario
,
nel
rivolgersi
,
del
resto
non
per
la
prima
volta
,
del
partito
comunista
agli
uomini
di
cultura
,
vedo
soprattutto
l
'
interesse
che
ha
questo
partito
,
depositario
dei
principi
che
lo
hanno
fatto
nascere
e
ai
quali
non
può
abdicare
(
pur
potendoli
aggiornare
)
senza
venir
meno
alla
propria
funzione
di
partito
-
guida
,
nell
'
attrarre
a
sé
uomini
esperti
nei
diversi
campi
del
sapere
scientifico
.
In
questi
due
percorsi
contrari
dell
'
uomo
di
principi
verso
un
partito
prammatico
e
del
partito
di
principi
verso
gli
esperti
,
si
possono
cogliere
,
da
due
parti
diverse
,
anzi
opposte
,
i
due
vizi
principali
della
nostra
vita
politica
:
senza
alti
ideali
per
quel
che
riguarda
il
partito
maggiore
e
di
maggior
governo
;
senza
gli
strumenti
conoscitivi
necessari
per
la
trasformazione
di
uno
Stato
diventato
anacronistico
,
per
quel
che
riguarda
i
partiti
e
i
movimenti
della
sinistra
(
che
non
possono
pretendere
di
trasformare
il
mondo
,
secondo
il
vecchio
detto
di
Marx
,
se
non
dopo
averlo
compreso
)
.
L
'
altra
ragione
per
cui
il
rapporto
fra
intellettuali
e
potere
suscita
tante
discussioni
dipende
dal
fatto
che
non
si
tratta
di
un
rapporto
a
senso
unico
.
Molte
inutili
discussioni
nascono
dallo
scambiare
l
'
analisi
di
questo
rapporto
a
molte
direzioni
con
il
desiderio
che
il
rapporto
sia
quello
che
ciascuno
di
noi
ritiene
giusto
.
Questo
rapporto
cambia
secondo
l
'
idea
che
i
singoli
intellettuali
hanno
della
loro
funzione
nella
società
(
idea
dietro
la
quale
ci
può
essere
addirittura
una
visione
globale
del
mondo
)
,
e
secondo
le
circostanze
storiche
.
C
'
è
chi
esalta
la
vita
contemplativa
in
paragone
a
quella
attiva
e
dispregia
coloro
che
si
perdono
nelle
cure
del
mondo
.
C
'
è
per
contrasto
chi
ritiene
che
l
'
uomo
di
cultura
abbia
il
dovere
di
impegnarsi
nell
'
azione
politica
,
perché
al
di
fuori
della
comunità
ordinata
al
bene
comune
non
c
'
è
salvezza
.
Chi
ha
ragione
e
chi
ha
torto
?
Ci
sono
coloro
che
adoperano
le
armi
proprie
dell
'
intelligenza
(
le
idee
,
le
opinioni
,
le
credenze
,
le
dottrine
,
gl
'
ideali
)
per
combattere
il
potere
costituito
e
naturalmente
per
costituirne
un
altro
che
ritengono
migliore
.
E
ci
sono
per
contrasto
coloro
che
esercitano
la
loro
influenza
per
consolidare
il
governo
del
loro
paese
(
sono
i
cosiddetti
«
organizzatori
del
consenso
»
)
.
Ancora
una
volta
,
chi
ha
ragione
e
chi
ha
torto
?
Ma
si
può
mai
comparare
chi
promuove
il
consenso
per
salvare
uno
Stato
democratico
minacciato
dalla
violenza
eversiva
da
destra
e
da
sinistra
,
uno
Stato
che
ammette
il
dissenso
,
con
chi
si
piega
a
sollecitare
consensi
a
uno
Stato
totalitario
dove
i
dissenzienti
sono
puniti
o
soppressi
?
Sono
domande
retoriche
,
ma
valgono
a
far
capire
che
il
problema
del
rapporto
fra
intellettuali
e
potere
ha
molti
aspetti
e
non
può
avere
una
sola
risposta
,
e
di
conseguenza
la
domanda
così
frequentemente
e
fastidiosamente
ripetuta
quale
debba
essere
la
politica
degl
'
intellettuali
verso
i
partiti
o
dei
partiti
verso
gli
intellettuali
,
è
completamente
priva
di
senso
,
se
non
si
specifica
quali
intellettuali
,
in
quale
contesto
,
e
per
quali
obiettivi
.
Una
cosa
è
certa
(
anche
il
«
seminatore
di
dubbi
»
può
permettersi
talora
di
avere
qualche
certezza
)
:
alla
crisi
politica
generale
che
è
sotto
gli
occhi
di
tutti
-
basti
pensare
che
il
problema
dei
rapporti
Est
-
Ovest
è
ben
lontano
dall
'
essere
risolto
,
e
già
si
pone
con
forza
il
problema
dei
rapporti
Nord
-
Sud
,
la
cui
soluzione
dipende
dalla
soluzione
del
primo
-
,
corrisponde
una
crisi
delle
idee
,
anzi
,
com
'
è
stato
detto
più
volte
,
una
crisi
delle
idee
per
risolvere
la
crisi
.
Di
fronte
alla
quale
noi
ci
teniamo
le
nostre
piccole
e
domestiche
crisi
di
governo
che
,
paragonate
alla
tragicità
dei
conflitti
che
agitano
la
fine
di
questo
nostro
tragico
secolo
,
ci
appaiono
come
zuffe
di
polli
in
una
stia
.
StampaQuotidiana ,
Sulla
caduta
di
tensione
ideale
nella
lotta
politica
in
Italia
in
questi
ultimi
anni
ritengo
non
si
possa
non
essere
d
'
accordo
con
quanto
ha
detto
l
'
on.
Berlinguer
nella
nota
intervista
sulla
«
Repubblica
»
del
28
luglio
.
L
'
argomento
è
stato
opportunamente
ripreso
,
fra
gli
altri
,
da
Antonio
Giolitti
,
il
5
agosto
.
Ma
tanto
Berlinguer
quanto
Giolitti
,
attribuendo
ogni
colpa
ai
partiti
,
o
a
certi
partiti
,
sembrano
volerne
scagionare
gli
italiani
confrontando
il
voto
dato
nei
referendum
con
quello
delle
normali
elezioni
politiche
e
amministrative
.
Per
il
primo
,
col
voto
«
libero
da
ogni
condizionamento
dei
partiti
»
,
che
hanno
espresso
in
occasione
dei
referendum
sul
divorzio
nel
1974
e
sull
'
aborto
nel
1981
,
gli
italiani
avrebbero
fornito
«
l
'
immagine
di
un
paese
liberissimo
e
moderno
»
e
avrebbero
dato
«
un
voto
di
progresso
»
;
il
secondo
si
domanda
:
«
Come
mai
i
governati
,
di
fronte
a
un
referendum
,
mostrano
di
volere
e
sapere
scegliere
,
e
non
altrettanto
di
fronte
a
elezioni
in
cui
competono
i
partiti
?
»
L
'
argomento
non
mi
convince
,
almeno
per
due
ragioni
:
anzitutto
,
perché
nei
vari
referendum
che
si
sono
svolti
sinora
il
risultato
è
stato
la
conservazione
delle
leggi
approvate
in
Parlamento
,
e
quindi
dai
partiti
;
in
secondo
luogo
,
specie
per
quel
che
riguarda
l
'
ultima
tornata
,
il
voto
favorevole
alla
liberalizzazione
dell
'
aborto
non
è
stato
un
voto
di
progresso
ma
semplicemente
di
comodo
(
in
fondo
l
'
aborto
libero
rende
meno
responsabile
la
coppia
nel
rapporto
sessuale
,
specie
l
'
uomo
,
e
una
legge
che
libera
il
cittadino
da
una
responsabilità
non
è
mai
una
legge
progressiva
)
,
per
non
parlare
della
schiacciante
maggioranza
in
favore
dell
'
ergastolo
,
di
cui
non
mi
sento
di
lodare
né
la
sorprendente
modernità
né
l
'
audace
spirito
progressivo
.
Se
gli
italiani
siano
migliori
o
peggiori
della
classe
politica
che
li
rappresenta
,
e
li
rappresenta
perché
essi
stessi
la
scelgono
,
è
una
domanda
cui
è
difficile
dare
una
risposta
.
Ma
non
vedo
come
si
possa
scartare
del
tutto
l
'
ipotesi
che
gli
uni
e
l
'
altra
si
assomiglino
come
due
gocce
d
'
acqua
.
Dopo
più
d
'
un
secolo
di
democrazia
rappresentativa
siamo
troppo
smaliziati
per
conservare
l
'
illusione
dei
primi
fautori
del
sistema
parlamentare
,
che
le
elezioni
dei
governanti
siano
la
procedura
più
adatta
per
la
scelta
dei
migliori
.
Anche
se
non
è
detto
che
sempre
siano
proprio
i
peggiori
a
essere
scelti
.
In
un
regime
democratico
il
potere
si
misura
a
voti
.
Più
voti
significa
più
potere
.
Con
questo
non
voglio
dire
che
bastino
i
voti
,
perché
il
potere
dipende
anche
dal
posto
che
un
partito
occupa
nello
schieramento
dei
partiti
e
nelle
coalizioni
di
maggioranza
,
e
sino
ad
ora
è
indubbio
che
i
partiti
alleati
della
democrazia
cristiana
hanno
avuto
un
potere
superiore
alla
loro
forza
elettorale
.
Ma
i
voti
sono
necessari
.
Ora
,
se
la
maggior
parte
dei
partiti
vanno
a
caccia
di
voti
,
e
li
ottengono
,
e
addirittura
li
aumentano
,
senza
sbandierare
la
questione
morale
,
anzi
facendo
finta
di
niente
e
parlandone
il
meno
possibile
(
e
considerando
con
un
certo
altezzoso
fastidio
coloro
che
ne
parlano
)
,
senza
proclamare
ai
quattro
venti
i
loro
ideali
(
posto
che
ne
abbiano
)
,
ma
promettendo
posti
,
miglioramenti
economici
,
erogazioni
pubbliche
per
faccende
private
,
e
amministrando
saggiamente
la
paura
del
peggio
,
è
segno
che
conoscono
bene
con
chi
hanno
da
fare
.
Del
resto
,
si
sa
quali
sono
stati
i
principi
ideali
che
hanno
presieduto
sin
dall
'
origine
alla
formazione
di
un
partito
dei
cattolici
:
la
difesa
di
alcuni
valori
cristiani
minacciati
dall
'
inarrestabile
e
forse
inevitabile
processo
di
secolarizzazione
che
accompagna
lo
sviluppo
delle
società
industriali
.
Strano
,
ma
le
sole
due
volte
che
la
democrazia
cristiana
ha
difeso
con
fermezza
questi
principi
ideali
,
in
occasione
dei
due
referendum
sul
divorzio
e
sull
'
aborto
,
è
rimasta
in
minoranza
.
Le
uniche
due
grandi
battaglie
perdute
dal
partito
dei
cattolici
sono
quelle
in
cui
ha
messo
in
gioco
la
sua
grande
forza
elettorale
in
difesa
di
principi
.
Quale
miglior
prova
che
i
principi
non
rendono
?
Ma
si
può
sapere
perché
non
rendono
?
In
fondo
mi
pare
che
anche
per
il
partito
comunista
si
possa
fare
lo
stesso
ragionamento
.
Il
grande
balzo
in
avanti
è
avvenuto
nel
1975
e
nel
1976
,
quando
il
partito
continuava
a
considerarsi
un
partito
non
solo
marxista
ma
anche
leninista
.
Più
di
un
terzo
degli
italiani
erano
diventati
marxisti
e
leninisti
?
Non
vorrei
sbagliare
,
ma
mi
parrebbe
lecito
affermare
che
per
la
maggior
parte
di
coloro
che
hanno
votato
il
partito
comunista
i
grandi
ideali
del
marxismo
abbiano
avuto
la
stessa
forza
di
attrazione
che
i
principi
evangelici
per
la
democrazia
cristiana
.
Si
grida
agli
scandali
.
Ma
gli
scandali
non
sono
una
prerogativa
della
classe
politica
.
Abbiamo
già
dimenticato
i
casi
clamorosi
di
corruzione
nello
sport
nazionale
,
il
calcio
?
E
non
abbiamo
assistito
in
questa
circostanza
allo
stesso
fenomeno
di
fedeltà
al
proprio
gruppo
che
fa
dire
(
ahimè
,
con
orgoglio
)
:
«
Torto
o
ragione
,
è
la
mia
patria
»
?
Torto
o
ragione
,
è
la
mia
squadra
,
torto
o
ragione
,
è
il
mio
partito
.
E
che
dire
degli
scandali
di
cui
sono
state
protagoniste
talune
istituzioni
bancarie
,
scandali
che
hanno
gettato
il
discredito
su
istituzioni
che
dovrebbero
fondare
il
loro
potere
e
il
loro
prestigio
sulla
loro
credibilità
?
Naturalmente
,
per
l
'
onore
di
una
nazione
è
offesa
meno
grave
,
più
sopportabile
,
un
calciatore
corrotto
che
un
politico
corrotto
o
sospettato
di
corruzione
.
Ma
la
gente
ci
è
abituata
.
Una
vecchia
diffidenza
per
la
politica
e
per
chi
fa
della
politica
il
proprio
mestiere
,
dà
per
ammesso
e
scontato
che
il
politico
sia
più
un
profittatore
che
un
idealista
.
Sono
riflessioni
amare
,
lo
so
,
che
qualcuno
potrebbe
considerare
anche
ingiuste
.
Ma
è
meglio
guardarsi
in
faccia
e
vedere
la
questione
da
tutti
i
lati
,
dall
'
alto
e
dal
basso
,
dal
diritto
e
dal
rovescio
.
Non
già
che
l
'
Italia
sia
un
paese
,
com
'
è
stato
spesso
rappresentato
,
soltanto
di
cinici
o
di
conformisti
.
Ci
sono
grandi
energie
morali
,
di
cui
ci
rendiamo
conto
nella
nostra
vita
di
tutti
i
giorni
.
Ma
nella
vita
politica
stentano
a
farsi
luce
.
Certo
,
sarebbe
compito
di
una
classe
politica
degna
di
questo
nome
risvegliarle
là
dove
sono
assopite
,
suscitarle
là
dove
si
sono
spente
,
aiutarle
a
esprimersi
,
a
riconoscersi
,
ad
acquistare
coscienza
della
propria
funzione
non
solo
nella
vita
privata
ma
anche
nella
pubblica
.
Fare
emergere
le
nostre
virtù
anziché
blandire
i
nostri
difetti
.
Ma
forse
chiediamo
troppo
.
Eppure
abbiamo
la
convinzione
profonda
che
una
democrazia
può
essere
uccisa
dalla
violenza
esterna
,
ma
muore
anche
per
interna
consunzione
.
StampaQuotidiana ,
La
recente
ristampa
delle
opere
principali
di
Gaetano
Mosca
(
Scritti
politici
,
a
cura
di
Giorgio
Sola
,
2
voll
.
,
Utet
,
Torino
1982
)
potrà
richiamare
l
'
attenzione
del
lettore
di
oggi
sulla
critica
del
sistema
parlamentare
di
un
secolo
fa
,
di
cui
Mosca
fu
uno
dei
più
autorevoli
rappresentanti
.
Dopo
aver
affermato
che
le
istituzioni
politiche
debbono
essere
tali
da
non
porre
gli
uomini
nella
condizione
di
perseguire
soltanto
il
proprio
interesse
a
danno
del
senso
morale
,
osserva
che
il
sistema
parlamentare
«
è
congegnato
in
modo
da
riuscire
una
generale
e
sistematica
contraddizione
di
questa
massima
»
.
Segue
il
commento
:
«
Tutti
in
esso
,
dal
più
alto
al
più
basso
,
dal
ministro
all
'
elettore
,
trovano
il
loro
privato
interesse
nel
tradire
quegli
interessi
pubblici
che
loro
sono
affidati
.
Tutti
devono
,
per
farsi
avanti
e
sostenersi
,
favorire
gli
aderenti
e
gli
amici
a
scapito
del
buon
andamento
degli
affari
,
della
coscienza
e
della
giustizia
»
.
E
poco
più
avanti
:
«
Procedendo
così
siamo
ridotti
a
tale
che
ormai
,
in
molti
rami
della
pubblica
azienda
,
non
si
può
più
avere
a
che
fare
col
governo
usando
dei
soli
modi
onesti
e
legali
,
e
bisogna
fare
il
camorrista
se
non
si
vuol
subire
un
atto
di
camorra
»
.
E
proprio
il
caso
di
dire
:
nulla
di
nuovo
sotto
il
sole
.
Non
si
rendeva
conto
il
giovane
Mosca
(
quando
scrisse
quelle
pagine
aveva
venticinque
anni
)
che
il
male
lamentato
ineriva
al
sistema
democratico
in
quanto
tale
,
più
specificamente
al
sistema
della
democrazia
rappresentativa
,
ovvero
al
regime
in
cui
il
potere
di
prendere
le
decisioni
collettive
spetta
ai
rappresentanti
del
popolo
e
il
diritto
di
rappresentare
il
popolo
dipende
dal
beneplacito
degli
elettori
:
se
la
caccia
al
favore
dell
'
elettore
da
parte
del
deputato
era
un
male
,
era
un
male
necessario
e
,
chi
sa
,
rispetto
ad
altri
sistemi
politici
,
un
male
minore
.
Però
l
'
amarezza
di
Mosca
e
di
tutti
gli
altri
critici
del
sistema
parlamentare
era
perfettamente
spiegabile
con
la
delusione
che
la
pratica
quotidiana
aveva
in
loro
suscitato
rispetto
alle
speranze
delle
origini
.
Alla
fine
del
Settecento
,
uno
dei
maggiori
scrittori
politici
americani
,
James
Madison
,
aveva
esaltato
lo
Stato
rappresentativo
che
stava
facendo
le
prime
prove
negli
Stati
Uniti
,
sostenendo
che
la
delega
dell
'
azione
governativa
a
un
piccolo
numero
di
cittadini
eletto
dagli
altri
avrebbe
dato
vita
a
«
un
corpo
scelto
di
cittadini
,
la
cui
provata
saggezza
avrebbe
potuto
meglio
discernere
l
'
interesse
effettivo
del
proprio
paese
,
e
il
cui
patriottismo
e
la
cui
sete
di
giustizia
avrebbe
reso
meno
probabile
che
si
sacrificasse
il
bene
del
paese
a
considerazioni
particolarissime
e
transitorie
»
.
Occorre
anche
aggiungere
che
i
costituenti
del
tempo
non
si
erano
affidati
soltanto
alla
presunta
lungimiranza
degli
elettori
:
infatti
,
come
si
poteva
credere
sul
serio
che
il
cittadino
chiamato
a
scegliere
chi
avrebbe
dovuto
decidere
per
lui
non
scegliesse
la
persona
o
il
partito
da
cui
poteva
trarre
il
maggior
tornaconto
?
Giacché
non
era
possibile
che
l
'
elettore
rinunciasse
a
fare
richieste
interessate
,
non
vi
era
altro
rimedio
che
quello
di
imporre
all
'
eletto
di
non
tenerne
conto
.
Così
fu
formulato
e
fatto
valere
il
principio
,
passato
alla
storia
col
nome
di
«
divieto
di
mandato
imperativo
»
,
secondo
cui
gli
eletti
avrebbero
dovuto
prendere
le
decisioni
di
cui
erano
investiti
nel
solo
interesse
della
nazione
in
generale
,
ad
onta
delle
richieste
particolaristiche
e
campanilistiche
(
oggi
si
direbbe
corporative
e
clientelari
)
di
coloro
che
li
avevano
mandati
col
loro
voto
in
Parlamento
.
Nella
Costituzione
francese
del
1791
fu
introdotto
il
seguente
articolo
:
«
I
rappresentanti
nominati
nei
dipartimenti
non
saranno
rappresentanti
di
un
dipartimento
particolare
,
ma
dell
'
intera
nazione
,
e
non
potrà
essere
dato
loro
alcun
mandato
»
.
Con
l
'
introduzione
e
l
'
applicazione
di
questa
regola
generale
(
una
delle
vere
e
proprie
regole
del
gioco
della
democrazia
rappresentativa
)
si
voleva
che
la
rappresentanza
parlamentare
non
riproducesse
più
gl
'
inconvenienti
della
tradizionale
rappresentanza
corporativa
,
in
base
alla
quale
chi
riceve
la
delega
a
rappresentare
la
propria
corporazione
deve
fare
esclusivamente
gl
'
interessi
di
questa
,
e
s
'
imponeva
un
vincolo
formale
alla
naturale
tendenza
dell
'
eletto
ad
accaparrarsi
i
favori
di
coloro
da
cui
dipende
la
sua
elezione
,
cui
corrisponde
la
tendenza
altrettanto
naturale
dell
'
elettore
a
scegliere
il
candidato
più
disposto
a
proteggerlo
.
Da
allora
,
il
principio
è
diventato
un
elemento
fondamentale
della
democrazia
rappresentativa
.
Per
restare
in
casa
nostra
lo
Statuto
albertino
stabiliva
che
:
i
deputati
rappresentano
la
nazione
in
generale
e
non
le
sole
province
in
cui
furono
eletti
,
Nessun
mandato
imperativo
può
loro
darsi
dagli
elettori
»
(
art.
41
)
;
la
Costituzione
repubblicana
ripete
:
«
Ogni
membro
del
Parlamento
rappresenta
la
nazione
ed
esercita
le
sue
funzioni
senza
vincolo
di
mandato
»
(
art.
67
)
.
Mai
divieto
è
stato
più
trasgredito
.
Non
si
capisce
neppure
come
avrebbe
potuto
essere
rispettato
,
anzitutto
perché
l
'
interesse
nazionale
ciascuno
l
'
interpreta
a
suo
modo
e
ogni
partito
crede
,
magari
anche
in
buona
fede
,
che
l
'
interesse
del
partito
coincida
con
l
'
interesse
della
nazione
,
e
poi
perché
nella
gara
elettorale
viene
premiato
in
genere
il
rappresentante
o
il
partito
che
si
è
preoccupato
non
tanto
dell
'
interesse
nazionale
quanto
di
quello
dei
propri
clienti
.
Il
divieto
di
mandato
imperativo
è
una
regola
senza
sanzione
.
Anzi
,
l
'
unica
sanzione
temibile
per
il
rappresentante
o
il
partito
è
quella
che
viene
dalla
trasgressione
della
regola
opposta
,
dalla
regola
cioè
che
impone
,
o
per
lo
meno
consiglia
,
di
soddisfare
il
più
possibile
le
richieste
dei
propri
elettori
.
Elettori
ed
eletti
sono
legati
a
filo
doppio
.
Il
loro
rapporto
è
un
rapporto
di
«
do
ut
des
»
,
un
vero
e
proprio
rapporto
di
scambio
,
in
cui
l
'
uno
col
proprio
voto
attribuisce
all
'
altro
un
potere
da
cui
si
aspetta
un
beneficio
e
l
'
altro
dispensa
un
beneficio
da
cui
si
aspetta
il
consenso
.
Forzando
,
ma
non
troppo
,
l
'
analogia
tra
lo
scambio
politico
e
lo
scambio
economico
,
si
può
dire
che
l
'
elettore
è
un
produttore
e
l
'
eletto
un
consumatore
di
potere
,
e
inversamente
l
'
elettore
è
un
produttore
e
l
'
eletto
un
consumatore
di
consenso
.
L
'
idea
,
del
resto
non
nuova
,
che
la
democrazia
possa
essere
paragonata
a
un
grande
e
libero
mercato
la
cui
merce
principale
è
il
voto
non
è
esaltante
.
Ma
è
da
tener
sempre
presente
per
capire
il
comportamento
degli
uomini
politici
specie
nell
'
imminenza
di
elezioni
.
Come
il
mercato
economico
,
anche
il
mercato
politico
sfugge
a
ogni
controllo
che
si
voglia
imporre
dall
'
alto
e
anche
da
questo
punto
di
vista
l
'
analogia
regge
alla
prova
dei
fatti
.
StampaQuotidiana ,
L
'
analogia
tra
mercato
economico
e
mercato
politico
deve
essere
però
presa
con
una
certa
cautela
.
L
'
analogia
è
fondata
sulla
considerazione
che
tra
l
'
elettore
e
l
'
eletto
si
può
configurare
un
rapporto
di
«
do
ut
des
»
,
come
quello
che
avviene
nel
mercato
tra
compratore
e
venditore
.
Ciò
che
l
'
elettore
dà
al
partito
o
alla
persona
cui
concede
il
proprio
voto
è
il
bene
politico
per
eccellenza
,
il
potere
,
ovvero
la
capacità
di
ottenere
effetti
desiderati
.
Ciò
che
egli
si
aspetta
in
cambio
è
che
il
potere
così
conferito
venga
esercitato
a
suo
vantaggio
.
Ma
a
differenza
di
quel
che
avviene
nel
mercato
,
l
'
elettore
non
conosce
in
anticipo
l
'
effetto
della
sua
scelta
,
perché
il
maggiore
o
minor
potere
del
partito
o
del
candidato
cui
ha
dato
il
voto
dipende
anche
dal
maggiore
o
minore
numero
di
voti
che
essi
riceveranno
da
altri
elettori
sui
quali
egli
non
esercita
di
solito
alcuna
influenza
.
In
un
sistema
maggioritario
,
in
cui
dei
due
candidati
in
lizza
l
'
uno
vince
e
l
'
altro
perde
,
chi
vota
per
il
candidato
perdente
ha
scambiato
il
proprio
voto
,
il
bene
che
egli
possiede
come
cittadino
che
gode
dei
diritti
politici
,
con
una
speranza
che
non
si
è
realizzata
.
Ma
anche
in
un
sistema
proporzionale
dove
ogni
voto
va
a
segno
,
il
maggiore
o
minore
effetto
del
mio
voto
come
datore
di
consenso
dipende
da
come
votano
gli
altri
,
cioè
da
una
circostanza
di
cui
ogni
elettore
non
può
avere
che
una
vaga
conoscenza
.
Anche
nel
caso
in
cui
il
voto
contribuisca
a
dare
potere
a
un
partito
o
a
un
candidato
,
non
è
detto
che
il
potere
da
questi
ricevuto
sia
tanto
grande
da
consentire
l
'
esaudimento
delle
domande
poste
dall
'
elettore
.
Superfluo
sottolineare
la
diversa
capacità
di
rispondere
alle
domande
degli
elettori
,
rispettivamente
,
di
un
partito
di
governo
e
di
un
partito
di
opposizione
.
Votando
,
l
'
elettore
non
sa
con
esattezza
in
anticipo
se
il
partito
o
il
candidato
che
egli
vota
farà
parte
del
governo
o
dell
'
opposizione
.
Vota
anche
in
questo
caso
a
suo
rischio
e
pericolo
,
offrendo
l
'
unico
bene
che
ha
nell
'
arena
politica
,
ancora
una
volta
,
per
scambiarlo
con
un
bene
soltanto
sperato
.
Il
rapporto
che
si
viene
instaurando
fra
l
'
elettore
e
l
'
eletto
è
simile
a
quello
di
un
contratto
aleatorio
,
in
cui
a
una
prestazione
certa
da
una
parte
corrisponde
una
prestazione
incerta
dall
'
altra
,
come
avviene
in
una
lotteria
.
(
La
miglior
prova
che
le
elezioni
vengono
percepite
come
una
sorta
di
lotteria
,
sta
nell
'
intensa
curiosità
con
cui
nei
giorni
successivi
al
voto
sono
seguite
le
operazioni
di
spoglio
delle
schede
)
.
L
'
altra
ragione
per
cui
l
'
analogia
del
mercato
politico
non
può
essere
presa
alla
lettera
sta
nella
varietà
e
complessità
delle
motivazioni
di
voto
.
Il
rapporto
tra
elettore
ed
eletto
si
può
assimilare
a
un
rapporto
di
scambio
,
paragonabile
a
quelli
che
avvengono
nel
mercato
,
solo
nel
caso
del
cosiddetto
voto
clientelare
,
nel
caso
cioè
in
cui
tra
elettore
ed
eletto
sia
avvenuta
un
'
intesa
personale
come
quella
che
passa
tra
patrono
e
cliente
,
e
il
primo
abbia
concordato
col
secondo
,
se
pure
sempre
con
un
margine
di
rischio
,
un
beneficio
specifico
,
come
l
'
assegnazione
di
una
pensione
,
di
una
casa
o
di
un
posto
.
Che
poi
il
cliente
sia
,
anziché
un
singolo
individuo
,
un
gruppo
d
'
interesse
che
ottiene
un
favore
economico
in
cambio
di
un
appoggio
politico
,
la
cosa
non
cambia
.
Ma
non
tutti
i
voti
sono
clientelari
.
Gli
studiosi
di
politica
(
mi
riferisco
in
particolare
a
Gianfranco
Pasquino
)
prendono
in
considerazione
,
accanto
al
voto
di
scambio
,
il
voto
di
appartenenza
,
che
è
il
voto
di
chi
si
è
identificato
talmente
in
un
determinato
partito
da
dare
ad
esso
il
proprio
appoggio
indipendentemente
dalle
decisioni
politiche
che
esso
prenderà
e
da
quelle
che
impedirà
,
e
quindi
dall
'
esigenza
di
soddisfare
interessi
individuali
e
specifici
;
e
il
voto
di
opinione
,
che
è
il
voto
dato
a
un
partito
per
una
certa
consonanza
o
concordanza
nelle
vedute
generali
,
nel
programma
globale
di
conservazione
o
di
riforma
,
senza
un
particolare
riguardo
ai
propri
interessi
immediati
.
Di
queste
ultime
due
motivazioni
di
voto
quella
che
si
contrappone
maggiormente
alla
motivazione
derivata
dall
'
interesse
personale
,
è
la
motivazione
che
sottostà
al
voto
di
opinione
.
Il
voto
di
appartenenza
è
per
certi
aspetti
un
voto
di
opinione
(
«
le
idee
del
partito
sono
le
mie
idee
»
)
,
sotto
altri
un
voto
di
scambio
(
«
gl
'
interessi
del
partito
sono
i
miei
stessi
interessi
»
)
.
Ma
entrambi
irrigiditi
:
infatti
,
fra
tutte
le
specie
di
voto
è
quello
più
stabile
.
Chi
vota
comunista
per
solidarietà
di
gruppo
continua
a
votare
pci
quale
che
sia
la
linea
politica
seguita
dai
dirigenti
(
fronte
popolare
,
compromesso
storico
,
alternativa
democratica
)
.
Chi
vota
democristiano
perché
è
cattolico
,
perché
ritiene
,
a
torto
o
a
ragione
,
che
la
democrazia
cristiana
difenda
gl
'
interessi
e
i
principi
dei
cattolici
,
continua
a
concederle
la
propria
fiducia
a
onta
degli
scandali
e
senza
tenere
il
minimo
conto
della
pratica
quotidiana
di
governo
.
Se
si
vuol
capire
perché
nelle
analisi
degli
osservatori
torni
sempre
più
insistentemente
l
'
immagine
del
mercato
politico
,
nonostante
la
varietà
delle
motivazioni
di
voto
,
bisogna
prender
coscienza
del
fatto
che
nelle
democrazie
più
consolidate
,
dove
la
ripetizione
delle
elezioni
rende
sempre
più
stretto
il
rapporto
fra
elettori
ed
eletti
,
si
manifesta
una
chiara
tendenza
alla
diminuzione
del
voto
di
opinione
e
all
'
aumento
del
voto
di
scambio
.
Il
voto
di
opinione
sopravvive
con
maggiore
intensità
nei
piccoli
partiti
che
hanno
minore
capacità
di
soddisfare
interessi
particolari
.
Occorre
se
mai
fare
attenzione
all
'
aumento
delle
astensioni
e
delle
schede
bianche
:
entrambi
gli
atteggiamenti
esprimono
una
vera
e
propria
opinione
.
Tanto
che
qualcuno
ha
potuto
affermare
che
mentre
i
partiti
raccolgono
sempre
più
voti
di
scambio
,
il
voto
di
opinione
si
rifugia
paradossalmente
in
coloro
che
non
vanno
a
votare
o
non
votano
nessuno
dei
partiti
in
gara
.
Queste
osservazioni
,
e
altre
che
si
potrebbero
fare
sulla
«
democrazia
reale
»
,
non
sono
irriverenti
.
Sono
semplicemente
realistiche
.
Servono
a
farci
capire
che
in
crisi
non
è
la
democrazia
ma
una
sua
falsa
immagine
.