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> autore_s:"Vergani Orio"
Beniamino Gigli ( Vergani Orio , 1957 )
StampaQuotidiana ,
Qual è l ' anno di nascita di un tenore ? È quello del giorno in cui , nascendo , manda i primi strilli , la prima voce di pianto alla luce ? O è l ' altro , del misterioso giorno in cui egli scopre , in se stesso , la prima gioia del canto ? Lo domandai tre o quattro anni fa , a Beniamino Gigli . Avevo appuntamento con lui , nella sua villa di Roma , per una intervista . Lo avevo udito infinite volte , ma non lo avevo conosciuto mai : e non ero contento di scrivergli e di chiedergli quell ' intervista . Il tema di questo « servizio » era stato suggerito da una notizia : Beniamino Gigli aveva annunciato di dover mettere fine alla propria carriera . Era stanco e probabilmente era già molto ammalato . Il suo cuore era ammalato e - tragico a dirlo - il grande tenore sapeva di essere , in un certo senso , la tomba della propria voce . Il corpo , gli occhi , il pensiero , l ' animo erano vivissimi : ma la voce era ormai costretta a tacere , profondamente sigillata dalla catena delle arterie affaticate . Uno sforzo per sprigionarla poteva voler dire la morte . Di tutto ciò , naturalmente , nella intervista non si sarebbe parlato . Io ero un poco nella situazione del medico che deve sempre sorridere davanti all ' ammalato . Dovevo « mentire » con lui , sorridere contraddicendo ad una sua eventuale melanconia , mostrarmi sicuro di un suo « ritorno » . Ero un giornalista : non un confessore . Scrivere ? Sì : avrei scritto ; ma pensando che lui , l ' intervistato , avrebbe letto le mie parole . Queste , per non allarmarlo , avrebbero dovuto essere tutte « color di rosa » : piene di una purezza e di una certezza che non potevano assolutamente trovare un logico spazio nel mio animo , dopo quanto alcuni intimi mi avevano rivelato sulla verità delle sue condizioni . La villa di Gigli doveva essere stata costruita venticinque anni prima , in un quartiere non ancora affollato . Era , se ben ricordo , costruita in uno stile fra quattrocentesco e cinquecentesco , come s ' era usato per tanti anni , con riflessi di architettura bramantesca . Era una casa solida , « ricca » . All ' ingresso si saliva per una scaletta esterna di taglio un po ' romantico , tipo « Giulietta e Romeo » . L ' espandersi della città l ' aveva un po ' soffocata . Lontano si sentiva lo stridore dei tram . Per il viale correva un fiume di automobili e non c ' era una « zona del silenzio » attorno alla casa dell ' uomo dalla « voce di oro » . Il giardino aveva vialetti inghiaiati : una lunga siepe di piante fiorite lo divideva dalla strada . Queste ville , troppo grandi , troppo « impegnative » per una famiglia sola , di solito siamo abituati a vederle trasformate in cliniche private di lusso . Ebbi anche questo pensiero triste quando mi trovai davanti al cancelletto dove , su una targhetta d ' ottone , era inciso il nome del più famoso , del massimo interprete del melodramma italiano . Gigli mi aspettava in giardino , seduto su una poltrona di giunco , collocata vicino alla romantica scaletta . Erano con lui alcuni amici . Un cane stava quieto quieto accovacciato sulla ghiaia . Il tenore aveva perduto la floridezza del volto e della figura , per quanto apparisse ancora massiccio . C ' era qualcosa di stanco nelle sue guance , nel collo , negli stessi abiti , come se il corpo si fosse all ' improvviso infiacchito . Era autunno , ma un autunno estremamente mite . Dietro alla siepe si sentivano , sul marciapiede , voci di ragazzini e ragazzine che correvano sui pattini a rotelle . Gigli parlava con voce piuttosto bassa , come vigilando per non affaticarsi . Lo guardavo in viso : le guance nascondevano a mala pena un tono cinerino : la sclerotica dell ' occhio era troppo bianca . Il respiro non appariva faticoso ; ma la sua voce non aveva gaiezza . Mi spiegò che tutta la mattina aveva parlato con la moglie di Ignazio Silone che l ' aiutava nella stesura , in lingua inglese , delle sue memorie per un editore di Londra . Disse : « Divento scrittore , come lei vede ... segno che il tenore è stanco ... » . Poi , mi spiegò con termini quasi tecnici quale sia il problema del respiro , per un cantante : « Si dice che cantiamo con il cuore . È vero , e il cuore è , di me , il primo ad affaticarsi . Ma non rida ! Cantiamo soprattutto con il ventre . È il diaframma che lavora come un mantice : è lui , più che i polmoni , a regolare la potenza e la durata dei respiri e a calibrare i fiati ... Il cuore è un po ' stanco , e il diaframma è come un organista che non sa più regolare l ' afflusso dell ' aria nei mantici . Io di organi me ne intendo . Mio padre era sagrestano a Recanati : io cominciai da bambino a cantare , in chiesa , vicino all 'organo...» . La data di nascita della voce ? « Se , come dice , un tenore nasce quando per la prima volta scopre la gioia del canto , lei non mi ringiovanisce troppo . Sono nato nel 1890 , secondo l ' anagrafe : cinque o sei anni più tardi , secondo la musica ... Come vede , di annetti ne ho abbastanza , sia in un senso che nell 'altro...» . Aveva la bella , ampia , pacata pronuncia dei marchigiani . Glielo feci notare , benché l ' osservazione fosse ovvia , essendo lui nato a Recanati . Aggiunsi : « Sa cosa ho pensato ? Che Leopardi , bambino , doveva avere la stessa pronuncia del piccolo Beniamino Gigli ... » . Sorrise : e commentò : « Oggi ho tutt ' al più la voce del papà di Leopardi , del vecchio conte Monaldo ! » . Aveva cominciato a cantare da bambino . Da chi aveva ereditato la voce ? Disse : « Non lo so : ma penso spesso di averla ereditata da mia mamma . Quand ' ero piccino , ogni sera , prima di mettermi a letto , mi faceva cantare una canzoncina paesana , che in un certo modo serviva anche da ninnananna . Mi aiutava a spogliarmi e , quando restavo in camicia , cantavo : S ' io fossi una formica queste mura vorrei varcar , le varcherei senza paura , la mia bella a riveder . A questo punto era mia mamma che attaccava , con una voce piccolina , ma soave e melodiosa : La mia mamma è una contessa il mio babbo un cavaliere . E poi si finiva cantando , insieme : Ed io povera meschinella son rinchiusa in monaster . Vuol saperlo ? Adesso che i medici mi hanno proibito di cantare , almeno per parecchio tempo , e sono come un vecchio pensionato , quando vado a letto , a bassa voce per non svegliare nessuno , prima di coricarmi , canto ancora : Ed io , povera meschinella son rinchiusa , in monaster ... Come vede , fra il monastero e la casa di un tenore che non può più cantare non c ' è , in verità , una grande differenza ... » . Si parlò della povertà di quand ' era bambino : ma ne parlava come si parla di una favola lontana : come delle storie di Puccettino . Il padre sagrestano arrotondava la sua magra paga facendo il ciabattino : con sette figli c ' era poco da scherzare . Probabilmente , quando il figlio fu mandato a sette anni alla Schola Cantorum di Recanati , sulla decisione contribuì il fatto che ogni prestazione dei piccoli cantori era ricompensata con dieci centesimi , con due soldi che Beniamino portava a casa nella tasca del grembiule . Ma nessuno in casa si illudeva che quella paga potesse mai aumentare ; per questo , a dieci anni lo avviarono ad un mestiere più « serio » , affidandolo ad un falegname . Per ore e ore , Beniamino scaldava il pentolino della colla e sceglieva i chiodi , nel cassetto . Era arrivato , in un paio di anni , a saper lavorare di pialla . Sua madre pensò ad un mestiere più pacifico e il piccolo Beniamino passò nella bottega di un sarto , e di qui , come garzoncello , nella farmacia di Recanati . Fu il tempo in cui Beniamino imparò a pesare i cartocci di bicarbonato , a preparare l ' elisir di china , a versare l ' oncia , o le due once di olio di ricino nei bicchieri portati dalle madri di famiglia che dovevano purgare i loro figli . Disse : « Ho appreso allora molti nomi delle medicine che mi fanno inghiottire adesso » . La storia del suo debutto è nota e risale al 1905 . Lo scoprirono alcuni studenti di Macerata . Mettevano su , per carnevale , una specie di piccola rivista che aveva anche una parte femminile . A Macerata non c ' era nessuna signorina - erano tempi di grande prudenza - che osasse partecipare ad uno spettacolo goliardico . Uno degli studenti parlò di un ragazzo che cantava a Recanati con una voce perfetta di soprano . Partirono , convinsero Beniamino a interpretare la parte di Angelica nella rivistina che si intitolava La fuga di Angelica . Vestito da ragazza in piquet bianco , con castissimo sottanone lungo sino a coprire i piedi , la testa coperta da un parruccone che pareva fatto con la stoppia del grano turco , Gigli ebbe il suo primo trionfo . Il sogno del teatro non doveva abbandonarlo più . La voce di « fanciulla » stava per scomparire e al suo posto nasceva una bella voce di tenore . La famiglia si indebitò per mandare il ragazzo a studiare , a Roma : la spesa del viaggio e del trasferimento - sessanta lire per lui e per il fratello Catervo che sarebbe andato a bottega da uno scultore marchigiano - sembrò folle . I due ragazzi « sbarcarono » a Roma con qualche provvista alimentare nella valigia . Il pane a Beniamino non sarebbe mancato perché un farmacista romano aveva accettato di assumerlo come fattorino - commesso . La leggenda di Gigli si inizia in un dedalo di viuzze romane ; tante ore al giorno in farmacia , dal momento in cui sollevava le saracinesche fino a quello in cui le chiudeva : un lavoro paziente nella retrobottega , a impastar pillole e a preparare pastiglie per la tosse . Alla sera , cinque piani di scale per andare da una vecchia cantante che gli dava le lezioni . A quei tempi si studiava ancora il canto per sette , otto , nove anni : sembra non ne occorressero di meno per diventare padroni della voce . Gigli mi disse : « Dovrebbe essere così anche oggi » . Finché venne , nel 1912 , il tempo di andare ad un corso di perfezionamento , all ' Accademia di Santa Cecilia , dal maestro Cotogni . A questo punto parlai io , per dire che proprio in un giorno di uno di quegli ultimi due anni di studio , lo avevo sentito cantare accompagnato al piano da Cotogni . Gli raccontai come io fossi salito un giorno lassù , al terzo piano dell ' Accademia in via dei Greci , per accompagnare Vittorio Podrecca che era segretario dell ' Accademia e che , come tale , doveva infatti controfirmare il diploma al termine degli studi . Ascoltare le lezioni era proibito , ma Vittorio Podrecca sapeva che , a me , suo nipote , era noto il passato di Antonio Cotogni . Il vecchio baritono aveva quasi ottant ' anni , era stato il primo interprete del Don Carlos di Verdi : Verdi aveva pianto quando l ' ignoto baritono trasteverino era andato a Sant ' Agata a cantare la romanza del marchese di Posa . Io volevo vedere chi « aveva fatto piangere Verdi » . Mi avevano detto che , durante le lezioni , qualche volta Cotogni accennava ancora qualche battuta di canto . Chissà ! I sogni dei ragazzini sono singolari : forse speravo di lagrimare anch ' io , al suono di quella voce . Era estate , nei giorni che precedevano gli esami : e Roma , dalle finestre dell ' ultimo piano del palazzo di via dei Greci , era già torrida . L ' estate d ' oro batteva sui vecchi tetti del Babuino e di via Margutta : il bastione del Pincio saliva come un sipario antico con le sue ghirlande di verde . Io ero appiattato dietro ad una porta , nell ' ombra di un corridoio . Nella sala Antonio Cotogni stava al pianoforte : vedevo le sue solide spalle , i suoi tenui capelli bianchi , la « voglia » bruna che gli macchiava una tempia . Vicino a lui stava un giovane basso e forte , in maniche di camicia , cui il maestro aveva permesso di slacciare il colletto inamidato . Era lo « studente Gigli » che si preparava a ripassare una delle romanze dell ' esame . Cosa avrebbe cantato ? O paradiso dell ' Africana ? Celeste Aida ? Spirto gentil ? Che gelida manina ? Cantò la romanza di Edgardo nella Lucia di Lammermoor . Al vecchio tenore , seduto nella sua melanconica poltrona di giunco , avrei dovuto dirgli che ricordavo benissimo le prime parole di quella romanza . Ma davanti al suo volto così segretamente velato di grigio , davanti agli occhi dalla sclerotica troppo bianca , non ebbi l ' animo di riferire quel verso melanconico che dice Tombe degli avi miei ... Temetti per la sua melanconia : e mentii : « Non mi dimenticherò mai , caro Gigli , come ha battuto il mio cuore di ragazzo di quattordici anni quando lei ha attaccato Che gelida manina . Gigli sorrise come preso nel ricordo di quel canto d ' amore . Taceva .