StampaQuotidiana ,
È
morto
Corrado
Alvaro
.
Il
mio
primo
ricordo
di
lui
risale
al
tempo
in
cui
-
sradicato
dalla
nativa
Calabria
,
ventenne
,
mutilato
sul
Carso
,
fatto
esperto
da
una
prima
esperienza
giornalistica
al
«
Carlino
»
di
Bologna
e
poi
al
«
Corriere
della
Sera
»
-
arrivò
a
Roma
.
Doveva
essere
fra
il
'19
e
il
'20
.
Le
date
precise
non
contano
,
nel
ricordo
:
ma
il
colore
del
.
tempo
,
la
stagione
della
storia
.
Erano
giorni
decisivi
,
nel
senso
morale
,
soprattutto
per
la
generazione
dei
giovani
e
per
il
maturare
o
per
il
doloroso
frangersi
o
corrompersi
delle
loro
intelligenze
e
delle
loro
speranze
.
Giorni
decisivi
anche
per
l
'
arte
e
per
la
letteratura
,
e
non
solamente
in
Italia
.
Per
quanto
Marinetti
fosse
di
parere
contrario
,
il
futurismo
era
già
da
tempo
avviato
al
tramonto
.
Non
si
considerava
possibile
il
rinascere
dei
movimenti
fiorentini
della
«
Voce
»
di
«
Lacerba
»
.
«
La
Ronda
»
parlava
di
un
ritorno
all
'
ordine
,
riunendo
nelle
sue
pagine
le
prose
di
alta
solennità
di
Cardarelli
,
i
saggi
teatrali
di
Riccardo
Bacchelli
,
la
tempesta
immaginifica
del
grande
«
barocco
»
di
Bruno
Barilli
.
Era
una
stagione
molto
singolare
.
D
'
Annunzio
aveva
trovato
una
nuova
clausura
fra
gli
ulivi
del
lago
di
Garda
.
Grazia
Deledda
scriveva
con
regolarità
i
suoi
romanzi
,
lavorando
dalle
nove
alle
undici
del
mattino
in
una
modesta
villetta
impiegatizia
di
via
Porto
Maurizio
,
sulla
stessa
tavola
dove
avrebbe
poi
steso
la
tovaglia
per
la
colazione
della
sua
famiglia
.
Luigi
Pirandello
era
ancora
catalogato
fra
i
cosiddetti
«
scrittori
ameni
»
.
Federigo
Tozzi
entrava
da
Aragno
solo
per
uscirne
in
preda
a
un
violento
corruccio
.
Odiava
-
e
lo
dichiarava
-
le
chiacchiere
.
Fra
i
ragazzi
di
quegli
anni
-
che
forse
davano
un
po
'
presuntuosamente
del
«
tu
»
a
tutti
-
il
giovane
Alvaro
era
già
«
qualcuno
»
.
Le
sue
poesie
di
ispirazione
militare
-
le
Poesie
grigioverdi
,
stampate
da
un
libraio
editore
che
aveva
bottega
a
due
passi
da
Aragno
in
via
delle
Convertite
-
lo
avevano
reso
noto
.
Quei
versi
erano
stati
scritti
nella
corsia
di
un
ospedale
militare
,
a
Bologna
,
dove
il
sottotenente
Alvaro
-
bel
nome
romantico
e
spagnolesco
-
era
andato
a
rieducare
alla
meglio
le
mani
mutilate
.
Si
era
curiosi
,
quando
il
giovanotto
arrivò
a
Roma
,
di
vedere
da
quale
parte
si
sarebbe
indirizzato
,
in
quale
«
scuola
»
si
sarebbe
irreggimentato
,
quale
«
capo
»
avrebbe
scelto
.
Così
si
ragionava
a
diciotto
e
a
diciannove
anni
.
Quello
che
vedemmo
era
un
giovane
che
non
sorrideva
mai
,
o
pochissimo
,
che
aveva
rare
conoscenze
e
non
desiderava
forse
di
averne
.
Accompagnato
talvolta
dalla
giovane
moglie
,
sedeva
a
un
tavolino
appartato
del
famoso
caffè
letterario
,
dove
non
c
'
era
giornalista
che
non
entrasse
per
dare
un
'
occhiata
.
Era
piuttosto
piccolo
di
statura
:
un
vero
fante
,
un
vero
«
soldato
meridionale
»
come
quelli
che
aveva
avuto
vicini
in
guerra
:
ma
dei
«
meridionali
»
,
almeno
come
li
immaginano
i
«
manieristi
»
,
non
aveva
certamente
il
volto
.
Della
sua
terra
dell
'
Aspromonte
,
la
faccia
custodiva
un
'
antica
,
silente
melanconia
:
i
suoi
lineamenti
erano
in
modo
singolare
assomiglianti
a
quelli
di
un
mugik
russo
,
forse
di
un
piccolo
fante
russo
.
Il
suo
viso
sembrava
modellato
dallo
stesso
pollice
che
aveva
plasmato
il
volto
di
Massimo
Gorkij
.
Spesso
«
il
volto
è
l
'
uomo
»
,
è
modellato
dall
'
anima
dell
'
uomo
.
Ce
ne
accorgemmo
quando
ci
accadde
di
leggere
i
primi
racconti
firmati
da
Alvaro
.
La
melanconia
,
la
mestizia
,
la
desolazione
non
hanno
paesi
precisi
.
Il
dolore
umano
è
uguale
nella
steppa
slava
e
sui
monti
di
Calabria
.
Alvaro
veniva
dal
grande
ceppo
del
«
regionalismo
»
italiano
.
Solamente
le
acque
dello
stretto
di
Messina
lo
separavano
da
Giovanni
Verga
.
Era
dello
stesso
sangue
,
letterariamente
,
di
Federigo
Tozzi
,
così
duramente
radicato
fra
le
«
crete
»
senesi
e
i
vicoli
foschi
della
sua
Siena
.
Erano
tempi
,
in
sede
europea
,
di
narrativa
cosmopolita
.
Ma
su
Alvaro
non
operavano
gli
incantesimi
delle
metropoli
e
delle
terre
lontane
.
Il
suo
cuore
era
rimasto
ancorato
ai
monti
di
Calabria
come
quello
di
Grazia
Deledda
ai
sughereti
e
alla
«
tanca
»
della
sua
Sardegna
.
Si
trattava
di
una
fedeltà
poetica
:
la
fedeltà
ai
segreti
miti
tragici
della
povera
gente
nelle
ultime
,
contorte
vallate
dell
'
Appennino
.
In
quel
cerchio
di
ricordi
del
mondo
esplorato
e
vissuto
durante
la
prima
giovinezza
,
Alvaro
doveva
compiere
i
suoi
schietti
,
profondi
,
sicuri
approdi
di
scrittore
.
Nei
romanzi
-
in
quell
'
Uomo
nel
labirinto
,
che
resta
fra
gli
esemplari
della
sua
generazione
,
e
in
quell
'
Uomo
e
forte
pubblicato
molti
anni
dopo
-
la
sua
indagine
si
svolse
in
più
profonde
psicologie
,
in
più
folte
tenebre
,
in
più
complesse
angosce
.
Ma
il
suo
«
mondo
»
trovò
la
sua
definizione
completa
in
quei
racconti
della
sua
terra
che
concludono
,
in
una
misura
degna
del
maestro
e
della
tradizione
,
il
tempo
che
si
iniziò
con
Verga
e
che
ebbe
il
suo
ultimo
fiorire
con
Tozzi
e
con
Alvaro
.
Giornalista
fu
sempre
,
anche
se
negli
ultimi
anni
aveva
potuto
raccogliersi
e
risparmiarsi
in
pagine
e
fatiche
meno
rapidamente
professionali
,
sostando
anche
sui
piani
di
un
suo
meditare
che
si
volgeva
all
'
intimità
di
quella
«
condizione
umana
»
che
con
termine
più
facile
viene
chiamato
il
problema
delle
nuove
società
.
Era
stato
-
negli
anni
della
giovinezza
-
a
Parigi
:
e
più
tardi
in
Russia
.
Non
si
può
dimenticare
ciò
che
egli
seppe
vedere
allora
con
il
suo
sguardo
apparentemente
lento
e
quasi
immoto
.
Le
sue
emozioni
di
viaggiatore
in
mondi
lontani
erano
tutte
in
rapporto
a
una
facoltà
meditativa
che
pareva
derivasse
dal
fondo
greco
che
sta
alla
base
di
ogni
uomo
nato
in
vista
del
Mediterraneo
.
Per
tutta
la
vita
,
fu
un
«
uomo
in
disparte
»
chiuso
negli
stessi
silenzi
,
rotti
da
poche
parole
e
da
improvvisi
affetti
,
che
da
ragazzi
conoscemmo
al
terzo
piano
della
sua
casa
in
via
Sistina
dove
abitava
quasi
di
fronte
alle
finestre
dietro
alle
quali
aveva
vissuto
Gogol
'
.
La
vita
non
gli
era
stata
facile
,
era
stata
talvolta
dura
e
anche
di
alto
dolore
.
Dissentiva
dal
fascismo
,
ma
non
ebbe
,
alla
sua
caduta
,
rancori
o
ironie
.
Del
suo
paese
soffrì
la
tragedia
.
Era
un
animo
nobile
:
un
solitario
.
StampaQuotidiana ,
Costretto
a
vivere
in
uno
studio
da
pittore
,
di
quelli
all
'
antica
con
la
luce
che
piove
verticale
e
accademica
dall
'
alto
,
attraverso
ai
vetri
di
un
lucernario
sul
quale
passa
l
'
ombra
volante
dei
piccioni
e
delle
rondini
,
Bruno
Barilli
s
'
addormentava
con
la
luna
e
le
stelle
che
gli
«
battevano
»
in
faccia
.
Rincasava
a
tarda
ora
,
arrivando
alto
e
spettrale
da
via
del
Babuino
e
da
piazza
del
Popolo
,
dove
non
c
'
era
altra
voce
al
di
fuori
di
quella
delle
fontane
attorno
all
'
obelisco
:
si
inselvava
in
un
parco
cintato
che
fiancheggiava
Villa
Borghese
,
dove
un
vecchio
signore
olandese
,
dalla
barba
e
dai
silenzi
simili
a
quelli
di
un
mago
,
aveva
costruito
certi
padiglioni
a
forma
di
baita
per
affittarli
,
in
cambio
di
pochissima
moneta
,
agli
artisti
che
avessero
voluto
vivere
in
una
specie
di
labirinto
arboreo
,
lontani
dai
rumorosi
selci
delle
strade
di
Roma
e
dal
vocio
dei
vetturini
e
dei
cocomerari
.
L
'
arredamento
dello
studio
era
costituito
da
un
materasso
buttato
su
due
trespoli
,
i
vestiti
si
attaccavano
a
quattro
chiodi
,
la
biancheria
stava
per
terra
,
fra
due
fogli
di
giornale
.
Nelle
notti
di
estate
,
nella
stagione
degli
amori
,
arrivavano
fra
gli
alberi
il
ruggito
dei
leoni
e
l
'
urlo
delle
tigri
chiusi
nelle
gabbie
del
vicino
Giardino
Zoologico
.
All
'
alba
il
sole
illuminava
il
letto
sfatto
,
la
grande
figura
del
dormiente
e
il
lungo
volto
ossuto
traversato
,
all
'
altezza
degli
occhi
,
da
una
larga
benda
di
seta
nera
.
Barilli
-
in
quello
scenario
da
Fantasma
dell
'
Opera
-
usava
le
sue
precauzioni
per
difendersi
dalla
luce
.
Sul
pavimento
un
tappeto
balcanico
,
avanzo
dei
ricordi
di
antichi
viaggi
,
pareva
,
con
le
sue
ruvide
lane
rosse
,
una
larga
traccia
di
sangue
.
Questo
è
un
ricordo
vecchissimo
,
quasi
antico
:
risale
al
tempo
in
cui
,
se
ritroviamo
la
loro
immagine
,
gli
uomini
sono
ancora
vestiti
in
costume
,
con
la
bombetta
,
con
le
ghette
,
con
grande
sciupio
di
amido
per
i
colletti
e
i
polsini
.
Le
donne
si
tingevano
gli
occhi
con
una
ditata
di
cerone
azzurro
e
le
adultere
,
nascoste
sotto
al
mantice
di
tela
cerata
delle
carrozzelle
,
riparavano
il
viso
sotto
velette
fiorate
.
Se
prestavi
l
'
orecchio
,
sulla
dirittura
del
Corso
pareva
di
udire
ancora
l
'
eco
delle
corse
dei
«
barberi
»
e
per
via
Gregoriana
il
passo
di
Andrea
Sperelli
.
Ogni
tanto
sfilava
qualche
gruppetto
di
arditi
,
con
il
fez
nero
dal
lungo
fiocco
,
che
parevano
usciti
da
una
stampa
del
Callot
.
Era
,
insomma
,
il
tempo
fra
il
1918
e
il
1920
,
quando
i
sottosegretari
dei
governi
non
avevano
ancora
a
disposizione
l
'
automobile
,
ma
una
vasta
carrozza
foderata
di
panno
verde
.
Bruno
Barilli
,
scrittore
di
musica
,
violoncellista
,
figlio
di
uno
scenografo
del
Regio
di
Parma
,
marito
di
una
nipote
del
re
Pietro
di
Serbia
,
erede
di
una
duplice
assomiglianza
con
Berlioz
e
con
Niccolò
Paganini
,
rosso
nei
capelli
cespugliosi
,
scavato
nel
volto
come
il
personaggio
di
un
disegno
di
Gustavo
Doré
,
povero
in
canna
,
lungo
come
un
flauto
,
avvolto
in
larghi
abiti
di
serge
blu
,
il
candido
colletto
floscio
sventolante
con
i
due
pizzi
sotto
alle
lunghe
mascelle
,
sembrava
arrivare
dritto
dritto
dalla
soffitta
dove
vivevano
i
personaggi
dei
racconti
di
Hoffmann
,
di
Poe
,
di
Gérard
de
Nerval
.
Quando
,
nel
1924
,
gli
fu
offerto
di
raccogliere
le
sue
prose
in
un
volumetto
,
che
ebbe
per
titolo
Delirama
e
che
segnò
un
punto
preciso
come
libro
essenziale
della
letteratura
italiana
di
questo
primo
mezzo
secolo
,
Barilli
si
era
guardato
attorno
lieto
e
impacciato
.
Dove
,
come
ritrovare
i
suoi
scritti
?
Ne
aveva
disseminati
nelle
«
terze
pagine
»
,
non
li
aveva
mai
conservati
.
Solo
la
buona
volontà
di
Emilio
Cecchi
poteva
compiere
il
miracolo
di
recuperare
quelle
settanta
-
ottanta
preziose
paginette
.
Di
qualcuna
che
non
era
possibile
scovare
da
nessuna
parte
,
Bruno
trovò
la
traccia
a
lapis
su
vecchi
programmi
del
Costanzi
e
dell
'
Augusteo
o
nel
rovescio
di
qualche
biglietto
d
'
ingresso
.
Anche
di
correggere
le
bozze
si
incaricò
Cecchi
,
perché
Barilli
non
lo
sapeva
fare
e
perché
,
come
al
solito
,
doveva
partire
.
La
vita
di
Barilli
fu
effettivamente
una
continua
partenza
.
Era
incapace
di
avere
una
casa
,
un
recapito
,
un
indirizzo
.
Viaggiava
,
lasciava
la
valigia
con
il
frac
al
giornale
,
arrivava
trafelato
,
si
cambiava
in
redazione
,
si
cibava
durante
lo
spettacolo
con
un
cartoccetto
di
bucce
d
'
arancia
candite
,
prendeva
le
sue
note
al
buio
appoggiando
il
taccuino
sul
ginocchio
ossuto
.
Non
c
'
è
da
stupirsi
che
i
suoi
libri
e
i
suoi
articoli
uscissero
a
urlo
di
lupo
.
La
povertà
,
la
melanconia
,
la
difficoltà
di
farsi
capire
come
musicista
,
un
orgoglio
leonino
e
un
animo
di
fanciullo
sperduto
,
l
'
incapacità
agli
accomodamenti
e
alle
alleanze
,
le
lunghe
amnesie
,
le
ansie
e
i
triboli
di
una
vita
solitaria
disperdevano
la
sua
vita
come
quella
di
un
esiliato
.
Compiuti
gli
studi
a
Parma
assieme
a
Ildebrando
Pizzetti
,
il
figlio
del
pittore
Cecrope
Barilli
è
diviso
fra
la
creazione
musicale
,
l
'
estro
letterario
e
la
vocazione
per
la
vita
nomade
.
Prima
della
Grande
Guerra
è
a
Parigi
che
resterà
spiritualmente
,
dopo
Parma
,
la
sua
seconda
patria
.
Il
suo
animo
illuminato
e
stoico
gli
permette
di
vivere
con
quasi
nulla
,
gli
consente
i
più
duri
adattamenti
.
Viaggia
qua
e
là
per
l
'
Europa
.
La
prima
guerra
balcanica
lo
sorprende
in
Serbia
.
Invece
di
tornare
in
Italia
-
non
vuole
,
perché
si
è
innamorato
di
una
nipote
di
re
Pietro
,
e
,
contro
la
volontà
del
sovrano
,
finirà
per
sposarla
e
per
avere
da
lei
una
figlia
,
Milena
-
telegrafa
al
«
Corriere
della
Sera
»
offrendosi
come
inviato
al
fronte
.
Aveva
già
scritto
per
«
La
Tribuna
»
.
L
'
offerta
è
accettata
dagli
Albertini
.
Barilli
però
non
è
tipo
di
adattarsi
a
un
giornalismo
rigoroso
che
finirebbe
a
non
lasciargli
tempo
per
la
musica
:
per
scriverne
e
soprattutto
per
pensarla
e
amarla
.
Ritorna
a
Parigi
e
si
sfama
e
sfama
la
piccola
Milena
suonando
il
violoncello
nelle
orchestrine
dei
caffè
.
Suona
anche
il
pianoforte
in
qualche
cinematografo
di
periferia
.
Conosce
il
russo
.
Si
lega
d
'
amicizia
con
i
musicisti
e
con
le
ballerine
della
prima
troupe
di
Diaghilev
quando
questi
cala
a
Parigi
.
Sono
i
tempi
in
cui
impara
a
cibarsi
di
valenciennc
'
e
di
acqua
.
Il
richiamo
della
sua
classe
lo
riporta
in
patria
,
con
un
berrettuccio
da
ufficiale
calcato
sui
capelli
rossi
.
Riappare
a
Parma
e
a
Roma
.
È
uno
strano
ufficiale
che
pretende
di
farsi
la
barba
con
un
paio
di
forbicine
da
unghie
.
Questa
è
un
'
abitudine
che
gli
resta
per
tutta
la
vita
:
le
sue
forbicine
lavorano
al
caffè
,
in
strada
,
in
tutti
i
momenti
in
cui
Barilli
naviga
tra
le
sue
fantasie
.
Sono
gli
anni
in
cui
,
dopo
avere
scritto
Medusa
,
compone
1'Emiral
.
Dove
?
In
quello
studio
da
pittore
di
villa
Strohl
-
Fern
,
non
c
'
è
l
'
ombra
di
un
pianoforte
.
Barilli
non
può
permettersi
di
noleggiarne
uno
e
si
fa
assumere
come
pianista
in
un
piccolo
cinema
dalle
parti
del
Vaticano
.
Deve
accompagnare
i
film
muti
.
Nelle
ore
del
primo
pomeriggio
,
quando
in
sala
ci
sono
soltanto
due
,
tre
coppie
di
innamorati
che
non
fanno
attenzione
né
al
film
né
alla
musica
,
Barilli
,
tranquillo
come
se
fosse
nel
proprio
studio
,
lavora
all
'
Emiral
.
Gli
amici
della
«
Ronda
»
sono
curiosi
di
conoscere
l
'
opera
.
Barilli
invita
tutti
al
cinematografo
e
,
durante
la
proiezione
di
un
film
di
Tom
Mix
,
la
suona
.
Fa
tutti
i
mestieri
,
solo
perché
si
è
promesso
di
non
fare
«
musica
di
mestiere
»
.
Per
pagarsi
questo
lusso
,
diventa
comparsa
nei
film
muti
.
Diventa
anche
attore
.
Caramba
gli
fa
interpretare
la
parte
di
Virgilio
,
in
una
specie
di
fantasia
sulla
Divina
Commedia
,
e
Arnaldo
Fratelli
,
che
in
quegli
anni
è
regista
,
lo
sceglie
per
protagonista
della
Rosa
,
il
primo
film
tratto
da
una
novella
di
Pirandello
.
Barilli
recita
bene
,
puntuale
,
disciplinato
.
Rifiuta
solo
una
sequenza
dove
deve
figurare
in
terra
,
morto
,
con
vicino
una
candela
.
Per
scaramanzia
?
No
.
Perché
gli
pareva
fa
scena
della
morte
di
Scarpia
e
,
come
musicista
,
quella
scena
della
'
rosea
non
gli
piaceva
.
La
sua
carriera
è
stroncata
da
un
atto
di
sincerità
artistica
nel
quale
sa
di
giocare
tutte
le
sue
già
tanto
precarie
fortune
di
operista
.
Dopo
la
prima
del
Nerone
,
a
Milano
,
scrive
in
un
giornale
romano
una
fiammeggiante
bellissima
pagina
di
prosa
nella
quale
Boito
,
Mefistofele
compreso
,
è
fatto
in
briciole
.
L
'
industria
del
teatro
d
'
opera
non
gli
perdonerà
mai
quell
'
articolo
che
,
dal
punto
di
vista
critico
,
è
perfetto
.
Non
si
può
più
ascoltare
Boito
senza
ricordare
la
stroncatura
di
Barilli
.
Ma
sono
gesti
che
pesano
:
lo
scrittore
di
musica
è
messo
al
bando
dai
giornali
benpensanti
che
non
amano
le
«
grane
»
.
Se
vuole
mangiare
,
Barilli
deve
trasformarsi
in
scrittore
di
viaggi
.
Dal
suo
periplo
dell
'
Africa
,
nasce
il
più
bel
libro
italiano
su
quel
continente
.
La
poesia
melanconica
,
la
cupa
segreta
disperazione
di
Barilli
si
riflettono
nell
'
Africa
e
negli
occhi
delle
sue
umili
genti
come
in
uno
specchio
nero
.
Al
termine
del
viaggio
,
si
ammala
e
resta
per
tre
mesi
in
fin
di
vita
,
al
Cairo
.
La
sua
fine
è
segnata
.
Le
sue
capacità
di
lavoro
-
un
lavoro
lento
,
fatto
di
raccoglimento
e
di
lunghissime
osservazioni
-
diminuiscono
.
Vive
solitario
in
una
stanzuccia
d
'
albergo
a
Roma
,
sorretto
da
un
solo
entusiasmo
.
Sua
figlia
Milena
,
che
è
emigrata
negli
Stati
Uniti
,
si
è
fatta
un
buon
nome
come
pittrice
,
e
aiuta
il
suo
strano
papà
mandandogli
in
dono
quadri
da
vendere
.
Bruno
si
intenerisce
e
,
invece
di
venderli
,
attacca
i
quadri
alle
pareti
della
sua
camera
.
Vive
poveramente
,
dignitosamente
chiuso
nei
suoi
vecchi
vestiti
azzurri
,
scrivendo
ogni
tanto
,
a
fatica
,
qualche
elzeviro
.
Sembra
che
abbia
dimenticato
di
essere
un
musicista
.
Un
giorno
,
un
telegramma
dall
'
America
gli
annuncia
che
Milena
è
morta
cadendo
da
cavallo
.
Bruno
si
avvia
al
naufragio
.
Continua
a
vivere
in
silenzio
a
tazze
di
tè
,
di
grissini
,
di
valenciennes
.
Perde
uno
alla
volta
i
denti
.
Si
riconosce
alla
fine
nello
specchio
come
un
triste
vecchio
sdentato
.
I
suoi
scritti
non
sono
ormai
che
la
tragica
storia
di
una
decadenza
.
Una
sera
,
trova
in
albergo
l
'
avviso
di
andare
alla
stazione
a
prendere
un
pacco
in
arrivo
da
New
York
.
È
la
cassettina
con
l
'
urna
che
contiene
le
ceneri
di
Milena
.
Tutti
sapevano
quanto
la
prosa
italiana
-
e
non
solamente
la
prosa
,
perché
il
riflesso
dell
'
arte
di
Barilli
ha
agito
in
vari
modi
a
cominciare
,
per
esempio
,
dalle
composizioni
pittoriche
e
dal
clima
fantastico
del
pittore
Scipione
-
doveva
a
Bruno
Barilli
:
ma
da
questo
ad
avere
per
lui
un
segno
fattivo
di
riconoscenza
il
passo
è
stato
lungo
e
incompiuto
.
Sembra
fosse
stato
firmato
un
decreto
che
,
nominandolo
ispettore
musicale
di
un
istituto
cinematografico
,
gli
avrebbe
assicurato
il
pane
.
Il
decreto
è
arrivato
quando
,
in
clinica
,
Barilli
già
vaneggiava
e
dal
fondo
del
suo
letto
come
chiamando
una
amica
,
ripeteva
con
voce
ancora
ferma
:
«
Avanti
,
Morte
!
»
.
StampaQuotidiana ,
La
storia
del
mondo
voltava
pagina
.
Quando
Luigi
Barzini
,
ragazzo
di
Orvieto
,
scese
a
Roma
,
arruolato
in
un
modesto
giornale
,
che
mescolava
i
piccoli
entrefilets
con
i
«
pupazzetti
»
nel
genere
di
quelli
di
Vamba
e
di
Gandolin
,
e
fu
scovato
da
Luigi
Albertini
e
spedito
a
Londra
come
corrispondente
del
«
Corriere
della
Sera
»
,
erano
,
senza
che
molti
se
ne
rendessero
conto
,
anni
di
avvenimenti
favolosi
.
Dalla
lanterna
magica
si
passava
alle
pellicole
dei
Lumière
,
la
Patti
e
Tamagno
incidevano
i
loro
primi
«
cilindri
di
cera
»
per
il
fonografo
,
Marconi
studiava
il
telegrafo
senza
fili
,
l
'
uomo
si
ostinava
a
tentare
di
volare
affidato
ad
un
paio
d
'
ali
simili
a
quelle
di
un
pipistrello
.
Molto
cambiava
nel
mondo
.
Al
corredo
dei
soldati
giapponesi
sarebbe
stata
aggiunta
di
lì
a
poco
una
zappetta
per
scavare
,
idea
difensiva
del
tutto
nuova
,
una
trincea
.
Barzini
aveva
ventidue
anni
al
tempo
di
Adua
,
dove
cadde
ucciso
il
primo
inviato
speciale
italiano
.
Il
suo
spirito
di
italiano
rimase
per
tutta
la
vita
,
per
quel
ricordo
,
legato
al
problema
di
una
dignità
da
salvare
.
Il
giornalismo
al
cui
servizio
lo
chiamò
Luigi
Albertini
-
Barzini
aveva
ventiquattro
anni
,
Albertini
ventotto
-
sarebbe
stato
del
tutto
diverso
da
quello
dei
Bottero
,
dei
Bersezio
,
dei
Mercatelli
,
dei
Gobbi
-
Belcredi
,
dei
Roux
e
del
principe
Sciarra
.
Fosse
rimasto
a
Roma
,
Barzini
sarebbe
probabilmente
naufragato
nelle
cronache
,
nei
pettegolezzi
e
fra
i
«
pupazzetti
»
di
Montecitorio
.
Albertini
mandava
Ugo
Ojetti
,
altro
coetaneo
,
a
conoscere
le
terre
d
'
oltre
Adriatico
da
cui
sarebbe
giunta
in
Italia
la
bellissima
Principessa
Elena
e
,
subito
dopo
,
lo
mandava
in
Calabria
sulle
tracce
del
brigante
Musolino
.
A
Barzini
,
alto
,
magro
,
pettinato
con
una
riga
in
mezzo
,
Albertini
consegnò
le
chiavi
del
mondo
ad
un
'
età
in
cui
,
mentre
l
'
Ottocento
tramontava
,
era
ancora
difficile
che
si
affidassero
ai
ragazzi
le
chiavi
di
casa
.
Negli
uffici
del
«
Corriere
»
Barzini
non
ebbe
mai
una
propria
scrivania
.
A
casa
,
per
vari
anni
,
non
ebbe
il
telefono
,
in
una
Milano
che
nel
1906
aveva
solamente
mille
apparecchi
.
Il
figlio
non
ci
racconta
se
suo
padre
«
batteva
»
a
macchina
.
La
stilografica
era
appena
nata
ed
era
una
novità
addirittura
entusiasmante
,
tanto
che
certi
giornalisti
intitolavano
Stilografiche
le
loro
rubriche
.
Gli
articoli
di
viaggio
e
le
corrispondenze
si
chiamavano
Lettere
da
Londra
o
Lettere
dalla
Russia
o
addirittura
,
più
tardi
,
Lettere
dal
fronte
perché
erano
proprio
delle
lettere
da
porto
doppio
,
impostate
con
francobolli
da
15
centesimi
.
Milano
non
toccava
il
mezzo
milione
di
abitanti
.
Barzini
andava
in
terre
lontane
:
e
,
nelle
terre
lontane
,
viaggiava
ancora
a
cavallo
.
Nei
conti
che
,
al
ritorno
,
consegnava
all
'
amministratore
Eugenio
Balzan
,
c
'
erano
«
voci
»
che
oggi
sanno
di
favola
:
cavallo
,
stalla
,
striglia
,
avena
,
carrube
.
La
Cina
per
la
guerra
dei
Boxers
;
la
Siberia
vista
dalla
Transiberiana
;
la
tragica
epopea
della
guerra
russo
-
giapponese
fino
alla
battaglia
di
Mukden
;
infine
i
16
mila
chilometri
di
viaggio
in
automobile
da
Pechino
a
Parigi
:
sono
i
sette
anni
stupefacenti
di
Barzini
,
scrittore
lento
,
pieno
di
dubbi
e
di
tormenti
,
infaticabile
nello
sforzo
di
raggiungere
una
«
limpidità
»
che
fino
allora
,
salvo
per
De
Amicis
,
sembrava
negata
alla
nostra
prosa
non
solamente
giornalistica
.
Per
chi
conosce
i
suoi
predecessori
,
la
differenza
di
tono
appare
evidente
.
Barzini
non
amoreggia
con
i
crepuscolari
:
non
è
un
seguace
del
«
naturalismo
»
e
,
soprattutto
,
non
si
lascia
prendere
nemmeno
con
la
punta
del
mignolo
nelle
tagliole
del
dannunzianesimo
.
Sempre
salvo
da
ogni
contagio
,
è
probabile
che
leggesse
assai
poco
i
suoi
contemporanei
.
Era
tutto
teso
a
«
vedere
»
,
si
fidava
più
della
memoria
visiva
che
non
del
taccuino
.
Collega
di
due
grossi
bibliofili
come
Ojetti
e
Simoni
,
in
casa
-
salii
una
volta
,
a
vent
'
anni
,
al
suo
quarto
piano
-
non
aveva
vistose
librerie
.
I
libri
erano
quasi
tutti
,
probabilmente
,
di
sua
moglie
,
ch
'
era
buona
scrittrice
:
e
per
quanto
io
guardassi
attorno
sulle
pareti
e
sugli
scaffali
e
persino
nei
corridoi
,
non
aveva
souvenirs
de
voyage
non
,
come
avevo
immaginato
,
selle
arabe
,
fucili
dal
calcio
intarsiato
di
madreperla
,
tappeti
,
gualdrappe
di
cammelli
,
paraventi
cinesi
,
ventagli
giapponesi
.
Anche
le
sue
pagine
di
viaggio
nel
mondo
delle
geishe
,
o
nella
vecchia
Pechino
,
o
nelle
città
czariste
,
non
convogliano
in
sé
colori
di
rigatteria
o
di
esotismo
turistico
,
per
esempio
alla
Pierre
Loti
o
alla
Claude
Farrère
.
Barzini
tornava
a
casa
con
un
bagaglio
leggerissimo
,
sempre
pronto
a
ripartire
all
'
indomani
.
Egli
credeva
,
penso
,
solamente
nel
filtro
della
memoria
e
nel
potere
,
che
chiamerei
epistolare
,
del
suo
stile
.
Di
qui
la
chiarezza
del
suo
colloquio
con
il
lettore
,
una
parola
senza
riboboli
e
senza
barocchismi
,
un
disegno
descrittivo
netto
,
e
mai
il
fiato
corto
o
il
fiato
grosso
,
e
mai
il
compiacimento
del
«
pezzo
»
che
strizza
l
'
occhio
sul
virtuosismo
e
dice
:
«
Guardate
quanto
son
bravo
!
»
.
Un
intuito
infallibile
negli
«
attacchi
»
-
chi
fa
il
nostro
mestiere
sa
che
nelle
prime
righe
si
mette
tutto
in
gioco
-
,
nessun
crescendo
retorico
,
mai
troppa
spinta
nel
premere
il
pedale
.
Dopo
quasi
sessant
'
anni
la
prosa
di
queste
«
avventure
»
non
ha
forfora
,
non
ha
chiazze
di
sopraggiunta
calvizie
,
non
ha
rughe
o
zampe
di
gallina
,
non
ci
appare
,
mai
in
«
costume
»
,
non
denuncia
un
«
gusto
»
.
La
sua
lezione
è
ancora
valida
,
dopo
che
tre
generazioni
si
sono
lustrate
le
maniche
sul
tavolo
a
buttar
fuori
prosa
che
faccia
velocemente
girare
la
rotativa
.
StampaQuotidiana ,
Su
un
fondo
rosso
tempestato
di
grosse
stelle
,
un
manifesto
porta
a
grandi
maiuscole
il
nome
di
Harry
Belafonte
.
Nelle
vetrine
della
galleria
da
cui
si
accede
al
milanese
Teatro
Nuovo
,
le
custodie
di
cartoncino
dei
dischi
microsolco
ripetono
il
suo
nome
.
Ed
ecco
in
altri
manifesti
il
suo
viso
,
il
suo
viso
di
bel
giovanotto
dalla
bocca
ridente
e
dagli
occhi
lievemente
tristi
,
segnati
da
un
enigmatico
lampo
di
intesa
.
Al
proscenio
si
presenta
molto
confidenzialmente
in
maniche
di
camicia
:
prima
parte
del
concerto
,
camicia
cilestrina
di
un
tono
che
varia
d
'
intensità
sotto
ai
riflessi
delle
«
gelatine
»
di
riflettori
e
bilance
;
seconda
parte
,
una
camicia
color
rosso
geranio
;
terza
parte
,
una
camicia
bianca
fittamente
rigata
.
Attorno
alla
vita
una
cintura
di
pelle
nera
con
un
fregio
d
'
argento
di
cui
gli
spettatori
miopi
non
possono
dire
il
disegno
.
Teatro
esauritissimo
.
Ecco
l
'
uomo
che
a
quanto
si
dice
guadagna
ventidue
milioni
la
settimana
cantando
e
soprattutto
vendendo
a
centinaia
di
migliaia
di
copie
ogni
edizione
dei
suoi
dischi
e
toccando
talvolta
il
record
del
milione
di
copie
.
Ecco
il
re
del
Calypso
,
nome
omerico
leggermente
magico
,
emigrato
laggiù
fra
le
isole
e
sulle
coste
d
'
oltreoceano
,
addirittura
-
se
si
volesse
credere
agli
studi
classici
-
dall
'
Odissea
e
dalla
leggenda
di
Ulisse
e
della
ninfa
Calypso
,
che
incantò
d
'
amore
il
grande
naufrago
per
sette
anni
e
non
lo
lasciò
partire
finché
non
lo
ordinò
Zeus
.
Ecco
l
'
uomo
di
trent
'
anni
che
si
è
scoperto
cantante
quasi
per
caso
dopo
avere
tentato
in
un
primo
tempo
di
affermarsi
come
attore
all
'
Arnerican
Negro
Theater
.
Ecco
un
uomo
tipico
della
«
leggenda
americana
»
,
venuto
su
dal
nulla
,
dopo
aver
lavorato
-
quando
sul
suo
destino
musicale
c
'
era
pochissimo
da
contare
-
in
una
industria
di
abbigliamento
e
dopo
aver
gestito
un
piccolo
ristorante
nel
Greenwich
Village
.
Venire
su
dal
nulla
sottintende
una
vita
di
fatiche
,
mestieri
umili
,
l
'
amarezza
del
ragazzo
«
colorato
»
che
incontra
sempre
motivo
di
melanconia
nei
rapporti
razziali
di
quella
che
pure
è
la
sua
terra
natale
.
Eccolo
davanti
a
noi
,
celebre
e
acclamatissimo
.
Le
fortune
sono
cominciate
nel
1950
:
il
ragazzo
,
che
cantava
in
coro
con
gli
avventori
della
trattoria
al
Greenwich
Village
,
batte
pochi
anni
dopo
tutti
i
primati
di
incassi
della
musica
leggera
.
Adesso
è
qui
,
per
la
prima
volta
approdato
in
Europa
,
al
centro
del
palcoscenico
sgombro
,
contro
un
fondale
che
muta
tono
sotto
ai
diffusori
di
luci
colorate
.
Gli
sta
davanti
il
microfono
che
gli
stampa
sulla
camicia
un
'
ombra
come
l
'
emblema
araldico
del
suo
destino
.
Attore
,
cantante
,
narratore
sui
toni
di
elegia
,
di
melanconia
,
di
ironia
fanciullesca
,
di
patetico
pianto
e
di
accorato
lamento
sull
'
onda
di
note
,
di
motivi
che
direttamente
arrivano
dall
'
accorato
,
trasognato
folclore
delle
genti
di
colore
,
Belafonte
dà
il
senso
che
la
musica
gli
si
sia
tutta
affinata
nel
cuore
e
nei
nervi
:
una
straordinaria
spontaneità
che
farebbe
pensare
ad
una
sorta
di
poetica
improvvisazione
,
ad
una
specie
di
istintiva
confessione
fatta
a
se
stesso
quasi
in
segreto
.
StampaQuotidiana ,
Tarquinia
,
quando
vi
nacque
il
primo
maggio
del
1887
Vincenzo
Cardarelli
,
si
chiamava
ancora
come
ai
tempi
dello
Stato
di
Santa
Romana
Chiesa
,
con
il
bonario
nome
agricolo
di
Corneto
perché
nei
suoi
poggi
solitari
cresceva
spontaneamente
l
'
arbusto
del
corniolo
che
copre
tutto
l
'
alto
Lazio
con
quella
vegetazione
cui
si
dà
il
nome
di
«
macchia
»
,
propizia
un
tempo
ai
briganti
che
sulle
strade
dirette
verso
Roma
aspettavano
di
far
pagare
duri
pedaggi
alle
diligenze
.
Cardarelli
nacque
da
madre
marchigiana
e
da
padre
«
etrusco
»
,
come
egli
amò
sempre
dire
.
Il
cognome
di
famiglia
era
Caldarelli
,
il
bambino
fu
battezzato
con
un
nome
assai
diffuso
in
tutta
quella
che
adesso
è
la
provincia
di
Viterbo
:
Nazareno
.
Nella
adolescenza
vissuta
a
Roma
,
quel
Caldarelli
,
adattandosi
alla
pronuncia
romana
che
trasforma
coltello
in
cortello
e
caldo
in
cardo
,
diventò
Cardarelli
.
In
quanto
a
Nazareno
,
nome
non
molto
adatto
per
un
giovane
letterato
che
vantava
idee
vagamente
sovversive
,
fu
cambiato
con
quello
di
Vincenzo
,
che
era
il
secondo
di
battesimo
.
La
famiglia
di
Cardarelli
conduceva
al
paese
una
vita
umile
.
Se
non
sbagliammo
su
quanto
lasciava
intendere
,
ma
senza
troppe
precisazioni
,
il
poeta
dei
Prologhi
quando
,
ragazzi
,
lo
conoscemmo
a
Roma
,
il
padre
aveva
cercato
inutilmente
di
assicurarsi
una
vita
pacifica
conducendo
un
'
osteria
nei
pressi
della
stazione
di
Corneto
.
Anche
Cardarelli
era
dunque
figlio
di
un
oste
,
come
lo
era
stato
a
Siena
,
Federigo
Tozzi
.
Nel
ricordo
,
o
,
per
meglio
dire
,
nel
mondo
di
favola
epica
che
Cardarelli
costruì
sulle
memorie
del
paese
della
sua
infanzia
,
il
posto
della
madre
è
minore
di
quello
del
padre
.
Tra
l
'
ascendenza
marchigiana
e
quella
etrusca
,
Cardarelli
scelse
e
sostenne
sempre
la
seconda
.
Egli
era
infatti
sceso
a
Roma
con
tutti
i
complessi
di
inferiorità
del
ragazzo
di
provincia
e
addirittura
di
campagna
,
senza
titoli
di
studio
e
con
le
tasche
imbottite
solamente
di
volumetti
della
Universale
Sonzogno
.
Dichiarandosi
etrusco
,
egli
iniziava
quella
che
gli
sembrava
dovesse
essere
la
sua
lunga
e
ininterrotta
polemica
fra
due
civiltà
.
Arrivò
a
Roma
nei
primi
anni
del
Novecento
,
in
una
città
ancora
intellettualmente
infatuata
di
D
'
Annunzio
e
del
tutto
assomigliante
a
quella
descritta
nei
capitoli
del
Piacere
.
Campava
di
piccoli
impieghi
:
fu
,
tra
l
'
altro
,
segretario
di
una
cooperativa
socialista
di
scalpellini
,
di
quei
«
selciaioli
»
che
lastricavano
Roma
con
blocchetti
quadrati
di
granito
.
La
povertà
e
una
naturale
tendenza
al
disdegno
,
tipica
quasi
sempre
dei
timidi
,
lo
tenevano
lontano
dal
pur
ristretto
mondo
intellettuale
romano
dei
Diego
Angeli
,
dei
Domenico
Gnoli
,
dei
Fausto
Salvatori
e
da
quello
dialettale
e
ironico
di
Trilussa
.
Entrato
come
cronista
all
'
«
Avanti
!
»
di
Leonida
Bissolati
,
cominciò
a
pubblicare
qualche
breve
prosa
firmata
con
lo
pseudonimo
dannunzianeggiante
di
Simonetto
.
Diventò
,
come
giornalista
,
frequentatore
della
terza
saletta
di
Aragno
:
ma
forse
più
che
altro
perché
i
suoi
guadagni
,
molto
aleatori
e
sottili
,
non
gli
permettevano
spesso
di
nutrirsi
altro
che
di
caffellatte
.
Oltretutto
,
Aragno
era
l
'
evasione
dal
chiuso
delle
piccole
camere
in
qualche
modesta
pensione
di
famiglia
dove
era
obbligato
a
vivere
,
spesso
con
un
tavolino
traballante
come
tutta
scrivania
.
Sui
tavolini
di
marmo
del
caffè
,
nei
pomeriggi
solitari
,
quando
i
giornalisti
si
trasferivano
nella
tribuna
stampa
di
Montecitorio
o
nella
sala
al
pianoterra
del
palazzo
delle
Poste
a
San
Silvestro
dove
avevano
i
loro
uffici
di
corrispondenza
,
Cardarelli
scriveva
le
sue
prime
prose
e
lungamente
le
correggeva
e
le
limava
,
sino
a
impararle
addirittura
a
memoria
.
Aragno
fu
per
molti
anni
la
sua
«
casa
»
,
il
luogo
delle
sue
«
declamazioni
»
e
delle
sue
indispettite
rampogne
.
Da
Aragno
conobbe
il
giovanissimo
pittore
Amerigo
Bartoli
,
che
gli
fu
amico
fedelissimo
per
tutta
la
vita
,
e
che
a
lui
e
agli
amici
letterati
del
tempo
della
«
Ronda
»
doveva
dedicare
il
quadro
degli
Amici
al
caffè
.
Vi
appariva
abitualmente
alle
due
del
pomeriggio
perché
si
alzava
molto
tardi
per
evitare
la
spesa
di
una
colazione
regolare
,
e
si
tratteneva
quasi
l
'
intera
giornata
,
spesso
ne
era
l
'
ultimo
cliente
nottambulo
.
I
camerieri
,
cominciando
dal
vecchio
Forina
che
sembra
avesse
fatto
,
in
gioventù
,
qualche
piccolo
prestito
a
D
'
Annunzio
e
dall
'
eternamente
biondo
Leonetti
che
teneva
chilometrici
conti
di
tazze
di
caffè
pagate
con
lunghi
ritardi
,
avevano
per
lui
,
per
quanto
ancora
ignoto
,
un
singolare
affettuoso
rispetto
.
Era
,
fisicamente
,
uno
di
quegli
uomini
che
le
donne
definiscono
«
interessanti
»
.
Pallido
,
quasi
esangue
in
volto
,
assomigliava
vagamente
a
Ruggero
Ruggeri
.
Vestito
poveramente
ma
,
con
un
aggettivo
che
gli
piacque
,
sempre
in
modo
«
decente
»
anche
se
il
suo
guardaroba
fu
spesso
composto
solamente
di
abiti
smessi
dai
suoi
amici
,
nascondeva
con
un
fiero
pudore
una
sua
menomazione
fisica
:
aveva
un
braccio
rinsecchito
e
quasi
paralizzato
da
un
attacco
di
poliomielite
che
da
fanciullo
l
'
aveva
portato
vicino
alla
morte
.
Questo
problema
fisico
aveva
forse
influito
su
certe
asprezze
del
suo
carattere
e
acuito
in
lui
un
senso
di
difesa
che
poteva
essere
affidato
solamente
alla
parola
,
e
alla
polemica
talvolta
bruciante
.
Parlava
con
una
bella
voce
lievemente
velata
,
talvolta
come
trasognato
,
talvolta
irridente
e
tagliente
:
per
l
'
eleganza
della
parola
e
per
la
lucidità
della
sua
polemica
,
lo
chiamavano
scherzosamente
«
l
'
incantatore
di
serpenti
»
.
I
suoi
primi
amici
letterari
-
al
tempo
della
giovinezza
dei
poco
più
che
ventenni
Antonio
Baldini
e
Umberto
Fracchia
e
degli
incontri
con
Emilio
Cecchi
e
con
Armando
Spadini
-
furono
conquistati
,
forse
più
che
dai
suoi
rarissimi
scritti
,
dal
misterioso
incantesimo
della
sua
parola
.
È
probabile
-
nella
sua
camera
ammobiliata
aveva
ben
pochi
libri
,
gettati
alla
rinfusa
in
un
cassetto
del
comò
con
la
sua
scarsa
biancheria
-
che
la
sua
cultura
di
autodidatta
fosse
racchiusa
nella
lettura
di
poche
opere
,
che
lo
fecero
vivere
nel
clima
di
Nietzsche
e
soprattutto
in
quello
di
Leopardi
:
quando
fondò
«
La
Ronda
»
,
lo
indicò
come
il
maggiore
fra
quelli
che
la
rivista
,
indicando
i
maestri
dell
'
alto
stile
italiano
,
chiamava
i
«
convitati
di
pietra
»
.
Cultura
non
molto
diffusa
,
in
una
intelligenza
però
assai
profonda
.
Gran
parte
di
lui
si
esauriva
nei
suoi
colloqui
con
gli
amici
,
e
soprattutto
in
quella
specie
di
lungo
monologo
che
fu
la
sua
vita
.
Le
sue
prime
prose
-
le
pagine
liriche
che
intitolò
poi
I
Prologhi
-
apparvero
poco
prima
della
Grande
Guerra
nella
rivista
«
Lirica
»
,
in
cui
debuttarono
con
lui
giovani
scrittori
come
Antonio
Baldíni
,
Fracchia
,
Rosso
di
San
Secondo
.
La
rivista
doveva
durare
pochi
numeri
:
il
conflitto
portò
alla
sua
sospensione
.
Cardarelli
rimase
quasi
del
tutto
solo
a
Roma
,
nel
caffè
Aragno
reso
deserto
dalla
mobilitazione
.
Il
dannunzianesimo
letterario
decadeva
nell
'
interesse
dei
giovani
,
il
Futurismo
non
aveva
avuto
una
particolare
risonanza
romana
.
Cardarelli
era
rimasto
appartato
nei
confronti
dei
movimenti
di
«
Lacerba
»
e
della
«
Voce
»
.
Scrittore
lentissimo
,
componeva
le
poesie
che
più
tardi
sarebbero
state
riunite
in
sottili
volumi
e
finalmente
raccolte
tutte
da
Mondadori
.
La
salute
sempre
malferma
,
qualche
vicissitudine
d
'
amore
-
nel
piccolo
mondo
delle
Lettere
certe
sue
giovanili
passioni
rimasero
,
per
così
dire
,
storiche
-
l
'
inquietudine
di
uno
spirito
inappagabile
lo
portarono
a
viaggiare
verso
climi
più
propizi
di
quello
degli
inverni
romani
,
a
Venezia
e
in
Riviera
.
Tentò
anche
un
soggiorno
milanese
:
ma
la
nostalgia
di
A
ragno
gli
fece
ben
presto
riprendere
il
treno
.
Egli
era
,
in
verità
,
assai
simile
all
'
enfant
malade
apparentemente
cinico
e
crudele
,
sostanzialmente
melanconico
,
caro
a
certi
romanzieri
crepuscolari
francesi
.
L
'
uomo
era
affascinante
;
per
lui
il
mecenatismo
nasceva
spontaneo
anche
e
soprattutto
da
parte
di
gente
non
ricca
.
Cardarelli
ebbe
sempre
amici
segretamente
pronti
,
e
affettuosi
,
anche
se
il
suo
carattere
era
assai
difficile
.
Appartenendo
alla
razza
dei
déracinés
o
dei
poètes
maudits
,
si
comprendeva
che
la
sua
apparente
infingardaggine
derivava
da
latenti
stati
di
depressioni
melanconiche
.
Le
donne
che
lo
amarono
lo
considerarono
appartenente
alla
razza
degli
«
angeli
caduti
»
,
lievemente
demoniaci
.
Diventava
vanitoso
come
un
fanciullo
,
quando
una
famosa
diva
del
«
muto
»
lo
mandava
a
prendere
con
una
carrozza
padronale
a
due
cavalli
per
conversare
con
lui
di
letteratura
nelle
poltrone
di
un
albergo
romano
a
via
Veneto
.
Poi
capitava
di
vederlo
silenzioso
e
assorto
quando
,
al
crepuscolo
o
alla
notte
,
percorreva
il
lungotevere
per
soffermarsi
a
tentar
di
declamare
a
qualche
venere
vagante
il
Canto
del
pastore
di
Leopardi
,
con
una
aspirazione
tolstoiana
di
redenzione
attraverso
alla
poesia
.
Per
qualche
tempo
,
fu
critico
drammatico
del
«
Tempo
»
,
chiamato
da
Giovanni
Papini
che
al
giornale
di
Filippo
Naldi
aveva
voluto
Bruno
Barilli
e
Ardengo
Soffici
.
La
rapida
scrittura
notturna
,
mentre
la
tipografia
attendeva
impaziente
le
cartelle
,
gli
riusciva
penosa
:
presto
interruppe
quel
lavoro
,
dopo
aver
però
scritto
alcuni
saggi
assai
acuti
su
Shakespeare
,
Ibsen
,
Shaw
e
sul
primo
Pirandello
.
La
fine
della
guerra
gli
restituì
i
suoi
amici
.
Il
conte
Aurelio
Saffi
,
nipote
del
«
quadrumviro
»
della
repubblica
romana
,
si
fece
finanziatore
di
una
rivista
che
si
intitolò
«
La
Ronda
»
.
La
rivista
aveva
un
ufficio
vicino
all
'
Altare
della
Patria
:
Cardarelli
ebbe
finalmente
una
poltrona
,
una
scrivania
,
uno
stipendio
.
Da
Bologna
arrivava
Riccardo
Bacchelli
,
da
Verona
Lorenzo
Montano
:
Baldini
giungeva
in
tram
da
via
dei
Serpenti
,
Emilio
Cecchi
da
corso
Italia
,
Bruno
Barilli
dal
parco
di
Villa
Strolfen
,
Armando
Spadini
dalla
villetta
sul
colle
dei
Parioli
ancora
non
conquistato
dal
pubblico
dei
«
quartieri
alti
»
.
«
La
Ronda
»
ebbe
un
'
importanza
formativa
per
le
generazioni
che
seguivano
quella
«
vociana
»
;
Bacchellí
scriveva
le
tragedie
di
Spartaco
e
di
Amleto
o
saggi
di
politica
liberale
.
Barilli
vi
pubblicava
le
sue
prose
barocche
che
dovevano
influire
persino
sulla
pittura
di
Scipione
.
Comparvero
sulla
«
Ronda
»
i
primi
scritti
di
Savinio
.
Cardarelli
vi
esercitava
la
sua
predicazione
leopardiana
e
,
cercando
di
frenare
i
suoi
umori
polemici
verso
gli
amici
,
visse
comunque
la
sua
stagione
letterariamente
più
intensa
.
I
giovani
lo
guardavano
come
un
caposcuola
.
Fu
il
tempo
più
felice
della
sua
non
felice
esistenza
.
Il
giovane
Malaparte
sospirava
per
sedere
al
suo
tavolo
.
Il
ragazzo
Longanesi
lo
ascoltava
in
silenzio
.
Cardarelli
diventava
persino
gioviale
:
con
gli
amici
,
si
concedeva
qualche
cenetta
nelle
osterie
fuori
porta
e
davanti
ad
un
piatto
di
fave
e
pecorino
parlava
dei
pastori
del
suo
paese
.
Sono
di
quel
tempo
le
sue
prose
più
belle
,
quelle
che
probabilmente
meglio
affideranno
il
suo
nome
alla
storia
letteraria
del
Novecento
:
contenute
in
un
primo
tempo
in
un
piccolo
quaderno
della
Terza
pagina
con
il
titolo
di
Terra
genitrice
e
riprese
poi
quasi
integralmente
in
un
volume
edito
dal
giovane
Leo
Longanesi
con
il
nuovo
titolo
de
Il
sole
a
picco
;
prose
dedicate
alle
memorie
,
quasi
favolose
,
del
paese
della
sua
infanzia
,
evocazioni
di
quelle
terre
dove
aveva
sostato
qualche
anno
prima
,
ignoto
viaggiatore
,
lo
scrittore
inglese
D.H.
Lawrence
.
Cardarelli
aveva
trentasette
anni
:
con
quel
volumetto
longanesiano
ebbe
l
'
affettuoso
alloro
del
premio
Bagutta
di
cui
Cardarelli
attese
nervosamente
il
piccolo
vaglia
a
Roma
.
A
Milano
le
edizioni
di
Bottega
di
Poesia
stamparono
i
suoi
«
Canti
»
,
uno
dei
quali
cominciava
:
«
Domani
ho
quarant
'anni...»
.
«
La
Ronda
»
morì
presto
.
Cardarelli
fece
un
breve
viaggio
in
Russia
e
tentò
di
nuovo
il
giornalismo
che
tanto
lo
affaticava
.
Era
evidente
che
a
soli
quarant
'
anni
le
scarse
forze
della
sua
gioventù
andavano
già
spegnendosi
.
Preso
nel
cerchio
di
una
inquietudine
amara
,
la
sola
forza
che
gli
restava
era
quella
della
sua
malinconica
eloquenza
,
delle
sue
ire
improvvise
.
Più
che
scrivere
pagine
nuove
,
andava
ripubblicando
quelle
vecchie
,
che
pur
non
erano
molte
.
Andava
stentatamente
d
'
accordo
con
i
vecchi
amici
,
nessuno
dei
quali
però
lo
abbandonò
.
Segretamente
aveva
paura
della
povertà
,
ora
che
una
precoce
vecchiaia
andava
avvicinandosi
.
Aspettò
la
nomina
ad
Accademico
d
'
Italia
,
e
non
l
'
ebbe
.
Viveva
in
un
«
letto
di
famiglia
»
in
casa
di
un
cameriere
di
Aragno
.
La
vita
gli
si
mostrò
sempre
più
squallida
.
La
guerra
del
'40
aprì
nel
suo
cuore
di
malato
alti
sgomenti
.
Roma
stessa
non
assomigliava
più
a
quella
della
sua
giovinezza
.
Ogni
tanto
i
compaesani
lo
volevano
con
loro
a
Tarquinia
per
celebrare
in
lui
quello
che
ormai
era
considerato
l
'
ultimo
poeta
della
Etruria
.
Sotto
ad
una
apparente
albagia
,
ammalato
,
incapace
ormai
d
'
ogni
lavoro
,
il
dopoguerra
lo
vide
trasferito
in
una
pensione
di
via
Veneto
,
per
cercare
un
po
'
di
sole
sul
marciapiede
di
destra
che
sembra
la
«
Riviera
di
Roma
»
.
Per
qualche
tempo
,
riuscì
ad
attraversare
la
strada
per
raggiungere
i
banchi
della
Libreria
Rossetti
dove
aveva
gli
ultimi
contatti
con
la
letteratura
vecchia
e
giovane
.
Riceveva
un
piccolo
stipendio
per
dare
il
suo
nome
di
direttore
alla
«
Fiera
letteraria
»
.
Da
Milano
gli
erano
arrivati
aiuti
affettuosi
.
Non
ancora
del
tutto
vecchio
,
Cardarelli
viveva
nel
timore
della
povertà
assoluta
se
la
vecchiaia
si
fosse
prolungata
e
se
la
memoria
della
sua
breve
stagione
di
poesia
si
fosse
spenta
.
Accettava
umilmente
anche
doni
segreti
di
vestiario
,
di
biancheria
,
di
maglie
,
di
scialli
.
La
sua
malattia
,
che
lo
portava
lentamente
all
'
immobilità
,
gli
gelava
le
vene
.
In
piena
estate
,
con
tre
cappotti
addosso
,
durante
lo
scirocco
romano
,
Cardarelli
aveva
freddo
come
in
Siberia
.
Quando
,
in
un
torrido
settembre
partenopeo
,
ricevette
,
assieme
a
Dino
Buzzati
,
il
Premio
Napoli
,
volle
in
albergo
una
stufa
elettrica
e
dormì
senza
levarsi
da
dosso
i
pastrani
per
non
morire
,
diceva
,
assiderato
.
Due
amici
lo
portarono
in
braccio
su
per
le
scale
e
attraverso
i
saloni
del
Palazzo
Reale
per
la
consegna
del
Premio
.
La
voce
gli
si
era
fatta
fioca
ma
aveva
ancora
qualche
soffocato
accento
di
disagio
e
di
polemica
se
non
addirittura
d
'
ira
caparbia
.
A
sentire
che
non
poteva
più
reggersi
in
piedi
,
gli
occhi
alteri
si
riempivano
di
malfrenate
lagrime
.
Bisogna
dire
che
la
morte
ha
avuto
alla
fine
pietà
di
lui
,
per
lasciare
a
noi
che
lo
ascoltammo
,
che
lo
leggemmo
,
che
lo
amammo
,
il
puro
acquetato
e
limpido
ricordo
della
sua
anima
di
poeta
,
lampeggiante
nel
mesto
profilo
di
un
'
esistenza
amara
e
melanconica
come
di
chi
avesse
troppo
a
lungo
respirato
l
'
aura
mortale
delle
tombe
trimillenarie
delle
genti
etrusche
.
StampaQuotidiana ,
Carnera
debutta
a
Milano
nelle
giostre
ammaestrate
della
lotta
libera
,
del
catch
.
Mi
dicono
che
abbia
nuovamente
fortuna
.
L
'
ho
conosciuto
molti
anni
fa
,
a
Barcellona
,
ed
è
probabile
,
è
anzi
sicuro
,
che
egli
non
si
ricordi
affatto
di
me
.
Eppure
,
appunto
perché
egli
mi
fece
tornare
fanciullo
,
fui
il
suo
profeta
.
Attorno
a
lui
i
grandi
saggi
,
i
grandi
sapienti
della
scienza
sportiva
segretamente
sghignazzavano
.
Essi
lo
avevano
già
visto
a
Milano
,
in
una
esibizione
di
pugilato
al
Palazzo
dello
Sport
,
lo
avevano
inquadrato
dal
basso
in
alto
,
arcuando
scetticamente
un
sopracciglio
,
lo
avevano
scientificamente
«
soppesato
»
.
Avevano
guardato
le
vene
varicose
delle
sue
gambe
affaticate
per
sostenere
quella
sua
mole
torreggiante
:
avevano
detto
che
il
suo
pugno
era
lento
come
un
«
merci
»
;
gli
negavano
ogni
intelligenza
e
ogni
spirito
combattivo
.
Davanti
alle
loro
definizioni
-
«
colosso
dai
piedi
d
'
argilla
»
,
o
,
più
popolarescamente
,
«
sacco
di
patate
»
-
io
tremavo
,
prendendo
il
treno
che
,
sul
finire
del
novembre
1930
,
mi
portava
in
Spagna
per
assistere
al
suo
incontro
con
Paolino
Uzcudum
.
Avevo
visto
al
lavoro
,
quattro
o
cinque
anni
prima
,
il
«
toro
di
Bilbao
»
.
Contro
l
'
ex
spaccalegna
che
aveva
il
torace
ampio
,
quadrato
,
solido
come
una
cassaforte
cosa
avrebbe
fatto
quel
marmittone
di
gigantesco
emigrato
friulano
?
Primo
Camera
,
da
ragazzino
,
aveva
frequentato
le
scuole
dei
mosaicisti
di
Sequals
,
dove
l
'
arte
delle
«
tessere
»
è
tramandata
,
dicono
,
sin
dai
tempi
di
Aquileia
.
Mosaicista
contro
Spaccalegna
.
Chi
avrebbe
vinto
?
Segretamente
puntai
sul
Mosaicista
.
Emilio
Colombo
,
mattatore
bonariamente
roboante
del
giornalismo
sportivo
,
lo
indovinò
:
e
mi
guardava
con
sorridente
,
amichevole
pietà
.
Condannato
io
pure
alla
vecchia
legge
che
impone
al
cronista
sportivo
il
pronostico
,
dopo
aver
visto
Carnera
,
dopo
aver
parlato
con
Carnera
,
scrissi
:
«
Il
Mosaicista
batterà
il
Legnaiolo
»
.
A
Carnera
chiesi
:
«
Come
va
?
»
.
Mi
rispose
:
«Così...»
.
Eravamo
nella
stanza
di
un
albergo
sulle
Ramblas
di
Barcellona
.
Camera
era
disteso
sul
letto
e
un
cinese
lo
massaggiava
.
Seduto
vicino
al
letto
stava
il
suo
manager
,
il
giornalista
che
lo
aveva
scoperto
due
o
tre
anni
prima
in
un
baraccone
di
lottatori
da
fiera
.
Il
giornalista
era
un
ometto
piccolo
che
pesava
cinquantacinque
chili
contro
í
centoventi
del
suo
pupillo
,
e
che
aveva
un
accenno
di
baffi
alla
Menjou
.
Vigilava
sul
massaggio
e
vigilava
,
mi
sembrò
,
anche
sulle
risposte
del
gigante
,
che
,
prima
di
parlare
,
lo
guardava
intimidito
come
fa
un
grande
cane
con
il
suo
piccolo
padrone
.
Sull
'
attaccapanni
era
appesa
la
giacca
di
Carnera
:
vasta
come
un
paltò
.
Di
sotto
il
letto
,
spuntavano
le
famosissime
scarpe
del
gigante
,
che
per
qualche
tempo
furono
celebri
come
le
scarpe
di
Charlot
.
I
vetri
erano
socchiusi
:
l
'
estate
torrida
.
Il
nudo
colosso
era
depilato
scrupolosamente
:
la
mano
untuosa
del
cinese
correva
sul
torace
,
sul
ventre
,
sulle
cosce
,
sulle
reni
.
La
stanza
era
piccola
:
sembrava
che
i
piedi
del
gigante
la
occupassero
tutta
.
Sapevo
la
sua
storia
ed
era
inutile
me
la
facessi
ripetere
.
Al
paese
,
un
pane
scarsissimo
,
come
in
tante
case
delle
Prealpi
friulane
.
A
dodici
anni
,
un
biglietto
di
terza
classe
,
l
'
indirizzo
di
un
cugino
in
un
villaggio
delle
Lande
francesi
.
Il
colossale
ragazzo
friulano
aveva
ripercorso
la
strada
che
vent
'
anni
prima
era
stata
familiare
a
Gabriele
D
'
Annunzio
quando
cantava
press
'
a
poco
così
:
«
Ascolto
il
grido
della
procellaria
/
nel
vento
della
Landa
solitaria
...
»
.
Ma
il
grido
delle
procellarie
non
interessava
il
ragazzo
:
egli
non
udiva
altro
che
il
grido
,
molto
più
insistente
,
dell
'
appetito
.
Mosaicista
,
legnaiolo
,
manovale
,
muratore
:
nessun
mestiere
gli
dava
abbastanza
da
sfamarsi
.
Alla
meglio
,
masticò
qualche
lenta
parola
di
francese
,
con
una
voce
cupa
e
gutturale
.
Aveva
ossa
colossali
da
uomo
delle
caverne
:
ma
rivestite
di
poca
carne
.
Il
padrone
di
un
baraccone
disse
.
«
A
forza
di
zappa
,
lo
farò
ingrassare
e
ne
farò
un
numero
che
sbalordirà
tutti
i
villaggi
delle
Lande
e
della
Guascogna
»
.
Così
,
fiutando
come
un
cane
randagio
un
calderone
di
minestra
,
il
ragazzo
,
vagabondo
da
un
cantiere
all
'
altro
,
trova
la
sua
strada
che
lo
porta
alle
tende
delle
baracche
e
dei
circhi
.
Alla
sera
,
nelle
luci
dell
'
acetilene
,
sta
in
fila
con
gli
altri
lottatori
sulla
pedana
della
baracca
.
soia
a
stando
di
due
palmi
tutti
i
compagni
.
In
pochi
mesi
tocca
i
centotrenta
chili
e
supera
di
parecchio
i
due
metri
di
statura
.
Un
futuro
corazziere
?
No
.
Non
potrebbe
farlo
perché
ha
i
piedi
appiattiti
dal
peso
che
su
essi
sovrasta
.
A
vedere
quei
torace
,
là
,
sul
letto
d
'
albergo
di
Barcellona
,
non
si
poteva
far
a
meno
di
dire
:
«
Questo
è
certamente
l
'
uomo
più
forte
del
mondo
»
.
Il
Padreterno
s
'
era
tolto
il
capriccio
di
fare
venire
al
mondo
una
statua
.
Dalla
cintola
in
su
,
Carnera
era
un
capolavoro
della
creazione
.
Quel
«
sacco
di
patate
»
era
degno
di
Fidia
,
di
Giove
,
dei
Ciclopi
.
Si
deve
a
quel
torace
se
il
mondo
ha
avuto
il
«
romanzo
Carnera
»
,
la
sua
strana
storia
di
Tarzan
tante
volte
gabbato
dai
piccoli
uomini
furbi
,
colossale
e
-
dicevano
i
saggi
-
incapace
di
cattiveria
,
ibrido
di
semidio
e
di
disgraziato
,
imbarcato
sull
'
altalena
della
vita
che
,
una
volta
,
lo
portava
verso
la
ricchezza
e
,
un
'
altra
volta
,
giù
nella
miseria
,
costretto
sempre
a
risalire
faticosamente
.
Vinse
a
Barcellona
.
Rivinse
Per
lui
,
si
mosse
anche
Mussolini
.
L
'
Italia
ebbe
in
questo
emigrante
friulano
dalla
voce
gutturale
e
dal
mento
«
senza
grinta
»
,
senza
volontà
in
un
tempo
di
«
mascelle
volitive
»
il
suo
unico
campione
del
mondo
.
Poi
,
il
ko
,
í
lestofanti
che
lo
abbandonano
dopo
aver
fatto
volatilizzare
i
suoi
guadagni
,
persino
un
periodo
di
immobilità
per
una
paralisi
,
e
il
lento
,
affranto
risollevarsi
e
di
nuovo
la
povertà
del
vagabondo
che
vende
per
le
strade
,
davanti
a
un
tavolino
pieghevole
,
bustine
di
lamette
da
barba
.
Adesso
,
con
il
catch
ammaestrato
,
pare
abbia
fatto
nuovamente
fortuna
.
StampaQuotidiana ,
Racconta
un
vecchio
collega
bolognese
:
«
Me
lo
ricordo
,
come
fosse
adesso
.
Antonio
Cervi
era
un
uomo
buono
,
cordiale
,
sempre
di
buon
umore
.
Una
vera
eccezione
,
vederlo
preoccupato
.
Per
questo
non
mi
sono
passati
di
mente
i
giorni
dell
'
ultima
settimana
dell
'
aprile
del
1901
.
Non
si
poteva
dire
che
Antonio
Cervi
fosse
di
malumore
,
ma
certamente
non
era
il
solito
Cervi
.
Finalmente
si
sfogò
con
me
.
"
Sto
aspettando
,
di
giorno
in
giorno
,
che
mi
nasca
un
bambino
.
Ora
,
maschio
o
femmina
che
sia
,
non
vorrei
che
mi
combinasse
lo
scherzo
di
nascere
la
sera
di
una
'
prima
'
'
.
Lo
so
che
è
difficile
farglielo
capire
,
ma
bisognerebbe
che
lo
sapesse
subito
.
Se
uno
è
figlio
di
un
critico
drammatico
,
non
si
nasce
mai
la
sera
di
una
'
prima
'
"
»
.
Antonio
Cervi
-
il
suo
pseudonimo
era
quello
,
un
po
'
misterioso
,
di
Gace
,
che
,
secondo
quanto
ricorda
il
figlio
Gino
,
ma
che
ignorano
i
dizionari
,
dovrebbe
essere
un
personaggio
della
Mitologia
-
era
critico
drammatico
del
«
Resto
del
Carlino
»
.
Il
piccolo
Gino
«
obbedì
»
.
Il
3
maggio
del
1901
non
c
'
era
nessuna
«
prima
»
né
al
Teatro
Brunetti
,
né
al
Corso
,
ne
al
Contavalli
,
né
al
Nazionale
che
aveva
proprio
in
quel
tempo
lasciato
l
'
antico
bizzarro
nome
di
Teatro
della
Nosadella
,
né
all
'
Arena
del
Sole
.
Antonio
Cervi
poté
dunque
restare
a
casa
e
ricevere
dalla
levatrice
l
'
annuncio
:
«
È
un
bel
maschio
!
»
.
Gino
Cervi
è
dunque
l
'
unico
attore
che
sia
figlio
di
un
critico
drammatico
.
Suo
padre
lo
fu
per
trentaquattro
anni
,
dal
1889
al
1923
.
Rincasava
nel
pieno
della
notte
,
alle
tre
e
alle
quattro
del
mattino
.
Entrava
in
punta
di
piedi
per
non
svegliare
i
bambini
.
Stava
ancora
un
po
'
sveglio
,
per
leggere
il
giornale
di
cui
aveva
portato
a
casa
una
delle
prime
copie
fresche
di
inchiostro
.
Alla
mattina
,
erano
i
bambini
,
che
per
andare
a
scuola
,
dovevano
uscire
in
punta
di
piedi
.
A
mezzogiorno
,
all
'
ora
dei
tortellini
,
il
papà
parlava
di
quanto
aveva
sentito
a
teatro
la
sera
avanti
:
esprimeva
certe
opinioni
che
nel
giornale
erano
state
attenuate
o
velate
.
Per
non
rovinare
le
Compagnie
,
i
critici
dei
giornali
importanti
non
potevano
divertirsi
al
gioco
del
massacro
,
mordendo
e
sbriciolando
a
destra
e
a
sinistra
.
Anche
allora
si
diceva
che
il
teatro
era
«
in
crisi
»
.
Le
Compagnie
primarie
erano
una
quarantina
,
sempre
con
non
meno
di
una
trentina
di
attori
scritturati
;
quelle
secondarie
un
'
ottantina
e
un
centinaio
quelle
di
terz
'
ordine
.
L
'
Italia
aveva
una
popolazione
viaggiante
di
45
mila
attori
e
attrici
.
Bologna
era
la
loro
segreta
capitale
,
come
si
dice
che
Gonzaga
,
presso
Mantova
,
sia
quella
degli
zingari
.
Gino
respirò
sempre
teatro
.
Subito
dopo
le
aste
-
in
quell
'
anno
fu
portato
in
braccio
a
vedere
i
funerali
di
Carducci
-
imparò
a
leggere
sulle
colonne
del
«
Resto
del
Carlino
»
,
per
la
curiosità
di
sapere
che
cosa
scrivesse
suo
padre
.
Imparò
il
significato
di
certe
frasi
:
«
reiterati
applausi
,
recitazione
incisiva
,
palesi
segni
di
dissenso
,
bene
gli
altri
»
.
Imparò
presto
alcuni
nomi
assai
difficili
:
Shakespeare
,
Marivaux
,
Bjørnstjerne
Bjørnson
,
Portoriche
.
Sognava
i
teatri
come
regge
misteriose
,
con
i
palchetti
dorati
,
con
le
poltrone
di
velluto
rosso
.
In
casa
erano
familiari
i
nomi
di
Panzacchi
,
di
Lipparini
,
di
Olindo
Guerrini
,
di
Testoni
sulle
cui
ginocchia
il
piccolo
Gino
aveva
ballato
.
Accompagnando
il
padre
a
spasso
,
Gino
-
polpacci
nudi
,
giubba
alla
marinara
col
fischietto
nel
nodo
della
cravatta
-
entrava
nella
libreria
di
Zanichelli
.
Ogni
tanto
Antonio
si
fermava
a
parlare
con
un
grosso
uomo
dall
'
aspetto
di
timido
campagnolo
vestito
di
nero
.
Era
Giovanni
Pascoli
.
Di
Carducci
si
parlava
come
di
un
Nume
scomparso
fra
le
nuvole
ma
sempre
misteriosamente
presente
.
Antonio
Cervi
,
al
cui
cuore
cordiale
era
stata
sempre
cara
la
parte
del
paciere
,
era
riuscito
a
riconciliare
Carducci
con
D
'
Annunzio
-
non
c
'
erano
mai
stati
veri
attriti
,
ma
certe
diffidenze
sì
-
nel
famoso
banchetto
in
cui
,
avendo
Carducci
offerto
il
vino
a
D
'
Annunzio
,
questi
aveva
detto
:
«
Grazie
...
Non
bevo
mai
...
»
il
Leone
di
Maremma
aveva
risposto
un
po
'
bruscamente
:
«
Io
,
sempre
!
»
.
Bologna
,
era
amica
del
teatro
fin
dal
Seicento
,
quando
ogni
famiglia
patrizia
aveva
un
suo
piccolo
palcoscenico
,
in
casa
Zoppio
,
in
casa
Pepoli
,
in
casa
Casali
,
all
'
accademia
degli
Ardenti
o
dei
Riaccesi
.
Nel
Settecento
,
c
'
era
stato
un
teatro
persino
nel
Palazzo
del
Podestà
.
I
patrizi
avevano
le
loro
sale
da
spettacolo
anche
nelle
ville
sui
colli
.
Per
quella
privata
della
famiglia
Albergati
,
che
ospitava
durante
l
'
estate
tutto
il
patriziato
bolognese
,
Goldoni
scrisse
cinque
commedie
,
fra
le
quali
Il
cavaliere
di
spirito
e
l
'
Osteria
della
Posta
.
Perché
gli
attori
volevano
bene
a
Bologna
?
C
'
erano
camere
,
alloggi
,
locande
a
poco
prezzo
.
Le
padrone
di
casa
erano
cordiali
,
socievoli
,
aspettavano
molto
pazientemente
l
'
affitto
,
magari
da
un
anno
all
'
altro
.
Le
porzioni
di
fettuccine
erano
abbondantissime
.
La
popolazione
amava
passeggiare
fino
a
notte
tarda
,
certi
caffè
erano
aperti
fino
all
'
alba
.
Alla
legione
degli
attori
,
delle
attrici
,
dei
generici
e
delle
attricette
si
aggiungevano
gli
innumerevoli
filodrammatici
.
Ogni
tanto
questi
ultimi
organizzavano
tournées
nei
centri
anche
più
minuscoli
della
provincia
,
sino
al
Po
e
fino
in
Romagna
,
e
rinforzavano
il
loro
complesso
chiamando
a
parteciparvi
qualche
attore
di
più
larga
esperienza
.
Anche
Gino
,
mentre
studiava
greco
al
liceo
-
suo
padre
era
stato
inflessibile
per
il
greco
e
per
il
latino
-
bazzicava
la
filodrammatica
del
Circolo
degli
impiegati
civili
.
Fu
l
'
Arena
del
Sole
il
primo
teatro
dove
,
bambino
,
una
domenica
Gino
Cervi
debuttò
come
spettatore
:
uscendo
,
vide
al
caffè
quel
grande
e
melanconico
vecchio
attore
,
oscillante
fra
il
genio
e
la
follia
,
che
fu
Enrico
Capelli
:
in
gioventù
Amleto
quasi
impareggiabile
,
e
,
in
vecchiaia
,
ridotto
a
tale
povertà
e
trasandatezza
da
tingersi
i
capelli
con
qualche
spazzolata
di
lucido
da
scarpe
.
All
'
Arena
del
Sole
si
assisteva
agli
spettacoli
in
maniche
di
camicia
.
Se
una
commedia
non
piaceva
,
i
cuscini
volavano
dalle
gradinate
fino
alla
ribalta
.
Negli
intervalli
gli
spettatori
si
passavano
il
fiasco
di
Sangiovese
,
la
bottiglia
di
lambrusco
,
bevendo
a
canna
.
Fu
in
quel
teatro
che
il
«
figlio
del
critico
»
,
entrato
con
la
tessera
del
padre
,
vide
da
ragazzo
Zacconi
e
Ruggeri
,
come
aveva
visto
nel
1914
,
dal
loggione
del
Brunetti
,
Sarah
Bernhardt
che
recitava
ancora
ad
onta
di
una
gamba
amputata
.
Studente
universitario
,
Cervi
avrebbe
forse
fatto
l
'
avvocato
o
sarebbe
entrato
un
giorno
o
l
'
altro
al
«
Resto
del
Carlino
»
se
la
morte
del
padre
nel
1923
non
lo
avesse
lasciato
libero
di
decidere
del
suo
destino
.
Fu
un
altro
attore
bolognese
che
veniva
lui
pure
dai
filodrammatici
,
Nerio
Bernardi
-
il
cui
vero
nome
era
quello
antico
e
dottorale
di
Irnerio
-
a
dirgli
,
come
si
fa
con
chi
deve
imparare
a
nuotare
:
«
Buttati
!
»
.
E
fu
così
che
,
seguendo
quel
consiglio
,
lo
scolaro
,
cui
Lipparini
aveva
fatto
tante
volte
declamare
al
liceo
l
'
Ode
al
Clitumno
e
il
Canto
di
un
pastore
errante
,
diventò
attore
,
debuttando
nella
Vergine
folle
di
Bataille
,
accanto
ad
Alda
Borelli
.
Un
anno
dopo
era
a
Roma
,
cercava
sulla
guida
dove
si
trovasse
una
ignota
via
dove
si
stava
aprendo
un
nuovo
piccolo
teatro
,
il
primo
dei
futuri
«
Piccoli
Teatri
»
d
'
Italia
.
Trovò
là
dentro
un
gruppo
di
suoi
coetanei
che
,
già
prima
di
iniziare
gli
spettacoli
,
si
dibattevano
in
un
labirinto
di
debiti
:
ma
a
capo
di
quei
ragazzi
c
'
era
un
signore
con
la
barbetta
già
quasi
bianca
che
Cervi
aveva
già
visto
,
una
volta
,
come
autore
,
alla
ribalta
dell
'
Arena
del
Sole
.
Il
vecchio
signore
era
Luigi
Pirandello
.
Quella
attraverso
la
quale
,
in
vicolo
Odescalchi
,
entrava
il
giovane
figlio
del
critico
bolognese
poteva
sembrare
una
porta
assai
piccola
.
Cervi
,
figlio
di
un
uomo
che
tanto
intelligentemente
aveva
amato
e
servito
il
teatro
,
si
accorse
che
era
la
porta
grande
di
una
intelligenza
rinnovatrice
.
StampaQuotidiana ,
Ad
un
certo
momento
del
suo
«
concerto
»
,
si
rivolge
al
pubblico
e
dice
:
«
Non
bisogna
stupirsi
se
un
uomo
con
i
capelli
grigi
canta
una
canzone
in
onore
della
mamma
...
»
.
Maurice
Chevalier
ha
sessantadue
anni
,
sua
madre
deve
vivere
da
un
pezzo
nella
pace
del
Signore
,
la
buona
donna
di
Menilmontant
che
aveva
messo
al
mondo
dieci
figli
di
cui
,
quando
nacque
Maurice
,
tre
soli
erano
vivi
.
La
ribalta
è
tutta
ornata
di
rose
,
di
garofani
,
di
violette
.
Sulla
sagoma
nera
del
grande
pianoforte
a
coda
spicca
,
posata
lì
dopo
la
prima
canzone
,
l
'
ormai
storica
paglietta
dello
chansonnier
.
Gli
applausi
sono
fitti
,
molte
le
richieste
di
bis
,
molti
i
saluti
ai
refrains
già
noti
e
ritrovati
come
vecchi
amici
.
Ma
a
me
più
di
tutto
,
mentre
Chevalier
canta
la
Prière
in
onore
della
mamma
,
piace
ricordare
proprio
la
singolare
infanzia
di
questo
ultimo
«
birichino
di
Parigi
»
,
degno
di
entrare
in
un
romanzo
di
Louis
-
Henri
Boussenard
forse
più
che
in
uno
dei
foschi
«
documentari
»
di
Zola
.
Straordinaria
vita
,
un
po
'
dickensiana
,
quella
del
ragazzetto
di
Menilmontant
che
,
finite
le
scuole
elementari
,
è
messo
a
faccia
a
faccia
con
la
vita
,
fra
gli
ospedali
dove
viene
ricoverata
sua
madre
e
gli
artigiani
dai
quali
dovrebbe
apprendere
un
mestiere
che
una
volta
è
quello
dell
'
elettricista
,
una
volta
quello
del
pittore
di
bambole
e
,
infine
,
quello
di
operaio
specializzato
a
fabbricare
puntine
da
disegno
.
La
madre
la
chiamavano
la
Louque
e
s
'
era
ridotta
anche
ad
andare
a
servizio
ad
ore
,
nelle
case
dei
vicini
:
i
ragazzi
cercavano
di
guadagnare
qualcosa
.
Maurice
pensò
,
con
il
fratello
,
di
diventare
acrobata
,
finché
a
dodici
anni
imparò
a
memoria
qualche
canzone
.
Storia
forse
non
nuova
,
simile
,
probabilmente
,
a
quella
di
tanti
altri
artisti
,
a
cominciare
,
per
dirne
una
,
da
quella
del
nostro
Petrolini
,
garzone
macellaio
della
romana
piazza
Guglielmo
Pepe
;
ma
straordinaria
sempre
quando
si
stabilisca
il
rapporto
tra
il
punto
di
partenza
e
il
punto
di
arrivo
,
una
conquista
del
pubblico
che
dura
ormai
da
quasi
mezzo
secolo
.
Maurice
ha
i
capelli
grigi
e
quasi
addirittura
argentei
ed
è
ancora
la
vedette
numero
uno
del
music
-
hall
internazionale
,
in
quella
singolare
costellazione
del
teatro
minore
dove
la
musica
non
è
musica
e
dove
l
'
attore
non
è
attore
ma
dove
,
talvolta
,
si
va
più
in
là
del
bel
canto
e
della
bella
recitazione
.
Il
suo
stile
è
fatto
di
schiettezza
,
di
franchezza
,
di
disinvoltura
.
Chevalier
è
la
negazione
dell
'
Uomo
Fatale
,
del
Bellissimo
,
dell
'
Adone
1900
.
Se
si
volesse
trovargli
un
'
assomiglianza
,
egli
si
potrebbe
identificare
con
quel
tipo
«1910»
che
sorprese
la
nostra
infanzia
dagli
avvisi
pubblicitari
dei
primi
rasoi
di
sicurezza
,
quell
'
antico
giovanotto
che
si
radeva
allegramente
davanti
ad
una
finestra
aperta
e
che
suscitava
l
'
ammirazione
di
noi
ragazzi
,
figli
di
una
generazione
che
usava
ancora
,
per
quanto
di
nascosto
,
il
piegabaffi
e
una
pomata
ungherese
per
appuntirli
e
profumarli
.
La
sua
carnagione
ha
il
colorito
sanguigno
dei
gaulois
autentici
:
quello
di
Lucien
Dietrich
e
del
suo
amico
Dédé
Leducq
,
maglia
gialla
del
Tour
1931
.
È
francese
ma
non
assomiglia
a
Menjou
;
non
ha
nulla
di
untuoso
,
di
gommoso
,
di
cerimonioso
:
potrebbe
esser
tutto
(
magari
Fantomas
)
,
ma
mai
un
cameriere
o
un
danseur
mondano
cui
mettere
una
mancia
in
mano
.
La
sua
vena
guascone
è
sottilissima
,
il
boulevard
non
lo
ha
corrotto
.
Chevalier
si
è
presentato
per
la
prima
volta
al
pubblico
a
dodici
anni
,
esattamente
nel
1900
,
con
in
testa
un
berrettuccio
da
ciclista
,
monello
di
periferia
.
Era
un
figlio
del
popolo
,
un
ragazzo
della
strada
,
di
una
delle
sperdute
avenuer
dove
nasceva
la
Parigi
industriale
.
Erano
i
tempi
in
cui
Parigi
era
la
regina
del
teatro
,
i
tempi
della
Réjane
,
della
Lavallière
,
di
Guitry
.
Tristan
Bernard
aveva
la
barba
nera
,
Alfred
Capus
il
monocolo
con
il
nastro
di
seta
e
Abel
Hermant
non
aveva
ancora
scritto
I
Transatlantici
.
Erano
i
tempi
della
piena
gloria
degli
chansonniers
Mayol
e
Bruant
:
nelle
boites
di
Montmartre
si
ricordavano
ancora
gli
anni
in
,
cui
le
parole
per
le
canzonette
venivano
scritte
da
Maurice
Donnay
,
l
'
autore
degli
Amanti
.
Chevalier
debutta
con
il
secolo
,
con
quel
1900
che
oggi
fa
sorridere
con
il
ricordo
della
sua
Esposizione
Universale
.
Mezzo
secolo
di
vita
teatrale
è
passato
davanti
agli
occhi
e
al
sorriso
dell
'
antico
monello
di
Parigi
,
ultima
incarnazione
di
Gavroche
.
Nel
suo
bagaglio
di
canzoni
,
stanno
i
canti
vissuti
fra
due
guerre
,
resistendo
al
jazz
e
opponendo
le
ruote
dei
mulini
a
vento
di
Montmartre
alle
sagome
dei
grattacieli
americani
.
Queste
canzoni
parlano
quasi
tutte
d
'
amore
come
le
novelle
di
Maupassant
:
per
questo
non
invecchiano
e
non
fanno
invecchiare
Maurice
.
StampaQuotidiana ,
Il
poeta
è
morto
la
sera
del
primo
marzo
del
1938
,
alle
19.55
.
Da
un
paio
di
giorni
non
si
sentiva
bene
,
ma
non
voleva
riconoscerlo
.
Aveva
settantacinque
anni
.
L
'
uomo
aveva
goduto
di
una
salute
di
ferro
,
piccolo
,
magro
,
muscoloso
,
alieno
dal
vino
e
dal
fumo
.
Una
sola
volta
aveva
provato
a
fumare
,
ad
Arcachon
,
e
si
era
sentito
male
.
Ai
liquori
dava
nomi
pittoreschi
ma
non
li
beveva
.
Mangiava
poco
,
aveva
sempre
mangiato
poco
.
La
sua
tavola
da
pranzo
,
al
Vittoriale
,
nel
lato
dell
'
edificio
costruito
da
Gian
Carlo
Maroni
,
ha
una
apparenza
fastosissima
,
con
una
tovaglia
lumeggiata
d
'
oro
e
coperta
da
infiniti
ninnoli
preziosi
.
Questa
tavola
non
vide
quasi
mai
il
poeta
a
pranzo
o
a
cena
.
I
suoi
digiuni
non
nascevano
da
un
particolare
ascetismo
,
ma
dalla
volontà
di
tenere
il
cervello
sgombro
,
di
non
rendere
opaca
l
'
intelligenza
con
le
fatiche
della
digestione
,
che
avevano
,
diceva
,
fatto
appisolare
persino
gli
Apostoli
.
Mangiava
spesso
nello
studio
dell
'
ultimo
piano
,
dove
si
chiudeva
alle
volte
per
intere
settimane
.
Una
cameriera
,
chiamata
a
seconda
degli
umori
con
il
nome
di
«
fante
»
o
di
«
suora
»
,
gli
passava
attraverso
la
porta
un
vassoietto
e
tornava
di
lì
a
poco
a
prenderlo
,
sempre
attraverso
lo
spiraglio
.
Capitava
spesso
che
non
ci
fosse
nulla
per
l
'
ospite
arrivato
all
'
improvviso
.
Era
dunque
un
uomo
sano
e
ancora
robusto
per
la
sua
età
.
Quando
venne
a
Milano
per
correggere
le
bozze
delle
Faville
,
volle
provarsi
nella
lotta
greco
-
romana
con
un
giovane
giornalista
che
era
andato
a
visitarlo
.
Il
giovanotto
sentì
,
sotto
le
sue
mani
,
muscoli
ancora
pronti
e
forti
.
Molte
chiacchiere
erano
state
fatte
su
malattie
di
cui
avrebbe
dovuto
soffrire
.
I
suoi
medici
di
Salò
che
lo
sottoposero
in
varie
occasioni
ad
analisi
e
radioscopie
potevano
testimoniare
il
contrario
.
Le
sue
radiografie
e
la
sua
cartella
clinica
esistono
ancora
,
e
certificano
che
il
sangue
era
perfetto
,
il
cuore
perfetto
,
i
polmoni
perfetti
.
Era
malato
,
se
mai
,
del
male
della
clausura
:
era
il
male
della
melanconia
di
un
uomo
che
aveva
trasformato
in
abitudine
l
'
antica
volontà
di
isolarsi
dal
mondo
per
lavorare
.
Anche
negli
ultimi
anni
,
quando
il
suo
lavoro
cessò
di
essere
creativo
,
egli
passava
infinite
ore
allo
scrittoio
,
in
una
atmosfera
irrespirabile
.
Le
sue
stanze
,
d
'
inverno
,
erano
sempre
riscaldate
a
trenta
gradi
,
prima
con
grandi
stufe
di
terracotta
e
infine
con
termosifoni
,
che
si
spegnevano
solamente
in
maggio
.
Passava
talvolta
intere
settimane
e
mesi
senza
uscire
dalle
sue
stanze
,
dove
nascondeva
le
sue
irritazioni
e
le
sue
melanconie
.
Era
triste
anche
di
sentirsi
invecchiare
e
di
dover
confessare
,
come
aveva
fatto
in
una
nota
del
Notturno
nel
1921
,
che
i
suoi
pensieri
,
come
quelli
di
Michelangelo
,
erano
tutti
carichi
di
morte
.
Mentre
in
gioventù
non
aveva
mai
usato
,
per
lavorare
,
altro
eccitante
che
il
digiuno
,
anche
di
caffè
non
aveva
mai
abusato
,
invecchiando
non
seppe
evitare
qualche
eccitante
che
mani
malevole
gli
porgevano
.
Un
paio
di
anni
prima
di
morire
poté
disintossicarsi
del
tutto
.
Fu
più
alacre
e
persino
più
lieto
.
Le
visite
si
erano
fatte
ormai
rare
.
D
'
Annunzio
non
aveva
voglia
di
farsi
vedere
invecchiato
.
Anche
i
suoi
messaggi
erano
meno
frequenti
.
Il
telegrafo
di
Gardone
lavorava
sempre
meno
,
il
cannone
della
nave
Puglia
tuonava
di
rado
e
il
mas
di
Buccari
restava
placidamente
ancorato
nella
sua
darsena
.
Leggere
gli
costava
molta
fatica
,
e
si
temeva
anche
che
l
'
unico
occhio
superstite
si
indebolisse
definitivamente
.
D
'
Annunzio
era
stato
sempre
un
uomo
di
grande
coraggio
.
Di
una
sola
persona
aveva
paura
:
del
dentista
.
Si
può
dire
senza
offendere
la
sua
memoria
,
poiché
non
si
parla
dell
'
adolescente
bellissimo
negli
anni
di
Isaotta
Guttadauro
ma
del
vecchio
settantacinquenne
chiuso
nella
silenziosa
villa
di
Gardone
,
che
il
mal
di
denti
era
stato
uno
dei
fastidi
maggiori
della
vecchiaia
di
D
'
Annunzio
.
Un
dentista
di
Salò
era
riuscito
a
preparare
il
calco
per
un
apparecchio
che
gli
avrebbe
consentito
di
mangiare
senza
fatica
-
il
poeta
non
mangiava
mai
alla
presenza
di
ospiti
perché
non
voleva
mostrare
come
gli
fosse
faticoso
masticare
-
ma
l
'
apparecchio
non
fu
mai
fatto
perché
D
'
Annunzio
dichiarò
alla
fine
che
non
si
sarebbe
mai
adattato
a
portarlo
.
La
morte
venne
dunque
improvvisa
,
preceduta
solo
da
qualche
lieve
malessere
al
quale
D
'
Annunzio
non
volle
dare
importanza
.
Gian
Carlo
Maroni
,
l
'
architetto
del
Vittoriale
,
aveva
insistito
inutilmente
perché
l
'
amico
si
facesse
visitare
da
un
medico
.
D
'
Annunzio
aveva
risposto
chiudendosi
in
studio
.
Maroni
,
quelle
notti
,
che
furono
le
ultime
di
una
convivenza
e
di
una
amicizia
durata
diciassette
anni
,
le
passava
nella
poltrona
di
una
stanza
adiacente
alla
camera
da
letto
dove
D
'
Annunzio
era
agitato
dall
'
insonnia
.
Una
cameriera
era
incaricata
di
vigilare
durante
il
giorno
,
non
vista
,
su
quello
che
il
poeta
faceva
.
D
'
Annunzio
passò
le
ultime
ore
del
pomeriggio
del
primo
marzo
nel
grande
studio
al
primo
piano
,
quello
del
mappamondo
,
con
le
pareti
coperte
di
libri
fino
al
soffitto
.
Le
finestre
,
al
solito
,
erano
oscurate
.
In
quelle
stanze
si
viveva
sempre
alla
luce
artificiale
.
Verso
le
sette
,
il
poeta
passò
nello
studiolo
che
precede
la
camera
da
letto
.
È
una
piccola
stanza
con
grandi
antichi
armadi
usati
anche
come
guardaroba
personale
.
C
'
è
un
piccolo
tavolo
dove
spesso
D
'
Annunzio
si
soffermava
per
qualche
lavoro
.
Su
quel
tavolo
c
'
erano
e
ci
sono
ancora
dei
vasi
pieni
di
penne
,
di
matite
e
scatolette
che
contengono
i
sigilli
di
carta
dorata
a
rilievo
con
i
quali
chiudeva
le
lettere
.
Nel
cassetto
di
un
armadietto
sono
ancora
i
rotoli
dei
nastri
con
i
colori
di
Fiume
,
azzurri
e
rossi
,
che
il
poeta
usava
per
i
pacchi
dei
doni
che
amava
fare
agli
ospiti
.
Non
mancavano
la
carta
assorbente
e
il
calamaio
.
Al
Vittoriale
non
era
mai
entrata
,
almeno
per
l
'
uso
personale
del
poeta
,
una
macchina
da
scrivere
.
D
'
Annunzio
la
odiava
così
come
odiava
il
telefono
.
Una
volta
aveva
dichiarato
che
considerava
un
'
ingiuria
il
consiglio
di
usare
il
dictaphon
.
Era
contrario
ad
ogni
forma
di
trascrizione
meccanica
della
voce
e
non
aveva
quasi
mai
acconsentito
che
il
cinema
sonoro
registrasse
la
sua
parola
.
D
'
Annunzio
sedette
al
tavolo
.
Forse
di
lì
a
poco
avrebbe
chiamato
la
«
fante
»
per
farsi
portare
da
mangiare
.
La
«
fante
»
,
che
lo
«
spiava
»
da
una
delle
camere
vicine
lo
vide
con
il
braccio
appoggiato
al
tavolino
,
in
un
atteggiamento
che
non
dava
adito
ad
alcuna
preoccupazione
.
Su
quel
tavolino
c
'
era
e
c
'
è
ancora
il
vecchio
lunario
del
Barbanera
che
D
'
Annunzio
,
per
il
suo
amore
delle
vecchie
tradizioni
abruzzesi
,
aveva
voluto
che
,
come
ogni
anno
,
fosse
comprato
all
'
inizio
del
1938
.
Al
primo
marzo
il
lunario
annunciava
la
morte
di
un
grande
uomo
.
Mancavano
dieci
minuti
alle
otto
,
quando
la
cameriera
si
sentì
chiamare
,
D
'
Annunzio
voleva
un
bicchiere
d
'
acqua
.
Gli
fu
portato
.
Non
disse
nulla
e
bevve
.
La
donna
si
accorse
di
qualcosa
d
'
insolito
nell
'
aspetto
del
«
padrone
»
,
come
il
senso
di
una
grave
fatica
.
Il
respiro
era
basso
e
affannoso
,
Maroni
accorse
.
Il
poeta
aveva
reclinato
la
testa
sul
tavolo
e
stava
per
cadere
dalla
sedia
.
Fu
sostenuto
e
portato
sul
letto
della
camera
accanto
.
Maroni
stesso
gli
fece
immediatamente
due
iniezioni
di
olio
canforato
.
Ma
il
cuore
del
poeta
che
aveva
dato
voce
ad
Aligi
era
già
spento
,
senza
dolore
.
Pochi
minuti
dopo
l
'
arciprete
della
chiesa
di
San
Nicolò
,
don
Fava
,
entrava
al
Vittoriale
per
dare
l
'
assoluzione
alla
spoglia
del
poeta
.
D
'
Annunzio
si
era
molte
volte
lamentato
in
vita
che
le
campane
della
chiesa
,
a
Gardone
,
suonavano
troppo
a
lungo
e
aveva
cercato
di
frenare
gli
scampanii
con
elemosine
per
i
poveri
.
Alle
otto
in
punto
,
il
vecchio
campanaro
Valentino
cominciò
a
suonare
a
morto
.
StampaQuotidiana ,
Era
di
quasi
un
anno
o
forse
di
due
superiore
per
età
al
suo
futuro
marito
,
la
duchessina
Maria
di
Gallese
,
quando
conobbe
Gabriele
d
'
Annunzio
,
che
allora
,
in
fatto
di
titoli
araldici
,
aveva
solamente
quello
del
tutto
immaginario
di
Duca
Minimo
con
il
quale
firmava
le
note
di
cronaca
mondana
sulla
appena
nata
«
Tribuna
»
di
Roma
.
La
fama
aveva
già
accarezzato
la
fronte
,
ancora
aureolata
di
riccioli
biondi
,
dell
'
autore
delle
Novelle
della
Pescara
e
di
Primo
Vere
,
che
distribuiva
uno
per
uno
i
ricordi
dei
suoi
giovanili
amori
romani
,
in
parte
veri
e
in
parte
immaginari
,
nei
versi
morbidissimi
e
qua
e
là
lussuosamente
torbidi
di
Isaotta
Guttadauro
.
Gabriele
era
allora
,
soprattutto
,
poeta
d
'
amore
,
teso
a
spiare
le
veneri
agresti
d
'
Abruzzo
e
quelle
,
vestite
di
raso
e
velluto
,
delle
alcove
eleganti
di
Roma
.
Piccolo
di
statura
,
ma
bello
nel
volto
,
ornatissimo
nella
parola
,
e
indicato
già
,
nell
'
età
in
cui
gli
altri
giovani
si
affannano
sui
banchi
dell
'
università
,
come
il
poeta
destinato
a
raccogliere
lo
scettro
della
poesia
in
Italia
,
i
parenti
di
Maria
di
Gallese
furono
certamente
imprudenti
a
sceglierlo
per
dare
qualche
lezione
di
letteratura
italiana
alla
giovane
e
bellissima
duchessina
di
cui
si
voleva
completare
l
'
educazione
.
In
pochi
giorni
,
alternando
la
lettura
dei
classici
del
Trecento
e
del
Cinquecento
con
qualche
passeggiata
fra
le
antichità
di
Roma
,
o
alla
quercia
del
Tasso
o
alla
tomba
di
Cecilia
Metella
-
si
sa
che
le
«
passeggiate
»
sono
state
uno
dei
migliori
punti
di
partenza
per
la
poesia
di
D
'
Annunzio
-
i
due
si
trovarono
romanticissimamente
innamorati
.
Come
in
un
romanzo
,
la
giovane
patrizia
si
era
innamorata
di
un
giovane
,
ricco
solo
della
sua
poesia
e
di
qualche
piccolo
bene
familiare
a
Pescara
,
severamente
custodito
dal
padre
Don
Francesco
e
dalla
madre
Donna
Luisa
.
Quella
del
poeta
era
una
famiglia
borghese
,
di
piccoli
proprietari
terrieri
e
di
armatori
di
paranze
abruzzesi
.
La
madre
di
Maria
,
dopo
avere
sposato
un
duca
di
Gallese
che
non
le
aveva
dato
figli
,
si
era
unita
con
un
giovane
ufficiale
francese
,
venuto
a
Roma
con
gli
Zuavi
che
Napoleone
III
aveva
mandato
a
difendere
Pio
IX
:
l
'
ufficiale
si
chiamava
Hardouin
.
Lo
stesso
Pontefice
si
era
interessato
per
la
buona
riuscita
del
secondo
matrimonio
.
Maria
apparteneva
dunque
a
quella
che
si
chiamava
ancora
l
'
aristocrazia
nera
,
papalina
.
La
distanza
sociale
fra
i
due
innamorati
era
grande
.
Gabriele
,
futuro
sterminatore
di
cuori
femminili
,
la
superò
di
un
balzo
,
come
se
si
fosse
trattato
,
per
lui
volontario
di
un
anno
in
Cavalleria
,
di
superare
al
galoppo
una
staccionata
in
una
prateria
dell
'
Agro
romano
.
Disse
a
Maria
:
«
Fuggiamo
!
»
.
Maria
acconsentì
e
preparò
la
fuga
.
Allora
non
si
fuggiva
più
a
cavallo
,
né
si
poteva
ancora
fuggire
in
automobile
.
I
due
fidanzati
segreti
si
trovarono
in
un
treno
fumoso
,
alla
stazione
Termini
,
su
un
vagone
diretto
a
Firenze
.
Messa
facilmente
la
polizia
sulle
loro
tracce
,
furono
scovati
in
una
stanza
d
'
albergo
con
le
finestre
sull
'
Arno
.
I
Gallese
sembra
volessero
far
arrestare
il
rapitore
;
ma
si
lasciarono
indurre
a
consigli
più
miti
e
acconsentirono
che
la
fuga
,
anche
perché
Maria
era
ormai
maggiorenne
,
si
concludesse
con
un
matrimonio
.
Il
primo
figlio
si
chiamò
Mario
,
il
secondo
Veniero
,
il
terzo
e
ultimo
-
assomigliò
più
di
tutti
alla
madre
bellissima
,
ma
ebbe
dalla
sorte
un
dono
umano
che
era
stato
forse
'
negato
tanto
al
suo
grande
padre
poeta
quanto
a
sua
madre
,
quello
della
mitezza
mesta
e
melanconica
dell
'
animo
-
si
chiamò
Gabriellino
.
Maria
Hardouin
di
Gallese
,
principessa
di
Montenevoso
,
non
amava
riandare
al
suo
passato
,
al
suo
lontanissimo
passato
.
Parlando
di
suo
marito
non
diceva
«
mio
marito
»
,
ma
«
Gabriele
»
.
Lo
diceva
con
una
voce
apparentemente
indifferente
,
straordinariamente
fresca
per
la
sua
età
,
quasi
avesse
parlato
di
un
estraneo
.
Probabilmente
la
figura
del
marito
aveva
voluto
da
moltissimi
anni
cancellarla
dal
ricordo
:
collocando
al
suo
posto
l
'
immagine
di
un
amico
di
cui
aveva
conosciuto
,
certamente
come
nessun
'
altra
,
le
virtù
e
i
difetti
.
Gli
anni
dell
'
unione
giovanile
non
erano
stati
né
felici
né
facili
.
Maria
era
donna
tale
da
poter
amare
,
ma
non
certamente
da
lasciarsi
dominare
da
un
uomo
né
per
debolezza
,
né
per
vanità
,
né
per
tornaconto
.
Gabriele
non
aveva
né
la
forza
morale
né
la
fedele
schiettezza
amorosa
per
essere
totalmente
un
buon
marito
e
un
buon
padre
di
famiglia
:
assomigliava
troppo
ai
suoi
personaggi
per
poter
esserlo
.
Maria
di
Gallese
era
,
invece
,
il
contrario
dei
personaggi
dannunziani
:
il
suo
sangue
per
metà
francese
,
un
sano
sangue
provinciale
francese
,
la
faceva
fiera
,
sanamente
realista
,
contraria
alla
retorica
,
più
facile
,
anche
negli
ultimissimi
anni
,
all
'
ironia
che
alle
pose
di
donna
fatale
.
La
sua
eleganza
era
autentica
,
quanto
forse
era
di
dubbio
gusto
quella
di
Gabriele
:
anche
l
'
eleganza
del
suo
spirito
.
Capì
di
non
poter
sbarrare
il
passo
al
marito
,
che
correva
dietro
ad
ogni
tentazione
,
né
voleva
seguirlo
,
lei
donna
francesemente
«
pratica
»
,
nelle
sue
esperienze
economicamente
pericolose
di
un
po
'
smemorato
«
signore
delle
lettere
»
.
Gabriele
non
pensava
,
se
non
a
tratti
e
con
lunghe
amnesie
,
all
'
educazione
dei
figli
.
I
suoi
amori
extraconiugali
facevano
parte
delle
cronache
mondane
d
'
ogni
giorno
.
Gli
anni
che
la
coppia
di
così
differenti
caratteri
passò
nella
casa
al
numero
2
di
via
Gregoriana
-
in
un
appartamentino
al
quarto
piano
con
un
balcone
che
dominava
il
palazzotto
dello
Zuccari
dove
Gabriele
immaginava
vivesse
il
protagonista
del
Piacere
-
furono
tormentati
da
una
disillusione
di
cui
Maria
non
fece
forse
mai
colpa
diretta
al
poeta
quanto
a
se
stessa
,
per
essersi
lasciata
illudere
.
Il
distacco
avvenne
gradualmente
,
senza
esser
mai
totale
dal
punto
di
vista
dell
'
amicizia
,
che
sopravvisse
,
se
pur
di
lontano
,
se
pure
quasi
solamente
attraverso
alle
lettere
,
finché
il
poeta
,
vecchio
,
confermò
,
dopo
tante
esperienze
,
di
voler
avere
vicino
,
come
la
più
spiritualmente
rispettata
delle
compagne
,
la
donna
cui
,
in
lontanissimi
tempi
,
aveva
dato
l
'
amore
dei
venti
anni
.
Di
tutto
questo
Maria
d
'
Annunzio
parlava
poco
:
si
può
dire
,
anzi
,
che
non
parlasse
mai
.
Non
ignorava
certamente
che
la
sua
vita
non
lieta
di
moglie
del
poeta
era
notissima
.
Le
vicende
sentimentali
di
suo
marito
appartengono
alla
storia
letteraria
e
alla
storia
di
una
delle
più
singolari
esperienze
umane
.
Non
era
certamente
il
caso
di
conversare
con
lei
di
inganni
grandi
e
piccoli
per
cercare
di
indovinare
quali
potevano
essere
state
e
quali
potevano
essere
ancora
le
sue
reazioni
innanzi
a
certi
nomi
celeberrimi
che
,
se
non
nel
cuore
,
certo
nella
vita
di
Gabriele
avevano
pesato
molto
.
Spostando
la
propria
figura
dal
piedistallo
di
moglie
a
quello
di
amica
così
come
aveva
saputo
signorilmente
fare
da
moltissimi
anni
,
essa
poteva
vivere
indifferentemente
fra
le
immagini
,
molte
delle
quali
diventate
poesia
,
di
altre
donne
nelle
quali
,
forse
eternamente
innamorato
solo
di
se
stesso
,
Gabriele
,
come
Narciso
,
s
'
era
eternamente
specchiato
.
Per
questo
aveva
potuto
serenamente
incontrarsi
con
lui
,
quando
egli
l
'
aveva
chiamata
al
Vittoriale
,
e
considerarsi
,
in
una
villa
a
lei
destinata
nel
parco
,
la
sua
ospite
amica
che
tutto
sapeva
e
tutto
,
se
non
perdonato
,
aveva
compatito
.
La
sua
vita
,
dopo
il
distacco
dal
marito
,
era
stata
per
molto
tempo
difficile
.
A
Roma
aveva
vissuto
per
molti
anni
in
un
piccolo
appartamento
di
piazza
di
Spagna
,
mettendo
a
frutto
,
per
vivere
,
la
sua
perizia
nel
ritrovare
,
scegliere
e
ordinare
le
belle
cose
antiche
.
Non
aveva
,
Donna
Maria
,
come
del
resto
i
figli
,
certamente
gravato
sui
bilanci
spesso
disordinati
del
poeta
.
Solo
dopo
la
morte
di
lui
aveva
ricevuto
un
vitalizio
sui
suoi
diritti
d
'
autore
e
l
'
usufrutto
perenne
della
villa
Mirabella
entro
il
secondo
recinto
del
Vittoriale
.
Aveva
finito
per
lasciare
anche
la
sua
ultima
dimora
romana
,
una
pensione
in
una
traversa
di
via
Veneto
,
per
vivere
la
metà
dell
'
anno
a
Gardone
e
l
'
altra
metà
a
Parigi
,
dove
suo
figlio
Veniero
,
con
i
suoi
guadagni
di
ingegnere
in
America
,
le
aveva
comperato
e
donato
un
appartamentino
vicino
all
'
Etoile
.
Ad
onta
della
tardissima
età
viaggiava
da
sola
e
a
Parigi
viveva
sola
,
dopo
che
le
era
morta
,
sotto
ad
un
bombardamento
,
una
fedele
cameriera
.
Durante
la
occupazione
tedesca
non
aveva
voluto
restare
sul
lago
di
Garda
,
preferendo
,
a
ottant
'
anni
di
parecchio
passati
,
vivere
in
solitudine
nella
città
dei
suoi
avi
francesi
.
Al
suo
ritorno
aveva
saputo
che
la
sua
casa
di
Gardone
era
stata
abitata
da
una
tragica
creatura
:
da
Claretta
Petacci
,
che
di
lì
era
partita
per
andare
alla
morte
.
Aveva
detto
:
«
È
destino
che
io
,
senza
romanzo
,
viva
accanto
ai
romanzi
!
»
.
Era
stata
bellissima
,
come
testimoniava
,
alla
Mirabella
,
un
grande
ritratto
dipinto
da
La
Gandara
che
D
'
Annunzio
vi
aveva
fatto
collocare
come
per
dire
che
quella
casa
era
della
donna
che
non
aveva
mai
dimenticato
.
Aveva
sorriso
,
la
vegliarda
infaticabile
,
quando
le
era
stato
mostrato
un
volume
francese
intitolato
Paris
,
mon
coeur
nel
quale
quel
ritratto
era
riprodotto
per
far
conoscere
il
«
tipo
ormai
classico
della
donna
francese
,
dell
'
elegante
parigina
dei
tempi
di
Maurice
Donnay
e
di
Paul
Bourget
»
.
Pur
nella
tardissima
età
,
sottile
nella
figura
,
rapida
e
leggera
nel
passo
,
con
i
capelli
colorati
di
rosso
e
pettinati
come
quelli
delle
donne
di
Boldini
,
la
si
vedeva
andar
in
su
e
in
giù
,
a
piedi
,
per
i
sentieri
della
collina
del
Vittoriale
,
veramente
simile
,
nella
figura
,
a
quelle
ormai
tramontate
immagini
che
ispiravano
un
tempo
il
concetto
dell
'
alta
e
scintillante
aristocrazia
.
Attendeva
da
anni
serenamente
la
morte
,
ma
intanto
parlava
della
vita
come
di
un
bene
che
non
si
sarebbe
esaurito
mai
.
Fissava
convegni
e
viaggi
a
distanza
di
mesi
e
di
anni
,
e
intanto
,
fermandosi
in
un
certo
angolo
del
parco
,
pensava
anche
a
quella
che
poteva
essere
la
sua
ultima
dimora
.
Comprendeva
,
nella
sua
fierezza
di
gran
dama
,
di
non
poter
chiedere
d
'
essere
seppellita
vicino
al
marito
,
dopo
tanti
trascorsi
che
avevano
per
quarant
'
anni
annebbiata
la
loro
unione
.
Aveva
indicato
,
per
sé
,
un
angolo
del
parco
e
un
sarcofago
di
pietra
come
quelli
nei
quali
Gabriele
aveva
chiuso
le
spoglie
dei
suoi
legionari
:
ma
diceva
che
doveva
essere
ornato
,
a
mosaico
,
con
i
profili
di
due
pavoni
.
Amava
viaggiare
,
ma
ogni
volta
,
quando
partiva
per
Parigi
o
per
Charleville
,
la
patria
del
poeta
Rimbaud
,
dove
aveva
parenti
e
amici
fedeli
,
lasciava
ad
una
persona
fidata
,
confermando
così
il
suo
istinto
di
donna
ordinata
e
pratica
come
sono
quasi
sempre
le
francesi
,
una
busta
con
il
denaro
che
considerava
potesse
essere
all
'
improvviso
necessario
per
riportarla
,
morta
,
in
patria
.
La
sua
vitalità
era
sempre
stata
straordinaria
.
Aveva
una
attenzione
estrema
nel
non
rivelare
i
suoi
anni
.
Nel
1882
,
quando
conobbe
il
diciannovenne
D
'
Annunzio
,
sembra
che
la
duchessina
fosse
già
maggiorenne
.
Lo
era
già
,
in
ogni
modo
,
nel
1883
,
quando
si
sposò
.
Per
la
sua
età
,
dunque
,
bisognava
tirare
a
indovinare
,
facendo
oscillare
il
pendolo
fra
i
novantadue
delle
opinioni
ottimiste
e
i
novantacinque
dei
«
pessimisti
»
.
La
primavera
scorsa
,
ospitata
in
una
clinica
di
Riva
del
Garda
,
aveva
dichiarato
,
in
tono
di
celia
,
di
avere
sessantacinque
anni
:
e
nessuno
aveva
osato
contraddirla
perché
le
sue
risposte
potevano
essere
sferzanti
.
Sette
anni
or
sono
,
mi
aveva
tenuto
un
po
'
il
broncio
perché
,
scrivendo
dopo
la
morte
del
figlio
suo
Gabriellino
,
avevo
parlato
di
lei
come
di
una
«
vecchia
signora
»
.
Doveva
essere
già
allora
vicino
agli
ottantasette
anni
.