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«Lascia o raddoppia?» ( Vergani Orio , 1958 )
StampaQuotidiana ,
Nel mio mestiere di « spettatore pagato » , di cronista teatrale , l ' unica poltrona comoda è quella da cui , in casa mia , assisto al solo spettacolo per il quale io pure sono spettatore pagante . In quella poltrona , che nelle altre ore accoglie , per ormai riconosciuto dominio , i riposi del mio cane , anch ' io , a mio modo , mi acciambello , spettatore senza bretelle e senza cravatta : mi crogiolo nell ' ozio , padre di pigri pensieri : il cane si accovaccia ai miei piedi , come nelle antiche statue , emblema della fedeltà , e ogni tanto , più per farsi ricordare che per vera smania della sua giovane candida dentatura , mordicchia delicatamente una mia pantofola . Me ne sto , come si diceva nell ' Ottocento , in panciolle . Ho vicino un posacenere che , dal bracciolo della poltrona , la mia mano può raggiungere descrivendo appena un decimo o un dodicesimo di semicerchio : e , se il segnale dell ' inizio di Lascia o raddoppia ? ha affrettato la fine del pranzo , ho vicino a me , in una bonaria natura morta , il bicchiere , l ' ultimo modesto « gotto » serale di vino . Come per milioni di italiani Lascia o raddoppia ? ha sostituito per me , una volta alla settimana , il caminetto , con le sue quiete fantasie covate nello spettacolo della fiamma e della brace , ha sostituito quelli che , al tempo dei nonni , erano gli interminabili romanzi di appendice con i loro colpi di scena con i loro puntini di sospensione , con il loro « Il seguito a domani » . Lascia o raddoppia ? è uno dei pochi giochi che , nella sua elementarità , non susciti , verso i suoi personaggi , invidie e che non ci spinga sul sentiero della malignità . Mike Bongiorno va e viene per casa nostra , e anche per casa mia , come fosse il figlio , che abbiamo visto crescere , del nostro vicino di pianerottolo : ci sembra addirittura , ormai , di averlo visto bambino pedalare sul triciclo dell ' onomastico . Avevamo per molto tempo dubitato che quel simpatico ragazzino potesse trovare la sua strada , nella vita , con quel suo futuro volto da « primo impiego » . Quanto a Edy Campagnoli , vorremmo dire che abbiamo visto anche lei crescere sulle nostre scale , pupetta , scolaretta con le caldarroste nel grembiule , e , alla fine , bella ragazza che ci è sembrato tante volte di intravedere dietro ai cristalli di un negozio di profumeria ? No . Con la Campagnoli , come con le giovani donne in genere , le vie della confidenza sono più difficili : ogni donna ha il suo tout petit mystère : ogni donna sta al centro di un piccolo o grande labirinto : la sua scarsa eloquenza iniziale non era quella della Sfinge e non ci aiutava a conoscerla : il suo garbo discreto era per noi simile a quello di una bella giovane infermiera di un dentista che assista con un « sorriso di giacinto » all ' estrazione di un nervo da un dente cariato . Personaggi di casa dunque : anche il notaio , laggiù ; anche gli assistenti al tavolo di fondo , un po ' incolori ; anche i valletti , esattamente neutri . Personaggi di un romanzo a dispense che ad ogni capitolo regala milioni , attraverso quei gettoni d ' oro che nelle fotografie sembrano dischetti di cartone senza peso . Lascia o raddoppia ? è un gioco castissimo : i décolletés , che hanno invaso anche le copertine dei libri gialli , vi sono rigorosamente esclusi : resteranno memorabili i gesti con cui la Campagnoli ha coperto con una mano lo scollo , una sera che dovette chinarsi a raccattare qualcosa , e quello con cui evitò che , a puntarle un distintivo sul petto , si avvicinasse la mano di un concorrente . Spettacolo castissimo . Spettacolo che talvolta sfiora una periferia dickensiana , più spesso quella di Sans famille di Hector Malot , talvolta quella dell ' ottocentesco Volere è potere tratto da Carattere dell ' inglese Smiles , libro educativo che un poco zuppificò , un poco esaltò l ' infanzia di tanti miei coetanei . Davanti al vecchio problema se sia l ' arte che imita la vita , o la vita che imita l ' arte , il gioco della televisione allinea i suoi concorrenti come i personaggi di una bibliotechina , prevalentemente rosea , nella quale , di volta in volta , troviamo personaggi alla Fucini e alla Paolieri , certi toni alla Guareschi o addirittura delle settecentesche pièces larmoyantes . Certe volte una paginetta di Carolina Invernizio o di Anna Vertua Gentile : altre volte un po ' di Tutta Frusaglia : certi contadini toscani discesi pari pari da un capitolo di Ildefonso Nieri , gastronomi alla Jarro , esperti di teatro che risalgono agli atti unici dialettali di Gino Rocca . Lascia o raddoppia ? ha avuto persino in qualche personaggio il riflesso di certi capitoli di Moravia . Ha avuto i suoi testardi , i suoi caparbi , i suoi litigiosi , i suoi misantropi molieriani : persino l ' americano gentile come lo sognano molte ragazze . Pírandello è il grande assente : Mike Bongiorno sta cercando in questi giorni di creare , attraverso un concorrente siciliano , un personaggio del Musco minore con qualche sommesso accenno al « gallismo » di Brancati . Immensa , forse troppo abbondante la schiera dei « figli di Emilio Colombo » , il Pindaro del pedale e del gol , guidati dal lungocrinito Lauro Bordin .
Zarah Leander ( Vergani Orio , 1948 )
StampaQuotidiana ,
È una donna ancora molto bella , Zarah Leander . Anche se la prima giovinezza sta staccandosi se pure molto dolcemente da lei , il suo volto ne ha acquistato un rilievo drammatico profondo . I suoi occhi sono stati e sono molto famosi , leggendariamente inquietanti . Ieri sera al Mediolanum , eccoli gli occhi di questa signora vestita di bianco che , quasi immobile davanti al microfono , cantava alcune canzoni in francese e in svedese . Non sono occhi particolarmente grandi , o particolarmente splendenti . Il loro colore , nella piena luce della ribalta , è mescolato d ' oro cupo e di qualche nota azzurra . Sono occhi difficili da raccontare : occhi d ' attrice come li vide un tempo , intensi , De Nittis in Sarah Bernhardt e Albert Besnard in Réjane : occhi un poco distanti e dallo sguardo raramente afferrabile . Anche Colette ha di questi occhi vibrati , fatti più per la malinconia che per il sorriso : occhi , direi , da confessione drammatica . Il canto di Zarah Leander è , come il suo sguardo , vibrato . È il canto in tono di contralto di una dicitrice dalla concitata veemenza , quasi virile , che in certi momenti spalanca brutalmente le porte sulla verità . Una voce inattesa per il nostro orecchio latino abituato alle tonalità canore definite e a un modellato delle parole meno rapinoso e meno sferzante . Raquel Meller - arrivata anche lei venticinque anni fa , alla fine della prima guerra mondiale , al music - hall dopo le esperienze del cinema - aveva nel canto la stessa virtù plastica , anche se la musica della Violetera , che fu la sua grande creazione , era di sentimenti meno neo - realisti di quelli delle canzoni francesi che la Leander canta come in un soliloquio di disperata confessione femminile , così come si può immaginare che una donna parli solo quando è sicura di essere assolutamente sola .
Leo Longanesi ( Vergani Orio , 1959 )
StampaQuotidiana ,
Il mio primissimo ricordo di Longanesi risale lontano , ai tempi , attorno al 1925 , di una gita notturna da Bologna a Ferrara . Quanti anni aveva ? Una ventina . Non credo avesse terminato gli studi regolari : era piccolo di statura - i tre « piccoli » di Roma , quando vi si trasferì , erano , con lui , il pittore Bartoli e il pittore Maccari , che allora si arrangiava a far della modesta « cucina » giornalistica - , aveva , nel viso pallido di autodidatta , due occhi che sembravano pronti solamente all ' ironia o alla rissa . Il braccio , entro la manica dell ' abito scuro , lo sentii solido : la mano gentile , ma , nella stretta , dura . In sei dentro l ' automobile che ci portava a Ferrara con gran rumore di ferraglia e inquietanti sobbalzi , non s ' era sentito parlare che lui , il ragazzaccio seduto su uno strapuntino . A Ferrara ci aspettava l ' Alfonsa , un ' ostessa che pareva la sorella dell ' Esopo di Velázquez , cucinando una salama da sugo e , sulla soglia dell ' osteria , un candido ottuagenario , il professor Agnelli che qualche decennio prima aveva ricevuto dalle mani di Giosuè Carducci l ' autografo dell ' ode che dice : «...o Ferrara bella ne la splendida ora d ' Aprile - : ama il memore sole tra solitaria pace ... » ; avvenimento che aveva reso tremulo e orgoglioso per tutta la vita il buon umanista ferrarese . Subito dopo la salama da sugo , il vecchio professore ci aveva portato davanti al palazzo della Biblioteca , aveva tirato fuori un mazzo di chiavi , ci aveva fatto salire al primo piano alla luce di una lanterna cieca , e , aperto con una minuscola chiavetta un armadio vetrato , ne aveva tirato fuori un ' ampolla entro la quale galleggiava in un misterioso liquido brodoso , un « precordio » , il cuore di Vincenzo Monti . Apparizione macabra che il ventenne bolognese mi commentò con un furtivo colpo di gomito . Letterato , in quegli anni , Longanesi non lo era affatto e , del resto , non lo fu mai : ma , fra i primi libri che aveva pubblicato , Dio sa a costo di quali debiti e di quali prestiti che gli faceva la mamma , c ' era stato un volume di Bacchelli , litteratissimo . Pittore non era - le sue prime caricature avevano ancora una grafia studentesca - ma aveva « scoperto » Giorgio Morandi . Anche come artista grafico era alle prime esperienze : aveva stampato , a sedici anni , una rivistina con la copertina di carta azzurrina , di quelle leggere e lievemente spugnose , che si usavano per stampare i « pianeti » della fortuna . Aveva meno di vent ' anni ed era in corrispondenza con Ardengo Soffici . Si era salvato , per la minore età , dal contagio di certo futurismo provinciale . Non era ancora nato all ' epoca dei trionfi di De Carolis e di Sartorio . Sua mamma l ' aveva messo al mondo in tempo sicuro per salvarlo dalle suggestioni del michelangiolismo e del liberty . Quando buona parte dei ragazzi italiani che prendevano la penna in mano pitigrilleggiavano , Longanesi aveva probabilmente letto gli elzeviri di Alfredo Oriani ritagliati da suo padre nel « Carlino » . Nel suo mondo non c ' era nessun residuo di « pascoliamo » , nessuna tendenza all ' intenerimento e alla poetica melanconia professionale dei minori pascoliani . Questo straordinario improvvisatore maturò alla letteratura molto lentamente , intento , prima di tutto , a scoprire il proprio mondo e la scala dei suoi sentimenti e il suo talvolta stridente movimento di contraddizioni . Intanto , la sua vocazione era soprattutto quella del lettore : non avendo la possibilità di scrivere « L ' Italiano » tutto da solo , trovò i suoi compagni e anche i suoi maestri , talvolta scrittori di una certa pigrizia : e gli uni e gli altri stimolava a scrivere , sino a creare sotto agli occhi della gente , senza che quasi nessuno in principio se ne accorgesse , non solo uno « stile Longanesi » ma addirittura una « scuola » che poteva portare il suo nome , quando , in pratica , egli non aveva scritto ancora che un piccolo mucchio di paginette quasi clandestine . Per non vivere a carico dei genitori che aveva trascinato a trasferirsi a Roma , si « arrangiava » in ogni maniera e in ogni mestiere affine alle Lettere , alla tipografia , alla Pittura , al Teatro . Disegnò anche , fra l ' altro , i caratteri per le scatole e le bustine di sigarette del Monopolio di Tripoli . Fra gli scrittori che s ' era portati avanti sottobraccio basterà ricordare Ansaldo , Buzzati , Soldati , l ' americano Furst . Ad ogni numero , l ' uscita dell ' « Italiano » era un ' avventura . Preso nel giro di cento tentazioni dell ' intelligenza , amico della discussione al caffè , fra nuvole di fumo di sigarette , seduto sul divano foderato di tela color pulce del vecchio Aragno dove s ' era spento l ' ultimo anelito della « Ronda » e dove Malaparte aveva inutilmente tentato di ridar vita a « La Voce » , Longanesi non ebbe forse mai il tempo di fare , della letteratura , un preciso mestiere di romanziere , di novelliere o di elzevirista . Questo amico , laudatore e resuscitatore di un Ottocento rivissuto in una nostalgia di ordine e di pulizia morale , non poteva trovare i suoi maestri fra gli scrittori dell ' ultimo e del medio Ottocento , che gli aveva dato il gusto della bella tipografia al di fuori dei canoni neoclassici del Bodoni , in un clima di stampa popolaresca e clandestina come era stata quella del '48 . Dove poteva trovare , se mai , questi maestri di un impressionismo e , più di tutto , di un dramma dell ' Ottocento ? Nelle conversazioni del Doctor Veritas , nelle critiche sapienti di Panzacchi , fra i moribondi di Palazzo Carignano di Petruccelli della Gattina ; fra le complicazioni etimologiche e il breve narcisismo del Dossi ; nei monologhi di Gandolin ; nelle arguzie bonarie di Jarro ; negli acquerelli di Anton Giulio Barrili ; nel Cantoni , in Rernigio Zena , nelle novelle di Camillo Boito ? Se mai qualche tono , forse senza averli letti , poteva avvicinarlo a certe pagine garibaldine di Nino Costa e di Eugenio Checchi e dell ' Abba . Purtroppo lo spettacolo che gli offriva la patria non aveva , dal punto di vista morale , molto di eccitante , ispirando piuttosto il dissidio , il dubbio , lo scatto d ' ira anche se la giovinezza induceva allo sforzo di credere . Per impegnarsi in una precisa opera narrativa gli mancava lo specchio di una società che avrebbe forse potuto fare di lui un piccolo Balzac , tanta si rivelò poi la forza concisa di certi ritratti di piccoli o di grassi borghesi . La sua ispirazione più diretta l ' aveva , mi sembra , da certe noie e melanconie di quella giornata ispiratrice di tutto un secolo di letteratura , che è la domenica : era la solitudine in cui si ritrovava con tanto spleen quest ' uomo facondo , dalla frenetica mimica , dall ' intenso gusto dell ' imitazione caricaturale che , in altri ambienti , avrebbe fatto di lui un vivacissimo attore . Ad osservarlo bene il suo mondo fu un mondo di rovine : Longanesi si muove in uno scenario di ruderi , che non sono quelli del Foro Romano fra cui si aggirava Goethe , ma che si rivelavano al suo occhio come i ruderi di una civiltà cosiddetta moderna , con cento tare e cento vizi : come se attorno gli fosse crollata la Roma di Corso Vittorio , di Via Cavour , di Piazza Termini , le architetture dei Ministeri e dei ponti falsamente trionfali sul Tevere . Letterato di « rovine » , come di rovine vere o immaginarie erano stati pittori e incisori , il Pannini e il Piranesi . Tra quei selci , fra quei cementi armati , fra le casupole di Via del Gambero e le grigie palazzate dei Lungotevere , correvano , galoppavano , si acquattavano nel polverone piccoli uomini dai cento sotterfugi e dalle mille vanità e bugie , falsamente rigorosi , segretamente lascivi . Non ebbe mai fretta di scrivere : aveva molto più fretta di insegnare e , in silenzio , per se stesso , di provarsi e di sperimentarsi . Forse più che nel largo « Museo Grevin » del costume e della storia politica , i suoi umori desolati ed amari si filtravano più essenziali in certe note di diari che avrebbero potuto far di lui il Renard italiano . La sua vita aveva avuto ore molto dure : si stava rifacendo le ossa a Milano che gli fu amica generosa : forse credeva di avere molto , moltissimo tempo davanti a sé . Si preparava , un giorno o l ' altro , a rimboccarsi le maniche , mandando , per le Lettere e per la Pittura , ogni altra cosa a carte quarantotto . Non si accorgeva di correre su una rotaia che , ad un certo punto , si interrompeva . Si trovò , senza più un battito del cuore , su una sedia del suo ufficetto di Via Bigli . Le idee di cento libri che avrebbe suggerito di scrivere ai suoi amici restarono ferme in quella sua pallida immobilità che sembrò tanto , tanto strana , tra pacchi di ingiallite fotografie del tempo umbertino e di antiche vignette di Costantin Guys e di Daumier .
Sofia Loren ( Vergani Orio , 1957 )
StampaQuotidiana ,
« Paride » , giudice di bellezza in una lontana stagione di Miss Italia , non mi accorsi di Sofia Scicolone , di Sofia Loren . Richiamato a darle un po ' di attenzione dal telegramma di un vecchio amico , alzai gli occhi verso di lei , le parlai , la misurai e la scrutai attentamente con lo sguardo , la fissai negli occhi , vidi - bisogna dirlo ? - le sue gambe , guardai la sua bocca , chiacchierai una mezz ' ora con lei , seduto su uno sgabello al bar del grande albergo , conclusi l ' incontro con questa melanconica e frettolosa considerazione : « Ecco un ' altra povera ragazza che si illude ... » . Non fui il solo a dire di no , sotto al velo del giudizio segreto , alla futura Sofia Loren . Disse di no anche un altro mio amico , un superesperto in fatto di selezione di belle donne , un « tecnico » . E altri dissero di no , finché il produttore cinematografico Mambretti , un milanese , propose una soluzione , per non mandar via troppo amareggiata la ragazza napoletana . Coniò un titolo di « Miss Eleganza » e propose di assegnarlo - quarta in graduatoria - alla dolente e forse segretamente irritata « piccola Sofia » . La signorina Scicolone ebbe - mi sembra - in dono un abito da sera bianco , e con quell ' abito sfilò quarta sulla passerella di Salsomaggiore . Se , a qualcuno , capitano sott ' occhio le fotografie di quei giorni , osserverà che Sofia non sorride mai : che ha un ' espressione assente e , in qualche fotografia , dura e contratta . Insomma , come dicono a Milano , aveva un gran « magone » . Oggi chi disse « No » Si trova nella situazione in cui si trovarono i maestri del Conservatorio di Milano quando , con in testa il maestro Rolla , dissero « No » a Verdi che chiedeva di essere ammesso e , a titolo di consolazione , gli consigliarono di studiare ancora , privatamente , indicandogli bonariamente due insegnanti , il Negri o il Lavigna . Una mezza offerta di tipo « verdiano » , e cioè di andare a scuola , di studiare da « privatista » fu , per la verità , fatta anche alla signorina Scicolone , tanto per darle , prima ancora che fosse emanato il giudizio finale , un « contentino » . Ma fu un suggerimento a mezza voce , quasi perché si temeva che , annusando la bocciatura , la bella ragazza cominciasse a lagrimare . Ma la futura Sofia Loren non pianse : divenne altera , sicura di sé , e - lo dico arrossendo - quasi sprezzante . Si capiva che si tratteneva solo per rispetto dei capelli grigi dei due giudici che le stavano di fronte . È più che legittimo immaginare che essa da brava napoletana li giudicasse due « fessi » . I fatti le danno ragione . Sofia Scicolone finì il suo bitter . Ci salutò con un sorriso smagliante , in cui palpitava , più che una mondana cordialità , una specie di sfida . Io e il « tecnico » sorridemmo : e poi finimmo , fra di noi , a sghignazzare . Credo che l ' ascensore del Grand Hotel di Salsomaggiore tremi ancora per il nostro ridere convulso , per il nostro ridere spietato . Paride I e Paride II dormirono quella notte come le altre notti di un sonno tranquillissimo . Il nostro giudizio non era stato incrinato dal minimo dubbio . Il « tecnico » era - bisogna dirlo - Remigio Paone , che pilotava non so quanti spettacoli di prosa , di rivista , di danza : che partiva ogni settimana per Parigi o Londra per scegliere , con occhio infallibile , la bellissima fra le belle ; che era allora in un certo senso , il Re delle Bluebell e che veniva ricevuto con profondissimi inchini , fra spari di champagne , quando si presentava al Lido di Parigi per passare in rivista le ragazze da arruolare per gli spettacoli del Nuovo , del Lirico , del Sistina . Lo scopritore di Sofia Loren - quello che aveva mandato il telegramma di segnalazione e di raccomandazione ai due amici - era un uomo che ormai da molti anni si vantava solamente di essere un ottimo pescatore dilettante . Aveva un bellissimo nome , aveva alle spalle una intelligente dinastia milanese : era un Ricordi , discendente cioè da una famiglia di scopritori di geni musicali . Aveva molto viaggiato , aveva condotto una vita molto elegante . È probabile che Sofia Loren si rammenti appena del gentile vecchio signore Alfredo Ricordi che , galantemente e paternamente , la raccomandò agli amici milanesi Vergani e Paone . Chieda , Sofia , e probabilmente le verrà spiegato che fu un Ricordi l ' uomo che per primo fece credito a Verdi . Alfredo Ricordi , rimasto vedovo , aveva trovato la sola consolazione al suo dolore nella vita di mare e nella pesca ; vestiva con un paio di pantaloni da marinaio e con una maglietta da ostricaro . A Portofino o a Cannes non parlava d ' altro che di cefali , di branzini , di ombrine , di pesci - cappone , di sardine , di triglie , di polipi e di murene . Era , bisogna dirlo , un caro attaccabottoni per via di quella sua esclusiva frenesia per la pesca . Cercava inutilmente compagni che sfidassero con lui le notti di burrasca o che lo aiutassero a tirar su la « sciabica » . Sofia Loren - me lo sono chiesto sempre - si ricorderà del caro vecchio , un po ' picchiatello che spedì da Alassio , dove , non potendo più affrontare il mare per l ' artrite , viveva in un appartamentino con le finestre aperte a tutti i venti del Tirreno , il telegramma che ci raccomandava la sua « scoperta » ? Noi leggemmo quel nome . Scicolone . Le ragazze erano già sfilate un paio di volte davanti a noi . Né Paone né io ci ricordavamo di una Scicolone . Con il vecchio Ricordi bisognava però essere gentili . Non buttammo il telegramma nel cestino . Cercammo questa Sofia , questa Scicolone , nel gruppo delle ragazze che , aspettando i turni di chiamata , prendevano al bar una tazza di caffè o una pastiglia di aspirina . Il settembre era torrido , le finestre chiuse per tenere lontani i curiosi ; le ragazze stavano tutto il giorno in costume da bagno , o coperte da un accappatoio , a parlare con le madri o con le amiche . Portavano al lato sinistro del costume da bagno un distintivo con il numero di iscrizione . Questo numero permise a me e a Paone di riconoscere la raccomandata di Alfredo Ricordi , vecchio pescatore malato di artrite . Sofia si era accorta della nostra manovra , dei nostri esami da lontano , del nostro bisbigliare , delle occhiate radenti di Paone , delle mie occhiate furtive dietro agli occhiali . Era bella ? Non ci parve . Prima di tutto ci sembrava appartenesse a quello che i nostri padri , amici delle bellezze floride , chiamavano il genere « pertica » . Troppo alta , troppo magra , troppo poco donna , troppo adolescente , ancora male impastata : e soprattutto « troppo bocca » . Era proprio sulla bocca - oggi è una delle più famose del mondo - che alle nostre occhiate di lontano cascava l ' asino . Quale poteva essere il destino di quella « spilungona » ? Tutt ' al più , con un po ' di fortuna , quello di « puntinista » , di ballerinetta da rivista . Toccò a me avvicinarmi alla ragazza dallo strano nome . Lo feci solo per rendere una cortesia ad Alfredo Ricordi . Le dissi del telegramma , le offrii di avvicinarsi al banco del bar per prendere un aperitivo . Si alzò , venne avanti , sedette su uno dei suoi alti sgabelli : le presentai Paone e le spiegai che si trattava di un celebre impresario teatrale . Sorrise : ma era evidente che non l ' aveva mai sentito nominare . Parlava con un accento napoletano degno dei dialoghi più stringenti di Peppino De Filippo . Cosa aveva di bello ? Non glielo dissi : aveva delle gambe bellissime , ma il mio elogio non poteva soffermarsi su questi particolari anatomici . Non sapevo fingere né entusiasmo né esprimere una qualunque promessa . Ma probabilmente mi sarei salvato davanti al giudizio della posterità proprio per via di quelle gambe . Domandai : « Le piacerebbe fare del teatro dialettale ? Penso che Paone potrebbe presentarla a De Filippo o a Taranto ... » . La ragazza taceva . Io guardai ancora quelle gambe ; dissi : « Le piacerebbe far della rivista ? Sa cantare ? Sa ballare ? Anche se non lo sa , non importa . In tre mesi , Paone potrebbe farla istruire da una brava maestra . Non ti pare , Remigio , che si potrebbe cavarne fuori una bella subrettina ? Se dovessi dire , in passerella la vedo , la vedrei subito ... » . Remigio non aveva l ' aria molto convinta ma , per non contraddirmi , fece un gesto di assenso . « Creda ! - continuai - sarebbe , un primo passo ... Con Macario , per esempio , o con la Osiris , una piccola scrittura si potrebbe pescarla ... » . La ragazza ci guardava senza più sorridere . Si asciugò con il mignolo una goccia di aperitivo che le era caduta , dal bicchiere , su una gamba e si pulì il dito , come una bambina , passandolo sulla bocca . Rispose semplicemente : « Teatro ? No ... Rivista ? No ... O cinema o niente ... » . Farfugliammo qualche parola di risposta , tanto per essere gentili . Lei ripeté : « O Cinema , o niente ! » Ci strinse la mano , ci salutò ; si allontanò sulle lunghissime gambe , sparì verso l ' atrio degli ascensori . La saletta del bar era deserta . Remigio ed io sbottammo a ridere sempre più fragorosamente . « Hai capito che presunzione ? Cinema ? Ma in questo albergo non ci sono specchi nelle camere ? Cinema ! ! ! Con quella bocca ! ! ! » . E il nostro riso si faceva addirittura tonante .
Ugo Ojetti ( Vergani Orio , 1948 )
StampaQuotidiana ,
Non so in quale anno Ojetti , romano di nascita , fiorentino d ' elezione , milanese di lavoro , abbia comprato il Salviatino . Prima , mi hanno raccontato , aveva una villetta su un viale della circonvallazione - brutto nome , ma bellissima circonvallazione , quella di Firenze , appoggiata subito al primo gradino dei colli - e , se non sbaglio , la vendette telegraficamente per poter comprare un bassorilievo di Jacopo della Quercia che aveva scoperto a Londra , in un ' asta . Rimase qualche tempo senza casa , ma con un pezzo di marmo che sta nella Storia dell ' Arte . Questo può dare un ' idea dell ' uomo , e del suo amore per le cose belle e rare . Il Marmo di Jacopo è ancora su al Salviatino , dove fu poi portato , in una vecchia villa dei Salviati che sembrava lo specchio dell ' ordine nelle cose e nelle idee così amato dallo scrittore . Il Salviatino diventò , con gli anni , una specie di museo prezioso , vi si raccolsero una biblioteca foltissima e un archivio addirittura monumentale . Vi si andava come ad una specie di amabile Quirinale . Si suonava al cancello della portineria , in basso , aspettando che di lassù , dalla villa , oltre il parco , si rispondesse : « Passi » . I più si sforzavano di arrivarvi in taxi o in tassì come aveva insegnato a scrivere Ugo . Federigo Tozzi , nel 1910 , ci arrivò in bicicletta , da Siena , vestito come un girino , smaltato di fango , ma fu accolto egualmente con affetto . Quando io , venticinque anni fa , ci capitavo , tremavo sempre all ' idea che Ojetti ( immancabile lettore della terza pagina del « Corriere » ) mi mettesse con garbo sotto gli occhi un mio articolo segnato con un lapis sottile a tutti i francesismi , a tutti i punti e virgola sbagliati , a tutti gli odiati esclamativi . Caro Ojetti , la preoccupazione della lindura e del finito l ' aveva fatto un po ' pignolo : ma era un segno dell ' attenzione con cui fra i cinquanta e i sessant ' anni , seppe riconoscere alcuni giovani scrittori , come Piovene , Loria , Quarantotti Gambini , Arrigo Benedetti , la cui opera , più tardi , doveva dimostrare che Ojetti non era facile a sbagliarsi . Nel mezzanino della villa lo scrittore aveva il suo studio . La grande biblioteca con la quadreria stava e sta al primo piano : gli archivi , la fototeca , le collezioni di autografi al pianterreno . Nello studio era raccolta una biblioteca minore , divisa in tre stanze , dove potevi trovare , a colpo sicuro , tutto il pubblicato e l ' inedito , per esempio , su Diego Martelli , amico dei Macchiaioli , e combinare una perfetta bibliografia su Amedeo Modigliani o su Ugo Foscolo . Ojetti non era un improvvisatore , amava documentarsi all ' estremo e non fidarsi della memoria . Teneva ogni sera aggiornato un diario , e , quand ' era in viaggio , per veder meglio una certa cosa , per obbligare l ' occhio a una più accanita attenzione , ritraeva quella cosa con qualche appunto di disegno . Era stato , in gioventù , scrittore anche di novelle un po ' scorrevoli , ma , nella maturità , aveva imparato a scrivere i capitoli delle Cose viste in tre giorni e , in quei giorni , non rispondeva nemmeno al telefono . Era , nella conversazione , dallo stile francese , un po ' incline all ' aneddotica per il gusto del ritrattino d ' uomo e di ambiente schizzato con pochi tratti , come certi appunti dei taccuini di Boldini ; ma dietro al suo scrivere c ' era una lunga preparazione . Era difficile prenderlo in fallo . Giunto presto alla fortuna e quasi quasi , in un momento , alla dittatura delle arti e delle lettere , Ojetti non peccò mai , come capita agli arrivati e ai dittatori , di presunzione . Innanzi all ' artista - sia che di questo dovesse leggere un libro , o un sottile racconto , o guardare un quadro - egli era sempre in posizione di affetto e di rispetto : segno della sua intima civiltà . Questo spiega perché egli fosse portato come scrittore , alla « cosa vista » e al ritratto : proprio in un tempo in cui , in pittura , i ritrattisti venivano , in un certo ambiente critico , ridicolizzati , e in letteratura si andava verso l ' indefinito e l ' ermetico , quasi cercando sempre di camminare un palmo sopra terra . Dovendo scrivere , un giorno , degli artisti italiani suoi contemporanei disegnò dunque dei « ritratti » e non volle aggrovigliare , come oggi si farebbe , una lunga matassa di teorie estetiche . È questo un merito che fa ritrovare ancora vivi , dopo tanti anni , i profili dei pittori da lui conosciuti e amati , che cominciò a pubblicare nel 1911 , così come sono ancora vivi quelli dei letterati di cui andò alla scoperta più di cinquant ' anni fa , cominciando addirittura da un gustosissimo ritrattino del canuto decano dell ' Ottocento , Cesare Cantù . Il tempo s ' incaricherà , probabilmente , di rivedere tanto il gusto del tempo di Ojetti , quanto quello su cui con troppa sicurezza si giura oggi . Importa , per ora , che i ritratti , da quelli di Michetti e di Carena a quelli di Sartorio e di Spadini , siano fedeli e vivi , e che attorno ad essi sia vivo , come sa renderlo Ojetti , l ' ambiente del suo tempo anche se un po ' ottimistico . Molta polvere si è posata sul lucido di certe glorie : hanno però fatto bene a non spolverarle . I ritratti ci guadagnano così una certa patina , e le notizie , di cui Ojetti era avvedutissimo raccoglitore , restano essenziali e indicative . Magari , bisogna dire , venissero altri ritrattisti del merito e dell ' affetto di Ojetti , il « signore del Salviatino » . Il nostro tempo lascerà ben pochi documenti del suo travaglio e delle sue passioni . Non è stata scritta una vita di Spadini , non si trova un editore per una vita di Arturo Martini : non è stata scritta una « cronaca » del Futurismo o del Novecento o del movimento rondista : è inedito l ' epistolario di Giovanni Fattori . Sui pittori si pubblicano sontuose monografie , ma con prefazioni il cui valore informativo , per i posteri , sarà probabilmente nullo . Gli Italiani hanno sempre paura di non scrivere cose abbastanza importanti , e , pretendendo di parlare all ' eternità , finiscono spesso per parlare al vuoto o ad una sola chiesola .
Luigi Pirandello ( Vergani Orio , 1946 )
StampaQuotidiana ,
Via Pietralata pareva , allora , in capo al mondo . Era una traversa di via Nomentana , aperta , all ' imbocco , fra le mura di due vecchi giardini . Ci si arrivava con un tram sconquassato che sollevava nuvoli di polverone . Attorno a quello che oggi è solamente un terreno da costruzioni , tutto il paesaggio dev ' essere cambiato , e certamente , se mi accadesse di percorrere l ' attuale via De Rossi dove adesso abita Mario Soldati , non riconoscerei la vecchia via Pietralata che tanti pomeriggi e tante mattine udì sui suoi ciottoli e sul suo fango campestre il mio passo di ragazzo , fra il 1918 e il 1926 . Da un lato , entrando da via Nomentana , la strada confinava col muraglione del parco di Villa Torlonia ; dall ' altro con terreni e vigne di antiche proprietà ecclesiastiche . In quei vigneti e fra quei muriccioli degli orti e dei frutteti , si erano accampati , il 18 e il 19 settembre del '70 , i bersaglieri del generale Cadorna che dovevano dare l ' assalto a Porta Pia . Sotto al passo dei loro battaglioni aveva risposto , poche centinaia di metri più giù , l ' eco dei sotterranei delle catacombe di Sant ' Agnese . Dopo aver fiancheggiato Villa Torlonia si udiva , dietro al muro , il grido rauco dei pavoni , la strada sboccava fra le sterpaglie e gli orti malaticci di una zona di terreni incolti chiusi da siepi polverose e da barriere tarlate come quelle che nell ' Agro si usano per i chiusi dei bufali e delle vaccine . In uno di quei terreni , attorno al 1910 , il cinema muto aveva innalzato il baraccone di vetro di uno « studio » e , accanto allo spiazzo dove gli operatori venivano a girare i « primi piani » in pieno sole , era venuta su la « palazzina Ciangottini » : una villetta con tre o quattro appartamenti , dove Pirandello era andato ad abitare con la figlia Lietta e i ragazzi Stefano e Fausto . Era una casa semplice , che oggi si giudicherebbe assai modesta , con una piccola anticamera e la sala da pranzo separata dallo studio con un arco vetrato . Nell ' anticamera , c ' erano un borghesissimo attaccapanni d ' ottone e una non meno borghese cassapanca di imitazione cinquecentesca . Le case di Pirandello non assomigliarono mai a quelle che in Francia e anche in Italia si chiamarono le raisons d ' artiste , in parte museo e in parte magazzino di antiquariato , di cui esempi classici furono la casa di Victor Hugo nell ' isola di Guernesey , il « granaio » dei Goncourt a Parigi , la « sagrestia » di Anatole France , il « conventino » del giovane Claudel che fu giudicato insopportabile da Jules Renard , e , saggi supremi , la Capponcina e il Vittoriale di D ' Annunzio . Pirandello non « mise in scena » la propria vita : non fu il « tappezziere » che D ' Annunzio amava essere . Il mondo del suo spirito si proiettava tutto nel rettangolo del foglio bianco su cui scrivere . Le finestre del suo studio si aprivano su un panorama campestre macchiato qua e là dal bianco e dal rosa di qualche villetta , sparso di riquadri coltivati a carciofi e a rape , o abbandonato a praticelli incolti dove all ' alba si vedevano camminare lentamente fra siepe e siepe le donne che raccoglievano la cicoria selvatica . In quegli stessi prati , alla sera , si fermavano le greggi delle pecore che dovevano aspettare fino a notte per attraversare nel loro viaggio Roma , da Porta Pia a Porta del Popolo . In quello scenario che ancora apparteneva agli ottocenteschi sfondi della pittura « fuori porta » , capitava ancora nel 1920 di vedere , con il loro cane ringhiante , gli ultimi pastori dalle gambe avvolte nelle « ciocie » . Imboccata la via Pietralata , si continuava a camminare un pezzo fra le mura di quei giardini . La via era , nel primo tratto , in lieve salita . Le mura erano di vecchi mattoni rossi , mescolati ogni tanto al sasso . L ' aria era quella della antica periferia papale e cardinalizia , che Roma conservò fuori Porta Pia anche dopo la Breccia del 1870 . Molti anni erano passati da allora , ma Roma , da queste parti , non si era ancora allargata . L ' unità d ' Italia aveva creato i suoi nuovi quartieri in via XX Settembre e nelle sue grigie traverse di tipo torinese , dove Luigi Pirandello guardava vivere verso i primi del '900 quella borghesia attristita che passava , un tipo dopo l ' altro , nelle sue novelle . A Porta Pia la nuova Roma si fermava , avanzava con rari casoni verso viale della Regina , poi cedeva il passo a quella papale , alla campagna che con le sue lievi ondulazioni porta all ' Aniene e che nasconde nella sua terra bruna il tufo delle catacombe . Terra di monasteri e di vigneti ; l ' asfalto era ignoto , regnavano ancora , nelle vie più importanti , i selci e i selciaroli . Ogni tanto venivano avanti il corteo di un seminario , la carrozza di un cardinale - i principi della Chiesa non avevano ancora adottata l ' automobile - una coppia di cappuccini . La via Pietralata aveva un ' aria di oremus . Piaceva molto , per la sua solitudine , ai fidanzati . Le ragazze strappavano dalle siepi un fiore di gelsomino e lo mordevano mentre , a bassa voce , il fidanzato faceva una scena di gelosia . Il giovane , che io ero allora , andava per via Pietralata , girava in fondo dove la strada fa un gomito , seguiva una siepe , suonava al cancelletto della villetta . « C ' è il professore ? » . Il professore c ' era . La cameriera non annunciava nemmeno la visita quando si trattava di uno degli amici di Fausto e di Stefano . Il professore li lasciava entrare , andare e venire , chiacchierare , ridere , fare chiasso . Lui stava al suo tavolino , abituato da vent ' anni a lavorare con i figli vicino . Restava seduto al suo vecchio tavolino , che sembrava il tavolo da lavoro della nonna , cintato , tutto attorno , da una piccola balaustrata in miniatura . Vecchie lettere , bozze , manoscritti , giornali , tutto era andato ammucchiandosi su quel tavolino da vent ' anni . Lì erano nati quindici volumi di novelle e lì era nato Il fu Mattia Pascal . Sul ripiano , non c ' era posto che per una sola cartella . Davanti , stavano due boccettine di inchiostro nero e di inchiostro rosso . Pirandello usava l ' inchiostro rosso da quando aveva cominciato a scrivere per il teatro : lo usava per le didascalie dell ' azione in scena . Quello nero era riservato al dialogo . Pirandello alternava metodicamente le due penne , con un gesto preciso , senza fretta . Scriveva dettandosi a mezza voce ogni parola , come in un monologo . I personaggi erano vivi in lui fin dalla prima battuta : pareva ch ' egli si limitasse a prendere voce da un invisibile suggeritore . Non c ' era da attendere l ' ispirazione , o da interrogare il vuoto . Se il personaggio rideva , Pirandello rideva ; se il personaggio implorava , Pirandello implorava ; se il personaggio piangeva , Pirandello piangeva . E se l ' altro personaggio del dialogo , per rispondere , imprecava , Pirandello imprecava , e la commozione scompariva subito dall ' occhio e l ' ira lo colorava . In questo alternarsi di sentimenti non dimenticava l ' inchiostro rosso : e , prendendo l ' altra penna e dettandosi le parole delle didascalie , Pirandello era , all ' improvviso , calmo , sereno e attento , e guardava un attimo innanzi a sé come se avesse voluto controllare su un invisibile modellino della scena , i movimenti dei suoi personaggi . « Siedi un momento . Tra dieci minuti , ho finito » . Il ragazzo sapeva che Pirandello , tre mattine prima , aveva iniziato una nuova commedia . Sapeva che Pirandello prendeva a scrivere alle nove e che , di solito , a mezzogiorno metteva giù la penna , e un atto era finito . Improvvisazione ? No . Le novelle di Pirandello « covavano » talvolta per dieci anni . Le commedie derivavano dalle novelle , ed erano state « covate » anche loro decine d ' anni . I personaggi avevano ormai preso una realtà allucinante : bastava soffiar loro sul viso perché si destassero e parlassero . Quando il personaggio aveva conquistato , ormai , la sua intera ragione , lo scrittore gli regalava la parola . Così , parola per parola , lo accompagnava alla vita . C ' era dentro allo studio un sofà piuttosto sfondato , di cui si sentivano le molle cedere e cigolare sotto a chi sedeva : un armadio a vetri , di tipo « umbertino » conteneva alla rinfusa qualche fila di libri slegati , scompagnati , sdruciti . Quella era la « biblioteca » di Pirandello , che vi buttava dentro , alla rinfusa , senza tagliarne le pagine , le edizioni nuove delle sue opere , o quelle che gli arrivavano delle traduzioni straniere . La sua indifferenza per un se stesso inquadrato in un clima da museo era totale . Una volta , per varie settimane , vidi nello stesso angolo di quel divano un enorme pacco , arrivato dalla Spagna , con gli spaghi intatti . Alla fine , ottenni da lui il consenso di aprirlo : conteneva una ventina di volumi delle sue obras tradotte in spagnolo . Quando glielo annunciai e gli chiesi dove avrei potuto riporre in bell ' ordine quei libri , Pirandello alzò appena gli occhi dal tavolino e fece un cenno come per dire : « E che me ne importa ? » . Il ragazzo aspettava . Pirandello continuava a scrivere , alternando l ' inchiostro rosso e l ' inchiostro nero , con la mano tranquilla come quella di uno scrivano di notaio . Il sole entrava dalla finestra nello studio - salotto : illuminava l ' armadio a vetri della piccola libreria dove , in uno sportello , era infilata una vecchia fotografia fatta all ' università di Bonn : una fotografia heiniana . II ragazzo stava fermo , per non dare fastidio , essendo giunto in anticipo sull ' ora prevista . Non alzava gli occhi al tavolino dello scrittore per non disturbarlo . Guardava ogni tanto la sua immagine che si rifletteva nel vetro della libreria , un po ' sfumata , un po ' azzurrata . Seguiva là il gioco di quel volto che non era più il volto di Pirandello , ma quello dei suoi personaggi . La voce che dettava era , alla distanza di pochi metri , inintelligibile ; ma il tono mutava , saliva , scendeva , toccava le note del pianto , del disgusto , dello sgomento , dell ' orrore , della stupefazione . Pirandello posò la penna dell ' inchiostro nero . Prese l ' altra per una ultima didascalia . Poi guardò , contro luce , se la pagina era asciutta . Raccolse le cartelline , ne fece un mucchietto , riscontrò la numerazione . Domandò che ora era . Domandò anche : « Cosa mi hai portato ? » « Una novelletta . » Si alzò . Venne verso il ragazzo , si fece dare i suoi fogli . Disse : « La leggerò stasera . Oggi , a pomeriggio , devo scrivere il terzo atto , l ' ultimo , di un ' altra commedia » . « E questa che ha finito adesso , professore , come si intitola ? » « È , te l ' ho detto , quella commedia , dei personaggi che cercano un autore . Si intitola appunto Sei personaggi in cerca d 'autore.» Poi parlò subito d ' altro .
Salvatore Quasimodo ( Vergani Orio , 1959 )
StampaQuotidiana ,
Chiuso in Italia , con i primi anni del secolo , il tempo della poesia dei « grandi professori » , dei dotti rimatori , dei vati dalle pupille fiammeggianti o dal cuore di « fanciulloni » , spenti gli ultimi echi delle odi civili , condannata o quasi la qualità oratoria dei carmi , il nostro , con ogni probabilità apparirà ai posteri come il tempo dei poeti autodidatti . I bassorilievi con le immagini delle Muse sono scomparse dagli studi dei poeti . Cerchiamo entro al fondo dell ' esperienza culturale nelle stagioni giovanili di quelli che sono i poeti d ' oggi . Troviamo ingegneri o studenti di ingegneria , matematici ( come lo fu Valéry ) , giovanotti che ad un certo momento chiedono il pane al mestiere di antiquari , correttori di bozze , segretari di sindacati , se non sbaglio , dei selciaroli romani - parlo di Cardarelli - interpreti e traduttori in un Ministero degli Esteri , come Ungaretti . Verso la fine dell ' Ottocento era di moda compilare dei volumi con il titolo Il primo passo , nei quali gli scrittori raccontavano per quale timido o fortunato sentiero fossero giunti ad aprire un primo spiraglio nell ' uscio della gloria . Anche l ' Italia ha avuto i suoi giovani poeti infelici , i suoi poètes maudits o addirittura folli e vagabondi come Campana : ragazzi che aspiravano a diventare attori come Palazzeschi e Moretti , giovani condannati dalla tisi come Gozzano : e anche giovani poeti suicidi , o , al tempo del primo Futurismo , versoliberisti che , otto ore al giorno , sbrigavano pratiche al Fondo Culti , dietro la romana Villa Aldobrandini . Il futurismo , che arruolò tanta « nuova accademia » ebbe poeti maestri di scienze tragiche e gelide , come la chirurgia . Altri poeti vissero per decine d ' anni sepolti in una biblioteca o in una libreria « circolante » . Più tardi i poeti trovarono il loro pane nei giornali , scrivendo note di cronaca nera , o nel mondo del rotocalco , componendo in righe di esatta misura didascalie per fotografie di moda , o in case editrici , con le scrivanie cintate da barricate di manoscritti . Ora che il lauro del Premio Nobel corona l ' opera di Salvatore Quasimodo - primo poeta nostro che venga a collocare il suo nome accanto a quello di Giosuè Carducci , Nobel del 1906 - verranno probabilmente scritte lunghe pagine sulla storia della sua vita . La poesia di Quasimodo non ha i caratteri autobiografici che usarono nel tempo passato : sarà difficile raccogliere le citazioni per una , come dice una collana francese , vie par lui même . La sua lirica non è fatta di « confessioni e ricordi » ; non ha , ci sembra , sfondi di paesaggi e di ambienti familiari : né riflessi identificabili di emozioni sentimentali . La vita di Quasimodo - uomo dal volto sottilmente altero : la sua « maschera » è stata acutamente studiata per busti modellati dal suo conterraneo Francesco Messina e da Manzù - può sostanzialmente apparire incolore . Il futuro poeta - molti pensano che sia siracusano , venuto al mondo vicino alle fonti della Ninfa Aretusa - nasce a Modica , nel retroterra agrario di quella che fu la Magna Grecia mediterranea . Vive la fanciullezza in una piccola stazione ferroviaria della Sicilia , col padre che spera di fare di lui , quando sarà uomo , un ingegnere . Letture infantili di grandi poeti : studi tecnici e scientifici a Messina . Dopo due anni di ingegneria , non può continuare l ' università e si adatta a lavorare da geometra : campa con un po ' di lavoro avventizio come disegnatore nello studio di un ingegnere ; si impiega come commesso in un grande « emporio » milanese ; riprende la sua attività di geometra per quella carriera che in Francia si chiama dei ponts et chaussées . I ricordi più antichi della figura di Quasimodo - che ha già presentato qualche lirica in « Solaria » e per il quale il « rondismo » appartiene ad una generazione che ha già definito e concluso il proprio ciclo - si inquadrano nel mondo milanese après 1930 . Egli rappresenta la generazione dei giovani emigranti intellettuali che sono « piovuti » a Milano senza precise idee su quelle che potrà essere il loro lavoro , senza precisabili titoli di studio , senza grosse aderenze nel mondo editoriale che non vuole poesia e cerca ancora gli eredi di Da Verona . Ecco - probabilmente abitano in modestissime camere ammobiliate - un tavolo al Savini : ma assai in disparte da quelli dei giornalisti famosi , delle attrici , degli autori drammatici : distanti anche dal tavolo dove siedono i pittori del gruppo del Novecento . È il tavolo , per citare qualche nome , di Francesco Messina , di Cesare Zavattini , di Raffaele Carrieri , del giovane ingegnere e poeta Leonardo Sinisgalli , del poeta Orazio Napoli , del giovane novelliere toscano Arturo Tofanelli , del pittore Domenico Cantatore . Gli italiani fanno della storia e della critica letteraria di toni cogitabondi . Dall ' aneddotica , dalla cronaca , dal diarismo ci si tiene al largo . La vita della Milano di quegli anni - eppure fu la città del Futurismo , della Pittura Metafisica , del « Novecento » , dell ' Ermetismo - non ha avuto il suo André Salmon , come lo ha avuto Parigi . Uomo segretamente inquieto sotto una maschera di apparente mutismo , Quasimodo - poeta dal nome subito indimenticabile , almeno per chi abbia letto Notre - Dame di Victor Hugo - sta al centro di quel mondo senza riti o premi letterari . Il cenacolo finirà , con gli anni , a disperdersi per varie vie . Adesso , inserito nella storia letteraria dal Nobel assegnato a quello che era allora il geometra di Modica , esso assume una sua precisa fisionomia : è il Cenacolo di Quasimodo . Erano i tempi del volume di liriche Oboe sommerso , di sapore , mi sembra , un po ' alla Debussy . Quasimodo diventa un portabandiera dell ' Ermetismo . I suoi primi critici sono Montale , Giansiro Ferrata , Vittorini , cui seguono Solmi , Anceschi , Bo , Vigorelli . Lo definiscono il poeta dalla « voce assorta » che modula gli echi di una accorata mitologia decantata dalle scorie di qualunque scolasticismo . In breve giro d ' anni , alcuni suoi versi ( Ed è subito sera ) diventano famosi . La nonna di Quasimodo ha origini greche : il nipote pensa all ' Ellade come ad una patria perduta , e al mondo come il misterioso luogo in cui tutti cerchiamo una nostra patria , e cioè la fonte di tutte le nostre origini e lo schermo di tutte le nostre speranze . Senza singhiozzi romantici , senza « fatti personali » , senza autobiografiche confessioni desolate , vorrei dire che Quasimodo appare ispirato da una Musa con le palpebre mestamente socchiuse . Idealmente , egli è riapprodato al sogno delle sue antichissime origini ancestrali , attraverso lo studio della poesia ellenica , al quale l ' autodidatta ha potuto dedicarsi solo alle soglie dell ' età matura , come un premio della giovinezza povera , affaticata , oscuramente laboriosa . Vicino ormai ai sessant ' anni , salvato dalla durissima minaccia di una malattia che stava per spezzare il suo cuore , simile in tante fasi della sua vita ad un « ulisside della speranza » , egli parla , in una lirica , di un compagno di fanciullezza , nel cui volto , però , ci pare egli guardi se stesso come in uno specchio : e quel fanciullo io amavo / sopra gli altri ; destro / nel gioco della lippa e delle piastre / e tacito sempre e senza riso .
Umberto Saba ( Vergani Orio , 1957 )
StampaQuotidiana ,
Malato da molti anni , Umberto Saba , forse , soffriva soprattutto di melanconia e di una complessa angoscia che doveva in gran parte risalire al trauma di cui aveva duramente sofferto durante il lungo periodo delle persecuzioni razziali . Il problema del « sangue » , come quello della religione , era stato presente nella sua vita fin da quando il padre suo aveva abbandonato la moglie ebrea , lasciandola sola e in povertà con un bambino gracile e pallido . Il seme di una cupa ingiustizia lo aveva accompagnato fin dall ' infanzia . Nato cattolico , aveva voluto dichiararsi spiritualmente ebraico , scegliendo fra quello paterno e quello materno , quest ' ultimo sangue ; e si era iscritto alla comunità israelita . Al tempo delle leggi razziali , non aveva ancora sessant ' anni , ma era stanco , pallido , esangue sino a sembrare quasi cereo . Egli fu considerato un « ebreo volontario » . Per questo , la sua « posizione » si presentava gravissima . Saba non era certamente un uomo preparato a lottare se non per problemi puramente spirituali . Aveva amato l ' Italia con un amore che l ' aveva condotto a lasciare Trieste nel 1914 e ad arruolarsi volontario con gli altri irredenti . Poi si era ritirato nella città amata e finalmente liberata . Non aveva la possibilità di una professione precisa : aveva pubblicato , nelle edizioni della « Voce » due piccole raccolte di versi che non gli avevano dato diritti d ' autore se non per acquistare qualche pacchetto di sigarette . Non poteva vivere con il semplice pane della buona stima letteraria fruttata da quei versi . Nel 191.9 , lasciato a casa il « grigioverde » , passeggiando per le vie di Trieste , si fermò davanti ad una libreria antiquaria in strada San Nicolò . Dopo qualche giorno il padrone della bottega lo osservò : fattosi sulla soglia della bottega , attaccò discorso e gli confidò , che non solo i volumi , ma l ' intero « commercio » era in vendita . Da quel colloquio nacque il Saba libraio antiquario . I suoi contatti con il mondo sarebbero stati rarissimi - Saba aveva troppi « complessi » per noti esser destinato all ' esistenza del deraciné : solo nelle quattro stanze di casa , con la moglie e con la figlia , la sua « pianticella » fioriva serena - se ogni tanto le necessità del commercio librario non lo avessero costretto a prendere un treno per recarsi a Milano o a Firenze per qualche acquisto . Allora Saba appariva - ma non andava a cercare nessuno : bisognava incontrarlo per caso - nelle città dove la vita letteraria era più intensa . Camminava rasente ai muri , con un berretto da ciclista in capo , sulla testa calva , e con il collo avvolto in uno scialle . Era difficile portarlo a discorrere di letteratura o a esprimere giudizi . Parlava con una voce di testa , quasi da sonnambulo , piegata talvolta in un modulo che pareva beffardo , ma più spesso resa soffocata da una intonazione affettuosa . Sapeva che gli amici della sua poesia erano pochi ; e non cercava di aumentarli . La sua Trieste era quella di Silvio Benco , di Slataper , di Svevo : città di alti fervori letterari ad un incrocio di razze e di lingue . Saba avrebbe potuto assimilare facilmente i profumi e i sapori del linguaggio poetico più moderno : ma come non era appartenuto al gruppo della « Ronda » , così non seguì gli ermetici . Il suo affetto e la sua consanguineità erano tutti per il tempo dello « Stil nuovo » : Petrarca lo aveva affascinato sin dall ' adolescenza : e il risultato di questi affetti si era già definito al tempo dei volumetti intitolati Poesie e Coi miei occhi o di vari anni prima della guerra del '15 . Saba era rimasto assolutamente indifferente alla tentazione del Futurismo , così come era stato lontano dal dannunzianesimo e dal sospiro dei crepuscolari . La solitudine nella quale amava vivere salvò la schiettezza e il metallo di quell ' alta melanconia lirica che ispira il Canzoniere , animato da temi che potevano sembrare a volte aspri , a volte dimessi e a volte quasi freudianamente inquietanti . Fu poeta d ' amore , ma di un amore umbratile , del . tutto chiuso nella storia di una fedeltà familiare . Venne nella sua vita di uomo non lontano dai sessant ' anni la tragedia delle persecuzioni . Si rifugiò a Parigi ; ma la nostalgia dell ' Italia era troppo grande . Non potendo farsi vedere a Trieste , cercò un riparo a Firenze : costretto a vagare intimorito da un nascondiglio all ' altro . Questo affanno e questi incubi stremarono le sue forze . Sfuggì alla deportazione e alla morte : ma nell ' ora della salvezza quello che si risvegliò ad una nuova vita era ormai un uomo distrutto , costretto a lunghissimi riposi , quasi oramai assente da ogni interesse umano , se non al segreto profondo del cuore avvilito e umiliato dallo spettacolo di crudeltà ai cui limiti sanguinosi aveva dovuto vivere . Adesso , di lui , resta il Canzoniere , con il suo alto carico di fervori , di melanconie , di introspezioni , con i suoi non corrotti incantesimi verbali , con certe sue musiche che paiono luci diafane in lento trascolorare . Che di un poeta si possa dire che la sua opera « resta » , questo è il massimo approdo . Egli - all ' anagrafe era Umberto Poli - aveva scelto per nome di poeta quello di Saba che in ebraico vuol dire « pane » . Era come promettersi , con animo dolente , alla comunione con gli uomini .
Alberto Savinio ( Vergani Orio , 1953 )
StampaQuotidiana ,
Senza soffrire , nello spazio di una notte , Alberto Savinio si staccò dalla vita . Già un anno prima aveva avuto un duro ammonimento del male . Invece di riposarsi , ogni mattina dipingeva , ogni pomeriggio componeva musica , ogni sera scriveva . Pittore , musicista , scrittore , era andato così sempre nella vita emigrando da un nome all ' altro , da uno pseudonimo ad un altro pseudonimo , di arte in arte , di città in città , dall ' uno all ' altro continente della cultura e tanto e tanto avrebbe viaggiato nella sempre rinnovata geografia dello spirito . Alla mobilità del suo spirito , alla sempre rinnovata freschezza dei suoi interessi , al suo inquieto , estroso , ammiccante scandagliare fra i mondi dell ' immaginazione e fra quelli della cultura , corrispondeva un fisico da sedentario , da uomo di scrivania e di biblioteca , dall ' occhio assorto , dal gesto breve . Aveva viaggiato molto : ma tutta la sua arte era orientata sugli itinerari di quei viaggi che De Maistre chiamò autour de ma chambre . Il nome di « magia » è stato adoperato troppo , a proposito di certi aspetti dell ' arte moderna ; ma la camera nella quale idealmente dimorava Savinio meritava di esser definita come magica : di una magia senza ombre , senza polvere , senza mostri , fatta tutta di riflessi di cristallo messi a specchiare tempi lontani e nitidi presentimenti . Alberto Savinio - figlio di un ingegnere De Chirico che si era trasferito in Grecia , alla fine del secolo scorso , per costruire , se non sbaglio , il tronco della linea ferroviaria che collega il percorso dell ' Orient - Express con Atene - era nato ad Atene e il greco moderno era stato la lingua della sua infanzia . Tra i suoi progetti , mentre l ' età matura era raggiunta , c ' era stato quello di fare , nel 1951 , un viaggio in Grecia per ritornare , dopo più di mezzo secolo , sui luoghi dell ' infanzia . Il progetto non fu realizzato : la Grecia rimase , per Alberto , la lontana meravigliosa piattaforma dei ricordi di una infanzia contesa dall ' obbligatoria saggezza di un ragazzo che aveva il padre ammalato - il vecchio ingegnere era stato inchiodato in una poltrona da una paralisi - e che doveva scoprire il mondo delle favole , prima che nelle novellette dei fratelli Grimm o nei romanzi di Verne , nei racconti omerici . Non si vive impunemente ad Atene , andando a giocare da bambini sulle gradinate del teatro sotto all ' Acropoli o all ' ombra delle colonne del Partenone . La mitologia accompagnò per tutta la vita Savinio con la sua presenza e con la sua voce magica e solenne . Il Tempo , per Savinio , si chiamò sempre Cronos e la Sorte si chiamò Moira . Il sentimento metafisico di Giorgio De Chirico e quello surrealista di suo fratello Andrea che doveva emigrare a vent ' anni verso il nuovo nome di Alberto Savinio avevano come sfondo i miti o i riflessi di un ' Ellade dai silenziosi o inquietanti incantesimi . Nessuno dei due figli seguì la vocazione paterna , che era stata , come lo fu per molti solidi spiriti dell ' Ottocento , quella del costruttore . Nessuna opposizione venne fatta alle loro aspirazioni di artisti , per la protezione della madre che a Savinio doveva sembrare più tardi come un nume della Maternità . Io ricordo con quale placida eroica fermezza la madre di Giorgio De Chirico - carica di strani gioielli e vestita con abiti di austera dignità che sembravano quasi un costume , quasi una « divisa da madre » , seduta a vigilare fra i quadri della prima mostra della pittura metafisica di suo figlio Giorgio - ascoltava indifferente i visitatori ridere e sghignazzare davanti alle Muse inquietanti e ai Dioscuri che alla folla , nel 1917 , parevano l ' opera pittorica di un pazzo . Egualmente coraggiosa la madre era stata nell ' assistere l ' attività del figlio minore che si sentiva destinato alla musica , e , naturalmente , ad una musica tutt ' altro che facile . La signora De Chirico , con i suoi strani gioielli e con i suoi austeri abiti da pitonessa , era sempre in viaggio per vegliare su l ' uno o su l ' altro figlio : due ragazzi , due giovanetti privi , come si dice , di ogni senso pratico , portati qua e là nel mondo dell ' arte di prima della guerra per studiare pittura a Monaco nell ' aura di Boeklin o musica con Max Reger . Pianista di potenza quasi diabolica , talvolta Savino , nelle notti di Parigi o in quelle di Monaco , suonava sino a farsi sanguinare le dita , e la madre , vedendo le macchie di sangue sugli avori della tastiera , pensava , nel suo assorto silenzio : « Quel sangue è mio » . Musicista Alberto Savinio fu sino al 1915 , e cioè sino all ' età di ventiquattro anni , e tornò ad esserlo , per un rapido saggio , nel 1925 . Poi il silenzio musicale durò , per il pubblico , vent ' anni . Era diventato , intanto , scrittore , per aver conosciuto Guillaume Apollinaire : scrittore in lingua francese , come avrebbe potuto esserlo in greco e in tedesco , nell ' estremo tramonto di quegli anni antecedenti alla prima guerra mondiale che furono chiamati gli anni della belle époque ma durante i quali maturavano i germi creativi dell ' arte rivoluzionaria che prendeva il nome di cubismo , di futurismo , di dadaismo . Al futurismo , in ogni modo , Savinio non fu vicino : le origini della sua arte e del suo pensiero erano inserite in un ordine e in una meditazione di valore troppo spirituale , come il pensiero e l ' arte ellenici , perché egli si lasciasse abbagliare dalle formule di quell ' avanguardismo alla Jules Verne che era il futurismo di Marinetti , le cui formule estetiche del simultaneismo e del dinamismo nascevano , più che altro , da una ingenua fiducia nello scientificismo . Il futurismo credeva all ' energia come ad un fatto dinamico , muscolare , palesemente esplosivo : credeva nella deflagrazione , e non nell ' energia della meditazione . Savinio era uomo di letture profonde : era difficile convincerlo di mettersi in testa , come un casco , l ' imbuto di alluminio con il quale Marinetti intendeva coronare i poeti . Questo spiega perché egli si fosse subito , appena tornato agli studi al termine della guerra , schierato con gli scrittori della « Ronda » e perché non abbia mai desiderato di affermare , quando il surrealismo diventò una « scuola » , la paternità che gli spettava di tante invenzioni , scoperte , esplorazioni dell ' estetica surrealista in letteratura e in pittura . Scrittore italiano doveva diventare dunque nel 1916 , un anno dopo , rientrando in Italia per il servizio militare : e pittore doveva diventare , quasi da un ' ora all ' altra , solamente nel 1927 , emigrando nuovamente a Parigi . Sembrò che dimenticasse di essere stato uno degli scrittori più singolari e una delle intelligenze più inquietanti nel gruppo della « Ronda » . Per quasi dieci anni , fu solamente pittore . La lingua della sua vita quotidiana era diventato nuovamente il francese . Il suo linguaggio pittorico fu quello surrealista : e coglieva ogni possibilità per affermare di essere un pittore « al di là della pittura » . In un ' altra occasione ebbe a scrivere : « Le opere di Dürer , di Boeklin , di Giorgio De Chirico , mie , nascono prima di tutto come cose pensate . Portarle a una forma o dipinta o scritta è una traduzione ; una operazione " a scelta " . Io ho chiaramente sentito , ho chiaramente capito che quando la ragione d ' arte di un artista è più profonda , e dunque " precede " la ragione singola di ciascun ' arte , quando l ' artista , in una parola , è una " centrale creativa " , è stupido , è disonesto , è immorale chiudersi dentro ad una singola arte , asservirsi alle sue ragioni particolari e alle sue ragioni speciali . E ho avuto il coraggio di mettermi di là dalle arti , sopra le arti ... » . Quando , nel 1927 , un mercante d ' arte parigino , senza aver mai visto un quadro di Savinio , lo invitò a dipingere , gli trovò uno studio a Parigi , e gli assicurò uno stipendio iniziale , quel tale , probabilmente , intendeva creare « un caso » o un « doppio » di De Chirico , o mettere d ' accordo , su una piattaforma di puro intelletto , tutte le varie vocazioni di Savinio e trasferirle in una bizzarra sede pittorica . Probabilmente non sapeva che , così facendo , mentre De Chirico si preparava a rinnegare quasi la sua stessa pittura metafisica , Savinio avrebbe messo al mondo una prima esemplificazione del surrealismo . Il ricordo di Savinio non appartiene solamente alla storia dell ' intelligenza italiana delle ultime due generazioni : esso appartiene alla storia dell ' intelligenza europea . L ' apparente divagare di arte in arte fu , effettivamente , un continuo esplorare mondi espressivi nuovi nella luce di una intelligenza dalla intatta lucentezza : il suo emigrare continuo fu un approdare e conquistare continuo : nessun continente dell ' arte poté considerarlo mai uno spaesato . Le sue capacità tecniche , anche quando potevano sembrare acerbe , erano al servizio di un ' unità spirituale per la quale il pittore , lo scrittore , il diarista , il narratore di strane favole , lo psicologo , il musicista e lo scenografo avevano una assoluta coerenza di ispirazione .
Scala ( Vergani Orio , 1952 )
StampaQuotidiana ,
La sala non è al buio . Sei grandi lampade pendono sull ' orchestra , e la loro luce arriva , degradando , sino in fondo alla sala . Ricordo questa sala distrutta , aperta alla neve , alla pioggia , al vento : e il color nero delle grandi travi carbonizzate : le finestre dei palchetti vuote sulla vasta voragine muta . Ricordo , di quei giorni , di quei funesti inverni , il silenzio di Milano nelle piazze e nelle vie intorno : i passanti rari , i volti chini , le guance pallide : la città macilenta , quasi senza voce , vuota di ragazzi : Io stillicidio dell ' acqua in questo grande cortile da tragedia shakespeariana nel quintuplo giro dei palchi : le porpore stinte : i carboni e la cenere mescolati ai cristalli : l ' oro infamato dal fango . Nel nome di Toscanini , e cioè nel nome della musica italiana , la sala è stata la prima a risorgere . È lì , ancora , oggi come tanti anni fa - come cinquantaquattro anni fa , quando il Maestro salì sul podio per la prima volta a dirigere i Maestri cantori - Toscanini è saldo ; tiene le redini dei poemi musicali in pugno , come gli antichi aurighi nel bronzo greco . È entrato per la prova generale , e , come lui vuole , nessuno ha applaudito . È passato dietro alla prima fila dei violini , è sul podio , volta le spalle alla platea : davanti non ha il leggio : e bisogna indovinare il raccoglimento , la profondità , la fissità , la mobilità del suo sguardo che , adesso , spazia solamente sulle misure della musica . Io , più fortunato o più indiscreto degli altri , sono andato avanti , in un angolo della quarta fila , e ho , dietro a me , un grande spazio vuoto . Oltre che sentire , oggi voglio « vedere » Toscanini . Non voglio ripetere la frase di Emilio Zola che , quando fu a Roma per scrivere Roma , dopo aver visto il Pontefice tornò in albergo e , seduto a tavola , disse alla moglie , soddisfatto : J ' ai mon Papa ... Ma , di « tre quarti » , ho il « mio » Toscanini . Vedo i suoi capelli bianchi , argentei , folti e mossi sulla nuca . Trovo un ricordo antico , uno dei più lontani ricordi d ' infanzia : il ricordo di un bambino accompagnato per mano a vedere San Petronio , a Bologna . Mi sembra di sentire ancora la stretta improvvisa alla mia mano di bambino . Mi dice la voce di un caro vecchio rotta dall ' emozione : « Guarda là ! ... Guarda là !...» Aiutano qualcuno a salire su una carrozzella : non vedo bene , e non capisco perché mi si inviti , con così brusca commozione , a guardare . La voce vicina a me dice : «Carducci...» . La carrozzella si muove con il suo passeggero che ha in testa , mi sembra , un corto tubino . Di quel passeggero non vedo che i capelli bianchi , argentei , folti e mossi sulla nuca . È un momento , e la carrozzella scompare . Ho visto í capelli bianchi di Carducci . Guardo , adesso , e li trovo simili a quelli del poeta , i capelli bianchi del Maestro . Ogni tanto egli china il capo , quasi toccando con il mento il petto . Vedo , di scorcio , la « rupe » della fronte , sfiorata dalla luce ; il modellato delle tempie e dello zigomo , in ombra . Non esiste più un Vincenzo Gemito per scolpire , così , di Toscanini un ritratto come quello di Verdi . Penso ai capelli bianchi di Verdi . Toscanini non è un uomo vecchio : non sarà mai un uomo vecchio : è un uomo « antico » , modellato in qualcosa di incorrotto e senza tempo , come si può pensare che , anche giovani , fossero taluni geni rupestri , come Michelangelo ; uomini fatti per vivere fra le rocce , come le aquile . Chi ha mai pensato di contare gli anni di un ' aquila ? Le aquile non vedono incanutire le loro penne . Hanno gli anni del loro volo . La sala tace . Mille , millecinquecento persone sono state « segretamente » ammesse ad ascoltare la prova . Il Maestro non ha negato questo dono . Gli basta che la gente taccia . Laggiù , lassù , intorno , nei nidi dei palchi , nelle logge delle gallerie c ' è un pubblico che amo . Se fra cent ' anni un regista comporrà un film dedicato a Toscanini e alla sua vita , non dimentichi questa scena e queste « masse » . Ci sono gli intenditori , i musicologi , i musicisti , i « toscaniniani » . Mi permetto di consigliare il regista a non dar loro importanza , in questa scena . Si ricordi , invece : dei ragazzi e dei vecchi : chiami a raccolta , per il suo film , a voler rifar la scena d ' oggi , molti ragazzi e molti vecchi : gente che domani non troverebbe posto , vecchi che , a insinuarsi nel « tutto esaurito » di un grande concerto , « non si fidano » , perché hanno il peso degli anni , gli acciacchi , la difficoltà di sedere e di respirare tra la folla , il pudore di mostrarsi , tra la folla , presi dalla commozione e forse , dalle lagrime per l ' onda dei ricordi . Gente più che anziana : una toccante visione : gli ottant ' anni non si contano : le novantenni , che si sono messe in ghingheri e sono venute avanti sostenute dalle figlie e dalle nipoti , non si contano . Occhi e cuori che ridanno la scalata al tempo , che passano a guado la fiumana dei ricordi di mezzo secolo , ai tempi delle prime di Otello - mi hanno detto - ai tempi in cui si combatteva « contro » la musica di Wagner . Vecchie , canute , tremolanti signore alle quali , cinquantaquattro anni fa , il giovane maestro di Parma ha insegnato che non era giusto sospirare solamente per i tenori , ma che si poteva sospirare per Sigfrido e riconoscersi nel lamento amoroso di Isotta . Sono venute fuori dalle loro case pomeridiane , ringraziando la giornata mite : trattengono i colpi di tosse . Nell ' ombra dei palchi asciugano una lagrima del 1898 . Regista : non dimenticare i ragazzi . Ce ne sono di quindici , di diciotto anni ; ma , stranamente , hanno quasi tutti un viso , una compunzione , una espressione da attesa di prima comunione o di cresima . Hanno diciotto anni : ma Toscanini ha la virtù di riportarli all ' emozione delle favole , delle fate e dei maghi . Straordinario nonno , Toscanini : i ragazzi sembrano , nella penombra della sala color di porpora , seduti al focolare . Regista , non dimenticare che quest ' ora non è « mondana » : ma , affollata di vecchie nonne e bisnonne e di nipoti e pronipoti , dà alla sala scaligera il colore , il mormorio , la fiducia proprio dei vecchi focolari . Una mano guida la straordinaria favola . È la destra che ne distribuisce i personaggi e i sentimenti , l ' onda dell ' amore , dei dolori , del compianto , della stupefazione : che fa entrare le voci dei lunghicriniti eroi , sorregge pilastri , cupole , cieli , cattedrali arboree , rocce , e chiama le nuvole , e accende le stelle , e volge il corso delle comete : è la sinistra che fa passare sui volti e sulle cose il soffio tiepido o arroventato della vita , e dice al canto : « Ama ! » , e dice al canto : « Fremi ! » . Romantiche mani che nei coni di luce si illuminano : pronte al gesto del dominio e all ' impeto squassante , come , per prendere la tragedia per la gola e dirle : « Piegati : sei mia ... » : pronte alla carezza più sottile , come se insegnassero ai suoni più gracili ad alzare le palpebre fiduciose e a mostrare i loro sguardi di bambini : pronte all ' eloquenza concitata , pronte a dividere il Creato in due ; da una parte la luce , dall ' altra l ' ombra : pronte a riportare leopardianamente la quiete dopo la tempesta , e a dividere fronda da fronda nella foresta stillante di perle per scoprire il nido degli usignoli . Mani che implorano : mani che comandano : e il gesto ha l ' imperio di quello con il quale Padre Cristoforo fece tremare il cuore del malvagio . Mani che insegnano il sospiro e la preghiera , il gesto delle supplici e quello della consolazione : e aprono le porte di bronzo attraverso il cui spiraglio si indovina l ' aldilà . Si muovono , come quelle di un magico tessitore , sul telaio dove si tessono i sogni : come penso si muovessero quelle di Tolstoj quando faceva scendere l ' amore nel cuore di Natascia , o quelle , forti , di Wagner , quando batteva sull ' incudine l ' acciaio della spada .