StampaQuotidiana ,
La
morte
di
massa
ha
un
tanfo
dolciastro
,
quasi
speziato
,
di
terra
,
sudore
,
pelli
e
fiori
che
fermentano
.
Era
fatale
che
ci
prendesse
alla
gola
dopo
tre
mesi
di
guerra
"
pulita
"
,
stellare
,
televisiva
.
Ora
,
è
importante
che
quell
'
odore
ci
si
stampi
nelle
narici
.
È
la
sola
cosa
capace
di
perforare
la
nostra
incredulità
,
la
rimozione
,
il
rifiuto
;
l
'
unica
breccia
nella
nostra
memoria
corta
.
In
mezzo
a
troppi
fotogrammi
,
è
l
'
unico
messaggio
dei
sensi
ancora
capace
di
dirci
che
è
tutto
vero
.
Ci
venne
addosso
per
la
prima
volta
a
Vukovar
,
nel
novembre
di
otto
anni
fa
.
Ci
aggredì
all
'
indomani
della
prima
ecatombe
europea
dopo
il
1945
.
E
richiamò
sul
Danubio
tutti
i
corvi
della
pianura
.
La
morte
ci
insegue
da
allora
,
sempre
con
gli
stessi
miasmi
.
Eppure
,
da
allora
a
ogni
fossa
che
si
riapre
,
abbiamo
sempre
bisogno
di
chiedere
se
davvero
è
accaduto
,
di
sentirci
dire
che
è
un
brutto
sogno
.
Forse
,
nel
momento
in
cui
si
gettano
i
fondamenti
della
Nuova
Europa
,
abbiamo
paura
di
riconoscere
in
quelle
fosse
un
po
'
di
noi
stessi
,
i
buchi
neri
di
un
passato
ancestrale
che
le
nostre
raffinate
diplomazie
si
ostinano
a
ritenere
sepolto
.
Dimentichiamo
che
le
tombe
di
massa
fanno
parte
della
nostra
memoria
profonda
,
dell
'
immaginario
e
persino
del
paesaggio
di
questo
nostro
continente
.
L
'
Europa
cammina
,
senza
saperlo
,
su
montagne
di
cadaveri
.
A
Verdun
o
in
altri
luoghi
del
fronte
occidentale
,
impercettibili
rigonfiamenti
indicano
ancora
i
tumuli
di
caduti
senza
nome
.
In
Polonia
e
dintorni
,
spesso
gli
unici
dislivelli
sono
segni
di
morte
.
Simon
Shama
,
professore
di
storia
alla
Columbia
University
e
autore
del
libro
"
Paesaggio
e
memoria
"
,
racconta
dei
"
Kopicc
"
,
montagnole
erbose
panoramiche
,
le
uniche
a
sollevarsi
sopra
la
cupa
muraglia
della
più
antica
foresta
d
'
Europa
,
sopra
i
fiumi
,
le
cicogne
,
le
radure
e
i
comignoli
.
Dalla
Vistola
allo
Yemen
,
punteggiano
la
pianura
fino
al
lontano
orizzonte
.
Gli
innamorati
che
vi
si
baciano
non
sanno
che
sono
tumuli
anch
'
esse
,
terra
portata
da
lontano
a
ricordo
dei
Caduti
.
In
Lituania
la
topografia
della
morte
di
massa
è
segnata
da
una
miriade
di
avvallamenti
sparsi
nei
boschi
.
Dislivelli
di
pochi
centimetri
,
un
metro
al
massimo
.
Segnano
una
delle
pagine
più
dimenticate
della
"
Shoah
"
.
Sotto
,
sono
sepolti
migliaia
di
ebrei
.
Per
anni
,
raccontano
,
la
terra
ha
continuato
a
gonfiarsi
,
a
sfiatare
,
persino
a
illuminare
la
notte
di
pallidi
fuochi
.
Poi
i
corpi
han
trovato
pace
e
la
terra
ha
cominciato
a
cedere
,
disegnando
il
perimetro
della
mattanza
con
impressionante
fedeltà
.
"
Sono
luoghi
terribili
perché
inseriti
in
una
campagna
dolcissima
"
racconta
lo
scrittore
Livio
Sirovich
che
li
ha
percorsi
alla
ricerca
della
famiglia
materna
.
Dice
:
"
Senti
come
quelle
morti
,
lontane
da
un
contesto
cimiteriale
,
abbiano
violentato
un
equilibrio
naturale
vecchio
di
millenni
"
.
Viaggi
verso
Sud
e
ti
accorgi
che
la
dolce
Mitteleuropa
,
con
la
sua
propaggine
balcanica
,
continua
instancabilmente
a
vomitare
morte
,
a
rivelare
fosse
comuni
e
a
delineare
,
con
esse
,
la
geografia
di
un
mondo
multinazionale
destinato
a
implodere
all
'
infinito
,
devastato
com
'
è
dai
nazionalismi
e
dalla
sua
incapacità
di
approdo
a
un
senso
moderno
della
cittadinanza
.
"
Le
fosse
comuni
,
le
stragi
di
oggi
,
emergono
da
questo
retroterra
,
sono
figlie
della
logica
del
sangue
e
del
suolo
applicata
a
un
mondo
dove
ogni
confine
diventa
ingiustizia
"
,
conviene
lo
storico
Giampaolo
Valdevit
,
specialista
della
Questione
Orientale
.
Una
storia
infinita
,
il
segno
di
una
maledizione
dove
il
tempo
sembra
non
avere
più
senso
.
In
queste
stesse
ore
in
cui
si
svelano
gli
orrori
del
Kosovo
,
si
spalancano
in
Slovenia
fosse
comuni
del
1945
,
si
scoprono
presso
Maribor
i
corpi
di
quindicimila
paramilitari
anticomunisti
jugoslavi
in
fuga
da
Tito
e
a
Tito
ignominiosamente
riconsegnati
dagli
inglesi
.
In
Bosnia
,
sulla
riva
sinistra
della
Drina
,
le
fosse
comuni
non
ancora
richiuse
continuano
a
sbadigliare
i
loro
miasmi
come
enormi
,
selvagge
sale
anatomiche
a
cielo
aperto
.
E
mentre
nei
sotterranei
di
Tuzla
migliaia
di
corpi
senza
nome
stanno
lì
da
due
anni
,
allineati
dentro
sacchi
bianchi
,
nell
'
attesa
inutile
che
qualcuno
li
riconosca
e
li
possa
seppellire
,
gli
abissi
delle
foibe
-
a
cinquant
'
anni
di
distanza
dagli
eccidi
-
dividono
ancora
le
memorie
di
sloveni
,
croati
e
italiani
,
permanendo
esse
il
simbolo
dell
'
insulto
estremo
verso
la
morte
dell
'
"
altro
"
,
ridotto
a
spazzatura
,
immondizia
da
discarica
.
In
una
guerra
costruita
sulla
rievocazione
dei
morti
delle
guerre
precedenti
,
è
fatale
che
i
morti
di
oggi
tornino
e
diventino
a
loro
volta
atto
d
'
accusa
e
rivalsa
.
Come
i
corpi
delle
vittime
dei
croati
motivarono
dopo
mezzo
secolo
la
rivolta
serba
del
'91
contro
Zagabria
,
così
oggi
i
corpi
albanesi
disseppelliti
in
Kosovo
sembrano
togliere
ai
serbi
ogni
possibilità
di
ritorno
nella
terra
dei
loro
antenati
.
Quelle
fosse
comuni
dicono
che
a
Belgrado
il
Campo
dei
Merli
rischia
di
essere
perduto
per
sempre
,
che
la
Gerusalemme
serba
potrebbe
restare
in
mano
straniera
in
modo
assai
più
definitivo
che
dopo
la
sconfitta
patita
sei
secoli
fa
per
mano
ottomana
.
E
allora
ci
si
chiede
:
che
senso
ha
avuto
consegnare
alla
comunità
internazionale
prove
così
schiaccianti
dell
'
abominio
?
Cosa
c
'
è
dietro
la
scelta
di
questo
suicidio
di
un
'
intera
reputazione
nazionale
?
Quale
senso
della
realtà
esiste
in
un
apparato
politico
che
tenta
di
spacciare
al
suo
popolo
l
'
illusione
di
una
folgorante
vittoria
al
punto
da
negare
persino
l
'
esistenza
dei
propri
caduti
?
Forse
,
Milosevic
sperava
che
il
Mondo
-
grato
del
suo
ritiro
dalle
terre
del
Sud
-
fingesse
di
non
vedere
,
come
dopo
la
strage
di
Srebrenica
in
Bosnia
,
vigilia
della
pace
di
Dayton
.
Ma
questo
non
spiega
come
mai
Belgrado
oggi
occulti
i
propri
morti
-
che
sono
sicuramente
migliaia
-
proprio
nel
momento
in
cui
si
scoprono
le
tombe
del
"
nemico
"
.
Perché
i
soldati
serbi
caduti
sul
campo
,
contro
l
'
Uck
o
sotto
le
bombe
Nato
,
sono
stati
sepolti
quasi
di
nascosto
?
Quale
rapporto
con
la
morte
scatta
nella
testa
di
un
Capo
che
ha
fondato
tutto
il
suo
potere
sulla
mitologia
di
una
sconfitta
,
quella
del
Principe
Lazar
,
ucciso
secoli
fa
dai
Turchi
appunto
in
Kosovo
?
I
corpi
che
escono
in
queste
ore
dalla
terra
dei
Balcani
pongono
l
'
ultima
domanda
:
quale
delirio
,
quale
smania
di
autodissoluzione
può
avere
spinto
la
Serbia
in
quest
'
avventura
senza
ritorno
?
StampaQuotidiana ,
"
Quando
lo
ammazzi
,
il
maiale
scalcia
dappertutto
"
.
Ljubomir
,
53
anni
,
profugo
serbo
in
Ungheria
,
risponde
senza
pensarci
un
attimo
alla
domanda
se
davvero
arriverà
la
pace
.
Tramonta
il
sole
sul
Danubio
e
,
per
rendere
l
'
idea
,
l
'
uomo
mima
l
'
agonia
dell
'
animale
tirando
all
'
aria
pugni
e
calci
tremendi
.
Il
maiale
come
metafora
è
molto
usato
nei
Balcani
,
con
varianti
sinistre
.
A
Srebrenica
,
nel
'95
,
per
spiegare
ai
Caschi
blu
olandesi
che
la
città
era
presa
,
il
generale
Ratko
Mladic
-
prima
di
dedicarsi
alla
liquidazione
di
ottomila
musulmani
-
fece
scannare
un
porco
e
lo
appese
a
un
albero
come
ammonizione
.
Ai
nostri
dubbi
sul
futuro
dell
'
area
,
i
balcanici
rispondono
spesso
con
saggezza
contadina
.
Ljubo
è
membro
attivo
dell
'
opposizione
democratica
e
il
suo
concetto
è
tagliente
.
Primo
:
il
sacrificio
s
'
ha
da
fare
,
o
non
se
ne
esce
.
Secondo
:
il
sangue
schizzerà
intorno
,
toccherà
i
Paesi
vicini
.
Spiega
:
"
La
vostra
civiltà
delle
bombe
intelligenti
deve
ancora
capire
che
non
ci
sono
guerre
etiche
,
che
ci
sono
lavori
in
cui
è
impossibile
restare
puliti
"
.
Poi
torna
al
maiale
:
"
L
'
agonia
-
dice
-
è
il
momento
più
pericoloso
"
.
Pochi
anni
fa
,
uno
scrittore
serbo
già
ammoniva
:
per
uccidere
il
vampiro
puoi
solo
piantargli
un
paletto
nello
sterno
.
Ma
non
dimenticare
che
reagirà
con
vitalità
inattesa
.
Se
pensasse
solo
al
sacrificio
del
Capo
supremo
,
Milosevic
,
Ljubo
non
parlerebbe
di
maiali
ma
di
capri
espiatori
.
Lui
pensa
a
ciò
che
sta
dietro
al
Capo
,
ai
privilegiati
del
feudalesimo
comunista
che
hanno
trascinato
al
suicidio
una
nazione
intera
solo
per
conservare
il
potere
.
Sa
che
oltre
ai
veleni
,
la
propaganda
,
i
trucchi
,
i
silenzi
e
i
camaleontismi
del
Boss
c
'
è
un
sistema
malato
capace
di
tutto
.
È
ciò
che
resta
della
"
Nuova
classe
"
identificata
già
negli
anni
Sessanta
da
Milovan
Djilaa
,
il
delfino
di
Tito
:
quella
dei
burocrati
-
ladri
.
Ecco
allora
i
maiali
,
gli
stessi
di
Orwell
ne
"
La
fattoria
degli
animali
"
.
Per
spazzarli
via
,
il
lavoro
sarà
lungo
e
difficile
.
Quanto
durerà
?
"
Due
anni
,
forse
più
"
.
Il
serbo
gela
senza
esitazioni
le
speranze
dell
'
Europa
.
"
Quelli
faranno
di
tutto
per
restare
.
I
più
furbi
si
trasformeranno
in
democratici
.
I
peggiori
,
invece
,
incendieranno
uno
alla
volta
il
Montenegro
,
la
Vojvodina
,
il
Sangiaccato
.
E
alla
fine
,
quando
non
ci
sarà
più
niente
da
buttare
all
'
aria
,
metteranno
i
serbi
contro
i
serbi
.
Non
so
se
l
'
Occidente
saprà
gestire
questo
casino
e
imporre
una
democrazia
reale
.
Forse
lascerà
che
la
Serbia
scompaia
dalla
carta
geografica
.
Per
questo
me
ne
vado
e
non
torno
più
"
.
Il
nome
Ljubomir
significa
:
"
Colui
che
ama
la
pace
"
.
Un
'
intera
generazione
di
jugoslavi
ebbe
nomi
simili
dopo
il
'45
.
Branimir
,
"
Il
difensore
della
pace
"
;
Zivomir
,
"
Viva
la
pace
"
;
Mirna
,
"
La
pacifica
"
;
Miroslava
,
"
Colei
che
celebra
la
pace
"
.
A
giudicare
dai
battesimi
,
nessun
popolo
europeo
ha
bramato
la
pace
come
gli
jugoslavi
nel
dopoguerra
.
Eppure
,
proprio
in
quel
dopoguerra
si
gettarono
le
basi
del
conflitto
di
oggi
.
La
retorica
esistenziale
della
fratellanza
e
unità
sommerse
tutto
:
ieri
impedì
il
riesame
critico
delle
stragi
etniche
tra
jugoslavi
e
oggi
ha
consentito
ai
nazionalisti
di
riempire
di
veleni
il
grande
vuoto
di
quella
rimozione
.
Anche
i
nomi
propri
della
pace
nascono
da
una
grande
rimozione
?
Forse
,
essi
non
erano
solo
auspicio
e
scaramanzia
,
ma
anche
il
segno
di
una
paura
inconfessata
:
quella
che
gli
slavi
hanno
di
se
medesimi
,
della
parte
buia
della
loro
anima
.
Nessuno
teme
i
balcanici
come
i
balcanici
stessi
.
Scrive
il
romeno
Emil
Cioran
:
in
noi
c
'
è
"
il
gusto
della
devastazione
,
del
disordine
interno
,
di
un
universo
simile
a
un
bordello
in
fiamme
"
.
Senza
contare
"
quella
prospettiva
sardonica
sui
cataclismi
avvenuti
o
imminenti
,
quell
'
asprezza
,
quel
far
niente
da
insonne
o
da
assassino
...
"
.
E
il
serbo
-
ungherese
Danilo
Kis
intravvide
nel
Paese
profondo
un
nucleo
minoritario
-
ma
devastante
e
inestirpabile
-
di
aggressività
.
Scrisse
:
"
È
vero
,
siamo
primitivi
,
ma
essi
sono
selvaggi
;
se
noi
ci
ubriachiamo
,
essi
sono
alcolizzati
;
se
noi
uccidiamo
,
essi
sono
tagliagole
"
.
"
Oggi
-
racconta
Ljubo
-
comunque
vada
a
finire
,
i
miei
nipoti
non
avranno
quei
nomi
.
In
Bosnia
ho
visto
troppi
assassini
chiamati
come
angeli
"
.
E
poi
,
si
chiede
il
serbo
,
come
può
esserci
pace
se
non
c
'
è
mai
stata
una
guerra
?
Nelle
guerre
vere
gli
eserciti
si
scontrano
in
battaglie
campali
.
Dopo
la
catarsi
finale
-
ha
scritto
l
'
albanese
Kadaré
-
esse
emettono
misteriosamente
un
"
bang
"
di
energia
positiva
,
da
cui
nasce
la
ricostruzione
.
Nei
Balcani
,
stavolta
,
non
andrà
così
.
C
'
è
stato
solo
un
latrocinio
infinito
,
un
pauroso
accumulo
di
energia
negativa
.
Una
miscela
esplosiva
fatta
di
stanchezza
,
disillusione
,
avvilimento
e
paura
.
E
nelle
scuole
i
libri
di
storia
già
inoculano
nei
bambini
letali
pregiudizi
etnici
forieri
di
nuove
instabilità
.
"
La
guerra
è
niente
-
taglia
corto
l
'
uomo
-
il
peggio
comincia
dopo
.
Vedrete
"
.
A
Sarajevo
,
nell
'
ora
viola
in
cui
le
rondini
si
calano
dal
monte
Trebevic
e
fanno
ressa
attorno
ai
minareti
,
Jasna
,
quarantacinquenne
professoressa
di
matematica
senza
lavoro
,
non
esce
più
con
le
amiche
al
caffè
.
Non
è
solo
perché
non
ha
più
soldi
per
pagarselo
.
È
anche
perché
non
sopporta
i
nuovi
avventori
.
I
ristoranti
sono
pieni
sempre
della
stessa
gente
.
Solo
stranieri
:
soldati
americani
imbottiti
di
valuta
,
spocchiosi
e
superpagati
funzionari
di
organizzazioni
internazionali
,
operatori
umanitari
governativi
col
loro
carico
di
elemosine
,
diplomatici
con
le
loro
corti
,
retroguardie
di
giornalisti
-
guardoni
.
Niente
sarajevesi
nell
'
allegra
brigata
;
tranne
la
solita
corte
di
belle
ragazze
in
cerca
di
dollari
e
compagnia
.
Jasna
sa
che
in
Bosnia
non
si
spara
da
quasi
quattro
anni
,
ma
sa
anche
che
questa
pace
le
fa
schifo
.
È
peggiore
della
guerra
.
A
Sarajevo
,
la
guerra
di
resistenza
aveva
esaltato
,
per
un
po
'
,
almeno
l
'
identità
del
luogo
.
Mai
essa
aveva
umiliato
la
città
come
questa
pace
paradossale
fra
separati
in
casa
che
trasforma
la
Bosnia
in
una
colonia
e
i
bosniaci
in
zulù
.
"
Sono
situazioni
-
dice
-
che
eccitano
i
fondamentalismi
più
delle
bombe
"
.
Il
piano
Marshall
non
è
mai
arrivato
e
Jasna
ha
perso
il
lavoro
;
parla
sei
lingue
,
ma
farebbe
carte
false
per
pelar
patate
per
il
battaglione
francese
o
per
la
guarnigione
italiana
.
Decine
di
professionisti
alla
fame
rispondono
ogni
giorno
alle
inserzioni
di
chiunque
prometta
un
visto
e
improbabili
lavori
all
'
estero
,
raccontando
al
telefono
la
loro
miseria
personale
.
Mi
dice
:
"
Non
è
difficile
,
da
Sarajevo
,
capire
come
sarà
la
pace
a
Belgrado
.
Con
o
senza
Milosevic
al
potere
,
con
o
senza
le
bombe
della
Nato
,
il
prossimo
inverno
i
serbi
moriranno
.
Il
fiato
della
Sava
se
li
porterà
via
come
mosche
,
senza
che
i
giornalisti
scrivano
un
rigo
.
Finita
la
guerra
,
finirà
anche
l
'
interesse
"
.
Osserva
:
cosa
può
fare
un
Paese
senza
soldi
,
senza
energia
,
senza
vie
di
comunicazione
,
senza
infrastrutture
,
senza
classe
dirigente
?
Le
chiedo
:
e
i
profughi
albanesi
quando
torneranno
?
Risponde
:
"
In
Bosnia
non
è
tornato
quasi
nessuno
.
Anzi
,
l
'
esodo
continua
.
Il
Kosovo
è
ancora
peggio
:
resterà
a
lungo
terra
desolata
,
luogo
di
bande
armate
.
Ci
vorranno
dieci
anni
almeno
per
rifare
quello
che
è
stato
distrutto
in
tre
mesi
"
.
Torneranno
gli
albanesi
?
Lentamente
,
ma
torneranno
.
"
Il
tempo
è
dalla
nostra
"
disse
già
dieci
anni
fa
un
mite
"
mullah
"
di
Pristina
,
mentre
la
polizia
di
Milosevic
bastonava
selvaggiamente
donne
e
bambini
in
corteo
.
Non
disse
che
gli
albanesi
avevano
dalla
loro
anche
il
numero
,
la
demografia
;
non
disse
che
il
"
genocidio
"
denunciato
dai
serbi
era
l
'
amplificazione
politica
una
reale
soppressione
biologica
.
"
Vinceremo
col
pene
!
"
gridavano
già
allora
i
più
estremi
degli
studenti
kosovari
,
annunciando
che
avrebbero
cacciato
i
serbi
solo
facendo
figli
,
senza
imbracciare
le
armi
.
È
finita
in
tragedia
.
Ma
oggi
gli
albanesi
hanno
dalla
loro
altre
armi
in
più
:
l
'
appoggio
della
Nato
,
un
piccolo
esercito
e
l
'
incrollabile
determinazione
a
tornare
in
una
terra
che
considerano
,
ormai
,
soltanto
loro
.
I
pochi
serbi
rimasti
in
Kosovo
lo
sanno
bene
,
e
la
loro
fuga
è
già
cominciata
.
Sanno
che
arriverà
la
resa
dei
conti
,
che
nessuna
forza
internazionale
potrà
proteggerli
dalle
rappresaglie
e
da
un
nazionalismo
-
quello
albanese
-
sì
meno
esplicito
,
meno
truculento
e
visibile
,
ma
certamente
non
meno
implacabile
di
quello
di
Belgrado
.
Così
,
oggi
,
dopo
essere
stati
gonfiati
di
mitologia
,
ubriacati
di
politica
,
affiancati
da
bande
criminali
e
trascinati
in
uno
scontro
suicida
,
gli
uomini
che
invocarono
il
nuovo
salvatore
del
popolo
serbo
si
preparano
come
sei
secoli
fa
a
un
altro
tradimento
,
a
una
nuova
fuga
dal
Kosovo
,
forse
definitiva
.
Dove
andranno
nessuno
sa
,
visto
che
il
loro
Paese
non
può
mantenerli
.
Saranno
,
probabilmente
,
il
prossimo
problema
dell
'
Europa
.
Si
avvicina
intanto
una
data
fatale
:
il
28
giugno
,
anniversario
della
sconfitta
di
Kosovo
Polje
(
1389
)
e
di
tante
disgrazie
serbe
.
Dieci
anni
fa
,
su
quel
campo
di
battaglia
Milosevic
annunciava
a
un
milione
di
uomini
che
l
'
ora
della
riscossa
era
tornata
.
Ha
mantenuto
la
promessa
a
metà
:
la
Terra
dei
merli
è
vuota
di
albanesi
,
ma
non
c
'
è
nessuna
riscossa
da
celebrare
perché
anche
i
serbi
se
ne
vanno
.
Chi
conosce
Milosevic
sa
che
guarda
alle
ricorrenze
in
modo
superstizioso
e
maniacale
.
E
sa
che
,
non
potendo
vivere
un
trionfo
,
potrebbe
usare
il
28
giugno
anche
per
santificare
un
esodo
,
drammatizzare
una
sconfitta
solo
per
farla
entrare
nel
mito
come
quella
del
1389
.
Slobo
,
figlio
di
genitori
suicidi
,
potrebbe
anche
scegliere
quel
giorno
per
sigillare
a
suo
modo
un
suicidio
nazionale
durato
dieci
anni
.
StampaQuotidiana ,
L
'
occhio
del
missile
inquadra
il
manufatto
a
forma
di
ponte
,
il
cerchio
si
restringe
,
diventa
un
punto
e
,
vai
John
,
il
punto
diventa
una
palla
di
fuoco
finché
nella
scatola
nera
compare
la
scritta
deleted
.
Nel
videogioco
della
guerra
dal
cielo
,
la
distruzione
pare
un
atto
grammaticale
,
la
declinazione
di
un
participio
passato
.
Anche
la
distruzione
dei
ponti
.
Vengono
giù
uno
dopo
l
'
altro
,
in
queste
settimane
di
raid
.
Sul
Danubio
,
sulla
Morava
e
altri
fiumi
che
non
avevamo
mai
sentito
prima
.
Dopo
l
'
impatto
restano
lì
,
con
i
tronconi
nel
vuoto
.
Ma
non
sono
materia
inerte
.
Lanciano
avvertimenti
a
qualcuno
.
In
una
terra
che
è
di
per
sé
un
ponte
tra
i
mondi
,
i
ponti
hanno
ancora
un
significato
speciale
,
che
da
noi
si
è
perduto
.
Ogni
ponte
che
cade
è
un
confine
in
più
e
una
possibilità
di
riconciliazione
in
meno
.
In
otto
anni
di
guerra
i
ponti
più
antichi
sono
stati
distrutti
più
per
sradicare
i
simboli
dell
'
appartenenza
che
per
motivi
militari
.
E
d
'
istinto
i
giovani
di
Belgrado
hanno
scelto
,
in
questi
giorni
,
di
fare
da
scudi
umani
con
i
loro
canti
e
balli
non
accanto
alle
chiese
o
ai
monumenti
,
ma
lungo
i
ponti
sulla
Sava
.
"
Ovunque
nel
mondo
,
in
qualsiasi
posto
il
mio
pensiero
vada
o
si
arresti
-
scrive
Ivo
Andric
nel
suo
Ponte
sulla
Drina
-
trova
fedeli
e
operosi
ponti
,
come
eterno
e
mai
soddisfatto
desiderio
dell
'
uomo
di
collegare
,
pacificare
e
unire
tutto
ciò
che
appare
davanti
al
nostro
spirito
,
ai
nostri
occhi
,
ai
nostri
piedi
,
affinché
non
ci
siano
divisioni
,
contrasti
,
distacchi
"
.
I
ponti
,
scrive
ancora
il
Nobel
jugoslavo
,
sono
più
importanti
delle
case
,
più
sacri
e
più
utili
dei
templi
;
"
appartengono
a
tutti
e
sono
uguali
per
tutti
,
sempre
sensatamente
costruiti
nel
punto
in
cui
si
incrocia
la
maggior
parte
delle
necessità
umane
"
.
Abbiamo
dimenticato
che
i
ponti
sono
condensati
di
simboli
.
Una
volta
,
nel
nostro
mondo
,
chi
li
costruiva
era
definito
con
una
parola
di
speciale
rispetto
,
pontifex
,
quasi
il
sovrappasso
dell
'
acqua
richiedesse
un
patto
col
Grande
Spirito
.
La
più
alta
carica
della
cristianità
cattolica
fu
chiamata
allo
stesso
modo
:
se
il
diavolo
è
"
colui
che
divide
"
,
il
pontefice
è
"
colui
che
unisce
"
.
Allo
stesso
modo
,
se
la
costruzione
del
ponte
è
la
più
sublime
delle
ingegnerie
,
il
suo
abbattimento
è
la
più
impressionante
delle
distruzioni
.
"
Sprofondano
i
ponti
-
commentava
in
questi
giorni
lo
scrittore
bosniaco
Bozidar
Stanisic
-
abbattuti
dalla
cultura
della
morte
e
della
non
speranza
"
.
Un
ponte
che
cade
è
come
una
bestia
che
si
piega
sulle
ginocchia
dopo
il
colpo
alla
cervice
.
Lancia
un
segnale
cosmico
,
spezza
qualcosa
nell
'
universo
.
Quando
cadde
il
ponte
di
Mostar
non
fu
un
videogioco
.
Sprofondò
nell
'
abisso
,
per
un
attimo
acquistò
una
pesantezza
che
non
aveva
mai
avuto
,
poi
si
smaterializzò
nella
gola
della
Neretva
.
Rimase
-
e
sarebbe
rimasta
a
lungo
-
la
parabola
sospesa
di
un
ponte
che
non
c
'
era
,
tesa
fra
i
due
tronconi
che
si
chiamavano
.
Poi
sorse
un
pianeta
enorme
,
giallo
-
cartapesta
,
dai
monti
lunari
dell
'
Erzegovina
.
Solo
allora
si
vide
la
data
.
Era
il
9
novembre
1993
,
quarto
anniversario
della
caduta
del
muro
di
Berlino
.
Si
vide
che
,
con
lo
Stari
Most
,
era
franata
l
'
illusione
che
la
fine
del
comunismo
sarebbe
stata
,
per
i
popoli
,
una
festa
di
primavera
.
Solo
allora
tacquero
i
mortai
e
abbaiarono
i
cani
.
Tre
estati
prima
fu
proprio
quel
ponte
a
dire
che
la
guerra
arrivava
.
Era
sera
,
la
brezza
mediterranea
entrava
nella
gola
.
Il
fiume
era
gonfio
,
la
settimana
prima
era
piovuto
,
e
i
ragazzini
si
arrampicavano
per
un
sentierino
dopo
i
tuffi
.
Già
si
sparava
in
Croazia
,
ma
la
Bosnia
emanava
una
pace
infinita
.
Un
vecchio
venditore
di
souvenir
ci
offrì
un
caffè
sul
belvedere
.
Sedemmo
sulla
panca
in
pietra
alta
sulla
Neretva
,
mangiammo
piccoli
dolci
a
forma
di
mezzaluna
,
parlammo
di
cose
leggere
.
Solo
al
momento
di
congedarci
il
vecchio
ci
disse
quasi
con
noncuranza
:
questa
è
l
'
ultima
estate
di
pace
.
Il
pittore
di
Mostar
Affan
Ramic
era
un
uomo
piccolo
e
scolpito
di
rughe
.
Lo
incontrai
a
Sarajevo
un
giorno
del
'94
,
durante
l
'
assedio
.
In
un
angolo
in
penombra
,
incideva
su
una
tavola
di
legno
il
nome
di
suo
figlio
,
morto
al
fronte
pochi
giorni
prima
.
Parlò
di
come
ne
avrebbe
preparato
la
tomba
.
Poi
raccontò
di
Mostar
,
del
ponte
che
non
c
'
era
più
:
solo
allora
pianse
,
disperatamente
.
Capii
che
quel
ponte
non
era
un
manufatto
,
come
per
noi
e
il
soldato
John
.
Era
il
luogo
della
memoria
che
dava
senso
alla
sua
vita
e
persino
alla
morte
di
suo
figlio
.
Allora
tutto
si
illuminò
di
senso
:
dai
fascisti
croati
lo
Stari
Most
era
stato
abbattuto
per
questo
.
Per
negare
ai
bosniaci
il
diritto
alla
memoria
.
I
Balcani
non
hanno
dimenticato
i
simboli
.
L
'
Oriente
ci
dice
che
nella
nostra
cultura
c
'
è
una
finta
razionalità
,
che
nessuna
bomba
è
intelligente
,
che
le
guerre
scatenano
nei
popoli
tempeste
identitarie
che
nessun
computer
può
prevedere
.
La
nostra
logica
nei
Balcani
non
funziona
.
Un
giorno
chiesi
allo
scrittore
bosniaco
Miljenko
Jergovic
se
scrivere
,
di
fronte
a
una
guerra
,
non
fosse
abbaiare
alla
luna
.
Rispose
che
abbaiare
alla
luna
serviva
eccome
:
se
i
cani
non
protestassero
,
la
luna
resterebbe
sempre
piena
.
E
se
non
ci
fosse
il
vento
,
le
ragnatele
avrebbero
già
riempito
il
cielo
intero
.
Poi
parlò
dello
Stari
Most
,
disse
di
Harjudin
,
l
'
architetto
turco
che
lo
fece
.
Quando
la
gente
vide
quella
sfida
all
'
abisso
,
disse
:
non
reggerà
.
E
invece
durò
tre
secoli
.
Anche
per
raggiungere
l
'
Aldilà
,
secondo
la
mitologia
d
'
Oriente
,
l
'
uomo
deve
attraversare
un
ponte
sottile
come
un
capello
e
affilato
come
una
spada
.
Quel
ponte
celeste
si
chiamava
"
Sirat
Cuprija
"
,
e
per
poterlo
passare
l
'
uomo
doveva
essere
puro
di
cuore
.
Jergovic
disse
che
quel
mondo
desertificato
dalla
guerra
,
dove
le
colline
e
i
tumuli
si
confondevano
,
ancora
emanava
la
voce
delle
cose
perdute
.
I
ponti
,
specialmente
.
Tutta
la
guerra
in
Jugoslavia
sembra
concentrarsi
sui
ponti
.
Nel
videotape
della
memoria
ricompare
quello
della
Maslenica
,
tra
Fiume
e
Zara
,
in
un
surreale
silenzio
,
all
'
ombra
del
monte
Velebit
che
da
duemila
metri
precipita
su
un
mare
cobalto
.
L
'
esercito
serbo
l
'
aveva
preso
a
cannonate
,
spezzando
in
due
la
Dalmazia
,
e
tutto
il
traffico
croato
era
affidato
alla
spola
di
un
traghetto
tra
la
terraferma
e
l
'
isola
di
Pago
.
Un
ingorgo
impressionante
di
uomini
,
armi
,
merci
e
animali
.
Il
ponte
di
Visegrad
,
quello
raccontato
da
Andric
,
lo
vidi
da
lontano
nell
'
estate
'92
,
intatto
,
indifferente
all
'
inferno
che
era
diventata
la
gola
della
Drina
e
ai
cadaveri
che
scendevano
lungo
il
fiume
.
A
Bajna
Basta
,
poco
a
valle
,
gruppi
di
banditi
organizzavano
i
weekend
di
guerra
.
Partivano
cantando
sul
ponte
,
e
sul
ponte
tornavano
carichi
di
masserizie
rubate
.
Bastava
star
lì
per
capire
cos
'
era
davvero
quella
sporca
guerra
.
Una
rapina
su
scala
industriale
.
Stranamente
,
i
montanari
serbi
agli
ordini
di
Karadzic
non
abbatterono
ponti
a
Sarajevo
.
Bombardarono
moschee
,
biblioteche
,
persino
i
cimiteri
,
ma
non
i
ponti
.
Eppure
ce
n
'
erano
tantissimi
:
Sarajevo
è
una
città
costruita
sui
due
lati
di
una
valle
,
e
il
fiume
è
la
sua
colonna
vertebrale
.
Spezzarla
sarebbe
stato
facilissimo
.
Non
lo
fecero
,
forse
per
superstizione
,
forse
per
non
distruggere
l
'
oggetto
misterioso
e
oscuro
del
loro
desiderio
.
Con
lo
scrittore
Marko
Vesovic
camminai
lungo
il
fiume
verso
le
gole
che
portavano
al
nemico
.
Disse
:
da
Oriente
ci
arriva
l
'
acqua
,
la
fede
(
Costantinopoli
)
,
ma
anche
tutte
le
tragedie
.
Eravamo
accanto
al
ponte
dove
80
anni
prima
un
serbo
di
nome
Princip
colpì
un
principe
austriaco
,
dando
inizio
alla
Grande
Guerra
.
E
poi
i
ponti
sul
Danubio
.
Da
quando
sulla
Jugoslavia
sono
stati
cancellati
i
voli
,
a
Belgrado
si
arriva
via
terra
,
attraverso
i
campi
infiniti
della
Pannonia
.
Prima
che
tirassero
giù
il
ponte
di
Novi
Sad
,
il
passaggio
del
grande
fiume
,
poco
oltre
la
fortezza
mitica
di
Petrovaradin
,
era
come
un
decollo
,
una
lunga
rincorsa
tra
i
ciliegi
,
un
volo
sulle
acque
e
il
miracolo
della
loro
continuità
in
mezzo
a
tante
guerre
.
E
ancora
,
l
'
ultimo
ponte
sulla
Sava
prima
della
confluenza
col
Grande
Fiume
,
sotto
la
fortezza
bianca
del
Kalemegdan
,
solitaria
nella
pianura
.
è
la
primavera
del
'91
,
e
il
Brankov
Most
trema
,
invaso
da
un
fiume
di
studenti
in
marcia
contro
un
potere
che
li
porta
verso
la
guerra
.
Per
due
giorni
a
Belgrado
è
la
fantasia
al
potere
,
esplode
la
speranza
di
una
rivoluzione
di
velluto
che
fiorisce
in
ritardo
,
ma
con
forza
balcanica
,
fantastica
e
travolgente
.
Poi
i
manganelli
,
i
lacrimogeni
,
i
panzer
per
le
strade
.
E
allora
,
di
nuovo
su
quel
ponte
,
si
vide
che
a
Belgrado
tutto
cominciava
e
a
Belgrado
tutto
doveva
finire
.
Si
comprese
che
lì
,
su
quella
confluenza
di
acque
e
di
popoli
,
c
'
era
il
nero
e
il
bianco
,
tutto
il
peggio
e
tutto
il
meglio
di
un
mondo
già
alla
deriva
,
un
'
isola
nella
corrente
come
nell
'
epilogo
danubiano
del
film
Underground
.
StampaQuotidiana ,
C
'
è
un
borbottio
sommerso
che
sfugge
a
quest
'
Europa
delle
sinistre
,
filoatlantica
,
chiusa
nei
suoi
videogiochi
,
distratta
e
lontana
dal
territorio
.
Dice
:
il
Diavolo
parla
americano
,
paga
in
dollari
.
Impone
un
ordine
globale
totalitario
,
svuota
le
identità
locali
,
mina
l
'
euro
e
le
nostre
economie
,
costruisce
una
nuova
Babele
con
raffiche
di
missili
e
ondate
di
immigrati
:
ieri
i
marocchini
,
oggi
i
kosovari
albanesi
.
è
un
immaginario
diffuso
:
infiamma
i
partigiani
di
un
antiamericanismo
nuovo
,
si
salda
ai
regionalismi
etnici
,
alle
piccole
patrie
,
a
una
xenofobia
subdola
,
meno
roboante
e
ben
mascherata
di
buon
senso
e
pietismo
umanitario
.
La
guerra
dei
Balcani
fotografa
alla
perfezione
schematismi
e
pregiudizi
di
un
pensiero
medio
,
di
un
immaginario
diffuso
e
trasversale
che
offre
a
Milosevic
sponde
inattese
.
Il
duce
dei
serbi
,
col
suo
mito
del
sangue
e
della
terra
,
rientra
in
pieno
nella
mitologia
di
questo
scontro
epocale
:
simboleggia
la
resistenza
al
Moloch
americano
,
l
'
ultima
trincea
d
'
Europa
contro
l
'
espianto
delle
identità
,
la
difesa
della
"
Heimat
"
e
dell
'
autoctonia
contro
l
'
orda
degli
erranti
"
sans
papiers
"
e
senza
patria
,
contro
il
loro
corteo
di
droga
,
mafia
,
prostitute
e
intellettuali
cosmopoliti
.
Non
è
uno
schema
ideologico
.
Non
nasce
nei
partiti
.
NON
HA
niente
a
che
fare
con
i
pacifismi
in
guerra
con
le
basi
Nato
in
Italia
,
con
i
bollori
sovietici
di
Rifondazione
,
l
'
odio
neofascista
per
la
cricca
demo
-
pluto
-
giudaico
-
americana
,
e
nemmeno
con
gli
approcci
che
in
piena
guerra
Gianfranco
Fini
tentò
con
i
boss
di
Belgrado
per
riavere
la
Dalmazia
.
Non
viene
nemmeno
dagli
intellettuali
franco
-
tedeschi
in
trincea
contro
l
'
inquinamento
della
cultura
dello
zio
Sam
.
Qui
è
altra
musica
.
Questo
mugugno
nuovo
cresce
nel
cuore
più
ricco
e
conservatore
del
Continente
:
nei
capannoni
e
nei
bar
sport
della
Pedemontania
lombardoveneta
di
Bossi
,
nelle
birrerie
e
nelle
valli
"
higt
tech
"
della
potente
Baviera
di
Edmund
Stoiber
,
nelle
taverne
e
tra
i
contadini
della
Carinzia
appena
conquistata
da
Joerg
Haider
.
Esplode
in
Provenza
con
l
'
ondata
anti
-
immigrati
cavalcata
da
Jean
-
Marie
Le
Pen
;
serpeggia
tra
gli
indipendentisti
savoiardi
di
Patrice
Abeille
e
gli
allevatori
della
Svizzera
di
lingua
tedesca
,
arroccati
nei
loro
microcosmi
vallivi
per
paura
della
nuova
competizione
mondiale
.
Sfiora
persino
la
quieta
Slovenia
,
dove
la
febbre
europea
del
dopo
-
Jugoslavia
è
già
diventata
diffidenza
.
Cresce
nell
'
ombra
,
si
rivela
solo
in
parte
nei
sondaggi
.
A
Montebelluna
come
a
Rosenheim
in
Baviera
,
a
Lugano
come
ad
Avignone
,
è
il
sismografo
di
un
'
ansia
nuova
,
di
una
nevrosi
da
appartenenza
,
da
spaesamento
e
talvolta
da
superlavoro
.
è
l
'
affioramento
della
turbolenza
identitaria
di
un
mondo
ricco
ma
culturalmente
impoverito
,
economicamente
forte
ma
insicuro
,
gonfio
di
autostima
eppure
indifeso
di
fronte
alla
complessità
dei
tempi
.
Un
mondo
chiuso
che
si
autoreferenzia
,
rischia
derive
di
tipo
vittimistico
e
localista
,
ed
è
sensibile
alle
roboanti
metafore
e
alle
semplificazioni
della
demagogia
.
Esso
indica
una
trasformazione
culturale
e
antropologica
di
cui
non
si
sono
ancora
fotografate
le
dimensioni
.
Il
pensiero
che
coniuga
il
pregiudizio
antiamericano
a
quello
anti
-
immigrati
non
è
maggioritario
nelle
nazioni
di
riferimento
,
ma
è
geograficamente
compatto
,
delinea
quello
che
Luc
Rosenzweig
definisce
,
su
"
Le
Monde
"
,
un
fenomeno
di
"
populismo
alpino
"
.
Rosenzweig
ricorda
che
mentre
il
nazismo
e
il
fascismo
nacquero
nelle
metropoli
industriali
devastate
dalla
disoccupazione
di
massa
,
questo
populismo
cresce
nel
mondo
dei
ricchi
,
è
un
fenomeno
di
provincia
,
parte
dalle
valli
e
si
sente
minacciato
dalle
Capitali
,
dalle
loro
tasse
e
i
loro
politicanti
corrotti
.
Gli
stessi
Cobas
del
latte
,
gli
stessi
operai
della
piccola
industria
che
da
sempre
guardano
a
Bruxelles
come
al
simbolo
della
"
degenerazione
burocratica
dell
'
Europa
delle
pianure
"
,
oggi
,
con
la
guerra
dei
Balcani
,
guardano
all
'
America
come
alla
grande
destabilizzatrice
.
Ed
ecco
Bossi
che
in
pieno
parlamento
si
dichiara
a
favore
di
Milosevic
e
ricorda
al
mondo
che
gli
albanesi
sono
"
immigrati
"
per
definizione
.
Tali
,
dovunque
essi
siano
:
in
Italia
,
in
Serbia
dove
stanno
da
secoli
,
persino
in
Albania
che
è
casa
loro
.
Come
dire
:
sono
razzialmente
extracomunitari
,
biologicamente
dei
virus
.
Boutade
?
Niente
affatto
.
Come
tutti
i
demagoghi
,
Bossi
si
limita
ad
amplificare
un
malumore
diffuso
.
Percepisce
come
un
sismografo
il
borbottìo
di
fondo
,
il
pregiudizio
anti
-
immigrati
che
oggi
si
focalizza
attorno
agli
albanesi
con
immagini
parassitologiche
che
non
sentivamo
dai
tempi
del
dottore
Mengele
.
Otto
anni
fa
la
Lega
stava
con
i
secessionisti
sloveni
:
oggi
avrebbe
dovuto
,
per
coerenza
,
stare
con
quelli
albanesi
del
Kosovo
.
Invece
no
,
sta
con
la
Serbia
:
e
il
cambio
fotografa
meglio
di
ogni
altro
la
sua
deriva
"
voelkisch
"
,
etnoculturale
.
è
il
nuovo
razzismo
che
André
Taguieff
chiama
"
differenzialista
"
.
La
cacciata
degli
immigrati
è
nobilitata
da
un
principio
:
quello
del
"
ciascuno
a
casa
sua
"
.
Ed
ecco
che
il
Diavolo
non
è
più
chi
divide
ma
chi
unisce
,
dunque
"
uccide
le
razze
,
mescolandole
"
.
è
il
razzismo
che
utilizza
la
sintassi
dell
'
antirazzismo
;
è
la
destra
che
,
per
conquistare
consensi
,
ricicla
il
Pantheon
delle
sue
idee
servendosi
degli
idiomi
della
sinistra
.
Così
,
la
crisi
balcanica
è
commentata
su
"
La
Padania
"
di
Bossi
nientemeno
che
da
Alain
de
Benoist
,
il
padre
della
nuova
destra
europea
che
oggi
si
ispira
ad
Antonio
Gramsci
,
padre
della
sinistra
italiana
.
Nei
suoi
editoriali
in
prima
pagina
,
l
'
antiamericanismo
è
la
colonna
portante
.
Gli
yankee
,
scrive
de
Benoist
sul
quotidiano
della
Lega
Nord
,
"
questi
specialisti
della
guerra
di
diritto
,
sono
abituati
a
giustificare
il
massacro
di
migliaia
di
civili
per
considerazioni
umanitarie
e
morali
"
.
Del
genocidio
degli
albanesi
,
nemmeno
una
parola
.
"
Clinton
Moerder
"
,
Clinton
assassino
,
sta
scritto
intanto
sui
muri
di
Klagenfurt
in
questi
giorni
che
vedono
,
come
sessant
'
anni
fa
,
nuovamente
bombe
su
Belgrado
e
nuovamente
uno
xenofobo
al
potere
in
Austria
,
per
ora
nella
piccola
Carinzia
.
L
'
autunno
scorso
,
proprio
su
un
lago
carinziano
,
a
Portschach
,
gli
esordienti
D
'
Alema
e
Schroeder
inauguravano
il
nuovo
corso
di
sinistra
dell
'
Unione
.
Appena
cinque
mesi
dopo
quello
stesso
lago
vedeva
la
riscossa
della
Destra
etnica
e
il
massimo
risultato
mai
conseguito
da
un
partito
razzista
nel
dopoguerra
in
Europa
.
E
la
percentuale
più
alta
-
55
per
cento
per
Haider
-
era
,
incredibilmente
,
proprio
quella
del
Comune
di
Poertschach
.
Vi
sono
segnali
,
nella
storia
:
dicono
che
le
masse
si
muovono
rasoterra
,
indipendentemente
dai
voli
pindarici
della
politica
delle
cancellerie
.
Haider
è
il
simbolo
perfetto
di
questa
nuova
destra
presentabile
dal
forte
sentire
antiamericano
.
Il
giornalista
Bruno
Luverà
,
autore
su
"
Limes
"
di
un
saggio
dal
titolo
"
L
'
internazionale
regionalista
tra
maschera
e
volto
"
,
fotografa
bene
il
pensiero
che
,
a
cavallo
delle
Alpi
,
segna
il
nucleo
ricco
del
Continente
.
Al
federalismo
solidale
gestito
dagli
Stati
nazionali
si
sostituisce
in
Baviera
,
Carinzia
o
in
Padania
,
quello
etnico
-
regionale
basato
sul
sangue
e
sul
suolo
.
Il
concetto
di
razza
è
reso
digeribile
perché
trasformato
in
etnopluralismo
,
inteso
come
diritto
delle
"
Heimat
"
alle
rispettive
differenze
.
Da
qui
una
visione
"
mixofobica
"
,
ostile
all
'
America
del
melting
pot
e
quindi
potenzialmente
alleata
di
chiunque
resista
all
'
"
etnocidio
"
.
C
'
è
una
sola
guerra
che
conta
,
aveva
scritto
qualche
tempo
fa
il
nostro
de
Benoist
.
Quella
a
cui
bisogna
prepararsi
opporrà
l
'
Europa
agli
Stati
Uniti
,
la
civiltà
alla
barbarie
mercantile
e
degenerata
.
Pascal
Bruckner
ricorda
che
questo
è
esattamente
il
discorso
della
propaganda
di
Milosevic
in
queste
ore
cruciali
.
Clinton
come
Hitler
,
la
svastica
sulle
stelle
e
strisce
.
E
i
serbi
,
non
gli
albanesi
deportati
,
sono
i
nuovi
ebrei
,
le
nuove
vittime
della
crociata
americana
contro
l
'
Europa
.
Su
questa
lunghezza
d
'
onda
può
scattare
un
'
attrazione
fatale
fra
il
populismo
subalpino
e
quello
,
post
-
comunista
,
dei
Balcani
.