StampaQuotidiana ,
Una
quarantina
d
'
anni
fa
,
in
un
suo
dotto
e
bizzarro
libro
che
non
credo
abbia
destato
molte
discussioni
:
La
scepsi
estetica
,
il
filosofo
Giuseppe
Rensi
si
sforzava
di
dimostrare
che
il
giudizio
estetico
è
sempre
soggettivo
e
non
può
aspirare
all
'
assolutezza
.
Secondo
il
Rensi
,
di
uno
che
avesse
preferito
,
supponiamo
,
Parzanese
a
Dante
,
Franz
Lehár
a
Beethoven
in
nessun
modo
poteva
dirsi
che
fosse
nel
falso
.
Nel
mondo
dell
'
estetica
non
c
'
era
verità
e
errore
,
ma
solo
il
gusto
individuale
,
sempre
vero
e
inconfutabile
.
La
tesi
non
fu
presa
molto
sul
serio
.
Teneva
allora
il
campo
la
filosofia
idealistica
,
per
la
quale
l
'
individuo
era
qualcosa
come
un
felice
inganno
,
una
illusione
;
e
ben
pochi
si
arrischiavano
a
mettere
in
dubbio
l
'
assolutezza
del
giudizio
estetico
.
Anche
in
questo
settore
o
spicchio
della
vita
individuale
l
'
individuo
era
battuto
a
favore
del
super
-
individuo
:
lo
Spirito
Universale
.
Nemmeno
mezzo
secolo
è
passato
,
e
già
i
filosofi
sembrano
correre
altre
vie
.
Due
mesi
or
sono
,
a
Venezia
,
in
un
«
simposio
di
estetica
»
,
l
'
insigne
storico
della
filosofia
medievale
Étienne
Gilson
affermò
che
la
ragione
umana
non
riesce
neppure
a
sfiorare
l
'
intimo
processo
della
creazione
artistica
.
La
ragione
,
secondo
Gilson
,
coglie
l
'
opera
d
'
arte
quand
'
esca
è
fatta
,
quando
è
diventata
un
oggetto
,
non
può
coglierla
nel
suo
divenire
.
Il
linguaggio
dell
'
artista
e
il
linguaggio
del
critico
non
sono
omogenei
.
Se
lo
fossero
,
il
critico
dell
'
arte
pittorica
si
esprimerebbe
dipingendo
;
il
critico
dell
'
arte
musicale
si
esprimerebbe
scrivendo
altra
musica
;
il
che
non
avviene
.
L
'
arte
è
dunque
creazione
di
oggetti
che
prima
non
esistevano
,
non
è
linguaggio
o
almeno
non
è
linguaggio
razionale
:
mentre
la
critica
,
che
ha
per
suo
strumento
il
linguaggio
,
non
è
che
ricognizione
di
oggetti
già
fatti
.
Caduto
il
principio
dell
'
imitazione
del
vero
nelle
arti
che
furono
dette
figurali
o
plastiche
(
nessuno
dei
molti
intervenuti
sembrò
porre
in
dubbio
la
necessità
di
questa
caduta
)
,
ne
consegue
che
non
può
darsi
critica
razionale
dei
prodotti
di
queste
arti
.
L
'
arte
d
'
oggi
,
in
gran
parte
delle
sue
manifestazioni
,
non
è
dunque
giudicabile
in
alcun
modo
;
anzi
l
'
arte
non
fu
giudicabile
mai
,
perché
l
'
antica
critica
fondata
sul
principio
della
mimesi
,
dell
'
imitazione
,
non
compiva
che
l
'
inventario
di
una
più
o
meno
felice
adeguazione
al
vero
,
ma
restava
muta
dinanzi
all
'
ineffabilità
dell
'
arte
.
A
riprova
delle
sue
idee
il
Gilson
portava
il
fatto
che
nel
mondo
delle
arti
non
ha
validità
il
principio
di
contraddizione
.
La
scienza
evolve
,
una
tesi
dimostrata
vera
elimina
la
tesi
contraria
.
In
arte
,
di
due
tesi
opposte
non
avviene
che
una
elida
l
'
altra
.
Non
potrete
mai
dimostrare
che
una
canzonetta
di
Modugno
sia
inferiore
all
'
Odissea
;
potrete
dire
che
sono
due
cose
diverse
.
(
Naturalmente
,
non
mi
valgo
sempre
degli
stessi
termini
del
Gilson
:
che
non
cita
Modugno
e
definisce
la
figuratività
come
imagerie
;
ma
il
senso
non
varia
.
)
La
prima
e
vera
obiezione
che
potrebbe
farsi
è
che
esiste
un
'
arte
:
la
poesia
,
la
quale
si
serve
della
parola
e
possiede
dunque
uno
strumento
omogeneo
a
quello
della
critica
.
Ma
il
Gilson
ha
previsto
l
'
obiezione
e
ha
tentato
di
smontarla
.
In
realtà
,
a
suo
avviso
anche
la
critica
della
poesia
si
fonda
sull
'
apprezzamento
della
imagerie
,
cioè
sull
'
involucro
che
fa
di
una
poesia
un
oggetto
,
ma
non
coglie
il
moto
irrazionale
che
sceglie
la
parola
(
quella
parola
e
non
un
'
altra
)
come
materia
.
La
critica
letteraria
si
risolve
perciò
in
una
storia
di
contenuti
,
o
tutt
'
al
più
in
un
'
indicazione
di
«
luoghi
»
più
o
meno
suggestivi
.
Il
più
e
il
meglio
le
sfugge
:
anche
la
poesia
non
conosce
evoluzione
ed
evade
dal
tempo
.
E
a
questo
punto
è
opportuno
notare
quanto
il
Gilson
sia
vicino
,
almeno
qui
,
al
pensiero
del
Croce
,
che
potrebbe
sembrare
toto
coelo
diverso
.
Anche
per
l
'
idealismo
crociano
non
si
dà
storia
della
poesia
,
ma
storia
di
poeti
;
anzi
qualcuno
,
portando
quel
pensiero
alle
ultime
conseguenze
,
crede
che
si
dia
solo
storia
delle
singole
opere
di
poesia
,
essendo
il
poeta
stesso
,
come
unico
autore
di
opere
diverse
,
un
'
astrazione
.
Come
si
vede
,
filosofi
di
opposte
tendenze
possono
,
per
diverse
vie
,
proporre
la
medesima
distruzione
dell
'
individuo
.
Non
so
se
la
tesi
del
Gilson
abbia
destato
obiezioni
.
A
Venezia
tutti
sembravano
convinti
che
la
distruzione
dell
'
imagerie
nelle
arti
visive
e
della
tonalità
naturale
(
ammesso
che
essa
esista
)
nella
musica
sia
ormai
conquista
della
quale
non
può
farsi
a
meno
.
L
'
unica
risposta
da
me
letta
porta
la
firma
di
uno
storico
dell
'
arte
medievale
,
Sergio
Bettini
,
ed
è
apparsa
sulla
rivista
della
Biennale
veneziana
(
«
La
Biennale
»
,
gennaio
-
marzo
1958
)
.
Il
Bettini
non
contraddice
del
tutto
il
Gilson
,
ma
propone
alcune
rettifiche
o
vie
d
'
uscita
.
Pensiamo
,
egli
dice
,
all
'
architettura
,
che
Aristotile
,
e
non
lui
solo
,
escludeva
dal
novero
delle
arti
appunto
perché
essa
non
si
propone
l
'
imitazione
del
vero
.
Oggi
tutte
le
opere
d
'
arte
dovranno
essere
«
lette
»
come
opere
architettoniche
,
prescindendo
definitivamente
dall
'
imagerie
che
può
formarne
il
pretesto
.
Se
è
arte
l
'
architettura
(
e
nessuno
osa
più
negarlo
)
,
se
noi
possiamo
leggerne
le
opere
anche
senza
tener
conto
della
loro
destinazione
pratica
,
così
potremo
leggere
come
opere
architettoniche
anche
le
più
strane
pitture
tachistes
o
informali
:
o
anche
,
aggiungiamo
noi
,
le
più
strazianti
musiche
elettroniche
.
Ma
è
una
lettura
,
riconosce
il
Bettini
,
estremamente
difficile
,
alla
quale
noi
non
siamo
ancora
addestrati
.
A
suo
avviso
,
nell
'
arte
che
ha
rinunziato
alla
mimesi
,
solo
un
capello
divide
il
capolavoro
dall
'
aborto
.
Compito
del
critico
è
di
cogliere
questa
differenza
infinitesimale
e
di
indicarla
;
ma
con
quali
parole
?
Forse
solo
con
una
interiezione
,
un
mugolio
.
Sostanzialmente
il
Bettini
sembra
d
'
accordo
col
Gilson
nel
ritenere
che
dell
'
arte
moderna
(
e
forse
d
'
ogni
arte
)
non
può
farsi
utile
discorso
.
II
critico
d
'
oggi
non
può
essere
che
un
rabdomante
che
con
la
sua
bacchetta
tocca
qui
e
tocca
là
;
ma
non
ha
nessun
monopolio
del
vero
.
Si
può
pensare
diversamente
da
lui
senza
essere
imputati
di
falsità
.
E
qui
si
torna
alle
idee
del
troppo
dileggiato
(
allora
)
Giuseppe
Rensi
.
Un
tempo
il
corso
e
ricorso
delle
stesse
idee
avveniva
lentamente
,
nel
giro
di
secoli
.
Oggi
s
'
è
fatto
rapidissimo
.
Torniamo
un
passo
addietro
.
Non
dovete
credere
che
questo
universale
relativismo
porti
l
'
accademico
di
Francia
Étienne
Gilson
a
un
pessimismo
assoluto
.
Se
la
ragione
umana
ha
dei
limiti
,
l
'
uomo
deve
lavorare
e
agire
con
gli
strumenti
di
cui
dispone
.
E
il
Gilson
,
trasferendosi
inopinatamente
sul
piano
dell
'
empiria
,
pensa
che
studiando
le
correnti
e
le
modificazioni
del
gusto
individuale
si
possa
disporre
le
opere
d
'
arte
nel
tempo
e
si
possa
classificarle
secondo
criteri
di
probabile
validità
estetica
.
È
vero
:
su
un
piano
strettamente
teorico
sarà
sempre
impossibile
confutare
chi
preferisca
le
sculture
di
fil
di
ferro
esposte
a
Venezia
alle
opere
di
Michelangelo
:
chi
anteponga
alla
Gioconda
un
paio
(
stracciato
)
di
calze
di
nylon
debitamente
esposte
in
cornice
.
Ma
esiste
pure
,
di
epoca
in
epoca
,
un
consenso
delle
maggioranze
,
un
certo
numero
di
indicazioni
collettive
che
non
possiamo
trascurare
.
Si
trasformi
dunque
l
'
indagine
estetica
in
uno
studio
statistico
dei
gusti
e
delle
«
mode
»
:
si
fondino
a
tale
intento
istituti
di
ricerca
ad
hoc
;
e
forse
si
potrà
individuare
qualche
norma
utile
agli
artisti
e
ai
profani
«
consumatori
»
d
'
arte
.
Ma
potranno
simili
norme
sfuggire
alle
accuse
di
soggettività
che
si
muovono
al
giudizio
dei
singoli
?
In
verità
,
questa
parte
del
discorso
del
Gilson
,
del
resto
appena
abbozzata
,
ci
sembra
singolarmente
campata
nelle
nuvole
.
Oggi
la
pietra
d
'
inciampo
delle
speculazioni
estetiche
non
è
più
data
dall
'
architettura
,
ma
dalla
poesia
,
dall
'
arte
della
parola
.
La
poesia
,
che
per
metà
è
discorso
e
per
metà
è
altra
cosa
,
è
orinai
un
'
intrusa
in
considerazioni
di
questo
genere
.
Lo
è
,
d
'
altronde
,
sempre
stata
:
fin
da
quando
si
è
parlato
della
poesia
e
«
delle
arti
»
,
unificando
e
insieme
distinguendo
.
Non
è
mai
avvenuto
,
nemmeno
nelle
punte
estreme
del
surrealismo
,
che
un
poeta
,
uno
scrittore
,
rinunciasse
del
tutto
alla
raffigurazione
,
all
'
imagerie
.
Ammettiamo
pure
che
le
manifestazioni
non
figurali
delle
arti
visive
abbiano
avuto
il
merito
(
o
l
'
effetto
)
di
porre
in
crisi
l
'
arte
figurativa
,
l
'
abbiano
resa
più
che
mai
difficile
:
e
ammettiamo
altresì
che
da
almeno
cent
'
anni
,
per
la
suggestione
che
le
viene
dalle
altre
arti
,
la
poesia
stessa
si
sia
fatta
sempre
meno
mimetica
,
meno
rappresentativa
.
Resta
pur
sempre
la
speranza
che
l
'
arte
della
parola
,
arte
inguaribilmente
semantica
,
presto
o
tardi
faccia
sentire
il
suo
contraccolpo
anche
sulle
arti
che
pretendono
di
essersi
affrancate
da
ogni
obbligo
verso
l
'
identificazione
e
la
rappresentazione
del
vero
.
StampaQuotidiana ,
Non
so
se
molti
fra
coloro
che
hanno
scritto
saggi
o
tesi
di
laurea
sul
Carducci
si
siano
dati
la
pena
di
visitare
l
'
umile
,
quasi
inabitabile
casa
di
Valdicastello
in
cui
il
poeta
nacque
,
nel
1835
.
Di
là
all
'
università
il
volo
fu
breve
:
a
venticinque
anni
il
Carducci
era
già
in
cattedra
.
Viaggi
veri
e
propri
il
poeta
non
compì
mai
;
non
vide
mai
Parigi
,
meta
immancabile
di
ogni
intellettuale
moderno
.
Le
vie
di
comunicazione
,
in
quel
tempo
,
non
dovevano
esser
molto
diverse
da
quelle
che
permisero
all
'
Alfieri
di
trasferirsi
da
Asti
a
Firenze
.
Non
esistevano
radio
,
cinema
,
giornali
illustrati
,
edizioni
«
della
notte
»
;
le
lingue
straniere
bisognava
studiarsele
da
sé
,
a
lume
di
candela
.
Il
ritmo
della
vira
era
sicuramente
au
ralenti
.
Probabilmente
anche
le
stagioni
avevano
un
altro
peso
e
un
altro
senso
.
Aggiungete
a
queste
condizioni
di
vita
la
natura
stessa
della
terra
di
Toscana
,
satura
di
storia
e
di
civiltà
,
e
i
buoni
studi
umanistici
condotti
sotto
la
guida
dei
preti
d
'
allora
;
e
avrete
tutti
gli
addendi
che
sommati
insieme
(
non
dimenticando
il
talento
individuale
)
potevano
portare
al
risultato
ultimo
:
una
poesia
insieme
culturale
e
ingenua
.
Una
poesia
,
in
ogni
modo
,
che
par
fatta
apposta
per
permettere
alla
critica
di
tirar
fuori
i
ferri
del
mestiere
.
Quando
di
un
artista
si
sa
tutto
o
quasi
tutto
:
vita
,
opere
,
amicizie
,
ambiente
;
quando
insomma
è
relativamente
facile
fare
un
salto
indietro
e
ripercorrere
le
tracce
di
una
vita
che
ha
lasciato
reliquie
numerose
e
ancora
recenti
;
allora
è
fatica
abbastanza
agevole
quella
che
ci
propongono
i
critici
storicisti
,
di
rifarci
mentalmente
contemporanei
di
un
uomo
che
non
esiste
più
;
e
di
ripensare
un
'
opera
alla
stregua
delle
premesse
che
l
'
hanno
resa
non
solo
possibile
ma
necessaria
e
irripetibile
.
L
'
impresa
che
ho
rudimentalmente
descritto
(
e
che
consiste
nello
«
storicizzare
»
un
'
opera
e
un
autore
)
diventa
quanto
mai
ardua
nei
casi
in
cui
opere
e
uomini
si
allontanino
nel
tempo
e
nello
spazio
.
Dalla
storia
si
passa
,
qui
,
nella
metastoria
.
Si
lavora
su
qualcosa
che
è
esistito
ma
che
,
strada
facendo
,
si
è
arricchito
d
'
incrostazioni
d
'
ogni
genere
;
rimuovendo
le
quali
(
fosse
possibile
)
l
'
oggetto
in
esame
diverrebbe
non
già
più
chiaro
ma
presumibilmente
oscurissimo
.
Non
allontaniamoci
troppo
:
Medio
Evo
e
Rinascimento
(
pochi
secoli
,
un
batter
d
'
occhio
nella
vita
dell
'
umanità
)
sono
già
termini
in
discussione
,
origini
di
dibattiti
e
di
ipotesi
inconciliabili
;
e
se
dietro
a
queste
etichette
passiamo
alle
opere
(
opere
controverse
,
inattribuite
o
inattribuibili
,
opere
scomparse
o
falsificate
,
opere
gergali
di
cui
abbiamo
perduto
la
chiave
,
manufatti
di
cui
non
sapremo
mai
se
si
tratti
di
arte
o
di
industria
,
ecc
.
)
ci
convinceremo
di
quanto
sia
breve
il
raggio
d
'
illuminazione
che
è
consentito
all
'
indagine
storica
.
L
'
Ottocento
è
il
paradiso
di
tale
indagine
:
tempo
di
crescenza
,
diverso
di
decennio
in
decennio
,
tempo
vicino
a
noi
,
pienamente
comprensibile
e
ricostruibile
.
Ma
se
questa
crescenza
un
giorno
finisse
?
Se
la
velocità
della
vita
moderna
ingenerasse
secoli
e
secoli
di
apparente
stasi
?
Suppongo
che
una
macchina
lanciatissima
dia
quasi
il
senso
di
esser
ferma
;
ed
è
possibile
immaginare
un
'
umanità
futura
in
cui
il
progresso
,
sceso
per
li
rami
a
particolari
minutissimi
,
sembri
in
qualche
modo
immobile
,
non
più
in
divenire
.
È
possibile
pensare
un
tempo
in
cui
non
solo
da
un
decennio
all
'
altro
ma
da
un
secolo
all
'
altro
non
avvengano
più
mutazioni
apparenti
,
e
in
cui
il
figlio
sembri
eguale
al
padre
e
al
nonno
.
Anche
in
un
simile
caso
si
avrà
la
trasformazione
della
storia
in
metastoria
:
e
la
professione
di
critico
(
storico
)
di
arte
o
di
letteratura
non
sarà
delle
più
invidiabili
.
L
'
uomo
che
nasce
oggi
non
può
più
permettersi
il
lusso
-
o
la
perdita
di
tempo
-
che
fu
concesso
a
un
Carducci
.
A
vent
'
anni
non
sa
nulla
ma
in
certo
modo
sa
tutto
,
ha
vissuto
esperienze
che
farebbero
strabiliare
i
nostri
antenati
.
Ma
le
ha
vissute
svuotandole
,
rendendole
inutili
.
Rendersene
conto
,
strabiliarne
vorrebbe
dire
essere
per
metà
antichi
e
per
metà
moderni
,
e
il
risultato
non
potrebbe
essere
che
la
pazzia
.
È
probabile
che
lo
stato
di
collasso
nervoso
in
cui
vivono
giovani
e
vecchi
del
nostro
inoltrato
Novecento
sia
il
prodotto
di
un
inadattamento
,
di
uno
scompenso
.
L
'
uomo
nuovo
nasce
,
per
eredità
,
ancora
troppo
vecchio
per
poter
sopportare
il
nuovo
mondo
;
le
attuali
condizioni
di
vita
non
hanno
ancora
fatto
tabula
rasa
del
passato
,
si
corre
troppo
ma
si
sta
ancora
troppo
fermi
.
L
'
uomo
nuovo
è
,
in
altre
parole
,
tuttora
in
fase
sperimentale
.
O
decide
di
tornare
indietro
(
cosa
forse
impossibile
)
o
deve
correre
di
più
,
per
avere
il
beneficio
di
un
'
apparente
stasi
:
quella
dell
'
ultravelocità
.
Correre
di
più
vuol
dire
alleggerire
il
bagaglio
della
propria
cultura
,
gettar
via
la
zavorra
dei
propri
legami
col
mondo
antico
.
Vuol
dire
diventare
un
essere
di
cui
non
abbiamo
la
più
vaga
nozione
.
Qui
mi
fermo
perché
sento
di
essere
in
errore
.
Mi
basta
guardare
oltre
i
cancelli
della
pineta
da
cui
scrivo
per
convincermi
che
già
esistono
numerosi
campioni
di
un
'
umanità
divisa
fra
lavoro
e
loisirs
,
fra
lavoro
più
o
meno
meccanicizzato
e
ozi
più
o
meno
pianificati
,
non
forse
ingrati
ma
infecondi
.
Oggi
come
ieri
l
'
uomo
lavora
e
si
diverte
;
ma
il
lavoro
è
quello
che
compie
la
parte
di
un
ingranaggio
e
gli
ozi
sono
laboriosi
,
faticosi
e
talvolta
abbrutenti
.
Sono
in
ozio
gli
uomini
e
le
donne
che
vedo
sbarcare
da
macchine
di
lusso
dinanzi
alla
«
Grande
Chaumière
»
che
monopolizza
i
divertimenti
di
qui
?
Donne
dalle
pettinature
faraoniche
e
dai
calzoncini
attillati
,
a
tubo
,
fino
a
metà
del
polpaccio
;
uomini
che
hanno
brache
cascanti
e
maglie
arrotolate
e
annodate
sul
ventre
si
avviano
a
finire
nel
can
-
can
una
giornata
di
canasta
e
di
bridge
.
Non
sono
pochi
,
sono
milioni
in
tutto
il
mondo
,
sono
in
qualche
modo
la
parte
più
progredita
dell
'
umanità
.
Certo
il
progresso
ad
essi
deve
moltissimo
.
Non
è
gente
in
ozio
questa
:
è
gente
veloce
,
in
fuga
dal
tempo
,
dalle
responsabilità
e
dalla
storia
.
È
gente
che
smesso
il
lavoro
non
può
restare
in
compagnia
di
se
stessa
ed
ha
bisogno
-
in
qualsiasi
modo
-
di
«
far
qualcosa
»
per
riempire
il
vuoto
dal
quale
deve
difendersi
.
Non
sono
villeggianti
,
in
una
villa
morirebbero
di
noia
,
in
uno
di
questi
orti
non
saprebbero
accorgersi
del
lavoro
che
i
ragni
,
i
beccafichi
e
le
cetonie
compiono
sulla
più
zuccherina
frutta
del
mondo
,
sulla
pesca
noce
,
sull
'
uva
erbarola
e
sui
grappoli
dell
'
aleatico
.
Sono
estivants
,
gente
che
cerca
la
città
e
«
fa
città
»
dovunque
arriva
.
Ed
ora
sono
giunti
in
Versilia
che
fino
a
pochi
anni
fa
ne
era
immune
.
Li
accoglie
qui
un
collare
di
perle
,
la
delicata
illuminazione
notturna
che
dal
Cinquale
a
Fiumetto
distingue
questa
spiaggia
dalle
altre
;
ed
è
tutto
,
perché
all
'
alba
essi
non
sentono
certo
il
ronzio
dei
maggiolini
sulle
zinnie
,
lo
schiocco
dei
superstiti
merli
delle
pinete
.
Le
loro
camere
si
aprono
sull
'
asfalto
e
quando
scendono
sulla
spiaggia
(
quasi
asfaltata
)
coi
loro
costumi
a
due
pezzi
,
mezzogiorno
è
suonato
e
sulle
loro
teste
non
passa
che
un
aeroplano
che
sparge
manifestini
e
piccoli
paracadute
réclame
.
Il
giorno
che
tutti
avranno
lavoro
e
loisirs
a
sufficienza
e
siano
scomparsi
quegli
improduttivi
otia
che
permettevano
la
maturazione
della
grande
poesia
non
è
detto
che
anche
l
'
arte
venga
meno
sulla
faccia
della
terra
.
Una
totale
trasformazione
dell
'
uomo
in
macchina
non
è
immaginabile
.
Ma
si
accentuerà
nell
'
arte
futura
quel
carattere
preistorico
che
già
colpisce
nelle
odierne
manifestazioni
.
Avremo
«
pezzi
»
d
'
arte
pura
,
e
perciò
assolutamente
inspiegabile
;
pezzi
da
mettersi
accanto
ai
migliori
dell
'
arte
sumera
,
egiziana
,
maya
,
ecc
.
;
e
che
nessuno
vorrà
affaticarsi
a
porre
in
rapporto
con
una
figura
,
con
una
personalità
d
'
autore
;
pezzi
o
,
se
si
vuole
,
opere
che
non
sarà
possibile
inserire
in
una
storia
individuale
.
Ridotta
a
bocconi
anche
la
poesia
figurerà
nel
museo
immaginario
di
domani
.
E
forse
allora
nessuno
ricorderà
che
un
grande
filosofo
umanista
-
il
nostro
Croce
-
non
ammise
che
possa
darsi
storia
della
poesia
.
O
solo
qualche
erudito
ne
saprà
qualcosa
e
vedrà
in
questa
teoria
uno
dei
più
singolari
aspetti
della
lotta
del
nostro
tempo
contro
il
Tempo
.
StampaQuotidiana ,
Venezia
,
12
settembre
-
Si
è
inaugurato
ieri
sera
nella
sala
dello
Scrutinio
nel
Palazzo
Ducale
il
XXIII
Festival
internazionale
di
musica
contemporanea
.
I
concerti
in
programma
saranno
quindici
,
le
orchestre
quattro
:
due
italiane
(
della
Fenice
e
della
Rni
di
Torino
)
e
due
straniere
(
i
complessi
della
Radiodiffusione
-
Televisione
francese
e
della
Kölner
Rundfunk
)
.
Direttori
d
'
orchestra
Maazel
,
Sanzogno
,
Ehrling
,
Craft
,
Stravinskij
,
Cattini
,
Cluytens
,
Dutilleux
,
Maderna
,
Rossi
,
Albert
.
Sedici
saranno
le
novità
assolute
e
tredici
le
prime
esecuzioni
per
l
'
Italia
.
Musiche
sinfoniche
e
musiche
da
camera
si
alterneranno
;
non
mancherà
uno
spettacolo
di
danza
e
sarà
presente
la
musica
elettronica
.
A
parte
la
serata
dedicata
a
Schumann
e
un
concerto
con
classici
francesi
dell
'
Ottocento
,
si
avrà
quindi
una
vera
orgia
di
modernismo
musicale
.
Come
il
lettore
noterà
manca
quest
'
anno
uno
di
quegli
spettacoli
operistici
che
soli
richiamavano
il
pubblico
(
La
carriera
del
libertino
di
Stravinskij
nacque
qui
alla
Fenice
)
e
che
quasi
da
soli
esaurivano
le
magre
risorse
finanziarie
del
festival
.
È
forse
inutile
rammaricarsene
.
Quanto
alla
lamentata
(
da
parte
dei
vecchi
musicisti
)
tendenziosità
del
programma
,
quasi
esclusivamente
ultramoderno
,
si
può
osservare
che
non
è
colpa
di
Mario
Labroca
,
direttore
del
festival
,
se
oggi
la
musica
di
forme
e
spiriti
tradizionali
attraversa
una
crisi
di
stanchezza
.
Non
è
colpa
di
nessuno
se
ai
giorni
nostri
il
vento
soffia
in
una
sola
direzione
.
E
il
discorso
probabilmente
può
valere
anche
per
la
Biennale
veneziana
,
patrona
del
festival
.
Resta
inteso
che
qui
a
Venezia
le
manifestazioni
musicali
successive
alla
Mostra
del
cinema
avvengono
un
poco
in
una
scatola
chiusa
e
spesso
interessano
soltanto
gli
autori
e
i
loro
amici
.
In
larga
misura
si
ascolteranno
musiche
sperimentali
che
non
pretendono
di
avere
successo
,
e
che
anzi
sarebbero
desiderose
di
ottenere
un
effetto
di
choc
e
di
fare
scandalo
.
Il
guaio
è
che
scandali
non
ne
avvengono
più
;
l
'
orecchio
degli
ascoltatori
si
è
abituato
a
ogni
genere
di
dissonanze
e
le
ricerche
del
«
totale
cromatico
»
sono
ben
lungi
dal
dare
il
talento
a
chi
ne
è
scarsamente
provvisto
.
Nulla
di
troppo
moderno
,
in
ogni
modo
,
nel
concerto
di
ieri
sera
dedicato
alla
commemorazione
di
Gustav
Mahler
,
un
compositore
che
ebbe
larghi
successi
come
direttore
d
'
orchestra
,
ma
non
altrettanto
come
autore
di
musiche
proprie
.
La
reputazione
del
Mahler
-
morto
nel
1911
appena
cinquantenne
-
è
piuttosto
postuma
.
I
suoi
estimatori
citano
per
lui
Nietzsche
e
Kierkegaard
e
lo
vedono
come
un
uomo
di
rottura
che
,
esasperando
il
sistema
tonale
e
mostrandone
i
limiti
,
introduce
direttamente
all
'
espressionismo
dei
viennesi
.
Ma
in
verità
l
'
espressionismo
non
nasce
con
Berg
e
Webern
e
quello
di
Mahler
è
ancora
gonfio
di
romanticismo
ottocentesco
.
Le
musiche
che
abbiamo
ascoltato
ieri
sera
-
non
nuove
per
l
'
Italia
e
anzi
assai
note
anche
attraverso
registrazioni
-
ci
danno
una
diversa
misura
del
suo
temperamento
.
La
Prima
sinfonia
scritta
tra
il
1885
e
il
1888
e
ispirata
al
Titano
di
Jean
-
Paul
Richter
è
largamente
occupata
da
un
ossessivo
mimetismo
naturalistico
.
Ascoltandola
senza
tener
conto
della
traccia
offerta
dal
libretto
ne
riconosciamo
il
carattere
composito
,
indifferenziato
,
monotono
malgrado
la
ricchezza
timbrica
e
armonica
.
Il
Mahler
,
tipico
esponente
del
gusto
liberty
tedesco
,
ha
sempre
qualcosa
da
cincischiare
,
da
aggiungere
e
da
postillare
,
e
potrebbe
così
continuare
all
'
in
finito
.
Folclore
,
sentimentalismo
,
profetici
slanci
e
una
perpetua
atmosfera
di
epifania
che
non
illude
nessuno
(
perché
noi
sappiamo
che
non
accadrà
nulla
di
notevole
)
sono
anche
gli
elementi
del
Canto
della
Terra
per
contralto
,
tenore
e
orchestra
(
1908
)
eseguito
nella
seconda
parte
del
programma
.
In
fondo
Mahler
aveva
molti
doni
,
qui
più
presenti
che
mai
;
è
dubbio
però
che
avesse
«
il
dono
»
,
quello
che
conta
.
Ma
andate
a
dirlo
ai
suoi
ammiratori
!
Esecuzione
buona
da
parte
dell
'
orchestra
della
Fenice
diretta
da
Lorin
Maazel
.
Il
tenore
era
Richard
Lewis
,
il
contralto
Kerstin
Meyer
.
Applausi
calorosi
,
pubblico
abbastanza
folto
.
StampaQuotidiana ,
Venezia
,
13
settembre
-
La
più
attesa
delle
«
novità
assolute
»
eseguite
iersera
nella
sala
dello
Scrutinio
di
Palazzo
Ducale
era
di
Gian
Francesco
Malipiero
:
un
concerto
di
concerti
,
ovvero
L
'
uomo
malcontento
per
violino
concertante
e
orchestra
,
solisti
Scipio
Colombo
,
baritono
,
e
Franco
Gulli
,
violino
.
Si
tratta
di
una
di
quelle
«
rappresentazioni
da
concerto
»
di
cui
l
'
illustre
maestro
ci
ha
dato
già
prove
.
Stavolta
egli
ha
scelto
tre
ottave
del
Poliziano
,
alcuni
versi
dal
Transito
e
Testamento
di
Carnovale
di
un
ignoto
del
secolo
XVI
e
un
brano
dell
'
Ipocrito
di
Pietro
Aretino
.
Il
filo
che
unisce
questi
brani
è
il
sentimento
di
amara
scontentezza
che
investe
la
condizione
umana
quand
'
essa
giunge
al
tramonto
.
Malipiero
vi
ha
profuso
ancora
una
volta
le
qualità
che
fanno
di
lui
un
modello
di
coerenza
e
di
deliberata
inattualità
.
Sfrondata
dalla
parte
solistica
del
violino
,
soporifera
,
c
da
quella
vocale
,
di
una
scrittura
impossibile
,
resta
abbastanza
viva
la
cornice
sonora
,
arcaizzante
,
come
al
solito
,
ma
non
priva
di
ingegnosi
episodi
.
Assisteva
l
'
autore
,
festeggiato
.
All
'
inizio
del
programma
una
Piccola
musica
di
Natale
per
piccola
orchestra
e
pianoforte
,
di
Niccolò
Castiglioni
,
pianista
lo
stesso
autore
(
il
titolo
,
per
semplificare
le
cose
,
è
in
tedesco
)
.
Castiglioni
intende
,
e
lo
dice
nel
programma
,
eliminare
dal
suono
ogni
piacere
sensoriale
:
il
suo
«
è
un
bisogno
di
tutelare
l
'
aristocrazia
del
pudore
dal
grossolano
ricatto
di
una
pseudo
-
civiltà
mercantile
»
(
la
sola
,
aggiungiamo
noi
,
che
paga
e
rende
possibili
i
festival
musicali
)
.
Nella
breve
composizione
(
undici
minuti
)
rari
suoni
vetrini
,
felpati
o
frullati
hanno
la
funzione
di
un
filo
spinato
che
delimiti
larghe
zone
di
silenzio
.
L
'
aristocrazia
del
pudore
risulta
effettivamente
tutelata
dal
giovane
e
sensibile
autore
.
Cesare
Brero
ha
invece
musicato
Er
testamento
de
Meo
del
Cacchio
di
Trilussa
:
voce
di
baritono
e
quattordici
istrumenti
,
più
la
percussione
.
L
'
accorato
e
fine
strumentale
ci
ha
fatto
dimenticare
la
parte
vocale
,
arida
,
difficile
e
di
scarso
interesse
.
Chiudeva
la
serata
la
Sinfonia
op.
35
di
Luigi
Cortese
,
composizione
in
tre
tempi
che
intende
essere
«
una
dichiarazione
di
fiducia
nella
vitalità
della
forma
tonata
»
.
Tutto
ciò
servirebbe
a
poco
se
in
realtà
il
Cortese
non
avesse
scritto
,
come
ha
scritto
,
una
musica
vigorosa
e
tematicamente
chiara
,
che
si
segue
con
attenzione
e
dimostra
una
maestria
non
soltanto
tecnica
.
Queste
«
novità
assolute
»
,
egregiamente
eseguite
dall
'
orchestra
della
Fenice
,
diretta
da
Nino
Sanzogno
,
sono
state
ascoltate
da
un
pubblico
non
molto
folto
ma
rassegnato
e
plaudente
.
Tutti
gli
autori
sono
apparsi
più
volte
alla
ribalta
.
Si
sono
fatti
onore
il
violinista
Gulli
e
il
baritono
Colombo
,
quest
'
ultimo
un
vero
martire
.
StampaQuotidiana ,
Venezia
,
15
settembre
-
Il
concerto
di
ieri
sera
,
che
si
è
tenuto
come
i
precedenti
nella
sala
dello
Scrutinio
di
Palazzo
Ducale
,
è
l
'
unico
di
questo
festival
che
non
sia
dedicato
esclusivamente
alla
musica
contemporanea
.
Vi
abbiamo
ascoltato
,
infatti
,
una
sinfonia
di
Berlioz
,
Il
corsaro
,
che
risale
al
1845;
la
ben
nota
Sinfonia
n
.
1
in
do
maggiore
di
Bizet
(
1855
)
;
e
una
Suite
provençale
del
Milhaud
,
che
crediamo
non
nuova
per
l
'
Italia
.
Di
nuovo
c
'
era
solo
la
Prima
sinfonia
di
Henri
Dutilleux
,
compositore
abbastanza
giovane
,
già
prix
de
Rome
e
ora
caposervizio
delle
trasmissioni
musicali
alla
radiodiffusione
francese
.
Il
maggiore
elemento
d
'
interesse
era
dato
dal
fatto
che
queste
musiche
erano
eseguite
dall
'
Orchestra
nazionale
della
Radiodiffusione
-
Televisione
francese
,
una
delle
più
perfette
compagini
orchestrali
attualmente
esistenti
,
e
che
il
direttore
era
André
Cluytens
,
già
applaudito
dai
milanesi
come
eccellente
interprete
del
Parsifal
alla
Scala
.
Ancora
una
volta
l
'
illustre
direttore
fiammingo
ha
confermato
le
sue
qualità
di
autentico
dominatore
dell
'
orchestra
,
la
sicurezza
e
la
sobrietà
del
suo
gusto
,
la
capacità
di
far
rivivere
musiche
di
stile
assai
diverso
rispettandone
il
carattere
e
non
sopraffacendole
.
Né
Berlioz
,
né
il
Bizet
della
Sinfonia
in
(
lo
maggiore
e
nemmeno
il
quasi
folcloristico
impressionismo
del
Milhaud
potevano
offrire
serie
difficoltà
a
lui
e
alla
sua
orchestra
.
Forse
più
difficile
la
musica
liberamente
atonale
del
Dutilleux
.
Il
programma
ci
dice
che
essa
dovrebbe
rappresentare
un
sogno
o
un
incubo
sospeso
tra
due
evanescenze
.
Forse
l
'
incubo
fu
dell
'
autore
,
ma
all
'
ascoltazione
questa
musica
disordinata
,
sconquassata
,
inutilmente
fragorosa
non
produce
che
noia
e
fastidio
.
Non
si
comprende
perché
sia
stata
eseguita
al
festival
:
forse
la
posizione
occupata
dal
Dutilleux
alla
Radiodiffusione
francese
spiega
tutto
.
Certo
,
se
si
doveva
scegliere
tra
l
'
Ottocento
e
il
Novecento
di
Francia
,
si
sarebbe
potuto
presentare
un
programma
assai
più
interessante
.
Ciò
sia
detto
senza
negare
il
merito
delle
vigorose
,
popolaresche
gighe
e
trescone
che
formano
il
tessuto
della
Suite
provençale
.
StampaQuotidiana ,
Venezia
,
17
settembre
-
Nei
due
concerti
che
si
sono
susseguiti
nella
sala
delle
Colonne
di
Ca
'
Giustinian
,
il
primo
ci
ha
fatto
conoscere
il
famoso
Quartetto
Julliard
,
interprete
di
musiche
di
Gian
Francesco
Malipiero
,
Anton
Webern
ed
Elliot
Carter
.
I
quattro
strumentisti
del
quartetto
,
dei
quali
il
programma
non
ci
fa
conoscere
i
nomi
,
sono
davvero
formidabili
e
la
loro
collaborazione
dura
dal
tempo
dei
loro
studi
musicali
.
(
Julliard
è
il
nome
di
un
'
alta
scuola
di
musica
negli
Stati
Uniti
.
)
Un
'
ottima
impressione
hanno
destato
i
Rispetti
e
strambotti
di
Malipiero
di
una
chiara
linea
melodica
e
anche
i
Cantari
alla
madrigalesca
dello
stesso
autore
,
forse
un
po
'
meno
felici
nella
loro
sovrabbondanza
.
Questi
lavori
risalgono
rispettivamente
al
1920
e
al
1931
e
appartengono
alla
migliore
stagione
dell
'
arte
malipieriana
.
I
Julliard
hanno
poi
eseguito
il
Secondo
quartetto
per
archi
di
Elliot
Carter
,
un
americano
nato
a
Nuova
York
nel
1908
.
A
questo
lavoro
è
stato
assegnato
il
premio
Pulitzer
nel
'59
,
data
della
sua
composizione
.
Si
tratta
di
una
musica
caotica
,
ispida
,
volutamente
inespressiva
,
di
una
aridità
che
non
è
nemmeno
sconcertante
perché
nessuno
è
più
capace
di
meravigliarsi
di
nulla
.
Tanto
il
Carter
è
rumoroso
quanto
era
invece
rarefatto
Anton
Webern
,
nei
Cinque
movimenti
per
quartetto
d
'
archi
(
1909
)
.
Questi
movimenti
che
appartengono
alla
musica
del
silenzio
,
oggi
molto
in
auge
,
ci
portano
alla
frontiera
del
nulla
assoluto
non
forse
per
la
sapiente
disgregazione
del
rapporto
tonale
ma
per
l
'
insolito
gioco
dei
rapporti
di
intervallo
.
Resta
sorprendente
che
dopo
il
Webern
si
sia
scritta
altra
musica
nella
stessa
direzione
.
Eppure
il
culto
di
questo
maestro
avrebbe
dovuto
sconsigliarlo
.
Scarso
il
pubblico
,
entusiastico
il
successo
personale
dei
meravigliosi
strumentisti
del
Julliard
.
Il
secondo
concerto
era
dedicato
ai
classici
contemporanei
:
Schönberg
,
Stravinskij
,
Hindemith
e
Bartók
.
Di
Schönberg
è
stato
eseguito
il
ben
noto
Pierrot
lunaire
(
1912
)
in
una
insufficiente
interpretazione
vocale
di
Magda
Laszlo
.
È
per
noi
un
mistero
perché
Schönberg
abbia
musicato
poesie
che
ci
riportano
al
tempo
della
«
Scena
Illustrata
»
di
Pilade
Pollazzi
.
Sebbene
non
si
intendesse
alcuna
parola
,
un
mutismo
completo
ci
avrebbe
permesso
di
gustare
meglio
il
sottofondo
armonico
di
questi
21
melodrammi
in
miniatura
.
Dell
'
Opera
36
n
.
4
di
Hindemith
(
Kammermusik
n
.
5
)
per
viola
e
orchestra
da
camera
(
1927
)
,
dell
'
Ottetto
per
strumenti
a
fiato
di
Stravinskij
(
1933
)
e
della
Sonata
per
due
pianoforti
e
percussione
di
Béla
Bartók
(
1937
)
non
c
'
è
che
da
lodare
la
vigorosa
,
vibrante
sostanza
sonora
,
carattere
che
rende
ancor
vive
e
attuali
queste
musiche
di
ieri
.
Ha
diretto
molto
bene
il
Pierrot
lunaire
il
pianista
Piero
Scarpini
,
assistito
dagli
strumentisti
Gazzelloni
,
Gaudini
,
Fusco
,
Asciolla
,
Morselli
.
Ottimo
direttore
delle
composizioni
è
stato
Ettore
Gracis
.
Da
notare
il
violista
Dino
Asciolla
,
il
duo
pianistico
Gorini
-
Lorenzi
e
i
batteristi
Torrebruno
e
Striano
.
Molto
pubblico
a
questo
secondo
concerto
e
molti
applausi
.
StampaQuotidiana ,
Venezia
,
19
settembre
-
Sabato
ci
siamo
trasferiti
alla
Fenice
,
felicemente
riaperta
,
ma
a
quanto
pare
per
quella
sola
serata
,
e
abbiamo
ascoltato
musiche
dodecafoniche
,
alcune
nuove
per
l
'
Italia
,
e
una
addirittura
«
novità
assoluta
»
.
Interpreti
del
programma
l
'
orchestra
e
il
coro
di
Radio
Colonia
-
un
insieme
eccellente
-
sotto
la
direzione
di
Bruno
Maderna
,
il
più
accreditato
specialista
italiano
di
questo
genere
di
musica
.
Si
è
cominciato
con
la
Settima
sinfonia
di
Karl
Amadeus
Hartmann
,
compositore
di
Monaco
,
oggi
cinquantacinquenne
,
un
lavoro
che
esprime
la
predilezione
dell
'
autore
per
la
polifonia
e
le
forme
concertanti
;
ma
che
non
si
alza
mai
dal
grigiore
del
più
convenzionale
,
anche
se
moderno
,
accademismo
.
Lo
stesso
può
dirsi
per
l
'
Aulodia
per
oboe
e
orchestra
di
Wolfgang
Fortner
,
fastidioso
elaborato
di
un
tema
di
tre
note
rovesciate
,
retrogradate
e
invertite
in
modo
da
raggiungere
il
fatidico
numero
di
dodici
note
.
Sostituiva
l
'
aulos
greco
l
'
oboe
del
poderoso
solista
Lothar
Faber
,
acclamatissimo
.
Novità
assoluta
erano
i
Dialoghi
per
violoncello
e
orchestra
di
Luigi
Dallapiccola
,
ultimo
lavoro
del
maestro
.
Il
maggior
pregio
di
questi
Dialoghi
sta
nell
'
aver
tolto
allo
strumento
solista
ogni
possibilità
di
abbandonarsi
a
quel
virtuosismo
individuale
che
oggi
rende
poco
sopportabili
le
composizioni
del
genere
.
Qui
il
solista
parla
senza
esibirsi
in
una
personale
oratoria
;
e
non
importa
poi
se
parli
con
quei
suoni
afoni
e
smozzicati
(
quando
non
siano
duramente
strappati
)
che
i
nuovi
asceti
musicali
prediligono
.
Il
pubblico
ha
ascoltato
con
simpatia
i
diciotto
minuti
di
musica
dei
Dialoghi
e
il
maestro
Dallapiccola
è
apparso
due
volte
al
proscenio
;
anche
alle
precedenti
composizioni
dell
'
Hartmann
e
del
Fortner
non
erano
mancati
applausi
,
seppure
poco
convinti
.
Nuovo
per
l
'
Italia
,
ma
già
apprezzato
altrove
,
era
il
Canto
sospeso
per
soprano
,
contralto
,
tenore
,
coro
misto
e
orchestra
di
Luigi
Nono
,
che
si
è
servito
di
alcuni
brani
delle
Lettere
di
condannati
a
morte
della
Resistenza
europea
,
pubblicate
da
Einaudi
.
Il
motivo
psicologico
fondamentale
della
vasta
composizione
,
divisa
in
nove
parti
,
non
differisce
da
quello
,
espresso
più
sobriamente
,
del
Diario
polacco
dello
stesso
Nono
,
ascoltato
al
festival
dello
scorso
anno
.
Più
che
di
polifonia
o
di
contrappunto
sembra
che
si
debba
parlare
di
aggregati
di
masse
o
strutture
sonore
,
che
delimitano
larghe
zone
di
angoscioso
silenzio
.
Aggregati
,
s
'
intende
,
nei
quali
i
singoli
strumenti
sono
impiegati
ai
limiti
estremi
delle
loro
possibilità
di
estensione
e
di
timbro
.
Siamo
portati
,
per
quanto
riguarda
gli
effetti
timbrici
,
quasi
ai
confini
della
musica
elettronica
.
Le
parole
non
s
'
intendono
neppure
nei
brani
affidati
ai
solisti
,
costretti
ai
consueti
,
difficili
intervalli
.
La
maggiore
efficacia
è
quindi
data
dalla
parte
orchestrale
e
da
quella
corale
(
questa
,
«
a
cappella
»
nel
primo
coro
,
più
libera
nel
finale
,
con
largo
intervento
di
ottoni
)
.
Avremo
occasione
di
riascoltare
questo
Canto
sospeso
,
il
quale
ha
ottenuto
l
'
effetto
di
suggestione
al
quale
mirava
,
strappando
calorose
acclamazioni
all
'
autore
e
agli
interpreti
.
Ha
diretto
il
magnifico
coro
Bernhard
Zimmerman
;
solisti
il
soprano
Hollweg
,
il
contralto
Bornemann
,
il
tenore
Lenz
.
Per
concludere
:
la
musica
di
estrema
avanguardia
può
ottenere
oggi
i
più
trionfali
successi
da
parte
del
pubblico
borghese
;
il
che
non
poteva
essere
nelle
sue
profonde
aspirazioni
.
C
'
è
qui
,
evidentemente
,
una
contraddizione
che
stride
.
StampaQuotidiana ,
Venezia
,
28
settembre
-
Il
Festival
musicale
di
Venezia
ha
sparato
ieri
sera
il
suo
ultimo
mortaretto
con
l
'
atteso
Gesualdo
Monumentum
di
Stravinskij
diretto
dall
'
autore
.
Domani
al
Teatro
del
Ridotto
si
avrà
la
serata
di
chiusura
con
Giro
a
vuoto
n
.
2
,
canzoni
di
noti
poeti
e
musicisti
interpretate
da
Laura
Berti
.
Assai
maggiore
l
'
interesse
del
concerto
di
ieri
sera
,
nel
quale
,
oltre
alla
assoluta
novità
stravinskiana
,
abbiamo
avuto
una
«
retrospettiva
»
di
Alban
Berg
comprendente
i
predodecafonici
Cinque
«
Lieder
»
orchestrali
su
testi
di
cartoline
illustrate
di
Peter
Altenberg
(
1912
)
,
l
'
aria
da
concerto
per
soprano
e
orchestra
Il
vino
,
su
testi
di
Baudelaire
tradotti
da
George
(
1919
)
e
due
dei
Tre
pezzi
per
orchestra
che
risalgono
al
'14
.
Di
queste
composizioni
nessuna
aveva
carattere
di
novità
,
ma
solo
Il
vino
è
spesso
ascoltata
nei
festival
.
Il
carattere
fortemente
espressionistico
e
letterario
di
quest
'
aria
-
che
precede
e
annunzia
l
'
incompiuta
opera
Lulu
-
è
oggi
facilmente
accessibile
a
un
pubblico
abbastanza
vasto
.
Molti
applausi
sono
andati
alle
musiche
berghiane
,
al
direttore
d
'
orchestra
Robert
Craft
e
alla
solista
di
canto
Magda
Laszlo
.
Ha
invece
diretto
personalmente
il
Gesualdo
Monumentum
il
venerando
autore
che
non
per
la
prima
volta
largisce
,
sia
pure
col
contagocce
,
le
sue
novità
al
festival
di
Venezia
.
Questa
è
del
'60
,
freschissima
.
Il
principe
Gesualdo
da
Venosa
,
madrigalista
vissuto
a
cavallo
tra
il
Cinque
e
il
Seicento
,
è
posto
da
anni
sugli
altari
,
non
solo
perché
fece
trucidare
la
moglie
,
ma
anche
per
la
ricchezza
armonica
della
sua
scrittura
vocale
.
Si
vede
in
lui
un
sorprendente
anticipatore
del
moderno
cromatismo
,
sebbene
egli
si
muova
nell
'
ambito
di
una
ortodossa
tonalità
e
rimanga
pur
sempre
nel
ritmo
(
come
dice
Stravinskij
)
,
piuttosto
«
plump
»
.
I
tre
madrigali
che
l
'
autore
del
Sacre
ha
trascritto
per
gruppi
di
strumenti
hanno
offerto
al
grande
maestro
l
'
occasione
di
scrivere
alcune
di
quelle
nugae
(
musica
scritta
su
altra
musica
,
oppure
composta
à
la
maniere
de
...
)
che
formano
una
notevole
parte
della
sua
recente
produzione
.
Alterazioni
ritmiche
-
a
quanto
dice
il
trascrittore
-
dovrebbero
essercene
poche
,
nei
tre
madrigali
tolti
dai
libri
V
e
VI
di
Gesualdo
,
ma
è
molto
dubbio
che
sia
conservato
molto
dell
'
originario
carattere
vocale
,
inscindibile
dall
'
ispirazione
di
Gesualdo
.
Lo
stesso
Stravinskij
,
presentando
questi
sei
minuti
di
musica
(
i
quattordici
delle
precedenti
Lamentazioni
di
Geremia
sembrano
ora
un
Himalaya
musicale
)
,
ha
ammesso
,
del
resto
,
che
in
una
trascrizione
del
genere
la
parte
originariamente
vocale
dev
'
essere
sentita
come
assolutamente
nuova
e
diversa
,
tanto
diversa
da
sopprimere
ogni
somiglianza
col
disegno
e
il
carattere
dell
'
originale
.
E
allora
?
Non
resta
che
da
ammirare
la
scintillante
trama
sonora
che
il
trascrittore
,
servendosi
di
strumenti
di
vario
sesso
,
e
persino
«
ermafroditi
»
come
i
corni
,
ha
gettato
sulle
brevi
e
dopo
tutto
non
troppo
complesse
melodie
gesualdiane
.
StampaQuotidiana ,
Venezia
,
10
aprile
-
Nella
grandiosa
sala
superiore
della
Scuola
Grande
di
San
Rocco
ieri
sera
si
è
inaugurato
il
XXIV
Festival
musicale
veneziano
,
quest
'
anno
diretto
da
Mario
Labroca
.
La
tradizione
di
cominciare
con
uno
spettacolo
teatrale
è
stata
parzialmente
rispettata
,
perché
di
teatro
si
può
appena
parlare
per
le
due
opere
prescelte
:
Il
diluvio
di
Noè
di
Britten
è
una
sacra
rappresentazione
nuova
per
l
'
Italia
,
mentre
La
via
della
Croce
,
«
novità
assoluta
»
di
Ghedini
su
testi
di
Nicola
Lisi
,
si
può
definire
naturalmente
come
un
«
mistero
»
.
Il
diluvio
di
Noè
è
il
rifacimento
di
una
di
quelle
rappresentazioni
bibliche
del
Chester
Miracle
che
nel
Cinquecento
inglese
venivano
portate
in
giro
da
un
assai
primitivo
carro
di
Tespi
.
Le
esigenze
sceniche
erano
minime
.
Britten
ha
scritto
la
sua
opera
per
personaggi
adulti
e
bambini
e
per
un
'
orchestra
in
cui
accanto
a
professionisti
figurano
dilettanti
che
suonano
violini
,
strumenti
a
percussione
,
campanelli
a
mano
e
trombe
.
In
questi
spettacoli
medioevali
il
pubblico
(
o
meglio
le
congregazioni
)
prendeva
parte
all
'
azione
e
si
univa
al
coro
intonando
il
canto
.
Nulla
di
simile
,
naturalmente
,
ieri
sera
.
Il
coro
era
quello
della
Fenice
istruito
da
Sante
Zanon
,
e
dello
stesso
teatro
era
l
'
orchestra
diretta
da
Ettore
Gracis
.
Il
testo
è
tradotto
in
italiano
da
Piero
Nardi
e
l
'
adattamento
ritmico
è
opera
del
Nardi
e
di
Raffaele
Cumar
.
E
già
che
ci
siamo
aggiungiamo
i
nomi
del
regista
(
Giulio
Pacuvio
)
e
dello
scenografo
(
Gianrico
Becher
)
.
Il
breve
,
intenso
spettacolo
,
di
un
primitivismo
anche
musicalmente
assai
prezioso
ci
fa
assistere
alla
costruzione
dell
'
arca
di
Noè
dopo
l
'
annuncio
divino
,
al
diluvio
,
all
'
imbarco
di
Noè
e
di
sua
moglie
(
questa
assai
riluttante
)
,
nonché
di
Seni
,
Cam
e
Iafet
e
delle
loro
rispettive
consorti
.
Non
è
dimenticata
neppure
una
larga
rappresentanza
delle
varie
specie
zoologiche
,
l
'
arcobaleno
,
il
volo
della
colomba
che
annuncia
la
fine
del
diluvio
tornando
all
'
arca
col
ramoscello
d
'
olivo
;
e
ha
grande
rilievo
la
voce
di
Dio
,
affidata
alla
tonante
recitazione
di
Annibale
Ninchi
.
La
musica
di
Britten
,
tempestosa
nella
descrizione
del
diluvio
,
onomatopeica
quando
riproduce
le
voci
degli
animali
,
talvolta
umoristica
nelle
scene
di
carattere
,
è
in
complesso
degna
dell
'
autore
del
Giro
di
vite
,
bilanciata
com
'
è
tra
il
sacro
e
il
profano
.
E
il
lavoro
,
assai
poco
adatto
al
salone
che
lo
ospitava
,
è
stato
assai
applaudito
anche
per
merito
degli
interpreti
:
il
basso
Clabassi
,
il
tenore
Andreolli
,
e
le
signore
Garazioti
,
Benetti
,
Eggenberger
,
Fornaro
,
Marangoni
,
Zuliani
.
Il
secondo
spettacolo
(
se
tale
può
chiamarsi
La
via
della
Croce
)
è
formato
da
testi
di
Nicola
Lisi
sul
mistero
della
Passione
affidati
a
molte
voci
recitanti
.
A
sfondo
sonoro
di
queste
voci
Giorgio
Federico
Ghedini
ha
posto
canti
gregoriani
rituali
della
Settimana
Santa
per
coro
,
inquadrando
il
tutto
con
musiche
originali
sue
per
archi
e
coro
di
donne
.
Anche
qui
il
complesso
d
'
archi
era
diretto
da
Gracis
e
la
minima
regia
necessaria
era
affidata
a
Giovanni
Poli
.
Hanno
contribuito
ai
cori
La
Fenice
e
i
monaci
benedettini
di
San
Giorgio
Maggiore
.
Malgrado
l
'
inevitabile
monotonia
della
parte
recitata
,
la
musica
del
Ghedini
è
sembrata
di
elevata
ispirazione
,
tale
da
concludere
in
un
'
atmosfera
di
solenne
religiosità
e
con
pieno
successo
una
serata
inaugurale
forse
voluta
tale
per
fare
da
contrappeso
al
nuovo
lavoro
scenico
Intolleranza
1960
di
Luigi
Nono
,
che
si
rappresenterà
giovedì
prossimo
e
che
sembra
ispirato
a
un
aperto
laicismo
«
progressista
»
.
Il
festival
si
annuncia
assai
interessante
,
durerà
sino
alla
fine
del
mese
.
Vi
prenderanno
parte
l
'
orchestra
sinfonica
della
1360
,
l
'
orchestra
da
camera
di
Cracovia
(
mai
apparsa
al
festival
veneziano
)
,
l
'
orchestra
milanese
della
Radiotelevisione
italiana
,
il
gruppo
Melos
di
Londra
.
Un
concerto
-
profilo
sarà
dedicato
a
Hindemith
,
una
intera
serata
ricorderà
Respighi
nel
venticinquesimo
anniversario
della
morte
.
Inoltre
,
da
domani
a
tutto
il
giorno
13
,
si
svolgerà
nel
salone
dell
'
ala
neoclassica
dell
'
isola
di
San
Giorgio
il
Congresso
internazionale
di
musica
sperimentale
.
Ascolteremo
molte
musiche
non
tutte
ultramoderne
e
saranno
relatori
Piene
Schaeffer
,
Roman
Vlad
e
Luigi
Rognoni
.
Danno
il
loro
contributo
ben
nove
Studi
di
fonologia
.
Ma
l
'
apporto
della
Fondazione
Cini
a
questo
festival
non
si
ferma
qui
.
Sarà
una
sorpresa
per
tutti
il
concerto
di
musiche
polifoniche
di
Ioseffo
Zarlini
(
1517-1590
)
eseguite
dal
Monteverdi
Chor
di
Amburgo
.
È
un
prezioso
dono
che
solo
la
Fondazione
Cini
poteva
darci
.
StampaQuotidiana ,
Venezia
,
14
aprile
-
La
novità
attesa
con
febbrile
impazienza
dagli
ammiratori
di
Luigi
Nono
è
apparsa
stasera
,
alla
Fenice
,
sotto
la
direzione
di
Bruno
Maderna
e
col
concorso
dell
'
orchestra
della
BBC
.
Il
titolo
è
Intolleranza
1960
,
autore
del
libretto
lo
slavista
Angelo
Maria
Ripellino
.
Il
testo
originale
del
librettista
ha
subito
una
drastica
potatura
:
da
trentanove
a
nove
pagine
,
accettando
la
definizione
non
di
dramma
,
ma
di
«
idea
»
,
e
il
tutto
si
presenta
come
un
'
azione
scenica
che
molto
richiede
al
gioco
delle
luci
,
alla
lanterna
magica
e
a
effetti
elettronici
.
Registrata
in
precedenza
a
Milano
,
perché
ineseguibile
direttamente
,
era
la
parte
corale
,
diffusa
poi
da
altoparlanti
disposti
in
ogni
parte
della
sala
:
il
che
dovrebbe
produrre
effetti
spaziali
,
ma
porta
con
sé
anche
fastidiosi
strascichi
di
echi
e
rende
problematica
la
sincronia
del
nastro
con
l
'
orchestra
.
L
'
impressione
generale
dello
spettacolo
è
subito
quella
di
una
laboriosa
macchina
visivo
-
uditiva
,
dalla
quale
è
quasi
inevitabile
che
lo
spettatore
-
auditore
si
ritragga
con
una
certa
diffidenza
.
Viene
in
mente
la
frase
di
Tolstoj
:
«
Andreev
vuole
farci
paura
,
ma
noi
non
abbiamo
paura
»
.
Luigi
Nono
,
invece
,
ci
fa
paura
,
ma
non
solo
per
il
triste
destino
del
suo
personaggio
:
l
'
Emigrante
;
ci
fa
paura
per
il
suo
progressivo
aderire
a
quell
'
avanguardia
industrializzata
alla
quale
egli
sacrifica
il
suo
forte
talento
di
musicista
.
Sacrificio
,
è
inutile
dirlo
,
compiuto
in
buona
fede
e
con
le
più
nobili
intenzioni
.
Ma
vediamo
come
si
svolge
lo
spettacolo
,
perché
non
di
altro
si
tratta
.
Sul
palcoscenico
è
posto
un
corridoio
di
cavalli
di
frisia
,
verticale
alla
buca
del
suggeritore
:
sulle
assi
dei
cavalletti
si
adagia
una
piattaforma
che
può
avanzare
e
indietreggiare
;
e
su
questa
piattaforma
si
muovono
,
ma
non
sempre
,
i
personaggi
.
Può
accadere
che
l
'
Emigrante
protagonista
sia
sospeso
su
un
'
altalena
alta
sulla
piattaforma
.
Intorno
,
al
disopra
e
ai
lati
di
questa
costruzione
si
alzano
e
si
abbassano
schermi
mobili
in
forma
di
palloni
o
di
triangoli
o
di
strisce
o
di
irregolari
parallelepipedi
;
e
su
tali
lacerti
di
schermo
la
lanterna
magica
proietta
senza
risparmio
immagini
visive
di
Emilio
Vedova
e
,
talvolta
,
sullo
schermo
centrale
,
l
'
intera
opera
sua
,
con
innegabili
effetti
di
suggestione
;
e
,
anzi
,
per
essere
giusti
,
con
uno
straordinario
effetto
nella
scena
finale
dell
'
alluvione
.
Che
cosa
accade
all
'
Emigrante
?
Lo
sappiamo
leggendo
ciò
che
sopravvive
del
libretto
,
perché
le
sue
parole
e
le
parole
di
tutti
,
compreso
il
coro
ed
escluso
qualche
accento
del
basso
Italo
Tajo
,
restano
incomprensibili
.
L
'
Emigrante
è
dapprima
minatore
.
Impreca
al
suo
triste
destino
,
respinge
le
proteste
d
'
amore
di
una
sua
donna
e
si
mette
in
viaggio
per
tornare
in
patria
.
Nelle
scene
successive
,
egli
si
trova
ad
assistere
a
un
comizio
antinazista
,
viene
arrestato
,
torturato
e
portato
in
un
campo
di
concentramento
dal
quale
riesce
a
fuggire
.
Il
primo
quadro
finisce
con
un
duetto
tra
il
fuggiasco
e
un
non
meglio
identificato
«
ribelle
»
.
Nel
secondo
quadro
,
l
'
Emigrante
si
aggira
tra
proiezioni
,
voci
,
mimi
«
simboleggianti
le
assurdità
della
vita
contemporanea
»
.
La
scena
culmina
in
una
grande
esplosione
:
la
bomba
di
Hiroshima
,
commentata
dal
canto
di
una
donna
,
la
«
compagna
»
dell
'
Emigrante
,
che
inneggia
alla
vita
e
all
'
amore
e
alla
fraternità
,
beni
perduti
dall
'
uomo
imbestiato
.
Ma
la
pronuncia
della
compagna
,
che
dovrebbe
farci
sentire
un
canto
di
allegri
rigogoli
(
la
signora
Katherine
Gayer
,
condannata
a
proibitivi
intervalli
)
ci
lascia
all
'
oscuro
di
tutto
.
Seguono
episodi
di
violenza
,
immagini
di
fanatismo
razziale
,
contro
cui
l
'
Emigrante
e
la
compagna
si
scagliano
.
Infine
,
i
due
viaggiatori
giungono
a
un
gran
fiume
in
piena
,
l
'
inondazione
dominando
tutto
e
tutti
,
mentre
la
voce
di
uno
speaker
dice
:
«
Il
Governo
ha
provveduto
,
la
colpa
è
del
metano
»
.
Si
abbassa
una
saracinesca
,
sulla
quale
sono
proiettate
parole
di
Brecht
:
«
Voi
che
siete
immersi
dai
gorghi
dove
fummo
travolti
,
pensate
anche
ai
tempi
bui
da
cui
siete
scampati
.
Andammo
noi
,
più
spesso
cambiando
paese
che
scarpe
,
attraverso
guerre
di
classe
,
disperati
,
quando
solo
l
'
ingiustizia
c
'
era
.
Voi
,
quando
sarà
venuta
l
'
ora
che
all
'
uomo
un
aiuto
sia
l
'
uomo
,
pensate
a
noi
con
indulgenza
»
.
A
dare
un
senso
musicale
al
mutilato
canovaccio
ha
provveduto
Nono
con
una
agghiacciante
dovizia
di
mezzi
timbrici
,
talvolta
accresciuti
dal
concorso
dell
'
elettrofonia
.
E
qui
,
in
fatto
di
ricerche
acustiche
,
egli
raggiunge
risultati
impressionanti
.
Razionalmente
condotto
,
seriale
anche
nelle
strutture
,
l
'
ordigno
non
risparmia
nulla
per
riempire
le
nostre
orecchie
di
una
cosmico
-
politico
-
esistenziale
desolazione
.
Ma
l
'
orecchio
si
abitua
presto
:
apprezza
al
giusto
la
parte
corale
in
cui
le
dissonanze
si
fondono
in
un
blocco
unico
,
ma
poco
dopo
,
quando
entrano
in
scena
personaggi
che
dovrebbero
esprimere
sentimenti
umani
,
l
'
orecchio
è
già
«
mitridatizzato
»
,
l
'
orrore
fa
posto
alla
curiosità
e
la
curiosità
è
sostituita
dal
senso
di
assistere
a
una
pura
esercitazione
accademica
,
rispettabile
senza
dubbio
,
destinata
certamente
ad
avere
libero
corso
in
teatri
stranieri
di
eccezione
,
ma
pur
sempre
gravata
dall
'
equivoco
di
sollecitare
l
'
emozione
poetica
con
la
sola
esasperazione
del
fatto
tecnico
inteso
come
produttore
di
stimoli
fisici
.
È
come
se
un
poeta
volesse
integrare
la
lettura
di
un
suo
desolato
testo
infliggendoci
alle
membra
un
buon
numero
di
nerbate
:
l
'
effetto
sarebbe
certo
,
ma
a
quale
spesa
!
Con
tutto
questo
,
non
neghiamo
all
'
azione
scenica
di
Nono
i
suoi
quarti
di
nobiltà
,
ma
restiamo
convinti
che
il
suo
innegabile
talento
meriti
di
approfondirsi
e
svolgersi
senza
l
'
incubo
del
«
sempre
più
difficile
»
:
la
peggiore
di
tutte
le
«
alienazioni
»
,
la
sola
che
i
«
progressisti
»
professionisti
si
guardano
bene
dal
deprecare
.
Esecuzione
approssimativa
della
stupenda
orchestra
della
BBC
sotto
la
direzione
di
Bruno
Maderna
,
il
solo
,
secondo
l
'
autore
,
che
possa
dirigere
la
difficilissima
opera
.
Regia
espressionistica
di
Václav
Svoboda
,
Coro
polifonico
di
Milano
diretto
da
Giulio
Bertola
,
nastri
elettronici
dell
'
Istituto
milanese
di
fonologia
,
costumi
e
scene
di
Emilio
Vedova
.
Cantanti
,
oltre
ai
già
citati
,
Petre
Munteanu
,
Heinz
Rehfuss
e
Carla
Henius
,
tutti
condannati
all
'
impossibile
.
Un
insieme
che
,
dopo
altre
quaranta
prove
,
potrebbe
rendere
di
più
.
L
'
esito
è
stato
burrascoso
,
come
poteva
prevedersi
,
dato
l
'
argomento
dell
'
opera
e
le
provocazioni
della
musica
.
I
due
atti
sono
arrivati
in
porto
a
stento
,
tra
fischi
,
vociferazioni
,
alterchi
e
pioggia
di
manifestini
fascisti
dalle
gallerie
.
Alla
fine
i
superstiti
spettatori
hanno
organizzato
un
polemico
trionfo
ai
vari
autori
e
responsabili
dell
'
immaturo
spettacolo
.
Non
è
stata
,
purtroppo
,
la
battaglia
di
Hernani
.
È
stata
una
serata
incivile
che
ha
lasciato
tutti
a
bocca
amara
.