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> autore_s:"De Monticelli Roberto"
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È andata in scena questa sera , nel teatro all ' aperto dei Giardini alla Biennale , la seconda novità italiana del Festival Internazionale del Teatro : La rosa di zolfo di Antonio Aniante . Molti erano i motivi di curiosità che si intrecciavano intorno a questo spettacolo : innanzitutto , l ' esordio in grande stile , nel teatro , in un ' occasione particolare , dello scrittore siciliano che , sì , alla letteratura drammatica si era avvicinato , negli anni dal '25 al '30 , ai tempi dello Sperimentale di Bragaglia ; ma che poi si era prevalentemente dedicato alla narrativa ( anche La rosa di zolfi è tratta da un romanzo ) . Inoltre per la prima volta , si sarebbe visto all ' opera un complesso come il Teatro Stabile della città di Trieste col quale , per la sua stessa posizione periferica , non è facile l ' incontro ; nel caso , poi , dello spettacolo diretto da Franco Enriquez , c ' erano due altri elementi di interesse : la partecipazione di Domenico Modugno , che non solo recita , ma canta , naturalmente , e ha composto anche le musiche che accompagnano il testo , su terni popolari siciliani ; e di quell ' attrice sempre entusiasta ed ardente che è Paola Borboni . Cos ' è la rosa di zolfo ? È il simbolo di una Sicilia remota , perduta nella memoria e per questo intrisa dagli umori della nostalgia . Fiore arido e splendido lo regala , alla bella e svagata moglie Rosalia , lo zolfataro Colao e vuol significare il suo amore , infuocato e geloso . La virtù di Rosalia è insidiata dal conte di Pagnolo , il giovane padrone della zolfara . Inevitabile il duello rusticano , a lampi di coltello . Ucciso il rivale , Colao brucia la zolfara e Rosalia fugge , disperata ma anelante l ' avventura , sulle montagne delle Madonie . Qui , sentinella a una sorgente d ' acqua , incontra il Carabiniere , che altri non è che una diversa immagine di Colao ; lo zolfataro è rivestito d ' una fiammante , un po ' fiabesca divisa dell ' Italia umbertina ; così come , a contenderla al Carabiniere , avvolto in un non meno fiabesco mantello azzurro , con cappello a pan di zucchero e trombone , appare il Brigante , vale a dire il Pagnolo . Sfuggita anche ai rischi di questo scontro , che si risolve , per i due eterni rivali , in una reciproca beffa , Rosalia , sempre seguita dalla Pilucchera , vecchia serva fedele ed ex - nutrice , ripara nel basso porto di Palermo , decisa a darsi alla « vita » . E qui , nuove incarnazioni dei due uomini che se la contendono . Ecco , da una parte , lo scaricatore Colao , dall ' altra il capo - mafia Pagnolo : la tratta delle bianche , l ' ombra del poliziotto Petrosino , la nave che aspetta nel porto ; con la stiva piena di fresche e giovani donne ... ma non è stato che un sogno , Rosalia non s ' è mai mossa in realtà dalla casa dello zolfataro , ecco che gli prepara la minestra della sera e alza la pentola , piena di selvagge ortiche , spezie e pan secco , verso il cielo asciutto , che le mandi l ' acqua . È chiaro il senso della favola : fra i fuochi dell ' amore e della gelosia , che zampillano dalla terra come la gialla lingua dello zolfo , Rosalia , nel suo sogno canicolare , va in cerca dell ' acqua , che è comprensione , civiltà e balsamo sugli inferni della passione e della miseria . Tutto ciò è detto più che rappresentato , con molta eloquenza ( si sente più il narratore , anzi il popolaresco rapsodo che lo scrittore di teatro ) , con uno stile oscillante fra richiami dannunziani e aperture liriche alla Garcia Lorca , con canti presi all ' epos locale e lunghi interventi descrittivi del coro . È insomma un ' opera composita , un ' idillio a tre che si ripete tre volte , generando forse una sorta di immobilità , una certa monotonia . Ma i punti di poesia autentica non mancano : diremo che sono sparsi , come improvvisi granelli di fuoco , nella polpa di questa prosa dal sapore noto . Franco Enriquez ha montato uno spettacolo movimentato , sullo sfondo delle scene , forse eccessivamente realistiche , dovute a Nino Perizi : uno spettacolo che , tuttavia , non ha toccato l ' autentica vena dell ' opera ; uno spettacolo fantasioso ma pesante , che ha preso le sue risorse più poetiche da un ' antica riserva di malinconia e musica . Degli interpreti , il migliore è stato Modugno che ha recitato e cantato con una tristezza solare , antica ; Enrica Corti ha dato alla protagonista un ardore sulfureo ( ma il personaggio non richiedeva anche umorismo e malinconia ? ) ; troppo realista Ottorino Guerrini ha però dato estro e ironia alle varie figurazioni del Pagnolo : la Borboni ha caratterizzato con tenerezza sordida la figura della Pilucchera . La monotonia dell ' opera ha ingenerato alla lunga una certa stanchezza e gli applausi alla fine sono stati freddini , non mancando qualche contrasto .
UCCIDE IL SUO PASSATO IL DRAGONE BETTOLIERE ( De Monticelli Roberto , 1958 )
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L ' estro del poeta di Eugene O ' Neill , presentato ieri sera all ' Odeon dalla compagnia Ricci - Magni , con la regia di Virginio Puecher , non è l ' ultima opera del drammaturgo americano . L ' ultimo suo testo è quella Luna per i bastardi che venne presentata in Italia nella scorsa stagione ; se ne ebbe un ' edizione a Milano , al Convegno , e una , americana , a Spoleto , per il Festival dei due Mondi . L ' estro del poeta è l ' unico dramma , di un ciclo di nove dedicato alla storia di una famiglia americana di origine irlandese , che O ' Neill abbia salvato dalla distruzione dei suoi manoscritti incompiuti , prima di morire . È di pochi giorni fa la sua presentazione a Broadway . Diciamo subito che è un ' opera riuscita , non soltanto per ciò che vuol significare nella complessa tematica di O ' Neill e di quel grugno autobiografico , in quel groviglio di storie di famiglia che caratterizza la sua produzione degli ultimi anni ; ma soprattutto per la felice rappresentazione del personaggio protagonista , di quel Cornelius Melody , che sembra vivere autonomo , staccato dal dramma , tanto è prepotente e vivo come creazione . Chi è Cornelius Melody ? È il figlio di un bettoliere irlandese , arricchitosi a furia di strozzinaggio e ruberie ; nato in un castello , proprio come il rampollo di un aristocratico , Cornelius Melody diventa , nell ' Inghilterra che si batte contro Napoleone , un brillante ufficiale dei dragoni di Wellington . La battaglia di Talavera in Spagna , eroismi , duelli , sbronze e amori . Ma il dramma ci presenta l ' ex - ufficiale dei dragoni di sua Maestà quando , andato completamente in malora , invecchiato e intristito nell ' alcool , è ridotto a gestire , con la moglie e la figlia , una miserabile locanda nei pressi di Boston . Della nuova società , che sta sorgendo , mercantile e attivista , il relitto di Talavera è , naturalmente , un escluso . Lo irrita persino la presenza della moglie , che non è altro che una contadina irlandese , ex - bella ragazza , succuba e innamoratissima di lui ; la figlia , poi , è tutta ribellione e protesta contro quel padre ubriacone e gigione , che declama Byron contemplandosi malinconicamente negli specchi tarlati della locanda , non paga i fornitori per mantenere , simbolo del suo passato splendore , una cavalla purosangue , in sella alla quale si pavoneggia fra i sogghigni della zotica gente dei dintorni : quel padre che poi , quando cade l ' anniversario della famosa battaglia di Talavera , tira fuori da un baule la fiammante divisa rossa dei dragoni di Wellington , l ' indossa e offre da bere a tutti gli scrocconi del villaggio . Il dramma , lungo e complesso - nell ' edizione di ieri sera è stato abbondantemente tagliato - rappresenta il brusco risveglio alla realtà di Cornelius Melody , la sua rinuncia a quell ' illusoria immagine di sé . Perché , innamoratasi la figlia di un giovane , ospite della locanda , figlio ribelle ( e toccato anche lui dall ' « estro del poeta » ) di un riccone di Boston , egli fa ignominiosamente scacciare un inviato di costui , che voleva costringerlo ad accettare una somma perché la ragazza rinunciasse a qualsiasi pretesa sul giovanotto : e caracolla poi a sfidare a duello il riccone , riuscendo solo ad azzuffarsi coi suoi domestici e a farsi bastonare dalla polizia . È allora che capisce : pesto e sanguinante , simile a un grande « clown » nella fiammante uniforme dei dragoni , scende nella stalla e con un colpo di pistola uccide la cavalla , segno araldico , ben si potrebbe dire , del suo passato , immagine di una stagione irripetibile . Il gesto equivale a un suicidio , così l ' eroe di Talavera si è ucciso , resta l ' oste ubriacone e volgare che parla con forte accento dialettale e tracanna whisky con gli scrocconi del paese . Alla figlia , intanto , è riuscito di conquistarsi il suo ragazzo , ma ora s ' accorge che quell ' immagine byroniana del padre e i ricordi del passato , tutto ciò che insomma è stato fino a quel momento oggetto del suo odio , faceva anche parte del suo orgoglio ; e in ciò sta il risvolto psicologico più interessante di questo personaggio , che ha una sua carica singolare . In ciò sta anche , a nostro parere , il significato ultimo del dramma : il declinare , in un ' aria di tramonto , di certi valori , il brutale assorbimento , in una società nuova , nell ' America del primo Ottocento , di una società di immigrati ancora raffinatamente europei , con le loro illusioni , gli effimeri pennacchi , gli estri poetici e le cavalle purosangue . Il dramma è , come spesso in O ' Neill , assai più verboso di quanto occorrerebbe ; pieno di compiacenze , anche l ' autore si guarda spesso allo specchio , come l ' ex - ufficiale dei dragoni . Ma c ' è quel personaggio centrale che da solo vale tutta l ' opera ; c ' è la precisa costruzione di tutti gli altri personaggi , in primo luogo la figlia e la moglie del protagonista ; c ' è un romanticismo acceso , una passionalità veemente , che rompe talvolta gli argini della misura , ma O ' Neill è così , si sa . A non contare , poi , l ' aspra , efficace teatralità , da vecchio lupo di palcoscenico , che fa da cemento , pur fra tanto fiume di parole , ai quattro lunghi atti . La regia di Virginio Puecher non ci è parsa proprio felice , tutta puntata su una specie di dinamismo drammatico , un alto effettismo vocale , degli attori . Perché ? Che bisogno c ' era ? Questo non è un dramma realistico , questo è un dramma di apparenze e di ricordi . E se mai proprio un dramma di atmosfera , perché i fatti sono pochissimi . Quanto ai singoli attori , Renzo Ricci ha preso il personaggio dal di fuori , facendone un grande virtuoso della modulazione verbale e riuscendo a trovare i toni autentici del dramma solo nel terzo atto , dove è stato così dolorosamente semplice . Di una verità ed umanità esemplari ci è parsa , nell ' interpretazione di Lina Volonghi , la , figura della moglie ; Bianca Toccafondi , che era la figlia , ha , pur con qualche grido di troppo , vittoriosamente superato la prova di un personaggio acre e tenero nello stesso tempo . Eva Magni ha detto con aristocratica malinconia le parole di un personaggio di sfondo , ma utile alla comprensione dell ' atmosfera del dramma . Bene il Pisu , Ermanno Roveri e gli altri , sebbene tutti un po ' troppo agitati , o troppo macchiettistici . Ottima la scena di Luciano Damiani . Pubblico folto , applausi alla fine di tutti gli atti , con qualche lieve zittio dopo l ' ultimo .
UNA CLASSICA TRAGEDIA MODERNA ( De Monticelli Roberto , 1958 )
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Requiem per una monaca , riduzione di Albert Camus dal romanzo di Faulkner , è l ' esempio più autentico che si possa dare oggi d ' una tragedia moderna ; affermazione dovuta allo stesso Camus , in una breve presentazione scritta allo spettacolo da lui messo in scena a Parigi , con Catherine Sellers e Michel Auclair e le scene di Léonor Fini , spettacolo che tenne il cartellone per oltre due anni . Camus cita anzi un giudizio di André Malraux , a proposito di Santuario , il romanzo di cui Requiem per una monaca costituisce il seguito : Malraux diceva che Faulkner aveva introdotto il romanzo poliziesco nella tragedia antica . È vero . Ma non si potrebbe anche dire che , per esempio , Edipo e Amleto hanno , a loro volta , una progressività e persino una tecnica da romanzo poliziesco ? Requiem per una monaca fu scritta da Faulkner in forma dialogata , intercalate ai tre capitoli che rappresentano i tre atti della tragedia lunghe parti descrittive , evocanti la storia e il destino della città di Jefferson , nella contea Yoknapatawpha , nome immaginario dato dallo scrittore ai luoghi nei quali sono di solito ambientate le sue storie . Vi si riprende la vicenda di Temple Drake , la ragazza di Santuario , la studentessa che , rapita dal « gangster » Popeye , era stata da questi chiusa in una casa di tolleranza di Memphis . Tutto ciò non era accaduto a caso , Temple si era lasciata catturare da Popeye , dopo che la sua fuga dal collegio col giovane Gowan Stevens era miseramente finita in un incidente di macchina , provocato dall ' ubriachezza del giovane che all ' alcool - tipica risorsa , nel puritano mondo anglosassone , per liberarsi dai complessi - aveva chiesto il coraggio necessario a impadronirsi della donna desiderata . Questo è l ' atroce antefatto di Requiem per una monaca : la volontaria abiezione di Temple , prigioniera di un anormale impotente che la concede , sotto i propri occhi , a un suo complice ; salvo poi a sopprimere costui quando tenta di rendere « indipendente » la tresca con la ragazza ; il ritorno di Temple alla vita normale , moglie di Gowan Stevens , che l ' ha sposata per una sorta di riparazione , ma che non può dimenticare quanto è accaduto e che , chiuso nella torre del suo orgoglio , metterà in dubbio anche che il figlio , nato dopo il matrimonio , sia veramente suo . La parte « teatrale » , le « pagine dialogate » del romanzo , che ne costituiscono il nocciolo essenziale , si aprono nel tribunale di Jefferson - l ' edificio che , con la prigione , diede l ' avvio al nascere della città , fatto chiaramente simbolico - al momento in cui viene pronunciata la sentenza contro Nancy Mannigoe , che l ' ascolta impassibile , ringraziando anzi Dio . Nancy Mannigoe è l ' antica prostituta negra che divise con Temple i torbidi giorni nella casa di Memphis . Temple , una volta sposatasi , l ' ha poi accolta in casa come cameriera ; in realtà per avere , nel deserto bianco creatole intorno dall ' orgoglio ferito del marito , dalla sua impossibilità a perdonare e dimenticare , « qualcuno con cui parlare » , un essere umano fornito di un uguale , miserabile patrimonio di oscure memorie ; che per Nancy , poi , non rappresentano nemmeno il male , costituiscono se mai l ' unica realtà offertale dalla vita . Nancy ha ucciso , ha strangolato con le sue mani la figlia più piccola di Temple , una bambina di sei mesi ; ha compiuto il gesto orribile per impedire a Temple di fuggire con un suo amante ricattatore , fratello di colui che la aveva avuta , complice Popeye , nella casa di Memphis . In quell ' inferno di « gelata » rispettabilità che è il « ménage » con Gowan Stevens , il losco giovanotto la fa almeno vibrare come donna ; e poi la sua è un ' antica , pervicace vocazione al male : in questo senso anche lei , come Nancy , è una « monaca » ; monaca del peccato , un crisma la segna . Nancy ha tentato tutto , per trattenerla , le ha persino rubato i gioielli e il denaro che l ' amante ricattatore esigeva ; non le è restato , alla fine , che ricorrere all ' infanticidio . In questo gesto sta la chiave di volta della tragedia . Perché Nancy ha ucciso ? Su questo interrogativo è basata la grande indagine morale che Gawin Stevens , lo zio di Gowan , avvocato difensore di Nancy - ma in realtà immagine sensibile della coscienza di questi personaggi - conduce lentamente , accompagnando Temple , nottetempo , dal Governatore dello Stato , non già a chiedere la grazia per Nancy ( che non potrà essere concessa ) , ma a rivelare le pieghe oscure di una vicenda così atroce , a vuotare il sacco dei propri rimorsi . Nancy ha ucciso , ma è lei , Temple , che si sente responsabile . Senonché , a poco a poco , capisce che il delitto di Nancy era l ' unico modo per spezzare la catena della colpa , l ' orrendo cordone ombelicale che la unisce ' al bordello di Memphis , e ritrovare la pace accanto al marito distrutto . Quanto a Nancy , crede , lei ; crede nel fratello delle prostitute e dei ladri , nell ' amico degli assassini : in Colui , insomma , che è stato ucciso con loro . Era necessario raccontare con una certa minuzia , contrariamente alle nostre abitudini , la vicenda immaginata dal grande americano , per dare un ' idea della potente originalità di questa tragedia che arriva , alla fine , a conclusioni cristiane , sulla misura dei grandi romanzi di Dostoevskij e di Tolstoi . Camus , che affermò « d ' essersi completamente cancellato davanti a Faulkner » , ha dato al romanzo dialogato una chiara , rigorosa , quasi classica dimensione teatrale , senza , si può dire , aggiungere nulla , spostando soltanto alcune parti , chiarendo alcuni punti che alla ribalta non potevano essere lasciati nell ' indeterminatezza suggestiva della pagina scritta . Certo , la chiarezza formale , dialettica , in cui lo scrittore francese cala l ' oscura , sconvolgente tragedia , può non poco limitarla ; e riduce infatti le proporzioni di ciò che nel romanzo ha la forza ciclica di un evento della storia umana . Ma a Camus bisogna essere grati , per aver costretto l ' espressione teatrale a far da tramite , sì da portarla a un pubblico più vasto , a questa allucinante ricerca dei significati che nella nostra vita possono assumere la sofferenza e il peccato . Lo spettacolo , realizzato da Orazio Costa , - il Costa dei Dialoghi delle Carmelitane - è di un ' intensità drammatica e di un rigore stilistico che non hanno nulla da invidiare a quello realizzato a Parigi dallo stesso Camus ; in certi punti , anzi , se ne stacca nettamente , per certe trovate registiche , per un ' aria di fondo , evocata dalle musiche di Roman Vlad , che vuole evidentemente alludere a certe pagine descrittive del romanzo , al plasma d ' oscura prosa che scopre fra i tre grandi capitoli - atti . Anna Proclemer è una Temple di violenta forza drammatica , che giunge alla consapevolezza di quanto è accaduto intorno a lei e dentro di lei attraverso una specie di stupore disperato . Non ha dunque bisogno di piangere ; e non piange , infatti , se non in qualche breve istante . Insomma , è riuscita a dar maschera teatrale a un dolore secco , di pietra . Giorgio Albertazzi , diventato biondo per l ' occasione , dà alla figura umiliata e dolorante del marito un ' angoscia nervosa , un orgoglio pallido e amaro . Edda Albertini era la negra assassina ; è un personaggio immobile , rudimentale , fatto di parole al confine dell ' espressione ; un personaggio , dunque , difficilissimo , che l ' attrice ha reso con una intensa semplicità , un ' emozione rattenuta , solo prorompente alla fine . Da segnalare , infine , l ' umanissimo avvocato Stevens di Filippo Scelzo . Le scene di Piero Zuffi , molto semplici ma funzionali e suggestive , specialmente quella della prigione . Testo o spettacolo , una serata di forte teatro . Lietissimo il successo .
UNA CLASSICA TRAGEDIA MODERNA ( De Monticelli Roberto , 1958 )
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Gino Cervi è tornato a cingere la gran pancia di Falstaff come nel 1939 quando , della stessa commedia shakespeariana , diede una non dimenticata interpretazione con la compagnia dell ' Eliseo ( la Morelli , la Pagani , Stoppa ; fu un fatto teatrale che tutti ricordano ) e la regia di Pietro Sharoff , come oggi . Gino Cervi ha , per il personaggio di Falstaff , un ' inclinazione , diremmo , eroicomica , come per il personaggio di Cirano ( stabilite , fra il primo e il secondo , le necessarie proporzioni , s ' intende ) . Ma è un ' inclinazione eroicomica di natura borghese ; mi pare proprio che , anche sotto la pancia di Falstaff , come sotto il giustacuore di Cirano , il Cervi rimanga quel borghese solido e dimesso , attivista e bonario che è nei personaggi in panni moderni , non dà mai nei toni del tenore o del baritono e si porta sempre sulle spalle o , come ieri sera , nella pancia posticcia , il suo bravo carico di concreta malinconia . La malinconia di Falstaff , e lo si sente nelle ultime battute , è quella del grassone beffato e velleitario , scorbacchiato e senile ; e ciò che appunto l ' interprete sottolinea in modo preciso , senza per questo mandarla al tragico . E ci piace assai più quest ' ombra , che è nelle sue parole , di tutta l ' alta buffoneria che viene prima , il pancione nella cesta della biancheria , il grosso stolto nel parco di Windsor , con in testa le corna di cervo e ai reni i pungoli dei beffeggiatori travestiti da folletti e fate del bosco , il deluso amatore costretto a camuffarsi da donna senza per questo riuscire a evitare le bastonate del marito geloso . Ora non vi intratterrò sulle Allegre comari di Windsor grande commedia sanguigna e ambigua ( quelle comari , quelle borghesi di Windsor , che si prendono gioco di Falstaff perché come mogli sono oneste , sì , ma il diavolo in corpo ce l ' hanno lo stesso , sarebbe bello da vedere se , a insidiare le loro virtù fosse non già il ridicolo grassone ma il bel Fanton , giovane signore ) ; non vi intratterrò su un testo reso popolare fra l ' altro dalla musica di Verdi , su un testo che , a stare alla tradizione , Shakespeare scrisse in quindici giorni per ubbidire a un ordine della regina Elisabetta . Detto che forse , come personaggio , Sir John Falstaff , gentiluomo pingue , squattrinato e spaccone , è più realizzato nella prima e nella seconda parte dell ' Enrico IV , quando , in chiave di burla , il poeta lo mette persino a sedere , per qualche minuto , sul trono d ' Inghilterra , bisogna aggiungere che qui c ' è , però , intorno a lui , la commedia , la descrizione beffarda delle due comari e di quella signora Quickly , trafficona e pronuba , mezzana e complice , e di quel Franco Ford che è proprio un « cocu » mancato , e di quella buffa società provinciale ; c ' è insomma la grande commedia tratta , nell ' articolazione della sua vicenda , dalla novellistica italiana , dalle Notti dello Straparola ; Shakespeare era nei suoi anni migliori , gli anni dell ' Amleto e del Giulio Cesare . Parliamo ora dello spettacolo . I confronti sono sempre odiosi , come si sa , ma in questo caso è dovere del critico minimamente aggiornato sui più recenti fatti teatrali italiani , stabilire un parallelo , per esempio , fra questa regia di Sharoff e quella , firmata da Luigi Squarzina , al Teatro Stabile di Genova , di un ' altra commedia shakespeariana , quella Misura per misura che non era mai stata rappresentata in Italia e che l ' anno scorso il pubblico genovese e quello romano poterono conoscere . Sì , Misura per misura è un ' opera più macchinosa e complessa e anche meno logorata dalle interpretazioni e si presta forse di più alle escogitazioni registiche , alle invenzioni e alle fantasie di un estro spettacolare ; ma chi per avventura abbia assistito a tutt ' e due le realizzazioni , non potrà non aver constatato quanto lo spettacolo di Genova fosse più approfondito e preciso , come rivelasse la ricerca di uno stile e di un significato che andasse al di là dell ' interesse melodrammatico della trama , al nocciolo di quello Shakespeare che , appunto in Misura per misura , nel punto più alto della commedia , parla della « stella che apre gli ovili » , al mattino . Nello spettacolo cui abbiamo assistito ieri sera , con bei costumi e buone scene ( ma non tutte , due o tre non ci sono piaciute ) dovute a John More e a Veniero Colasanti , c ' è qualcosa di approssimativo , di non ben fuso , qualcosa che sa un poco di « routine » vecchio stile ; restano intatti , naturalmente , colore e buffoneria . Ciò va detto , per scrupolo di verità , senza togliere una briciola del suo merito a un ' interpretazione , come quella di Cervi , che non potrebbe essere più festante e fastosa , sempre restando ben raccolta , come una polpa , intorno a quel nocciolo d ' umanità di cui si diceva all ' inizio ; accanto a lui , nelle parti delle due comari , un ' Olga Villi irridente e ammiccante e una Anna Miserocchi sostenuta e cauta , come portata per forza alla beffa dal gioco della commedia ; la signora Quickly di Vittorina Benvenuti , pur efficace , la si sarebbe voluta più argutamente caratterizzata ; pastosamente comico Glauco Mauri , veramente a suo agio nel personaggio di Ford ; degli altri , sono da ricordare Adriana Vianello , amorosetta un poco acerba , Ennio Balbo , Tullio Valli , Raoul Grassilli , Armando Bandini , pittoresco ma un po ' troppo caricato , Gianfranco Ombuen , Alfredo Censi e Renato Mori . Adattamenti musicali di Gian Luca Tocchi e Bruno Nicolai , una bella coreografia finale e molti applausi .
UN DRAMMA AUTENTICO «LA GIUSTIZIA» DI DESSÌ ( De Monticelli Roberto , 1959 )
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Esiste , da lunedì scorso , sul palcoscenico d ' un teatro d ' Italia , un misterioso dramma , che si è presentato senza clamore , senza alone mondano intorno , senza cicaleccio snobistico , senza brusio di scandalo , senza che nessuno citasse Proust o Pierre Choderlos De Laclos ( che in genere non c ' entrano per niente e in questo caso poi meno che mai , ma sono nomi grati al palato dei letterati che frequentano , fingendo di snobbarle , le sale di spettacolo ) . Esiste questo dramma , nella sua realizzazione scenica , da lunedì scorso e noi siamo ben lieti che questo accada : è un dramma , intendiamoci , non perfetto , che può dare persino la sensazione di qualcosa di non finito , d ' oscuro , di chiuso nella notte d ' una fatica creativa ancora non placata . È La Giustizia di Giuseppe Dessì , che si rappresenta in questi giorni al Teatro Stabile di Torino , con la regia di Giacomo Colli , primo testo drammatico di un narratore che al teatro non s ' era avvicinato mai e che lo ha fatto ora , non per vanità o per desiderio di facile fama , ma proprio perché la natura dei fatti che s ' era accinto a narrare lo ha irresistibilmente portato verso una ribalta . La Giustizia , è lo stesso Dessì che lo scrive , stava lentamente nascendo come lungo racconto . Ma quei personaggi , quella gente d ' un paese del centro della Sardegna , presi nel vortice d ' una inchiesta giudiziaria che scava faticosamente nel passato , alla ricerca del responsabile d ' un delitto consumato quindici anni prima , non sopportavano d ' essere chiusi entro certi schemi narrativi , volevano a tutti i costi parlare , muoversi , agire . « Infatti ciò che mi piaceva , nel mio racconto o romanzo che fosse , era il dialogo . Là , nel dialogo , il tono era giusto » . Genesi dell ' opera che all ' occhio dello spettatore si fa chiara solo che egli pensi come i fatti rappresentati siano tolti di peso dai rapporti di un giudice istruttore ; e che corrispondono , nella loro apparenza esteriore , a fatti realmente accaduti . In un paese primitivo , fra i monti della Gallura , una ragazza , una piccola serva di diciassette anni , ha un giorno una visione terrificante : vede , in un boschetto dietro le case , col volto squarciato e coperto di sangue , la vecchia madre delle sue padrone , due tetre sorelle invecchiate nel silenzio , nel sospetto e in una squallida avarizia da poveri ; la vecchia della visione , in quella sua agonia , pronuncia dei nomi , che sembrano altrettante accuse . Il delitto è accaduto , in realtà , ma quindici anni prima . Una lunga indagine era stata condotta dal maresciallo dei carabinieri allora di stanza nel paese ; e un grosso fascicolo istruttorio s ' era di giorno in giorno gonfiato sul tavolo di un giudice . Un uomo del paese , vicino di casa delle due sorelle , era stato accusato dell ' assassinio , aveva subito dieci mesi di carcere preventivo , poi era stato prosciolto . E la macchia del delitto impunito , era restata sulla comunità . La visione della ragazza ( che può sembrare frutto di isteria ma in realtà non lo è , come si vedrà poi nello sviluppo del dramma ) rimette tutto in discussione , l ' indagine e l ' istruttoria sul vecchio crimine vengono riprese dal nuovo maresciallo e da un altro giudice . Ecco : non accade molto di più e trattandosi , poi , nella sua costruzione esteriore , d ' un dramma di « suspense » , non è bene rivelare gli scioglimenti dei fatti ai lettori che possono domani diventare spettatori . Ma ciò che conta , qui , è la rappresentazione corale di quella società primitiva ; è , per quanto concerne l ' indagine nelle coscienze , il , senso che ne scaturisce , di colpe antichissime , di torti remoti e reciproci , mai perdonati né risarciti ; è l ' immagine della solitudine umana , dell ' incomprensione , dell ' innocenza tradita sulla terra indifferente , nel paesaggio nemico : il sacrificio di Abele ( ma un Abele non scevro di colpe ) che si ripete in un mondo restato alle lontananze mitiche del Vecchio Testamento . ( Ed è Italia di oggi ) . Tutto ciò è ottenuto con una semplicità di linguaggio che prende dalla cronaca , dalla grande inchiesta oggettiva , il suo passo perento rio , perché condizionato dai fatti . E con tutto ciò , nonostante questa chiarezza , insieme fredda e accalorata , proprio da requisitoria di giudice istruttore , l ' opera resta misteriosa , serrata in un grumo d ' ombra , un segno simbolico sul muro d ' una catacomba ; che è , mi pare , la prova della sua qualità . Aggiungi a questi dati positivi uno spettacolo , rigoroso , austero , non ancora perfetto in certe parti accessorie , ma significativo nella sua aderenza al testo ; aggiungi quella scena di Michele Scandella , un miracolo di prospettive poetiche ( oltre che un miracolo tecnico , dato il minuscolo palcoscenico del Gobetti , sul quale riescono a muoversi più di una trentina di personaggi ) ; e l ' interpretazione sobria , patita , piena di umiltà e di malinconia , di Gianni Santuccio ; la potente figurazione ieratica di Paola Borboni ; la caratterizzazione di Gina Sammarco ; il prodigarsi di tutti gli altri , da Mario Bardella a Giulio Oppi . Insomma , un risultato . Ora , si pensi che il dramma di Dessì fu pubblicato su « Botteghe Oscure » nel 1948; e che ci ha messo dieci anni per arrivare a una ribalta . Altro che far polemiche sui giornali ; se dipendesse da noi , manderemmo i pezzi grossi del teatro italiano , gli alti papaveri impresariali , in viaggio d ' istruzione per l ' Italia , paese che hanno dimostrato , ad usura , di non conoscere .
HA VENTISETTE ANNI LA NOVITÀ DI BRANCATI ( De Monticelli Roberto , 1959 )
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Se questi tre atti di Vitaliano Brancati fossero stati rappresentati nel 1932 o giù di lì , cioè quando apparvero sul « Convegno » di Enzo Ferrieri , si sarebbero forse accese discussioni sulle interessanti prospettive che il teatro degli scrittori giovani andava aprendo nel logoro panorama della scena nazionale . Ma , in Italia , le cose che devono accadere , ecco qua , accadono sempre con un minimo di venticinque anni di ritardo . Ed ecco che la riesumazione di questo dramma giovanile dello scrittore scomparso , intitolato Il viaggiatore dello sleeping n . 7 era forse Dio ? appare oggi destituito di quasi tutti quei motivi di interesse che avrebbe avuto una volta . Perché ? Ma perché risulta tutto tremendamente legato a quel tempo allusivo , a quella stagione in cui , anche una virgola , messa in un certo modo , assumeva un valore spropositato , una eco che probabilmente era soltanto nelle intenzioni , se non nei desideri , di chi leggeva . Così , la storia di questo vecchio signore siciliano , malato di cuore , che sul vagone - letto Siracusa - Roma ( si reca nella capitale per sottoporsi alle visite di importanti specialisti ) incontra uno sconosciuto che , per burla , gli si spaccia per cardiologo e , facendo finta di visitarlo , lo rassicura sullo stato della sua salute , tanto da ridargli fiducia e speranza nella vita ; questa storia scopre troppo presto la corda del suo simbolismo . Chi è lo sconosciuto viaggiatore dello « sleeping » ? Per il vecchio uomo malato è un ' incarnazione di Dio , una proiezione , in forma umana , della sua immagine , un modo escogitato per mandargli , da una regione misteriosa , un messaggio che lo aiuti a vivere . Accanto a questa storia , poi , se ne sviluppa un ' altra : quella della figlia dell ' anziano uomo , bella e perversa , che dice di no a un suo patetico innamorato e se ne scappa con un giovanotto sufficientemente imbecille e prestante , oltre che sbrigativo e di pochi scrupoli . Il tutto accade nella « hall » di un albergo di Roma , una Roma molto 1930 , in cui circola l ' aria dei primi racconti di Moravia e balena , a tratti un po ' di realismo magico alla Bontempelli . Il vecchio signore muore , come viene la sua ora , senza sapere che nel frattempo in una stanza di quello stesso albergo , dunque a pochi passi da lui , si trova lo sconosciuto del vagone - letto , l ' uomo che egli aveva inutilmente cercato , in tutto quel tempo , e al quale aveva attribuito una così misteriosa funzione . Tocca a questo personaggio di concludere la commedia ; è un uomo assolutamente comune , che viaggia per affari ( quando l ' abbiamo conosciuto , sul vagone - letto , ci è stato presentato come commerciante d ' arance ) ma , non appena gli viene raccontata la singolare storia , egli la inquadra nei suoi termini , diciamo filosofici : tutto è inspiegabile , egli dice , tutto è mistero . Ma accade talvolta che la nostra volontà coincida con quella di Dio . È allora l ' atto che compiamo e l ' inconsapevole bene che ne deriva non ci appartengono più , diventano un « avvenimento del mondo » . Eccoci dunque davanti a un Brancati che fa del patetico e lirico panteismo ed è immerso per di più in una atmosfera vagamente crepuscolare , con un valzer sullo sfondo e un monotono scroscio di pioggia sui vecchi tetti di Roma . Si sentono in questi tre atti un ' infinità di influssi , da Pirandello al singhiozzante Fausto Maria Martini . È un ' opera ancora incerta , confusa , con qualche grazia , esclusivamente letteraria , nel dialogo ( e nelle lunghe didascalie ) ; con due personaggi persino un tantino ridicoli , nella loro sentimentale convenzione : quello della ragazza perversa e quello dell ' innamorato ardente e umiliato . Sono insomma tre atti legati a quegli anni irrecuperabili , a una provincia letteraria definita e remota . Perché , dunque , riesumarli ? Non si è reso un buon servizio a Vitaliano Brancati , del quale ci interessano altre cose , in teatro e in narrativa . E poi , per presentarli così , tanto valeva lasciar dormire questi tre atti fra le pagine della vecchia rivista che li pubblicò nel lontano 1932 . Legata com ' è al suo tempo , una commedia del genere andava messa in scena preoccupandosi di dare soprattutto l ' aroma e il colore di quegli anni . Niente . E quanto all ' interpretazione , salvo Raffaele Giangrande , che è riuscito a dare plausibilità al personaggio del protagonista , salvo qualche anziano attore come Pier Paolo Porta , per il resto , nebbia . Il teatro , uno studioso come Enzo Ferrieri dovrebbe saperlo , non si può fare coi ragazzi . Quando poi , come nel caso del « Convegno » , non è un teatro di esperimento e di ricerca , ma si parte con Steinbeck e Montherlant e si arriva a una « novità » italiana che ha ventisette anni sulle spalle . L ' esito della serata è stato buono , numerosi gli applausi .
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Il fascino del personaggio di Mercadet , nella commedia di Balzac presentata ieri sera dal Piccolo Teatro di Milano , sta nel suo nucleo autobiografico . Mercadet è Balzac per lo meno nelle sue apparenze esterne , quelle consegnateci dalla tradizione : il grand ' uomo al centro del turbine di cambiali in scadenza , la fantasia eccitata dalle stesse difficoltà in cui si dibatte . Che poi il personaggio sia la rappresentazione d ' un certo tipo di borghesia francese che andava affermando i suoi concreti ideali di denaro e di potenza negli anni che seguirono la Rivoluzione di luglio , questo è talmente palese da sembrare persino ovvio . Se esistette mai uno scrittore il cui esclusivo campo di indagine fu proprio la società del suo tempo , questi è proprio da identificarsi nel creatore della Comédie humaine . È chiaro perciò che il teatro dovette esercitare una forte suggestione su Balzac , essere una continua tentazione della sua fantasia . I biografi , Théophile Gautier in testa , dicono che , in realtà , nel teatro egli vedeva una comoda e copiosa fonte di guadagno , da sfruttare sull ' esempio di certi mediocri e fortunati commediografi dell ' epoca . Ma un po ' di scetticismo , su questi suoi pittoreschi atteggiamenti ( buttava giù , scrivono , un dramma in una notte , con la collaborazione di quattro o cinque amici , convocati all ' ultimo momento ; così sarebbe nata la versione teatrale del Vautrin ) , è necessario . Mercadet l ' affarista , ( titolo originale Le Faiseur ) è , secondo la maggioranza degli studiosi , la prima in ordine di tempo , delle sei commedie firmate da Balzac ; secondo altri , l ' ultima . È senza dubbio la migliore , la più completa e realizzata . Perché anche Le Faiseur , nella riduzione del De Ennery ( l ' autore de Le due orfanelle ! ) , venne rappresentata postuma , un anno dopo la morte di Balzac , nel 1851 . E si dovette arrivare , verso il 1934 , alla riesumazione che ne fece Dullin , perché l ' opera fosse rivalutata . Le Faiseur è la rappresentazione d ' un grande personaggio , un vero e proprio « carattere » al centro di un ' immensa burla finanziaria , un ' accesa parodia dei giochi di borsa , delle speculazioni , delle avventure economiche insieme fantasiose e concrete cui cominciava ad abbandonarsi la borghesia del tempo di Luigi Filippo . Mercadet è assediato dai creditori , ha l ' acqua alla gola ; angosciate gli sono accanto la moglie e la figlia ; infidi , pettegoli e non pagati , i servi lo sorvegliano . Con tutto ciò , dal disastro imminente , come dal fondo d ' un cappello di prestigiatore , egli trae gli estri della sua fantasia di grande avventuriero dei titoli non riscuotibili , delle cambiali protestate , dei sequestri giudiziari . Chimeriche imprese , con tutte le vele spiegate al vento delle illusioni , navigano nell ' atmosfera eccitata di quella sua casa - trabocchetto da grande uomo d ' affari senza uno spicciolo in tasca . Ha però i suoi assi nella manica : il matrimonio della figlia con un giovane che egli crede ricchissimo ( ed è invece uno spiantato , carico di debiti e di iniziative truffaldine ) e il ritorno di Godeau , il socio in affari che , vent ' anni prima , egli racconta , se ne fuggì con la cassa . Gli va fallito il colpo del matrimonio della figlia ( che si sposerà con un giovanotto fra sentimentale e prudentemente calcolatore , cui alla fine è affidata la funzione di Deus ex machina dello scioglimento ) , e starebbe per andargli a vuoto anche la fantastica trovata del grande ritorno di Godeau , da lui organizzato con truffaldina genialità , se il socio fantasma , poi , a conclusione della favola , non tornasse per davvero , dalle Indie , carico d ' oro , a sistemare tutto . Tutto ciò sarebbe sulla linea d ' un macchinoso vaudeville , alla Scribe , o addirittura alla Labiche , se non ci fosse quel grosso personaggio centrale , quel Mercadet , ipotesi che Balzac sembra prospettarsi di se stesso ( e in tal senso si è detto sopra che il fascino di questo protagonista ha i bagliori d ' una delle biografie più poetiche dell ' Ottocento ) . Manca però a Mercadet un antagonista che lo condizioni . Allora , questa sarebbe davvero una grande commedia . Gli altri personaggi , infatti , sono tutti convenzionali o non escono , al più , dai limiti della macchietta . Un certo rilievo psicologico hanno la moglie e la figlia del protagonista , con la loro misura umana , piccolo - borghese ; ma si tratta di figure che restano approssimative . La vera scoperta è lui , Mercadet ; la cui presenza determina un paio di scene per cui è senz ' altro esagerato citare Molière , ma che sono indubbiamente belle . Aggiungi il gusto dell ' aforisma , la viva parodia scenica delle opinioni politiche e morali del tempo . È destino che non ascolteremo mai la commedia di Balzac nella sua stesura originale ( si tratta d ' altronde di cinque atti lunghissimi e piuttosto mal calibrati per il gusto di uno spettatore moderno ) . Della riduzione presentata dal Piccolo si è incaricato Carlo Terron , che ha forse abbondato , seppure con gusto , nelle modifiche e nei ritocchi . Ha tra l ' altro leggermente alterato il personaggio della moglie di Mercadet , per fare di quel suo spicciolo moralismo un contrappeso teatralmente efficace al cinismo avventuroso del marito ; e ha cambiato il finale , spiritoso arbitrio per cui dovrà intendersela direttamente con l ' ombra di Balzac ; ma in complesso la riduzione è efficace e finisce con giovare al testo . A differenza di quanto fece Jean Vilar quando , due anni fa , mise in scena e recitò Le Fausier , tenendosi a metà tra i ritmi della commedia seria e di quella giocosa , Virginio Puecher , regista dello spettacolo , ha puntato sull ' interpretazione satirica del testo , cavandone quindi effetti grotteschi e momenti di tensione drammatica e giocando in chiave ironica sull ' attesa del mitico Godeau . Se c ' è un difetto , sta nell ' andatura un po ' lenta , specialmente nella seconda parte . Uno spettacolo , comunque , approfondito e , a tratti , rivelatore . Al centro della serata , Tino Buazzelli , che s ' era combinata un ' efficacissima faccia alla Balzac e che ha recitato , ha riso , pianto , si è mosso , con una corposa evidenza , una versatilità di toni e di mimica notevolissima ; Mercadet sembra cucito sulle sue spalle ; accanto a lui , brillante quantunque un po ' manierato , Aldo Giuffré , Gabriella Giacobbe , che ha dato una patetica misura alla figura della moglie , Giulia Lazzarini , che era la malinconica figlia da maritare , il comicamente violento Tarascio e tutti gli altri , da Gastone Moschin ad Andrea Matteuzzi , assai efficaci . Una festosa scena di Damiani , musiche di Carpi . Molti applausi , alla fine delle due parti .
IL «CABARET» DI COBELLI RIVELA UN INTERPRETE ( De Monticelli Roberto , 1959 )
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Ieri sera il pubblico , raccolto nella conchiglia del Gerolamo - platea e palchi gremiti - ha salutato , cori fittissimi applausi , la nascita di un nuovo interprete , nella difficile specializzazione del teatro parodistico - satirico . Chi è il giovanissimo Giancarlo Cobelli , unico protagonista di Cabaret '59 , lo spettacolo andato in scena nel minuscolo teatro su testi di Giancarlo Fusco , dello stesso interprete e di Quinto Parmeggiani e con le musiche di Fiorenzo Carpi , Gino Negri e Jacqueline Perrotin ? È un mimo , si potrebbe dire , poiché la sua vocazione al teatro affonda le radici , prevalentemente , nella tecnica e nell ' arte del mimo ; ma è anche un attore , bisogna subito aggiungere , poiché dell ' attore , e dell ' attore comico in particolare , sono quei suoi toni violentemente caratterizzati , che superano la stretta misura , di solito soltanto allusiva , dei « diseurs » , da una parte , dei macchiettisti tradizionali dall ' altra . Egli riesce in realtà ad evocare veri e propri personaggi , naturalmente sintetizzandoli , trasformandoli in simboli con un crudo segno espressionistico . Aggiungete le possibilità , che egli possiede , di cantare e danzare , e avrete l ' immagine di questa specie di elettrico « clown » recitante ; né vi meraviglierete che egli possa , sulle giovani spalle , sostenere l ' intero peso di uno spettacolo che dura due ore buone . Naturalmente , come la maggior parte degli spettacoli di questo genere , anche Cabaret '59 è basato soprattutto sugli spunti di attualità , un ' attualità guardata attraverso il prisma deformante dell ' ironia . Così , dal primo quadro , che si intitola Ciampino , cinturino e Rugantino , all ' ultimo , Valzer d ' addio , sono gli aspetti del costume italiano contemporaneo che vengono presi di mira : il cinema , gli interpreti di canzonette , quei singolari , morbidi , apparentemente svaniti , in realtà attentissimi divi del tempo nostro che sono i grandi creatori della moda femminile , il giornalismo , i « teddy - boys » , le televisive anime gemelle , gli eroi del pugilato e così via . Ma bisogna dire che , salvo un paio di notazioni , che appaiono strettamente per iniziati ( l ' esilarante parodia di Paolo Grassi , per esempio ) , tutto il resto è su una chiave di comicità largamente accessibile , elegante ma popolare . Si veda per esempio la parodia del grande balletto scaligero , in cui il Cobelli , con nervoso fregolismo ( per usare una definizione tradizionale , ma efficace ) si trasforma in una serie di personaggi ( mimi e ballerini ) imitati con una sorta di comica , affettuosa crudeltà . Giancarlo Fusco , cui si devono la maggior parte dei testi , ha accompagnato col « pizzicato » pungente del suo umorismo , le felici evoluzioni interpretative del Cobelli ; fra i suoi sketches , tutti spiritosi e mordenti , ci sono particolarmente piaciuti quelli dedicati al giornalismo , al grande sarto e al funerale , con rassegna di buone azioni , trasformate in ottimi affari , del grosso imprenditore . Ma tutto lo spettacolo è vivo . Nella seconda parte , accanto a qualche momento di stanchezza , ci sono però anche le cose migliori , le più inedite . Mario Missiroli , un altro giovane , ha curato la regia dei due tempi ; le musiche sono apparse tutte diversamente efficaci . Insomma , è stato un successo , con moltissimi applausi , come s ' è detto , all ' interprete unico , che alla fine appariva un po ' provato . Bisogna capirlo : due ore sulla corda .
SATIREGGIATI I PARRUCCONI DELLO STEMMA ( De Monticelli Roberto , 1959 )
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Scandalo sotto la luna di Eugenio Ferdinando Palmieri fu rappresentata per la prima volta a Milano nel 1940; e venne scritta due anni prima . È dunque una commedia di più che vent ' anni fa e appartiene all ' esiguo gruppetto delle quattro o cinque ( sulle dodici che scrisse per la scena veneta ) che Palmieri , critico rigoroso di sé come degli altri , non rifiuti a distanza di tanti anni . La ripresa che ne ha fatto ieri sera , al teatro Nuovo , Cesco Baseggio , con la regia di Carlo Lodovici , è stata opportuna perché ha riaperto uno spiraglio su un teatro veneto ingiustamente dimenticato . Il Palmieri , che del dialetto ha la vocazione e l ' istinto ( la sua stagione poetica si è svolta sotto il mutevole cielo della parlata polesana ) si è sempre battuto , con saggi e articoli , per un teatro veneto moderno che superasse le dolcezze e le lividure ( crepuscolari le une e le altre ) di Giacinto Gallina e di Gino Rocca ; per un teatro veneto che non fosse fatto di epigoni bonari , malinconici o gai con lacrimetta ; un teatro che , d ' una provincia italiana antica , irrequieta e cupa d ' ombre molteplici , non ripetesse un ' immagine convenzionale . Scandalo sotto la luna è in questo senso una commedia sufficientemente indicativa . Ma nella produzione di Palmieri commediografo è certo una delle sue opere più cordiali , meno anarchiche ; infatti , il suo mondo più autentico è quello rapsodico , vagamente picaresco e comunque ribelle , della sua giovinezza polesana , il mondo che si può ritrovare in un ' altra commedia , I lazzaroni , recentemente pubblicata in un fascicolo di « Sipario » dedicato al teatro veneto . Qui viene dipinto l ' affresco satirico dell ' aristocrazia veneta e lo spunto è offerto da un matrimonio andato a monte perché la nobile sposina se ne scappa con un altro , un pittore povero e di natali alquanto umili . Il matrimonio , principesco , era stato predisposto , per la sorella minore , da Marina Ravazzin , agra zitella ambiziosa , capofamiglia , praticamente , della nobile casata , che comanda a bacchetta anche sui due fratelli , un gentiluomo che fa il deputato conservatore , tanto per occuparsi di qualcosa ( il primo atto della commedia è datato 1914 ) , e un giovanotto tonto , che è ufficiale dei lancieri e corre dietro , come di rigore , alle stelle del café chantant . La commedia racconta lo scandalo , e lo sdegno ipocrita , provocati in quell ' ambiente di nobili parrucconi , dal gesto di rivolta della promessa sposa che preferisce , all ' ebete rampollo di un principe ( d ' altronde , squattrinato e avaro ) un proletario artista . Ventidue anni dopo i Ravazzin , cui per quello scandalo era stato dato l ' ostracismo e che hanno vissuto in solitudine , ma badando a saggiamente amministrare il patrimonio , vengono riammessi nel « giro » , per iniziativa del principe il cui figlio s ' ebbe a suo tempo il rovente smacco ; in realtà , perché si ha bisogno di loro e , soprattutto , dei loro aristocratici quattrini . Nel frattempo una figlia della fuggitiva è felicemente rientrata nella famiglia e Gasparo , lo zio ex - deputato , se ne serve per fare , in uno , le vendette dei Ravazzin e la felicità di lei che , come la madre , s ' è innamorata di un giovanotto di nome oscuro . Là per là , su due piedi , il principe sussiegoso e ipocrita viene « comperato » dai milioni di Gasparo ; offrirà alla nuova coppia la protezione , squattrinata ma blasonata , della sua autorità di « padre spirituale » di tutto il sangue blu che scorre fra la laguna e il Garda . I tre atti sono sagacemente costruiti su tre visite , del principe , alla famiglia nemica ; e questo , del principe , è anche il personaggio più felice . Come il miglior atto della commedia è il secondo , quando la nobiltà fa il suo ingresso solenne , dopo ventidue anni , nella casa degli « esiliati » . Qui , prende rilievo il ritratto satirico di quella provincia , di quelle figure per museo da statue di cera ; e la comicità diventa cattiva . Del resto , la trama , alquanto forzata ( sta qui il difetto della commedia , che cioè a quelle solenni e patetiche mummie non si contrappongono antagonisti veramente vivi ) , è il pretesto per la rappresentazione beffarda di un mondo post - fogazzariano . È in questa satira che il Palmieri è davvero riuscito ; e in un « parlato » dialettale vivo , semplice , rigoroso , sparso di intelligenti battute comiche . L ' interpretazione , guidata dalla regia di Carlo Lodovici , è stata buona , quantunque l ' avremmo preferita più aspra , più risentita ; colpa forse dell ' eccessiva preoccupazione di volgere in lingua un dialetto per sé chiarissimo . Cesco Baseggio ha felicemente tratteggiato l ' ipocrisia avida e ghiotta del vecchio principe , il Lodovici ha fatto con disinvoltura , ma anche con qualche approssimazione , la parte del Deus ex machina ; e hanno ben recitato , come di consueto , Elsa Vazzoler , Luisa Borseggio , Rina Franchetti , il Cavalieri , Giorgio Gusso e tutti gli altri . Un bel successo .
ARRIVANO I NOSTRI «ARRABBIATI» ( De Monticelli Roberto , 1959 )
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Meno male , bisogna dire che l ' essere venuti a Bologna per assistere al pallido congresso internazionale dei critici conclusosi oggi , ci ha offerto l ' occasione di ascoltare stasera al Teatro Comunale , in sede di Festival della prosa , una singolare commedia italiana , Il benessere , di Franco Brusati e Fabio Mauri , rappresentata con la regia di Luigi Squarzina dal complesso del « Teatro d ' arte italiano » . È una commedia singolare che , e per come è condotta e per quello che vuol dire , esce con un giovanile colpo di reni dal cerchio ristretto del conformismo teatrale più aggiornato , cioè del neorealismo , dal teatro - cronaca , dalla più o meno larvata intenzione dei temi e delle tecniche brechtiane . Vi si rappresentano , per due atti , il gioco cinico , l ' ambiguità festevole e , sotto sotto , disperata , d ' una coppia di coniugi che si concedono una reciproca libertà d ' esperienze amorose . Ma qualcosa li unisce e non è soltanto la complicità nel peccato , piuttosto una specie d ' amore sudicio e intenso , un legame sordido e , alla sua maniera , puro . Tutto ciò è raccontato per due atti in una serie di scene sotto la cui effettiva , intelligente comicità , sotto una spregiudicatezza persino urtante , per ciò che vi è in essa di allusivo e di ironico , si comincia tuttavia ad avvertire lo scorrere di una sotterranea freschezza ; è chiaro che l ' alba di una morale disperata sorgerà alla fine su un così desolato paesaggio umano . È il trapasso che avviene al terzo atto quando , separati , i due coniugi esperimentano l ' inferno della solitudine in un mondo ormai diventato incomprensibile , risonante di avvertimenti arcani . Il finale , con la donna che si fa ammazzare da un cameriere idiota , una specie di bruto che inconsapevolmente diventa giustiziere , è alquanto truculento , fa pensare a certi sadismi del teatro espressionista tedesco ; ma intanto , ciò che agli autori premeva di esprimere , la scoperta della coscienza da parte di due condannati alla cecità morale , viene lividamente a galla , come il relitto di un naufragio . Perché bisogna dire che questi due giovani possiedono una dote importante : la possibilità di far scaturire da un vero umorismo , tipo Osborne , il lampo dell ' insoddisfazione morale . Insomma , ci pare che , già annunciata da diverse avvisaglie , da testi per esempio come D ' amore si muore , cominci in Italia un teatro degli « arrabbiati » . Ben venga , anche con tutti i difetti e le intemperanze di una commedia come questa . I tre atti sono stati assai bene recitati da una Laura Adani scatenata in un genere di comicità che le riesce perfettamente : la buffoneria cinica , ammiccante e a suo modo romantica ; da Vittorio Sanipoli , che ha descritto con vivezza un tipo di libertino perplesso , ombroso , in conclusione disperato ; da Franco Parenti , efficacissimo in una parodia dell ' innocenza patetica e stupida . Notevole il successo . Questo è dunque l ' anno delle commedie italiane ; il primo di una serie , forse . C ' è un ' ondata che arriva , attenzione .