StampaQuotidiana ,
«
Paride
»
,
giudice
di
bellezza
in
una
lontana
stagione
di
Miss
Italia
,
non
mi
accorsi
di
Sofia
Scicolone
,
di
Sofia
Loren
.
Richiamato
a
darle
un
po
'
di
attenzione
dal
telegramma
di
un
vecchio
amico
,
alzai
gli
occhi
verso
di
lei
,
le
parlai
,
la
misurai
e
la
scrutai
attentamente
con
lo
sguardo
,
la
fissai
negli
occhi
,
vidi
-
bisogna
dirlo
?
-
le
sue
gambe
,
guardai
la
sua
bocca
,
chiacchierai
una
mezz
'
ora
con
lei
,
seduto
su
uno
sgabello
al
bar
del
grande
albergo
,
conclusi
l
'
incontro
con
questa
melanconica
e
frettolosa
considerazione
:
«
Ecco
un
'
altra
povera
ragazza
che
si
illude
...
»
.
Non
fui
il
solo
a
dire
di
no
,
sotto
al
velo
del
giudizio
segreto
,
alla
futura
Sofia
Loren
.
Disse
di
no
anche
un
altro
mio
amico
,
un
superesperto
in
fatto
di
selezione
di
belle
donne
,
un
«
tecnico
»
.
E
altri
dissero
di
no
,
finché
il
produttore
cinematografico
Mambretti
,
un
milanese
,
propose
una
soluzione
,
per
non
mandar
via
troppo
amareggiata
la
ragazza
napoletana
.
Coniò
un
titolo
di
«
Miss
Eleganza
»
e
propose
di
assegnarlo
-
quarta
in
graduatoria
-
alla
dolente
e
forse
segretamente
irritata
«
piccola
Sofia
»
.
La
signorina
Scicolone
ebbe
-
mi
sembra
-
in
dono
un
abito
da
sera
bianco
,
e
con
quell
'
abito
sfilò
quarta
sulla
passerella
di
Salsomaggiore
.
Se
,
a
qualcuno
,
capitano
sott
'
occhio
le
fotografie
di
quei
giorni
,
osserverà
che
Sofia
non
sorride
mai
:
che
ha
un
'
espressione
assente
e
,
in
qualche
fotografia
,
dura
e
contratta
.
Insomma
,
come
dicono
a
Milano
,
aveva
un
gran
«
magone
»
.
Oggi
chi
disse
«
No
»
Si
trova
nella
situazione
in
cui
si
trovarono
i
maestri
del
Conservatorio
di
Milano
quando
,
con
in
testa
il
maestro
Rolla
,
dissero
«
No
»
a
Verdi
che
chiedeva
di
essere
ammesso
e
,
a
titolo
di
consolazione
,
gli
consigliarono
di
studiare
ancora
,
privatamente
,
indicandogli
bonariamente
due
insegnanti
,
il
Negri
o
il
Lavigna
.
Una
mezza
offerta
di
tipo
«
verdiano
»
,
e
cioè
di
andare
a
scuola
,
di
studiare
da
«
privatista
»
fu
,
per
la
verità
,
fatta
anche
alla
signorina
Scicolone
,
tanto
per
darle
,
prima
ancora
che
fosse
emanato
il
giudizio
finale
,
un
«
contentino
»
.
Ma
fu
un
suggerimento
a
mezza
voce
,
quasi
perché
si
temeva
che
,
annusando
la
bocciatura
,
la
bella
ragazza
cominciasse
a
lagrimare
.
Ma
la
futura
Sofia
Loren
non
pianse
:
divenne
altera
,
sicura
di
sé
,
e
-
lo
dico
arrossendo
-
quasi
sprezzante
.
Si
capiva
che
si
tratteneva
solo
per
rispetto
dei
capelli
grigi
dei
due
giudici
che
le
stavano
di
fronte
.
È
più
che
legittimo
immaginare
che
essa
da
brava
napoletana
li
giudicasse
due
«
fessi
»
.
I
fatti
le
danno
ragione
.
Sofia
Scicolone
finì
il
suo
bitter
.
Ci
salutò
con
un
sorriso
smagliante
,
in
cui
palpitava
,
più
che
una
mondana
cordialità
,
una
specie
di
sfida
.
Io
e
il
«
tecnico
»
sorridemmo
:
e
poi
finimmo
,
fra
di
noi
,
a
sghignazzare
.
Credo
che
l
'
ascensore
del
Grand
Hotel
di
Salsomaggiore
tremi
ancora
per
il
nostro
ridere
convulso
,
per
il
nostro
ridere
spietato
.
Paride
I
e
Paride
II
dormirono
quella
notte
come
le
altre
notti
di
un
sonno
tranquillissimo
.
Il
nostro
giudizio
non
era
stato
incrinato
dal
minimo
dubbio
.
Il
«
tecnico
»
era
-
bisogna
dirlo
-
Remigio
Paone
,
che
pilotava
non
so
quanti
spettacoli
di
prosa
,
di
rivista
,
di
danza
:
che
partiva
ogni
settimana
per
Parigi
o
Londra
per
scegliere
,
con
occhio
infallibile
,
la
bellissima
fra
le
belle
;
che
era
allora
in
un
certo
senso
,
il
Re
delle
Bluebell
e
che
veniva
ricevuto
con
profondissimi
inchini
,
fra
spari
di
champagne
,
quando
si
presentava
al
Lido
di
Parigi
per
passare
in
rivista
le
ragazze
da
arruolare
per
gli
spettacoli
del
Nuovo
,
del
Lirico
,
del
Sistina
.
Lo
scopritore
di
Sofia
Loren
-
quello
che
aveva
mandato
il
telegramma
di
segnalazione
e
di
raccomandazione
ai
due
amici
-
era
un
uomo
che
ormai
da
molti
anni
si
vantava
solamente
di
essere
un
ottimo
pescatore
dilettante
.
Aveva
un
bellissimo
nome
,
aveva
alle
spalle
una
intelligente
dinastia
milanese
:
era
un
Ricordi
,
discendente
cioè
da
una
famiglia
di
scopritori
di
geni
musicali
.
Aveva
molto
viaggiato
,
aveva
condotto
una
vita
molto
elegante
.
È
probabile
che
Sofia
Loren
si
rammenti
appena
del
gentile
vecchio
signore
Alfredo
Ricordi
che
,
galantemente
e
paternamente
,
la
raccomandò
agli
amici
milanesi
Vergani
e
Paone
.
Chieda
,
Sofia
,
e
probabilmente
le
verrà
spiegato
che
fu
un
Ricordi
l
'
uomo
che
per
primo
fece
credito
a
Verdi
.
Alfredo
Ricordi
,
rimasto
vedovo
,
aveva
trovato
la
sola
consolazione
al
suo
dolore
nella
vita
di
mare
e
nella
pesca
;
vestiva
con
un
paio
di
pantaloni
da
marinaio
e
con
una
maglietta
da
ostricaro
.
A
Portofino
o
a
Cannes
non
parlava
d
'
altro
che
di
cefali
,
di
branzini
,
di
ombrine
,
di
pesci
-
cappone
,
di
sardine
,
di
triglie
,
di
polipi
e
di
murene
.
Era
,
bisogna
dirlo
,
un
caro
attaccabottoni
per
via
di
quella
sua
esclusiva
frenesia
per
la
pesca
.
Cercava
inutilmente
compagni
che
sfidassero
con
lui
le
notti
di
burrasca
o
che
lo
aiutassero
a
tirar
su
la
«
sciabica
»
.
Sofia
Loren
-
me
lo
sono
chiesto
sempre
-
si
ricorderà
del
caro
vecchio
,
un
po
'
picchiatello
che
spedì
da
Alassio
,
dove
,
non
potendo
più
affrontare
il
mare
per
l
'
artrite
,
viveva
in
un
appartamentino
con
le
finestre
aperte
a
tutti
i
venti
del
Tirreno
,
il
telegramma
che
ci
raccomandava
la
sua
«
scoperta
»
?
Noi
leggemmo
quel
nome
.
Scicolone
.
Le
ragazze
erano
già
sfilate
un
paio
di
volte
davanti
a
noi
.
Né
Paone
né
io
ci
ricordavamo
di
una
Scicolone
.
Con
il
vecchio
Ricordi
bisognava
però
essere
gentili
.
Non
buttammo
il
telegramma
nel
cestino
.
Cercammo
questa
Sofia
,
questa
Scicolone
,
nel
gruppo
delle
ragazze
che
,
aspettando
i
turni
di
chiamata
,
prendevano
al
bar
una
tazza
di
caffè
o
una
pastiglia
di
aspirina
.
Il
settembre
era
torrido
,
le
finestre
chiuse
per
tenere
lontani
i
curiosi
;
le
ragazze
stavano
tutto
il
giorno
in
costume
da
bagno
,
o
coperte
da
un
accappatoio
,
a
parlare
con
le
madri
o
con
le
amiche
.
Portavano
al
lato
sinistro
del
costume
da
bagno
un
distintivo
con
il
numero
di
iscrizione
.
Questo
numero
permise
a
me
e
a
Paone
di
riconoscere
la
raccomandata
di
Alfredo
Ricordi
,
vecchio
pescatore
malato
di
artrite
.
Sofia
si
era
accorta
della
nostra
manovra
,
dei
nostri
esami
da
lontano
,
del
nostro
bisbigliare
,
delle
occhiate
radenti
di
Paone
,
delle
mie
occhiate
furtive
dietro
agli
occhiali
.
Era
bella
?
Non
ci
parve
.
Prima
di
tutto
ci
sembrava
appartenesse
a
quello
che
i
nostri
padri
,
amici
delle
bellezze
floride
,
chiamavano
il
genere
«
pertica
»
.
Troppo
alta
,
troppo
magra
,
troppo
poco
donna
,
troppo
adolescente
,
ancora
male
impastata
:
e
soprattutto
«
troppo
bocca
»
.
Era
proprio
sulla
bocca
-
oggi
è
una
delle
più
famose
del
mondo
-
che
alle
nostre
occhiate
di
lontano
cascava
l
'
asino
.
Quale
poteva
essere
il
destino
di
quella
«
spilungona
»
?
Tutt
'
al
più
,
con
un
po
'
di
fortuna
,
quello
di
«
puntinista
»
,
di
ballerinetta
da
rivista
.
Toccò
a
me
avvicinarmi
alla
ragazza
dallo
strano
nome
.
Lo
feci
solo
per
rendere
una
cortesia
ad
Alfredo
Ricordi
.
Le
dissi
del
telegramma
,
le
offrii
di
avvicinarsi
al
banco
del
bar
per
prendere
un
aperitivo
.
Si
alzò
,
venne
avanti
,
sedette
su
uno
dei
suoi
alti
sgabelli
:
le
presentai
Paone
e
le
spiegai
che
si
trattava
di
un
celebre
impresario
teatrale
.
Sorrise
:
ma
era
evidente
che
non
l
'
aveva
mai
sentito
nominare
.
Parlava
con
un
accento
napoletano
degno
dei
dialoghi
più
stringenti
di
Peppino
De
Filippo
.
Cosa
aveva
di
bello
?
Non
glielo
dissi
:
aveva
delle
gambe
bellissime
,
ma
il
mio
elogio
non
poteva
soffermarsi
su
questi
particolari
anatomici
.
Non
sapevo
fingere
né
entusiasmo
né
esprimere
una
qualunque
promessa
.
Ma
probabilmente
mi
sarei
salvato
davanti
al
giudizio
della
posterità
proprio
per
via
di
quelle
gambe
.
Domandai
:
«
Le
piacerebbe
fare
del
teatro
dialettale
?
Penso
che
Paone
potrebbe
presentarla
a
De
Filippo
o
a
Taranto
...
»
.
La
ragazza
taceva
.
Io
guardai
ancora
quelle
gambe
;
dissi
:
«
Le
piacerebbe
far
della
rivista
?
Sa
cantare
?
Sa
ballare
?
Anche
se
non
lo
sa
,
non
importa
.
In
tre
mesi
,
Paone
potrebbe
farla
istruire
da
una
brava
maestra
.
Non
ti
pare
,
Remigio
,
che
si
potrebbe
cavarne
fuori
una
bella
subrettina
?
Se
dovessi
dire
,
in
passerella
la
vedo
,
la
vedrei
subito
...
»
.
Remigio
non
aveva
l
'
aria
molto
convinta
ma
,
per
non
contraddirmi
,
fece
un
gesto
di
assenso
.
«
Creda
!
-
continuai
-
sarebbe
,
un
primo
passo
...
Con
Macario
,
per
esempio
,
o
con
la
Osiris
,
una
piccola
scrittura
si
potrebbe
pescarla
...
»
.
La
ragazza
ci
guardava
senza
più
sorridere
.
Si
asciugò
con
il
mignolo
una
goccia
di
aperitivo
che
le
era
caduta
,
dal
bicchiere
,
su
una
gamba
e
si
pulì
il
dito
,
come
una
bambina
,
passandolo
sulla
bocca
.
Rispose
semplicemente
:
«
Teatro
?
No
...
Rivista
?
No
...
O
cinema
o
niente
...
»
.
Farfugliammo
qualche
parola
di
risposta
,
tanto
per
essere
gentili
.
Lei
ripeté
:
«
O
Cinema
,
o
niente
!
»
Ci
strinse
la
mano
,
ci
salutò
;
si
allontanò
sulle
lunghissime
gambe
,
sparì
verso
l
'
atrio
degli
ascensori
.
La
saletta
del
bar
era
deserta
.
Remigio
ed
io
sbottammo
a
ridere
sempre
più
fragorosamente
.
«
Hai
capito
che
presunzione
?
Cinema
?
Ma
in
questo
albergo
non
ci
sono
specchi
nelle
camere
?
Cinema
!
!
!
Con
quella
bocca
!
!
!
»
.
E
il
nostro
riso
si
faceva
addirittura
tonante
.
StampaQuotidiana ,
Non
so
in
quale
anno
Ojetti
,
romano
di
nascita
,
fiorentino
d
'
elezione
,
milanese
di
lavoro
,
abbia
comprato
il
Salviatino
.
Prima
,
mi
hanno
raccontato
,
aveva
una
villetta
su
un
viale
della
circonvallazione
-
brutto
nome
,
ma
bellissima
circonvallazione
,
quella
di
Firenze
,
appoggiata
subito
al
primo
gradino
dei
colli
-
e
,
se
non
sbaglio
,
la
vendette
telegraficamente
per
poter
comprare
un
bassorilievo
di
Jacopo
della
Quercia
che
aveva
scoperto
a
Londra
,
in
un
'
asta
.
Rimase
qualche
tempo
senza
casa
,
ma
con
un
pezzo
di
marmo
che
sta
nella
Storia
dell
'
Arte
.
Questo
può
dare
un
'
idea
dell
'
uomo
,
e
del
suo
amore
per
le
cose
belle
e
rare
.
Il
Marmo
di
Jacopo
è
ancora
su
al
Salviatino
,
dove
fu
poi
portato
,
in
una
vecchia
villa
dei
Salviati
che
sembrava
lo
specchio
dell
'
ordine
nelle
cose
e
nelle
idee
così
amato
dallo
scrittore
.
Il
Salviatino
diventò
,
con
gli
anni
,
una
specie
di
museo
prezioso
,
vi
si
raccolsero
una
biblioteca
foltissima
e
un
archivio
addirittura
monumentale
.
Vi
si
andava
come
ad
una
specie
di
amabile
Quirinale
.
Si
suonava
al
cancello
della
portineria
,
in
basso
,
aspettando
che
di
lassù
,
dalla
villa
,
oltre
il
parco
,
si
rispondesse
:
«
Passi
»
.
I
più
si
sforzavano
di
arrivarvi
in
taxi
o
in
tassì
come
aveva
insegnato
a
scrivere
Ugo
.
Federigo
Tozzi
,
nel
1910
,
ci
arrivò
in
bicicletta
,
da
Siena
,
vestito
come
un
girino
,
smaltato
di
fango
,
ma
fu
accolto
egualmente
con
affetto
.
Quando
io
,
venticinque
anni
fa
,
ci
capitavo
,
tremavo
sempre
all
'
idea
che
Ojetti
(
immancabile
lettore
della
terza
pagina
del
«
Corriere
»
)
mi
mettesse
con
garbo
sotto
gli
occhi
un
mio
articolo
segnato
con
un
lapis
sottile
a
tutti
i
francesismi
,
a
tutti
i
punti
e
virgola
sbagliati
,
a
tutti
gli
odiati
esclamativi
.
Caro
Ojetti
,
la
preoccupazione
della
lindura
e
del
finito
l
'
aveva
fatto
un
po
'
pignolo
:
ma
era
un
segno
dell
'
attenzione
con
cui
fra
i
cinquanta
e
i
sessant
'
anni
,
seppe
riconoscere
alcuni
giovani
scrittori
,
come
Piovene
,
Loria
,
Quarantotti
Gambini
,
Arrigo
Benedetti
,
la
cui
opera
,
più
tardi
,
doveva
dimostrare
che
Ojetti
non
era
facile
a
sbagliarsi
.
Nel
mezzanino
della
villa
lo
scrittore
aveva
il
suo
studio
.
La
grande
biblioteca
con
la
quadreria
stava
e
sta
al
primo
piano
:
gli
archivi
,
la
fototeca
,
le
collezioni
di
autografi
al
pianterreno
.
Nello
studio
era
raccolta
una
biblioteca
minore
,
divisa
in
tre
stanze
,
dove
potevi
trovare
,
a
colpo
sicuro
,
tutto
il
pubblicato
e
l
'
inedito
,
per
esempio
,
su
Diego
Martelli
,
amico
dei
Macchiaioli
,
e
combinare
una
perfetta
bibliografia
su
Amedeo
Modigliani
o
su
Ugo
Foscolo
.
Ojetti
non
era
un
improvvisatore
,
amava
documentarsi
all
'
estremo
e
non
fidarsi
della
memoria
.
Teneva
ogni
sera
aggiornato
un
diario
,
e
,
quand
'
era
in
viaggio
,
per
veder
meglio
una
certa
cosa
,
per
obbligare
l
'
occhio
a
una
più
accanita
attenzione
,
ritraeva
quella
cosa
con
qualche
appunto
di
disegno
.
Era
stato
,
in
gioventù
,
scrittore
anche
di
novelle
un
po
'
scorrevoli
,
ma
,
nella
maturità
,
aveva
imparato
a
scrivere
i
capitoli
delle
Cose
viste
in
tre
giorni
e
,
in
quei
giorni
,
non
rispondeva
nemmeno
al
telefono
.
Era
,
nella
conversazione
,
dallo
stile
francese
,
un
po
'
incline
all
'
aneddotica
per
il
gusto
del
ritrattino
d
'
uomo
e
di
ambiente
schizzato
con
pochi
tratti
,
come
certi
appunti
dei
taccuini
di
Boldini
;
ma
dietro
al
suo
scrivere
c
'
era
una
lunga
preparazione
.
Era
difficile
prenderlo
in
fallo
.
Giunto
presto
alla
fortuna
e
quasi
quasi
,
in
un
momento
,
alla
dittatura
delle
arti
e
delle
lettere
,
Ojetti
non
peccò
mai
,
come
capita
agli
arrivati
e
ai
dittatori
,
di
presunzione
.
Innanzi
all
'
artista
-
sia
che
di
questo
dovesse
leggere
un
libro
,
o
un
sottile
racconto
,
o
guardare
un
quadro
-
egli
era
sempre
in
posizione
di
affetto
e
di
rispetto
:
segno
della
sua
intima
civiltà
.
Questo
spiega
perché
egli
fosse
portato
come
scrittore
,
alla
«
cosa
vista
»
e
al
ritratto
:
proprio
in
un
tempo
in
cui
,
in
pittura
,
i
ritrattisti
venivano
,
in
un
certo
ambiente
critico
,
ridicolizzati
,
e
in
letteratura
si
andava
verso
l
'
indefinito
e
l
'
ermetico
,
quasi
cercando
sempre
di
camminare
un
palmo
sopra
terra
.
Dovendo
scrivere
,
un
giorno
,
degli
artisti
italiani
suoi
contemporanei
disegnò
dunque
dei
«
ritratti
»
e
non
volle
aggrovigliare
,
come
oggi
si
farebbe
,
una
lunga
matassa
di
teorie
estetiche
.
È
questo
un
merito
che
fa
ritrovare
ancora
vivi
,
dopo
tanti
anni
,
i
profili
dei
pittori
da
lui
conosciuti
e
amati
,
che
cominciò
a
pubblicare
nel
1911
,
così
come
sono
ancora
vivi
quelli
dei
letterati
di
cui
andò
alla
scoperta
più
di
cinquant
'
anni
fa
,
cominciando
addirittura
da
un
gustosissimo
ritrattino
del
canuto
decano
dell
'
Ottocento
,
Cesare
Cantù
.
Il
tempo
s
'
incaricherà
,
probabilmente
,
di
rivedere
tanto
il
gusto
del
tempo
di
Ojetti
,
quanto
quello
su
cui
con
troppa
sicurezza
si
giura
oggi
.
Importa
,
per
ora
,
che
i
ritratti
,
da
quelli
di
Michetti
e
di
Carena
a
quelli
di
Sartorio
e
di
Spadini
,
siano
fedeli
e
vivi
,
e
che
attorno
ad
essi
sia
vivo
,
come
sa
renderlo
Ojetti
,
l
'
ambiente
del
suo
tempo
anche
se
un
po
'
ottimistico
.
Molta
polvere
si
è
posata
sul
lucido
di
certe
glorie
:
hanno
però
fatto
bene
a
non
spolverarle
.
I
ritratti
ci
guadagnano
così
una
certa
patina
,
e
le
notizie
,
di
cui
Ojetti
era
avvedutissimo
raccoglitore
,
restano
essenziali
e
indicative
.
Magari
,
bisogna
dire
,
venissero
altri
ritrattisti
del
merito
e
dell
'
affetto
di
Ojetti
,
il
«
signore
del
Salviatino
»
.
Il
nostro
tempo
lascerà
ben
pochi
documenti
del
suo
travaglio
e
delle
sue
passioni
.
Non
è
stata
scritta
una
vita
di
Spadini
,
non
si
trova
un
editore
per
una
vita
di
Arturo
Martini
:
non
è
stata
scritta
una
«
cronaca
»
del
Futurismo
o
del
Novecento
o
del
movimento
rondista
:
è
inedito
l
'
epistolario
di
Giovanni
Fattori
.
Sui
pittori
si
pubblicano
sontuose
monografie
,
ma
con
prefazioni
il
cui
valore
informativo
,
per
i
posteri
,
sarà
probabilmente
nullo
.
Gli
Italiani
hanno
sempre
paura
di
non
scrivere
cose
abbastanza
importanti
,
e
,
pretendendo
di
parlare
all
'
eternità
,
finiscono
spesso
per
parlare
al
vuoto
o
ad
una
sola
chiesola
.
StampaQuotidiana ,
Via
Pietralata
pareva
,
allora
,
in
capo
al
mondo
.
Era
una
traversa
di
via
Nomentana
,
aperta
,
all
'
imbocco
,
fra
le
mura
di
due
vecchi
giardini
.
Ci
si
arrivava
con
un
tram
sconquassato
che
sollevava
nuvoli
di
polverone
.
Attorno
a
quello
che
oggi
è
solamente
un
terreno
da
costruzioni
,
tutto
il
paesaggio
dev
'
essere
cambiato
,
e
certamente
,
se
mi
accadesse
di
percorrere
l
'
attuale
via
De
Rossi
dove
adesso
abita
Mario
Soldati
,
non
riconoscerei
la
vecchia
via
Pietralata
che
tanti
pomeriggi
e
tante
mattine
udì
sui
suoi
ciottoli
e
sul
suo
fango
campestre
il
mio
passo
di
ragazzo
,
fra
il
1918
e
il
1926
.
Da
un
lato
,
entrando
da
via
Nomentana
,
la
strada
confinava
col
muraglione
del
parco
di
Villa
Torlonia
;
dall
'
altro
con
terreni
e
vigne
di
antiche
proprietà
ecclesiastiche
.
In
quei
vigneti
e
fra
quei
muriccioli
degli
orti
e
dei
frutteti
,
si
erano
accampati
,
il
18
e
il
19
settembre
del
'70
,
i
bersaglieri
del
generale
Cadorna
che
dovevano
dare
l
'
assalto
a
Porta
Pia
.
Sotto
al
passo
dei
loro
battaglioni
aveva
risposto
,
poche
centinaia
di
metri
più
giù
,
l
'
eco
dei
sotterranei
delle
catacombe
di
Sant
'
Agnese
.
Dopo
aver
fiancheggiato
Villa
Torlonia
si
udiva
,
dietro
al
muro
,
il
grido
rauco
dei
pavoni
,
la
strada
sboccava
fra
le
sterpaglie
e
gli
orti
malaticci
di
una
zona
di
terreni
incolti
chiusi
da
siepi
polverose
e
da
barriere
tarlate
come
quelle
che
nell
'
Agro
si
usano
per
i
chiusi
dei
bufali
e
delle
vaccine
.
In
uno
di
quei
terreni
,
attorno
al
1910
,
il
cinema
muto
aveva
innalzato
il
baraccone
di
vetro
di
uno
«
studio
»
e
,
accanto
allo
spiazzo
dove
gli
operatori
venivano
a
girare
i
«
primi
piani
»
in
pieno
sole
,
era
venuta
su
la
«
palazzina
Ciangottini
»
:
una
villetta
con
tre
o
quattro
appartamenti
,
dove
Pirandello
era
andato
ad
abitare
con
la
figlia
Lietta
e
i
ragazzi
Stefano
e
Fausto
.
Era
una
casa
semplice
,
che
oggi
si
giudicherebbe
assai
modesta
,
con
una
piccola
anticamera
e
la
sala
da
pranzo
separata
dallo
studio
con
un
arco
vetrato
.
Nell
'
anticamera
,
c
'
erano
un
borghesissimo
attaccapanni
d
'
ottone
e
una
non
meno
borghese
cassapanca
di
imitazione
cinquecentesca
.
Le
case
di
Pirandello
non
assomigliarono
mai
a
quelle
che
in
Francia
e
anche
in
Italia
si
chiamarono
le
raisons
d
'
artiste
,
in
parte
museo
e
in
parte
magazzino
di
antiquariato
,
di
cui
esempi
classici
furono
la
casa
di
Victor
Hugo
nell
'
isola
di
Guernesey
,
il
«
granaio
»
dei
Goncourt
a
Parigi
,
la
«
sagrestia
»
di
Anatole
France
,
il
«
conventino
»
del
giovane
Claudel
che
fu
giudicato
insopportabile
da
Jules
Renard
,
e
,
saggi
supremi
,
la
Capponcina
e
il
Vittoriale
di
D
'
Annunzio
.
Pirandello
non
«
mise
in
scena
»
la
propria
vita
:
non
fu
il
«
tappezziere
»
che
D
'
Annunzio
amava
essere
.
Il
mondo
del
suo
spirito
si
proiettava
tutto
nel
rettangolo
del
foglio
bianco
su
cui
scrivere
.
Le
finestre
del
suo
studio
si
aprivano
su
un
panorama
campestre
macchiato
qua
e
là
dal
bianco
e
dal
rosa
di
qualche
villetta
,
sparso
di
riquadri
coltivati
a
carciofi
e
a
rape
,
o
abbandonato
a
praticelli
incolti
dove
all
'
alba
si
vedevano
camminare
lentamente
fra
siepe
e
siepe
le
donne
che
raccoglievano
la
cicoria
selvatica
.
In
quegli
stessi
prati
,
alla
sera
,
si
fermavano
le
greggi
delle
pecore
che
dovevano
aspettare
fino
a
notte
per
attraversare
nel
loro
viaggio
Roma
,
da
Porta
Pia
a
Porta
del
Popolo
.
In
quello
scenario
che
ancora
apparteneva
agli
ottocenteschi
sfondi
della
pittura
«
fuori
porta
»
,
capitava
ancora
nel
1920
di
vedere
,
con
il
loro
cane
ringhiante
,
gli
ultimi
pastori
dalle
gambe
avvolte
nelle
«
ciocie
»
.
Imboccata
la
via
Pietralata
,
si
continuava
a
camminare
un
pezzo
fra
le
mura
di
quei
giardini
.
La
via
era
,
nel
primo
tratto
,
in
lieve
salita
.
Le
mura
erano
di
vecchi
mattoni
rossi
,
mescolati
ogni
tanto
al
sasso
.
L
'
aria
era
quella
della
antica
periferia
papale
e
cardinalizia
,
che
Roma
conservò
fuori
Porta
Pia
anche
dopo
la
Breccia
del
1870
.
Molti
anni
erano
passati
da
allora
,
ma
Roma
,
da
queste
parti
,
non
si
era
ancora
allargata
.
L
'
unità
d
'
Italia
aveva
creato
i
suoi
nuovi
quartieri
in
via
XX
Settembre
e
nelle
sue
grigie
traverse
di
tipo
torinese
,
dove
Luigi
Pirandello
guardava
vivere
verso
i
primi
del
'900
quella
borghesia
attristita
che
passava
,
un
tipo
dopo
l
'
altro
,
nelle
sue
novelle
.
A
Porta
Pia
la
nuova
Roma
si
fermava
,
avanzava
con
rari
casoni
verso
viale
della
Regina
,
poi
cedeva
il
passo
a
quella
papale
,
alla
campagna
che
con
le
sue
lievi
ondulazioni
porta
all
'
Aniene
e
che
nasconde
nella
sua
terra
bruna
il
tufo
delle
catacombe
.
Terra
di
monasteri
e
di
vigneti
;
l
'
asfalto
era
ignoto
,
regnavano
ancora
,
nelle
vie
più
importanti
,
i
selci
e
i
selciaroli
.
Ogni
tanto
venivano
avanti
il
corteo
di
un
seminario
,
la
carrozza
di
un
cardinale
-
i
principi
della
Chiesa
non
avevano
ancora
adottata
l
'
automobile
-
una
coppia
di
cappuccini
.
La
via
Pietralata
aveva
un
'
aria
di
oremus
.
Piaceva
molto
,
per
la
sua
solitudine
,
ai
fidanzati
.
Le
ragazze
strappavano
dalle
siepi
un
fiore
di
gelsomino
e
lo
mordevano
mentre
,
a
bassa
voce
,
il
fidanzato
faceva
una
scena
di
gelosia
.
Il
giovane
,
che
io
ero
allora
,
andava
per
via
Pietralata
,
girava
in
fondo
dove
la
strada
fa
un
gomito
,
seguiva
una
siepe
,
suonava
al
cancelletto
della
villetta
.
«
C
'
è
il
professore
?
»
.
Il
professore
c
'
era
.
La
cameriera
non
annunciava
nemmeno
la
visita
quando
si
trattava
di
uno
degli
amici
di
Fausto
e
di
Stefano
.
Il
professore
li
lasciava
entrare
,
andare
e
venire
,
chiacchierare
,
ridere
,
fare
chiasso
.
Lui
stava
al
suo
tavolino
,
abituato
da
vent
'
anni
a
lavorare
con
i
figli
vicino
.
Restava
seduto
al
suo
vecchio
tavolino
,
che
sembrava
il
tavolo
da
lavoro
della
nonna
,
cintato
,
tutto
attorno
,
da
una
piccola
balaustrata
in
miniatura
.
Vecchie
lettere
,
bozze
,
manoscritti
,
giornali
,
tutto
era
andato
ammucchiandosi
su
quel
tavolino
da
vent
'
anni
.
Lì
erano
nati
quindici
volumi
di
novelle
e
lì
era
nato
Il
fu
Mattia
Pascal
.
Sul
ripiano
,
non
c
'
era
posto
che
per
una
sola
cartella
.
Davanti
,
stavano
due
boccettine
di
inchiostro
nero
e
di
inchiostro
rosso
.
Pirandello
usava
l
'
inchiostro
rosso
da
quando
aveva
cominciato
a
scrivere
per
il
teatro
:
lo
usava
per
le
didascalie
dell
'
azione
in
scena
.
Quello
nero
era
riservato
al
dialogo
.
Pirandello
alternava
metodicamente
le
due
penne
,
con
un
gesto
preciso
,
senza
fretta
.
Scriveva
dettandosi
a
mezza
voce
ogni
parola
,
come
in
un
monologo
.
I
personaggi
erano
vivi
in
lui
fin
dalla
prima
battuta
:
pareva
ch
'
egli
si
limitasse
a
prendere
voce
da
un
invisibile
suggeritore
.
Non
c
'
era
da
attendere
l
'
ispirazione
,
o
da
interrogare
il
vuoto
.
Se
il
personaggio
rideva
,
Pirandello
rideva
;
se
il
personaggio
implorava
,
Pirandello
implorava
;
se
il
personaggio
piangeva
,
Pirandello
piangeva
.
E
se
l
'
altro
personaggio
del
dialogo
,
per
rispondere
,
imprecava
,
Pirandello
imprecava
,
e
la
commozione
scompariva
subito
dall
'
occhio
e
l
'
ira
lo
colorava
.
In
questo
alternarsi
di
sentimenti
non
dimenticava
l
'
inchiostro
rosso
:
e
,
prendendo
l
'
altra
penna
e
dettandosi
le
parole
delle
didascalie
,
Pirandello
era
,
all
'
improvviso
,
calmo
,
sereno
e
attento
,
e
guardava
un
attimo
innanzi
a
sé
come
se
avesse
voluto
controllare
su
un
invisibile
modellino
della
scena
,
i
movimenti
dei
suoi
personaggi
.
«
Siedi
un
momento
.
Tra
dieci
minuti
,
ho
finito
»
.
Il
ragazzo
sapeva
che
Pirandello
,
tre
mattine
prima
,
aveva
iniziato
una
nuova
commedia
.
Sapeva
che
Pirandello
prendeva
a
scrivere
alle
nove
e
che
,
di
solito
,
a
mezzogiorno
metteva
giù
la
penna
,
e
un
atto
era
finito
.
Improvvisazione
?
No
.
Le
novelle
di
Pirandello
«
covavano
»
talvolta
per
dieci
anni
.
Le
commedie
derivavano
dalle
novelle
,
ed
erano
state
«
covate
»
anche
loro
decine
d
'
anni
.
I
personaggi
avevano
ormai
preso
una
realtà
allucinante
:
bastava
soffiar
loro
sul
viso
perché
si
destassero
e
parlassero
.
Quando
il
personaggio
aveva
conquistato
,
ormai
,
la
sua
intera
ragione
,
lo
scrittore
gli
regalava
la
parola
.
Così
,
parola
per
parola
,
lo
accompagnava
alla
vita
.
C
'
era
dentro
allo
studio
un
sofà
piuttosto
sfondato
,
di
cui
si
sentivano
le
molle
cedere
e
cigolare
sotto
a
chi
sedeva
:
un
armadio
a
vetri
,
di
tipo
«
umbertino
»
conteneva
alla
rinfusa
qualche
fila
di
libri
slegati
,
scompagnati
,
sdruciti
.
Quella
era
la
«
biblioteca
»
di
Pirandello
,
che
vi
buttava
dentro
,
alla
rinfusa
,
senza
tagliarne
le
pagine
,
le
edizioni
nuove
delle
sue
opere
,
o
quelle
che
gli
arrivavano
delle
traduzioni
straniere
.
La
sua
indifferenza
per
un
se
stesso
inquadrato
in
un
clima
da
museo
era
totale
.
Una
volta
,
per
varie
settimane
,
vidi
nello
stesso
angolo
di
quel
divano
un
enorme
pacco
,
arrivato
dalla
Spagna
,
con
gli
spaghi
intatti
.
Alla
fine
,
ottenni
da
lui
il
consenso
di
aprirlo
:
conteneva
una
ventina
di
volumi
delle
sue
obras
tradotte
in
spagnolo
.
Quando
glielo
annunciai
e
gli
chiesi
dove
avrei
potuto
riporre
in
bell
'
ordine
quei
libri
,
Pirandello
alzò
appena
gli
occhi
dal
tavolino
e
fece
un
cenno
come
per
dire
:
«
E
che
me
ne
importa
?
»
.
Il
ragazzo
aspettava
.
Pirandello
continuava
a
scrivere
,
alternando
l
'
inchiostro
rosso
e
l
'
inchiostro
nero
,
con
la
mano
tranquilla
come
quella
di
uno
scrivano
di
notaio
.
Il
sole
entrava
dalla
finestra
nello
studio
-
salotto
:
illuminava
l
'
armadio
a
vetri
della
piccola
libreria
dove
,
in
uno
sportello
,
era
infilata
una
vecchia
fotografia
fatta
all
'
università
di
Bonn
:
una
fotografia
heiniana
.
II
ragazzo
stava
fermo
,
per
non
dare
fastidio
,
essendo
giunto
in
anticipo
sull
'
ora
prevista
.
Non
alzava
gli
occhi
al
tavolino
dello
scrittore
per
non
disturbarlo
.
Guardava
ogni
tanto
la
sua
immagine
che
si
rifletteva
nel
vetro
della
libreria
,
un
po
'
sfumata
,
un
po
'
azzurrata
.
Seguiva
là
il
gioco
di
quel
volto
che
non
era
più
il
volto
di
Pirandello
,
ma
quello
dei
suoi
personaggi
.
La
voce
che
dettava
era
,
alla
distanza
di
pochi
metri
,
inintelligibile
;
ma
il
tono
mutava
,
saliva
,
scendeva
,
toccava
le
note
del
pianto
,
del
disgusto
,
dello
sgomento
,
dell
'
orrore
,
della
stupefazione
.
Pirandello
posò
la
penna
dell
'
inchiostro
nero
.
Prese
l
'
altra
per
una
ultima
didascalia
.
Poi
guardò
,
contro
luce
,
se
la
pagina
era
asciutta
.
Raccolse
le
cartelline
,
ne
fece
un
mucchietto
,
riscontrò
la
numerazione
.
Domandò
che
ora
era
.
Domandò
anche
:
«
Cosa
mi
hai
portato
?
»
«
Una
novelletta
.
»
Si
alzò
.
Venne
verso
il
ragazzo
,
si
fece
dare
i
suoi
fogli
.
Disse
:
«
La
leggerò
stasera
.
Oggi
,
a
pomeriggio
,
devo
scrivere
il
terzo
atto
,
l
'
ultimo
,
di
un
'
altra
commedia
»
.
«
E
questa
che
ha
finito
adesso
,
professore
,
come
si
intitola
?
»
«
È
,
te
l
'
ho
detto
,
quella
commedia
,
dei
personaggi
che
cercano
un
autore
.
Si
intitola
appunto
Sei
personaggi
in
cerca
d
'autore.»
Poi
parlò
subito
d
'
altro
.
StampaQuotidiana ,
Chiuso
in
Italia
,
con
i
primi
anni
del
secolo
,
il
tempo
della
poesia
dei
«
grandi
professori
»
,
dei
dotti
rimatori
,
dei
vati
dalle
pupille
fiammeggianti
o
dal
cuore
di
«
fanciulloni
»
,
spenti
gli
ultimi
echi
delle
odi
civili
,
condannata
o
quasi
la
qualità
oratoria
dei
carmi
,
il
nostro
,
con
ogni
probabilità
apparirà
ai
posteri
come
il
tempo
dei
poeti
autodidatti
.
I
bassorilievi
con
le
immagini
delle
Muse
sono
scomparse
dagli
studi
dei
poeti
.
Cerchiamo
entro
al
fondo
dell
'
esperienza
culturale
nelle
stagioni
giovanili
di
quelli
che
sono
i
poeti
d
'
oggi
.
Troviamo
ingegneri
o
studenti
di
ingegneria
,
matematici
(
come
lo
fu
Valéry
)
,
giovanotti
che
ad
un
certo
momento
chiedono
il
pane
al
mestiere
di
antiquari
,
correttori
di
bozze
,
segretari
di
sindacati
,
se
non
sbaglio
,
dei
selciaroli
romani
-
parlo
di
Cardarelli
-
interpreti
e
traduttori
in
un
Ministero
degli
Esteri
,
come
Ungaretti
.
Verso
la
fine
dell
'
Ottocento
era
di
moda
compilare
dei
volumi
con
il
titolo
Il
primo
passo
,
nei
quali
gli
scrittori
raccontavano
per
quale
timido
o
fortunato
sentiero
fossero
giunti
ad
aprire
un
primo
spiraglio
nell
'
uscio
della
gloria
.
Anche
l
'
Italia
ha
avuto
i
suoi
giovani
poeti
infelici
,
i
suoi
poètes
maudits
o
addirittura
folli
e
vagabondi
come
Campana
:
ragazzi
che
aspiravano
a
diventare
attori
come
Palazzeschi
e
Moretti
,
giovani
condannati
dalla
tisi
come
Gozzano
:
e
anche
giovani
poeti
suicidi
,
o
,
al
tempo
del
primo
Futurismo
,
versoliberisti
che
,
otto
ore
al
giorno
,
sbrigavano
pratiche
al
Fondo
Culti
,
dietro
la
romana
Villa
Aldobrandini
.
Il
futurismo
,
che
arruolò
tanta
«
nuova
accademia
»
ebbe
poeti
maestri
di
scienze
tragiche
e
gelide
,
come
la
chirurgia
.
Altri
poeti
vissero
per
decine
d
'
anni
sepolti
in
una
biblioteca
o
in
una
libreria
«
circolante
»
.
Più
tardi
i
poeti
trovarono
il
loro
pane
nei
giornali
,
scrivendo
note
di
cronaca
nera
,
o
nel
mondo
del
rotocalco
,
componendo
in
righe
di
esatta
misura
didascalie
per
fotografie
di
moda
,
o
in
case
editrici
,
con
le
scrivanie
cintate
da
barricate
di
manoscritti
.
Ora
che
il
lauro
del
Premio
Nobel
corona
l
'
opera
di
Salvatore
Quasimodo
-
primo
poeta
nostro
che
venga
a
collocare
il
suo
nome
accanto
a
quello
di
Giosuè
Carducci
,
Nobel
del
1906
-
verranno
probabilmente
scritte
lunghe
pagine
sulla
storia
della
sua
vita
.
La
poesia
di
Quasimodo
non
ha
i
caratteri
autobiografici
che
usarono
nel
tempo
passato
:
sarà
difficile
raccogliere
le
citazioni
per
una
,
come
dice
una
collana
francese
,
vie
par
lui
même
.
La
sua
lirica
non
è
fatta
di
«
confessioni
e
ricordi
»
;
non
ha
,
ci
sembra
,
sfondi
di
paesaggi
e
di
ambienti
familiari
:
né
riflessi
identificabili
di
emozioni
sentimentali
.
La
vita
di
Quasimodo
-
uomo
dal
volto
sottilmente
altero
:
la
sua
«
maschera
»
è
stata
acutamente
studiata
per
busti
modellati
dal
suo
conterraneo
Francesco
Messina
e
da
Manzù
-
può
sostanzialmente
apparire
incolore
.
Il
futuro
poeta
-
molti
pensano
che
sia
siracusano
,
venuto
al
mondo
vicino
alle
fonti
della
Ninfa
Aretusa
-
nasce
a
Modica
,
nel
retroterra
agrario
di
quella
che
fu
la
Magna
Grecia
mediterranea
.
Vive
la
fanciullezza
in
una
piccola
stazione
ferroviaria
della
Sicilia
,
col
padre
che
spera
di
fare
di
lui
,
quando
sarà
uomo
,
un
ingegnere
.
Letture
infantili
di
grandi
poeti
:
studi
tecnici
e
scientifici
a
Messina
.
Dopo
due
anni
di
ingegneria
,
non
può
continuare
l
'
università
e
si
adatta
a
lavorare
da
geometra
:
campa
con
un
po
'
di
lavoro
avventizio
come
disegnatore
nello
studio
di
un
ingegnere
;
si
impiega
come
commesso
in
un
grande
«
emporio
»
milanese
;
riprende
la
sua
attività
di
geometra
per
quella
carriera
che
in
Francia
si
chiama
dei
ponts
et
chaussées
.
I
ricordi
più
antichi
della
figura
di
Quasimodo
-
che
ha
già
presentato
qualche
lirica
in
«
Solaria
»
e
per
il
quale
il
«
rondismo
»
appartiene
ad
una
generazione
che
ha
già
definito
e
concluso
il
proprio
ciclo
-
si
inquadrano
nel
mondo
milanese
après
1930
.
Egli
rappresenta
la
generazione
dei
giovani
emigranti
intellettuali
che
sono
«
piovuti
»
a
Milano
senza
precise
idee
su
quelle
che
potrà
essere
il
loro
lavoro
,
senza
precisabili
titoli
di
studio
,
senza
grosse
aderenze
nel
mondo
editoriale
che
non
vuole
poesia
e
cerca
ancora
gli
eredi
di
Da
Verona
.
Ecco
-
probabilmente
abitano
in
modestissime
camere
ammobiliate
-
un
tavolo
al
Savini
:
ma
assai
in
disparte
da
quelli
dei
giornalisti
famosi
,
delle
attrici
,
degli
autori
drammatici
:
distanti
anche
dal
tavolo
dove
siedono
i
pittori
del
gruppo
del
Novecento
.
È
il
tavolo
,
per
citare
qualche
nome
,
di
Francesco
Messina
,
di
Cesare
Zavattini
,
di
Raffaele
Carrieri
,
del
giovane
ingegnere
e
poeta
Leonardo
Sinisgalli
,
del
poeta
Orazio
Napoli
,
del
giovane
novelliere
toscano
Arturo
Tofanelli
,
del
pittore
Domenico
Cantatore
.
Gli
italiani
fanno
della
storia
e
della
critica
letteraria
di
toni
cogitabondi
.
Dall
'
aneddotica
,
dalla
cronaca
,
dal
diarismo
ci
si
tiene
al
largo
.
La
vita
della
Milano
di
quegli
anni
-
eppure
fu
la
città
del
Futurismo
,
della
Pittura
Metafisica
,
del
«
Novecento
»
,
dell
'
Ermetismo
-
non
ha
avuto
il
suo
André
Salmon
,
come
lo
ha
avuto
Parigi
.
Uomo
segretamente
inquieto
sotto
una
maschera
di
apparente
mutismo
,
Quasimodo
-
poeta
dal
nome
subito
indimenticabile
,
almeno
per
chi
abbia
letto
Notre
-
Dame
di
Victor
Hugo
-
sta
al
centro
di
quel
mondo
senza
riti
o
premi
letterari
.
Il
cenacolo
finirà
,
con
gli
anni
,
a
disperdersi
per
varie
vie
.
Adesso
,
inserito
nella
storia
letteraria
dal
Nobel
assegnato
a
quello
che
era
allora
il
geometra
di
Modica
,
esso
assume
una
sua
precisa
fisionomia
:
è
il
Cenacolo
di
Quasimodo
.
Erano
i
tempi
del
volume
di
liriche
Oboe
sommerso
,
di
sapore
,
mi
sembra
,
un
po
'
alla
Debussy
.
Quasimodo
diventa
un
portabandiera
dell
'
Ermetismo
.
I
suoi
primi
critici
sono
Montale
,
Giansiro
Ferrata
,
Vittorini
,
cui
seguono
Solmi
,
Anceschi
,
Bo
,
Vigorelli
.
Lo
definiscono
il
poeta
dalla
«
voce
assorta
»
che
modula
gli
echi
di
una
accorata
mitologia
decantata
dalle
scorie
di
qualunque
scolasticismo
.
In
breve
giro
d
'
anni
,
alcuni
suoi
versi
(
Ed
è
subito
sera
)
diventano
famosi
.
La
nonna
di
Quasimodo
ha
origini
greche
:
il
nipote
pensa
all
'
Ellade
come
ad
una
patria
perduta
,
e
al
mondo
come
il
misterioso
luogo
in
cui
tutti
cerchiamo
una
nostra
patria
,
e
cioè
la
fonte
di
tutte
le
nostre
origini
e
lo
schermo
di
tutte
le
nostre
speranze
.
Senza
singhiozzi
romantici
,
senza
«
fatti
personali
»
,
senza
autobiografiche
confessioni
desolate
,
vorrei
dire
che
Quasimodo
appare
ispirato
da
una
Musa
con
le
palpebre
mestamente
socchiuse
.
Idealmente
,
egli
è
riapprodato
al
sogno
delle
sue
antichissime
origini
ancestrali
,
attraverso
lo
studio
della
poesia
ellenica
,
al
quale
l
'
autodidatta
ha
potuto
dedicarsi
solo
alle
soglie
dell
'
età
matura
,
come
un
premio
della
giovinezza
povera
,
affaticata
,
oscuramente
laboriosa
.
Vicino
ormai
ai
sessant
'
anni
,
salvato
dalla
durissima
minaccia
di
una
malattia
che
stava
per
spezzare
il
suo
cuore
,
simile
in
tante
fasi
della
sua
vita
ad
un
«
ulisside
della
speranza
»
,
egli
parla
,
in
una
lirica
,
di
un
compagno
di
fanciullezza
,
nel
cui
volto
,
però
,
ci
pare
egli
guardi
se
stesso
come
in
uno
specchio
:
e
quel
fanciullo
io
amavo
/
sopra
gli
altri
;
destro
/
nel
gioco
della
lippa
e
delle
piastre
/
e
tacito
sempre
e
senza
riso
.
StampaQuotidiana ,
Malato
da
molti
anni
,
Umberto
Saba
,
forse
,
soffriva
soprattutto
di
melanconia
e
di
una
complessa
angoscia
che
doveva
in
gran
parte
risalire
al
trauma
di
cui
aveva
duramente
sofferto
durante
il
lungo
periodo
delle
persecuzioni
razziali
.
Il
problema
del
«
sangue
»
,
come
quello
della
religione
,
era
stato
presente
nella
sua
vita
fin
da
quando
il
padre
suo
aveva
abbandonato
la
moglie
ebrea
,
lasciandola
sola
e
in
povertà
con
un
bambino
gracile
e
pallido
.
Il
seme
di
una
cupa
ingiustizia
lo
aveva
accompagnato
fin
dall
'
infanzia
.
Nato
cattolico
,
aveva
voluto
dichiararsi
spiritualmente
ebraico
,
scegliendo
fra
quello
paterno
e
quello
materno
,
quest
'
ultimo
sangue
;
e
si
era
iscritto
alla
comunità
israelita
.
Al
tempo
delle
leggi
razziali
,
non
aveva
ancora
sessant
'
anni
,
ma
era
stanco
,
pallido
,
esangue
sino
a
sembrare
quasi
cereo
.
Egli
fu
considerato
un
«
ebreo
volontario
»
.
Per
questo
,
la
sua
«
posizione
»
si
presentava
gravissima
.
Saba
non
era
certamente
un
uomo
preparato
a
lottare
se
non
per
problemi
puramente
spirituali
.
Aveva
amato
l
'
Italia
con
un
amore
che
l
'
aveva
condotto
a
lasciare
Trieste
nel
1914
e
ad
arruolarsi
volontario
con
gli
altri
irredenti
.
Poi
si
era
ritirato
nella
città
amata
e
finalmente
liberata
.
Non
aveva
la
possibilità
di
una
professione
precisa
:
aveva
pubblicato
,
nelle
edizioni
della
«
Voce
»
due
piccole
raccolte
di
versi
che
non
gli
avevano
dato
diritti
d
'
autore
se
non
per
acquistare
qualche
pacchetto
di
sigarette
.
Non
poteva
vivere
con
il
semplice
pane
della
buona
stima
letteraria
fruttata
da
quei
versi
.
Nel
191.9
,
lasciato
a
casa
il
«
grigioverde
»
,
passeggiando
per
le
vie
di
Trieste
,
si
fermò
davanti
ad
una
libreria
antiquaria
in
strada
San
Nicolò
.
Dopo
qualche
giorno
il
padrone
della
bottega
lo
osservò
:
fattosi
sulla
soglia
della
bottega
,
attaccò
discorso
e
gli
confidò
,
che
non
solo
i
volumi
,
ma
l
'
intero
«
commercio
»
era
in
vendita
.
Da
quel
colloquio
nacque
il
Saba
libraio
antiquario
.
I
suoi
contatti
con
il
mondo
sarebbero
stati
rarissimi
-
Saba
aveva
troppi
«
complessi
»
per
noti
esser
destinato
all
'
esistenza
del
deraciné
:
solo
nelle
quattro
stanze
di
casa
,
con
la
moglie
e
con
la
figlia
,
la
sua
«
pianticella
»
fioriva
serena
-
se
ogni
tanto
le
necessità
del
commercio
librario
non
lo
avessero
costretto
a
prendere
un
treno
per
recarsi
a
Milano
o
a
Firenze
per
qualche
acquisto
.
Allora
Saba
appariva
-
ma
non
andava
a
cercare
nessuno
:
bisognava
incontrarlo
per
caso
-
nelle
città
dove
la
vita
letteraria
era
più
intensa
.
Camminava
rasente
ai
muri
,
con
un
berretto
da
ciclista
in
capo
,
sulla
testa
calva
,
e
con
il
collo
avvolto
in
uno
scialle
.
Era
difficile
portarlo
a
discorrere
di
letteratura
o
a
esprimere
giudizi
.
Parlava
con
una
voce
di
testa
,
quasi
da
sonnambulo
,
piegata
talvolta
in
un
modulo
che
pareva
beffardo
,
ma
più
spesso
resa
soffocata
da
una
intonazione
affettuosa
.
Sapeva
che
gli
amici
della
sua
poesia
erano
pochi
;
e
non
cercava
di
aumentarli
.
La
sua
Trieste
era
quella
di
Silvio
Benco
,
di
Slataper
,
di
Svevo
:
città
di
alti
fervori
letterari
ad
un
incrocio
di
razze
e
di
lingue
.
Saba
avrebbe
potuto
assimilare
facilmente
i
profumi
e
i
sapori
del
linguaggio
poetico
più
moderno
:
ma
come
non
era
appartenuto
al
gruppo
della
«
Ronda
»
,
così
non
seguì
gli
ermetici
.
Il
suo
affetto
e
la
sua
consanguineità
erano
tutti
per
il
tempo
dello
«
Stil
nuovo
»
:
Petrarca
lo
aveva
affascinato
sin
dall
'
adolescenza
:
e
il
risultato
di
questi
affetti
si
era
già
definito
al
tempo
dei
volumetti
intitolati
Poesie
e
Coi
miei
occhi
o
di
vari
anni
prima
della
guerra
del
'15
.
Saba
era
rimasto
assolutamente
indifferente
alla
tentazione
del
Futurismo
,
così
come
era
stato
lontano
dal
dannunzianesimo
e
dal
sospiro
dei
crepuscolari
.
La
solitudine
nella
quale
amava
vivere
salvò
la
schiettezza
e
il
metallo
di
quell
'
alta
melanconia
lirica
che
ispira
il
Canzoniere
,
animato
da
temi
che
potevano
sembrare
a
volte
aspri
,
a
volte
dimessi
e
a
volte
quasi
freudianamente
inquietanti
.
Fu
poeta
d
'
amore
,
ma
di
un
amore
umbratile
,
del
.
tutto
chiuso
nella
storia
di
una
fedeltà
familiare
.
Venne
nella
sua
vita
di
uomo
non
lontano
dai
sessant
'
anni
la
tragedia
delle
persecuzioni
.
Si
rifugiò
a
Parigi
;
ma
la
nostalgia
dell
'
Italia
era
troppo
grande
.
Non
potendo
farsi
vedere
a
Trieste
,
cercò
un
riparo
a
Firenze
:
costretto
a
vagare
intimorito
da
un
nascondiglio
all
'
altro
.
Questo
affanno
e
questi
incubi
stremarono
le
sue
forze
.
Sfuggì
alla
deportazione
e
alla
morte
:
ma
nell
'
ora
della
salvezza
quello
che
si
risvegliò
ad
una
nuova
vita
era
ormai
un
uomo
distrutto
,
costretto
a
lunghissimi
riposi
,
quasi
oramai
assente
da
ogni
interesse
umano
,
se
non
al
segreto
profondo
del
cuore
avvilito
e
umiliato
dallo
spettacolo
di
crudeltà
ai
cui
limiti
sanguinosi
aveva
dovuto
vivere
.
Adesso
,
di
lui
,
resta
il
Canzoniere
,
con
il
suo
alto
carico
di
fervori
,
di
melanconie
,
di
introspezioni
,
con
i
suoi
non
corrotti
incantesimi
verbali
,
con
certe
sue
musiche
che
paiono
luci
diafane
in
lento
trascolorare
.
Che
di
un
poeta
si
possa
dire
che
la
sua
opera
«
resta
»
,
questo
è
il
massimo
approdo
.
Egli
-
all
'
anagrafe
era
Umberto
Poli
-
aveva
scelto
per
nome
di
poeta
quello
di
Saba
che
in
ebraico
vuol
dire
«
pane
»
.
Era
come
promettersi
,
con
animo
dolente
,
alla
comunione
con
gli
uomini
.
StampaQuotidiana ,
Senza
soffrire
,
nello
spazio
di
una
notte
,
Alberto
Savinio
si
staccò
dalla
vita
.
Già
un
anno
prima
aveva
avuto
un
duro
ammonimento
del
male
.
Invece
di
riposarsi
,
ogni
mattina
dipingeva
,
ogni
pomeriggio
componeva
musica
,
ogni
sera
scriveva
.
Pittore
,
musicista
,
scrittore
,
era
andato
così
sempre
nella
vita
emigrando
da
un
nome
all
'
altro
,
da
uno
pseudonimo
ad
un
altro
pseudonimo
,
di
arte
in
arte
,
di
città
in
città
,
dall
'
uno
all
'
altro
continente
della
cultura
e
tanto
e
tanto
avrebbe
viaggiato
nella
sempre
rinnovata
geografia
dello
spirito
.
Alla
mobilità
del
suo
spirito
,
alla
sempre
rinnovata
freschezza
dei
suoi
interessi
,
al
suo
inquieto
,
estroso
,
ammiccante
scandagliare
fra
i
mondi
dell
'
immaginazione
e
fra
quelli
della
cultura
,
corrispondeva
un
fisico
da
sedentario
,
da
uomo
di
scrivania
e
di
biblioteca
,
dall
'
occhio
assorto
,
dal
gesto
breve
.
Aveva
viaggiato
molto
:
ma
tutta
la
sua
arte
era
orientata
sugli
itinerari
di
quei
viaggi
che
De
Maistre
chiamò
autour
de
ma
chambre
.
Il
nome
di
«
magia
»
è
stato
adoperato
troppo
,
a
proposito
di
certi
aspetti
dell
'
arte
moderna
;
ma
la
camera
nella
quale
idealmente
dimorava
Savinio
meritava
di
esser
definita
come
magica
:
di
una
magia
senza
ombre
,
senza
polvere
,
senza
mostri
,
fatta
tutta
di
riflessi
di
cristallo
messi
a
specchiare
tempi
lontani
e
nitidi
presentimenti
.
Alberto
Savinio
-
figlio
di
un
ingegnere
De
Chirico
che
si
era
trasferito
in
Grecia
,
alla
fine
del
secolo
scorso
,
per
costruire
,
se
non
sbaglio
,
il
tronco
della
linea
ferroviaria
che
collega
il
percorso
dell
'
Orient
-
Express
con
Atene
-
era
nato
ad
Atene
e
il
greco
moderno
era
stato
la
lingua
della
sua
infanzia
.
Tra
i
suoi
progetti
,
mentre
l
'
età
matura
era
raggiunta
,
c
'
era
stato
quello
di
fare
,
nel
1951
,
un
viaggio
in
Grecia
per
ritornare
,
dopo
più
di
mezzo
secolo
,
sui
luoghi
dell
'
infanzia
.
Il
progetto
non
fu
realizzato
:
la
Grecia
rimase
,
per
Alberto
,
la
lontana
meravigliosa
piattaforma
dei
ricordi
di
una
infanzia
contesa
dall
'
obbligatoria
saggezza
di
un
ragazzo
che
aveva
il
padre
ammalato
-
il
vecchio
ingegnere
era
stato
inchiodato
in
una
poltrona
da
una
paralisi
-
e
che
doveva
scoprire
il
mondo
delle
favole
,
prima
che
nelle
novellette
dei
fratelli
Grimm
o
nei
romanzi
di
Verne
,
nei
racconti
omerici
.
Non
si
vive
impunemente
ad
Atene
,
andando
a
giocare
da
bambini
sulle
gradinate
del
teatro
sotto
all
'
Acropoli
o
all
'
ombra
delle
colonne
del
Partenone
.
La
mitologia
accompagnò
per
tutta
la
vita
Savinio
con
la
sua
presenza
e
con
la
sua
voce
magica
e
solenne
.
Il
Tempo
,
per
Savinio
,
si
chiamò
sempre
Cronos
e
la
Sorte
si
chiamò
Moira
.
Il
sentimento
metafisico
di
Giorgio
De
Chirico
e
quello
surrealista
di
suo
fratello
Andrea
che
doveva
emigrare
a
vent
'
anni
verso
il
nuovo
nome
di
Alberto
Savinio
avevano
come
sfondo
i
miti
o
i
riflessi
di
un
'
Ellade
dai
silenziosi
o
inquietanti
incantesimi
.
Nessuno
dei
due
figli
seguì
la
vocazione
paterna
,
che
era
stata
,
come
lo
fu
per
molti
solidi
spiriti
dell
'
Ottocento
,
quella
del
costruttore
.
Nessuna
opposizione
venne
fatta
alle
loro
aspirazioni
di
artisti
,
per
la
protezione
della
madre
che
a
Savinio
doveva
sembrare
più
tardi
come
un
nume
della
Maternità
.
Io
ricordo
con
quale
placida
eroica
fermezza
la
madre
di
Giorgio
De
Chirico
-
carica
di
strani
gioielli
e
vestita
con
abiti
di
austera
dignità
che
sembravano
quasi
un
costume
,
quasi
una
«
divisa
da
madre
»
,
seduta
a
vigilare
fra
i
quadri
della
prima
mostra
della
pittura
metafisica
di
suo
figlio
Giorgio
-
ascoltava
indifferente
i
visitatori
ridere
e
sghignazzare
davanti
alle
Muse
inquietanti
e
ai
Dioscuri
che
alla
folla
,
nel
1917
,
parevano
l
'
opera
pittorica
di
un
pazzo
.
Egualmente
coraggiosa
la
madre
era
stata
nell
'
assistere
l
'
attività
del
figlio
minore
che
si
sentiva
destinato
alla
musica
,
e
,
naturalmente
,
ad
una
musica
tutt
'
altro
che
facile
.
La
signora
De
Chirico
,
con
i
suoi
strani
gioielli
e
con
i
suoi
austeri
abiti
da
pitonessa
,
era
sempre
in
viaggio
per
vegliare
su
l
'
uno
o
su
l
'
altro
figlio
:
due
ragazzi
,
due
giovanetti
privi
,
come
si
dice
,
di
ogni
senso
pratico
,
portati
qua
e
là
nel
mondo
dell
'
arte
di
prima
della
guerra
per
studiare
pittura
a
Monaco
nell
'
aura
di
Boeklin
o
musica
con
Max
Reger
.
Pianista
di
potenza
quasi
diabolica
,
talvolta
Savino
,
nelle
notti
di
Parigi
o
in
quelle
di
Monaco
,
suonava
sino
a
farsi
sanguinare
le
dita
,
e
la
madre
,
vedendo
le
macchie
di
sangue
sugli
avori
della
tastiera
,
pensava
,
nel
suo
assorto
silenzio
:
«
Quel
sangue
è
mio
»
.
Musicista
Alberto
Savinio
fu
sino
al
1915
,
e
cioè
sino
all
'
età
di
ventiquattro
anni
,
e
tornò
ad
esserlo
,
per
un
rapido
saggio
,
nel
1925
.
Poi
il
silenzio
musicale
durò
,
per
il
pubblico
,
vent
'
anni
.
Era
diventato
,
intanto
,
scrittore
,
per
aver
conosciuto
Guillaume
Apollinaire
:
scrittore
in
lingua
francese
,
come
avrebbe
potuto
esserlo
in
greco
e
in
tedesco
,
nell
'
estremo
tramonto
di
quegli
anni
antecedenti
alla
prima
guerra
mondiale
che
furono
chiamati
gli
anni
della
belle
époque
ma
durante
i
quali
maturavano
i
germi
creativi
dell
'
arte
rivoluzionaria
che
prendeva
il
nome
di
cubismo
,
di
futurismo
,
di
dadaismo
.
Al
futurismo
,
in
ogni
modo
,
Savinio
non
fu
vicino
:
le
origini
della
sua
arte
e
del
suo
pensiero
erano
inserite
in
un
ordine
e
in
una
meditazione
di
valore
troppo
spirituale
,
come
il
pensiero
e
l
'
arte
ellenici
,
perché
egli
si
lasciasse
abbagliare
dalle
formule
di
quell
'
avanguardismo
alla
Jules
Verne
che
era
il
futurismo
di
Marinetti
,
le
cui
formule
estetiche
del
simultaneismo
e
del
dinamismo
nascevano
,
più
che
altro
,
da
una
ingenua
fiducia
nello
scientificismo
.
Il
futurismo
credeva
all
'
energia
come
ad
un
fatto
dinamico
,
muscolare
,
palesemente
esplosivo
:
credeva
nella
deflagrazione
,
e
non
nell
'
energia
della
meditazione
.
Savinio
era
uomo
di
letture
profonde
:
era
difficile
convincerlo
di
mettersi
in
testa
,
come
un
casco
,
l
'
imbuto
di
alluminio
con
il
quale
Marinetti
intendeva
coronare
i
poeti
.
Questo
spiega
perché
egli
si
fosse
subito
,
appena
tornato
agli
studi
al
termine
della
guerra
,
schierato
con
gli
scrittori
della
«
Ronda
»
e
perché
non
abbia
mai
desiderato
di
affermare
,
quando
il
surrealismo
diventò
una
«
scuola
»
,
la
paternità
che
gli
spettava
di
tante
invenzioni
,
scoperte
,
esplorazioni
dell
'
estetica
surrealista
in
letteratura
e
in
pittura
.
Scrittore
italiano
doveva
diventare
dunque
nel
1916
,
un
anno
dopo
,
rientrando
in
Italia
per
il
servizio
militare
:
e
pittore
doveva
diventare
,
quasi
da
un
'
ora
all
'
altra
,
solamente
nel
1927
,
emigrando
nuovamente
a
Parigi
.
Sembrò
che
dimenticasse
di
essere
stato
uno
degli
scrittori
più
singolari
e
una
delle
intelligenze
più
inquietanti
nel
gruppo
della
«
Ronda
»
.
Per
quasi
dieci
anni
,
fu
solamente
pittore
.
La
lingua
della
sua
vita
quotidiana
era
diventato
nuovamente
il
francese
.
Il
suo
linguaggio
pittorico
fu
quello
surrealista
:
e
coglieva
ogni
possibilità
per
affermare
di
essere
un
pittore
«
al
di
là
della
pittura
»
.
In
un
'
altra
occasione
ebbe
a
scrivere
:
«
Le
opere
di
Dürer
,
di
Boeklin
,
di
Giorgio
De
Chirico
,
mie
,
nascono
prima
di
tutto
come
cose
pensate
.
Portarle
a
una
forma
o
dipinta
o
scritta
è
una
traduzione
;
una
operazione
"
a
scelta
"
.
Io
ho
chiaramente
sentito
,
ho
chiaramente
capito
che
quando
la
ragione
d
'
arte
di
un
artista
è
più
profonda
,
e
dunque
"
precede
"
la
ragione
singola
di
ciascun
'
arte
,
quando
l
'
artista
,
in
una
parola
,
è
una
"
centrale
creativa
"
,
è
stupido
,
è
disonesto
,
è
immorale
chiudersi
dentro
ad
una
singola
arte
,
asservirsi
alle
sue
ragioni
particolari
e
alle
sue
ragioni
speciali
.
E
ho
avuto
il
coraggio
di
mettermi
di
là
dalle
arti
,
sopra
le
arti
...
»
.
Quando
,
nel
1927
,
un
mercante
d
'
arte
parigino
,
senza
aver
mai
visto
un
quadro
di
Savinio
,
lo
invitò
a
dipingere
,
gli
trovò
uno
studio
a
Parigi
,
e
gli
assicurò
uno
stipendio
iniziale
,
quel
tale
,
probabilmente
,
intendeva
creare
«
un
caso
»
o
un
«
doppio
»
di
De
Chirico
,
o
mettere
d
'
accordo
,
su
una
piattaforma
di
puro
intelletto
,
tutte
le
varie
vocazioni
di
Savinio
e
trasferirle
in
una
bizzarra
sede
pittorica
.
Probabilmente
non
sapeva
che
,
così
facendo
,
mentre
De
Chirico
si
preparava
a
rinnegare
quasi
la
sua
stessa
pittura
metafisica
,
Savinio
avrebbe
messo
al
mondo
una
prima
esemplificazione
del
surrealismo
.
Il
ricordo
di
Savinio
non
appartiene
solamente
alla
storia
dell
'
intelligenza
italiana
delle
ultime
due
generazioni
:
esso
appartiene
alla
storia
dell
'
intelligenza
europea
.
L
'
apparente
divagare
di
arte
in
arte
fu
,
effettivamente
,
un
continuo
esplorare
mondi
espressivi
nuovi
nella
luce
di
una
intelligenza
dalla
intatta
lucentezza
:
il
suo
emigrare
continuo
fu
un
approdare
e
conquistare
continuo
:
nessun
continente
dell
'
arte
poté
considerarlo
mai
uno
spaesato
.
Le
sue
capacità
tecniche
,
anche
quando
potevano
sembrare
acerbe
,
erano
al
servizio
di
un
'
unità
spirituale
per
la
quale
il
pittore
,
lo
scrittore
,
il
diarista
,
il
narratore
di
strane
favole
,
lo
psicologo
,
il
musicista
e
lo
scenografo
avevano
una
assoluta
coerenza
di
ispirazione
.
Scala ( Vergani Orio , 1952 )
StampaQuotidiana ,
La
sala
non
è
al
buio
.
Sei
grandi
lampade
pendono
sull
'
orchestra
,
e
la
loro
luce
arriva
,
degradando
,
sino
in
fondo
alla
sala
.
Ricordo
questa
sala
distrutta
,
aperta
alla
neve
,
alla
pioggia
,
al
vento
:
e
il
color
nero
delle
grandi
travi
carbonizzate
:
le
finestre
dei
palchetti
vuote
sulla
vasta
voragine
muta
.
Ricordo
,
di
quei
giorni
,
di
quei
funesti
inverni
,
il
silenzio
di
Milano
nelle
piazze
e
nelle
vie
intorno
:
i
passanti
rari
,
i
volti
chini
,
le
guance
pallide
:
la
città
macilenta
,
quasi
senza
voce
,
vuota
di
ragazzi
:
Io
stillicidio
dell
'
acqua
in
questo
grande
cortile
da
tragedia
shakespeariana
nel
quintuplo
giro
dei
palchi
:
le
porpore
stinte
:
i
carboni
e
la
cenere
mescolati
ai
cristalli
:
l
'
oro
infamato
dal
fango
.
Nel
nome
di
Toscanini
,
e
cioè
nel
nome
della
musica
italiana
,
la
sala
è
stata
la
prima
a
risorgere
.
È
lì
,
ancora
,
oggi
come
tanti
anni
fa
-
come
cinquantaquattro
anni
fa
,
quando
il
Maestro
salì
sul
podio
per
la
prima
volta
a
dirigere
i
Maestri
cantori
-
Toscanini
è
saldo
;
tiene
le
redini
dei
poemi
musicali
in
pugno
,
come
gli
antichi
aurighi
nel
bronzo
greco
.
È
entrato
per
la
prova
generale
,
e
,
come
lui
vuole
,
nessuno
ha
applaudito
.
È
passato
dietro
alla
prima
fila
dei
violini
,
è
sul
podio
,
volta
le
spalle
alla
platea
:
davanti
non
ha
il
leggio
:
e
bisogna
indovinare
il
raccoglimento
,
la
profondità
,
la
fissità
,
la
mobilità
del
suo
sguardo
che
,
adesso
,
spazia
solamente
sulle
misure
della
musica
.
Io
,
più
fortunato
o
più
indiscreto
degli
altri
,
sono
andato
avanti
,
in
un
angolo
della
quarta
fila
,
e
ho
,
dietro
a
me
,
un
grande
spazio
vuoto
.
Oltre
che
sentire
,
oggi
voglio
«
vedere
»
Toscanini
.
Non
voglio
ripetere
la
frase
di
Emilio
Zola
che
,
quando
fu
a
Roma
per
scrivere
Roma
,
dopo
aver
visto
il
Pontefice
tornò
in
albergo
e
,
seduto
a
tavola
,
disse
alla
moglie
,
soddisfatto
:
J
'
ai
mon
Papa
...
Ma
,
di
«
tre
quarti
»
,
ho
il
«
mio
»
Toscanini
.
Vedo
i
suoi
capelli
bianchi
,
argentei
,
folti
e
mossi
sulla
nuca
.
Trovo
un
ricordo
antico
,
uno
dei
più
lontani
ricordi
d
'
infanzia
:
il
ricordo
di
un
bambino
accompagnato
per
mano
a
vedere
San
Petronio
,
a
Bologna
.
Mi
sembra
di
sentire
ancora
la
stretta
improvvisa
alla
mia
mano
di
bambino
.
Mi
dice
la
voce
di
un
caro
vecchio
rotta
dall
'
emozione
:
«
Guarda
là
!
...
Guarda
là
!...»
Aiutano
qualcuno
a
salire
su
una
carrozzella
:
non
vedo
bene
,
e
non
capisco
perché
mi
si
inviti
,
con
così
brusca
commozione
,
a
guardare
.
La
voce
vicina
a
me
dice
:
«Carducci...»
.
La
carrozzella
si
muove
con
il
suo
passeggero
che
ha
in
testa
,
mi
sembra
,
un
corto
tubino
.
Di
quel
passeggero
non
vedo
che
i
capelli
bianchi
,
argentei
,
folti
e
mossi
sulla
nuca
.
È
un
momento
,
e
la
carrozzella
scompare
.
Ho
visto
í
capelli
bianchi
di
Carducci
.
Guardo
,
adesso
,
e
li
trovo
simili
a
quelli
del
poeta
,
i
capelli
bianchi
del
Maestro
.
Ogni
tanto
egli
china
il
capo
,
quasi
toccando
con
il
mento
il
petto
.
Vedo
,
di
scorcio
,
la
«
rupe
»
della
fronte
,
sfiorata
dalla
luce
;
il
modellato
delle
tempie
e
dello
zigomo
,
in
ombra
.
Non
esiste
più
un
Vincenzo
Gemito
per
scolpire
,
così
,
di
Toscanini
un
ritratto
come
quello
di
Verdi
.
Penso
ai
capelli
bianchi
di
Verdi
.
Toscanini
non
è
un
uomo
vecchio
:
non
sarà
mai
un
uomo
vecchio
:
è
un
uomo
«
antico
»
,
modellato
in
qualcosa
di
incorrotto
e
senza
tempo
,
come
si
può
pensare
che
,
anche
giovani
,
fossero
taluni
geni
rupestri
,
come
Michelangelo
;
uomini
fatti
per
vivere
fra
le
rocce
,
come
le
aquile
.
Chi
ha
mai
pensato
di
contare
gli
anni
di
un
'
aquila
?
Le
aquile
non
vedono
incanutire
le
loro
penne
.
Hanno
gli
anni
del
loro
volo
.
La
sala
tace
.
Mille
,
millecinquecento
persone
sono
state
«
segretamente
»
ammesse
ad
ascoltare
la
prova
.
Il
Maestro
non
ha
negato
questo
dono
.
Gli
basta
che
la
gente
taccia
.
Laggiù
,
lassù
,
intorno
,
nei
nidi
dei
palchi
,
nelle
logge
delle
gallerie
c
'
è
un
pubblico
che
amo
.
Se
fra
cent
'
anni
un
regista
comporrà
un
film
dedicato
a
Toscanini
e
alla
sua
vita
,
non
dimentichi
questa
scena
e
queste
«
masse
»
.
Ci
sono
gli
intenditori
,
i
musicologi
,
i
musicisti
,
i
«
toscaniniani
»
.
Mi
permetto
di
consigliare
il
regista
a
non
dar
loro
importanza
,
in
questa
scena
.
Si
ricordi
,
invece
:
dei
ragazzi
e
dei
vecchi
:
chiami
a
raccolta
,
per
il
suo
film
,
a
voler
rifar
la
scena
d
'
oggi
,
molti
ragazzi
e
molti
vecchi
:
gente
che
domani
non
troverebbe
posto
,
vecchi
che
,
a
insinuarsi
nel
«
tutto
esaurito
»
di
un
grande
concerto
,
«
non
si
fidano
»
,
perché
hanno
il
peso
degli
anni
,
gli
acciacchi
,
la
difficoltà
di
sedere
e
di
respirare
tra
la
folla
,
il
pudore
di
mostrarsi
,
tra
la
folla
,
presi
dalla
commozione
e
forse
,
dalle
lagrime
per
l
'
onda
dei
ricordi
.
Gente
più
che
anziana
:
una
toccante
visione
:
gli
ottant
'
anni
non
si
contano
:
le
novantenni
,
che
si
sono
messe
in
ghingheri
e
sono
venute
avanti
sostenute
dalle
figlie
e
dalle
nipoti
,
non
si
contano
.
Occhi
e
cuori
che
ridanno
la
scalata
al
tempo
,
che
passano
a
guado
la
fiumana
dei
ricordi
di
mezzo
secolo
,
ai
tempi
delle
prime
di
Otello
-
mi
hanno
detto
-
ai
tempi
in
cui
si
combatteva
«
contro
»
la
musica
di
Wagner
.
Vecchie
,
canute
,
tremolanti
signore
alle
quali
,
cinquantaquattro
anni
fa
,
il
giovane
maestro
di
Parma
ha
insegnato
che
non
era
giusto
sospirare
solamente
per
i
tenori
,
ma
che
si
poteva
sospirare
per
Sigfrido
e
riconoscersi
nel
lamento
amoroso
di
Isotta
.
Sono
venute
fuori
dalle
loro
case
pomeridiane
,
ringraziando
la
giornata
mite
:
trattengono
i
colpi
di
tosse
.
Nell
'
ombra
dei
palchi
asciugano
una
lagrima
del
1898
.
Regista
:
non
dimenticare
i
ragazzi
.
Ce
ne
sono
di
quindici
,
di
diciotto
anni
;
ma
,
stranamente
,
hanno
quasi
tutti
un
viso
,
una
compunzione
,
una
espressione
da
attesa
di
prima
comunione
o
di
cresima
.
Hanno
diciotto
anni
:
ma
Toscanini
ha
la
virtù
di
riportarli
all
'
emozione
delle
favole
,
delle
fate
e
dei
maghi
.
Straordinario
nonno
,
Toscanini
:
i
ragazzi
sembrano
,
nella
penombra
della
sala
color
di
porpora
,
seduti
al
focolare
.
Regista
,
non
dimenticare
che
quest
'
ora
non
è
«
mondana
»
:
ma
,
affollata
di
vecchie
nonne
e
bisnonne
e
di
nipoti
e
pronipoti
,
dà
alla
sala
scaligera
il
colore
,
il
mormorio
,
la
fiducia
proprio
dei
vecchi
focolari
.
Una
mano
guida
la
straordinaria
favola
.
È
la
destra
che
ne
distribuisce
i
personaggi
e
i
sentimenti
,
l
'
onda
dell
'
amore
,
dei
dolori
,
del
compianto
,
della
stupefazione
:
che
fa
entrare
le
voci
dei
lunghicriniti
eroi
,
sorregge
pilastri
,
cupole
,
cieli
,
cattedrali
arboree
,
rocce
,
e
chiama
le
nuvole
,
e
accende
le
stelle
,
e
volge
il
corso
delle
comete
:
è
la
sinistra
che
fa
passare
sui
volti
e
sulle
cose
il
soffio
tiepido
o
arroventato
della
vita
,
e
dice
al
canto
:
«
Ama
!
»
,
e
dice
al
canto
:
«
Fremi
!
»
.
Romantiche
mani
che
nei
coni
di
luce
si
illuminano
:
pronte
al
gesto
del
dominio
e
all
'
impeto
squassante
,
come
,
per
prendere
la
tragedia
per
la
gola
e
dirle
:
«
Piegati
:
sei
mia
...
»
:
pronte
alla
carezza
più
sottile
,
come
se
insegnassero
ai
suoni
più
gracili
ad
alzare
le
palpebre
fiduciose
e
a
mostrare
i
loro
sguardi
di
bambini
:
pronte
all
'
eloquenza
concitata
,
pronte
a
dividere
il
Creato
in
due
;
da
una
parte
la
luce
,
dall
'
altra
l
'
ombra
:
pronte
a
riportare
leopardianamente
la
quiete
dopo
la
tempesta
,
e
a
dividere
fronda
da
fronda
nella
foresta
stillante
di
perle
per
scoprire
il
nido
degli
usignoli
.
Mani
che
implorano
:
mani
che
comandano
:
e
il
gesto
ha
l
'
imperio
di
quello
con
il
quale
Padre
Cristoforo
fece
tremare
il
cuore
del
malvagio
.
Mani
che
insegnano
il
sospiro
e
la
preghiera
,
il
gesto
delle
supplici
e
quello
della
consolazione
:
e
aprono
le
porte
di
bronzo
attraverso
il
cui
spiraglio
si
indovina
l
'
aldilà
.
Si
muovono
,
come
quelle
di
un
magico
tessitore
,
sul
telaio
dove
si
tessono
i
sogni
:
come
penso
si
muovessero
quelle
di
Tolstoj
quando
faceva
scendere
l
'
amore
nel
cuore
di
Natascia
,
o
quelle
,
forti
,
di
Wagner
,
quando
batteva
sull
'
incudine
l
'
acciaio
della
spada
.
StampaQuotidiana ,
Si
è
fermata
,
dunque
,
la
mano
del
grande
Maestro
.
Cerea
,
bianca
,
la
destra
si
è
incrociata
con
la
sinistra
sul
petto
,
nel
gesto
dell
'
ultima
pace
.
Il
grande
vecchio
è
immobile
,
al
centro
dell
'
immenso
segreto
dell
'
aldilà
.
Egli
non
può
più
dire
nulla
,
gli
uomini
non
conosceranno
più
le
vie
meravigliose
della
magica
memoria
,
i
battiti
infallibili
di
quel
cuore
carico
della
musica
di
tutti
i
tempi
.
Musica
eri
giovane
per
lui
,
e
lui
era
giovane
per
te
.
Quella
che
si
chiude
è
una
lunga
,
incantatrice
storia
d
'
amore
.
Amore
era
la
musica
di
Toscanini
.
Ancora
tempo
fa
,
dissero
,
egli
leggeva
Leopardi
e
qualcuno
pensava
di
donargli
,
dei
Canti
,
una
stampa
che
non
affaticasse
,
nella
notte
,
i
suoi
occhi
già
tanto
stanchi
.
Non
è
tutto
amore
Leopardi
,
pur
nella
sua
sconsolata
angoscia
?
Amore
il
sospiro
per
Silvia
,
amore
l
'
appello
alla
Luna
,
amore
il
pianto
per
la
melanconica
ginestra
,
amore
l
'
ascoltare
la
nota
del
passero
solitario
,
la
nota
che
scende
dal
silenzio
della
torre
antica
.
Amore
era
la
musica
di
Toscanini
nell
'
aurora
serena
e
nella
tempesta
notturna
,
nel
sospiro
e
nell
'
inno
,
nell
'
elegia
e
nel
peana
;
amore
nella
grazia
,
amore
nell
'
ira
,
nel
sangue
della
tragedia
,
nella
luce
argentea
della
favola
lunare
,
tra
le
rupi
e
le
fiamme
.
Egli
,
per
questo
amore
,
riportava
tutto
alla
legge
prima
:
quella
dell
'
amore
attorno
a
cui
tutto
il
mistero
del
creato
si
volge
,
«
sì
come
ruota
che
egualmente
è
mossa
»
.
Aveva
quattordici
anni
quando
morì
Wagner
,
trentadue
quando
chiuse
gli
occhi
Verdi
,
cinquantasette
quando
scomparve
Puccini
.
Da
tanti
anni
durava
dunque
la
sua
solitudine
e
,
in
questa
immensa
solitudine
,
conscio
di
stare
come
una
rupe
salda
in
mezzo
ad
un
mondo
in
naufragio
,
egli
non
viveva
che
per
far
rivivere
i
grandi
spiriti
.
Per
questo
,
forse
era
così
esigente
il
suo
spirito
mistico
di
musicista
,
per
questo
il
teatro
o
la
sala
dei
concerti
erano
la
sua
chiesa
,
per
questo
egli
esigeva
che
gli
ascoltatori
avessero
,
soprattutto
,
l
'
animo
dei
credenti
.
Questo
suo
intendere
l
'
esecuzione
musicale
come
un
fatto
mistico
non
era
un
atteggiamento
letterario
:
nasceva
probabilmente
dalla
coscienza
di
essere
l
'
interprete
di
una
superiore
misteriosa
volontà
:
di
quella
volontà
che
,
in
un
mondo
di
nebbie
,
di
incredulità
,
di
dubbi
e
di
lento
annichilimento
della
grande
civiltà
delle
anime
,
faceva
,
a
un
suo
cenno
,
risorgere
i
grandi
spiriti
che
avevano
amorosamente
o
tempestosamente
cantata
la
poesia
estrema
di
un
mondo
che
ormai
non
sapeva
più
rinnovare
i
valori
della
poesia
.
Il
destino
aveva
voluto
ch
'
egli
fosse
l
'
ultimo
nocchiero
di
quella
nave
che
aveva
percorso
tutti
gli
oceani
del
canto
:
ch
'
egli
fosse
l
'
ultimo
a
levare
le
sue
vele
e
a
drizzare
il
suo
timone
.
Interprete
di
un
mondo
immortale
i
cui
semidei
si
erano
spenti
senza
eredi
,
egli
,
di
quei
semidei
,
per
sorte
aveva
dovuto
essere
il
grande
evocatore
.
Tutti
morti
,
i
geni
,
alle
sue
spalle
.
Da
quanti
anni
,
da
quanti
decenni
si
poteva
pensare
che
Toscanini
si
guardasse
sconsolatamente
attorno
,
solo
vivente
,
in
attesa
di
uno
da
chiamare
fratello
?
Da
quanti
anni
viveva
solo
tra
prodigiosi
spettri
,
in
un
'
arte
che
non
riusciva
più
a
rinnovare
i
propri
miti
e
che
,
paurosamente
,
se
pur
viva
fra
i
suoi
Immortali
,
era
tutta
ormai
solamente
Passato
?
Di
qui
la
necessità
di
un
'
istintiva
convinzione
mistica
:
il
suo
rigore
quasi
di
sacerdote
davanti
alla
necessità
di
ricreare
ogni
volta
il
miracolo
non
di
una
esecuzione
,
ma
di
una
resurrezione
:
le
sue
ire
procellose
per
la
minima
cosa
che
gli
potesse
sembrare
errore
od
offesa
all
'
Idea
e
al
Tempio
:
il
suo
dubbio
costante
e
le
sue
affermazioni
,
ad
un
certo
momento
,
dogmatiche
;
la
sua
instancabile
attenzione
nel
migliorare
se
stesso
,
per
chiarire
sempre
meglio
a
se
stesso
il
mistero
musicale
;
il
suo
intendere
il
teatro
come
un
tempio
e
il
podio
come
il
gradino
dell
'
altare
.
Solamente
perché
gli
era
possibile
di
rinnovare
così
il
miracolo
della
resurrezione
dei
grandi
spiriti
,
egli
non
fu
vinto
mai
dall
'
angoscia
della
solitudine
in
un
mondo
nel
quale
,
ormai
,
sembrava
che
la
musica
sorgesse
solamente
dai
grandi
Sepolcri
.
Così
,
perché
per
la
magia
di
un
cenno
,
per
l
'
improvviso
battere
concorde
dei
cuori
,
per
l
'
improvviso
eguale
respiro
di
due
anime
,
i
grandi
spiriti
si
risvegliavano
in
lui
,
egli
,
con
tali
antichi
fratelli
accanto
,
da
Beethoven
a
Verdi
,
poté
non
sentirsi
solo
nel
mondo
che
si
svuotava
di
canti
,
e
poté
,
con
tali
fratelli
accanto
,
per
essi
vivere
così
a
lungo
.
Mancate
le
forze
per
ripetere
ogni
giorno
la
grande
evocazione
,
era
destino
ch
'
egli
non
potesse
più
vivere
.
Interprete
sommo
d
'
ogni
musica
,
la
forza
del
suo
genio
vivificatore
doveva
far
di
lui
,
nel
mondo
,
l
'
estremo
e
maggiore
rappresentante
del
genio
musicale
italiano
.
Egli
era
infatti
della
razza
dei
geni
italiani
,
nati
e
cresciuti
nella
semplicità
,
anche
se
sapientissimi
:
nati
in
obbedienza
ad
un
estro
,
ad
un
intuito
,
ad
un
istinto
poetico
.
Stendhal
si
sarebbe
incantato
per
lui
con
lo
stesso
felice
incantesimo
che
l
'
aveva
avvicinato
a
Rossini
.
Toscanini
era
fatto
per
riconoscere
sempre
la
via
più
breve
per
percorrere
qualunque
labirinto
.
Nato
in
un
paese
dove
gli
inverni
sono
nebbiosi
e
dove
erano
fiochi
,
al
tempo
della
sua
adolescenza
,
i
lumi
per
le
strade
,
all
'
ombra
dei
giganteschi
palazzi
incompiuti
di
Parma
,
e
sulle
rive
tenebrose
del
torrente
alla
cui
rapinosa
voce
invernale
fra
i
ciottoli
sotto
alla
Pilotta
dei
Farnese
sembra
aver
pensato
Verdi
per
il
quarto
atto
del
Rigoletto
,
Toscanini
era
abituato
a
non
sbagliare
mai
strada
anche
nel
fitto
delle
partiture
più
buie
.
Il
suo
genio
si
chiamava
chiarezza
:
entrava
nei
capolavori
non
di
fianco
,
ma
dall
'
alto
,
quando
,
come
vista
verticalmente
,
la
loro
topografia
gli
aveva
rivelato
i
segreti
del
buon
orientamento
.
Si
può
dire
che
,
allora
,
egli
calasse
,
piombasse
sul
capolavoro
con
l
'
infallibilità
di
un
falco
.
Di
tutti
i
popoli
del
mondo
,
l
'
italiano
è
quello
che
più
ha
amato
l
'
ordine
:
altrimenti
non
sarebbe
stato
un
popolo
di
grandi
architetti
,
e
i
suoi
poeti
non
avrebbero
creato
ed
amato
la
disciplina
musicale
del
sonetto
.
Intendere
l
'
ordine
segreto
,
le
segrete
misure
,
i
rapporti
di
temi
e
di
cadenze
di
una
musica
apparteneva
all
'
intuito
architettonico
e
musicale
degli
italiani
,
inventori
della
terzina
e
del
sonetto
,
dell
'
endecasillabo
e
dell
'
ottava
,
dell
'
arco
,
del
portico
,
del
chiostro
,
della
basilica
e
della
cupola
,
del
duetto
,
del
quartetto
,
del
«
concertato
»
,
della
polifonia
.
Si
trattava
,
per
Toscanini
,
prima
di
tutto
di
scoprire
e
di
ridisegnare
e
di
riplasmare
una
architettura
:
poi
,
di
farvi
vivere
dentro
uno
spirito
e
cantare
una
anima
.
Era
il
momento
in
cui
egli
soffiava
il
suo
stesso
spirito
sulla
bocca
del
colosso
.
Il
gigante
si
risvegliava
e
lui
gli
diceva
:
«
Cammina
e
canta
...
»
.
Così
,
in
mezzo
alle
partiture
più
rupestri
e
più
selvose
,
egli
andava
dritto
,
come
un
rabdomante
,
a
scoprire
l
'
essenziale
,
e
cioè
la
sorgente
del
canto
:
e
non
per
nulla
,
come
esecutore
di
musica
,
egli
veniva
dalla
grande
famiglia
degli
archi
,
antico
suonatore
di
violoncello
,
lo
strumento
che
di
tutti
ha
la
voce
più
umana
.
Da
quel
momento
egli
camminava
,
infallibile
,
in
cerca
dell
'
umanità
del
canto
;
il
poema
sinfonico
più
folto
doveva
aprire
il
suo
intrico
contrappuntistico
,
la
foresta
doveva
schiudersi
,
la
luce
trovare
la
sua
strada
,
il
cuore
la
sua
voce
.
«
Non
abbiate
paura
di
cantare
!
»
,
gridava
il
vegliardo
ai
violini
.
Il
canto
voleva
dire
chiarezza
sulla
ormai
ineluttabile
strada
della
poesia
.
Calato
sul
capolavoro
dall
'
alto
,
egli
,
ormai
,
non
doveva
assediarlo
e
penetrarlo
e
illuminarlo
dall
'
esterno
.
La
sua
creazione
cominciava
dall
'
interno
,
dal
nido
più
segreto
della
foresta
,
dalle
radici
vitali
,
dall
'
humus
della
sua
fecondità
.
Il
capolavoro
rigerminava
per
lui
:
e
sotto
al
suo
cenno
rinascevano
le
grandi
querce
,
risorgevano
le
cattedrali
,
salivano
al
cielo
le
cupole
delle
basiliche
.
Ogni
vastità
polifonica
,
ogni
ampiezza
di
affresco
sonoro
,
ogni
impeto
ed
ogni
squillo
erano
adesso
possibili
,
ed
ogni
murmure
e
ogni
tremore
stellare
di
note
.
I
Personaggi
,
Otello
e
Sigfrido
,
Wotan
e
Lucia
,
Figaro
e
Brunilde
,
Mimi
e
Parsifal
,
potevano
,
ora
,
avanzare
al
proscenio
.
Era
il
momento
in
cui
l
'
umanità
poteva
finalmente
entrare
,
ad
un
cenno
del
maestro
,
per
la
grande
porta
,
quella
per
la
quale
passa
la
sua
estrema
espressione
:
la
poesia
.
Grigio
e
molte
volte
disperato
è
stato
il
nostro
tempo
,
amare
le
nostre
vicende
,
infelice
per
tante
voci
la
generazione
di
noi
che
,
nella
sua
piena
maturità
,
lo
udimmo
appena
fanciulli
o
giovinetti
:
ma
anche
per
noi
delle
ultime
generazioni
una
luce
veniva
,
una
luce
è
venuta
da
quelle
mani
,
ora
ferme
e
incrociate
nell
'
atteggiamento
dell
'
ultima
pace
.
Il
nostro
cuore
è
stato
preso
fra
le
mani
di
questo
grande
vecchio
italiano
che
di
Verdi
poteva
essere
considerato
spiritualmente
,
il
figlio
.
Egli
veniva
dal
Grande
Tempo
:
era
nato
nella
Grande
Stagione
,
quando
non
si
pensava
ancora
che
per
il
canto
fosse
iniziato
il
mesto
Autunno
e
tutto
pareva
ancora
un
rigoglio
primaverile
di
spiriti
.
Egli
veniva
dalla
riva
delle
Grandi
Speranze
,
e
ci
ha
aiutato
a
credere
ancora
nella
Speranza
e
a
riconoscere
le
anime
che
indicano
l
'
immortalità
della
bellezza
e
della
poesia
.
Confortatore
,
illuminatore
,
sacerdote
musicale
di
quattro
generazioni
,
a
lui
,
nella
cui
musica
tante
volte
segretamente
anche
noi
ci
siamo
sentiti
purificati
come
,
in
una
confessione
,
va
il
pensiero
,
come
nella
invocazione
verdiana
.
Va
'
dunque
,
pensiero
degli
italiani
,
verso
il
caro
grande
vecchio
muto
e
solo
,
verso
quel
volto
chiuso
nell
'
ultima
maestà
,
immobile
al
centro
dell
'
immenso
segreto
dell
'
aldilà
.
Totò ( Vergani Orio , 1948 )
StampaQuotidiana ,
Ho
passato
una
serata
con
Totò
,
nel
camerino
di
Totò
,
fra
le
quinte
con
Totò
e
,
dopo
lo
spettacolo
,
a
pranzo
con
Totò
.
L
'
ho
lasciato
alle
quattro
del
mattino
davanti
alla
porta
del
suo
albergo
.
Quando
sono
andato
a
casa
e
mi
sono
spogliato
,
ho
pensato
che
in
quello
stesso
momento
anche
Totò
si
spogliava
,
rimboccava
il
lenzuolo
,
sistemava
il
cuscino
.
Da
questo
pensiero
sono
nate
,
prima
che
prendessi
sonno
,
alcune
considerazioni
che
adesso
metto
sulla
carta
,
in
ricordo
della
serata
passata
con
l
'
attore
comico
più
popolare
d
'
Italia
e
,
certamente
,
fra
i
più
singolari
del
mondo
.
L
'
attore
comico
,
quando
il
carattere
delle
sue
occasioni
lo
ha
portato
a
raggiungere
lo
stile
e
la
fissità
della
grande
maschera
,
non
si
appartiene
più
.
Il
pubblico
continua
a
modo
suo
a
svolgere
mentalmente
la
vita
del
personaggio
che
l
'
attore
gli
ha
portato
innanzi
.
Il
sipario
cala
sull
'
ultima
passerella
di
Totò
,
e
Totò
non
ritorna
padrone
di
se
stesso
.
La
nostra
immaginazione
lo
segue
,
come
seguirebbe
Charlie
Chaplin
o
il
grande
clown
,
e
lo
fa
vivere
in
modo
e
nelle
situazioni
che
,
con
il
normale
repertorio
di
quella
maschera
,
non
hanno
nessuna
apparente
attinenza
.
Quando
il
grande
attore
tragico
si
strucca
e
rientra
nella
penombra
della
sua
vita
privata
,
la
nostra
fantasia
non
lo
segue
.
Ruggero
Ruggeri
depone
i
fascini
di
Aligi
e
l
'
immagine
di
Aligi
resta
staccata
dalla
vita
del
suo
interprete
.
Io
non
ho
mai
pensato
,
dopo
una
recita
di
Ruggeri
o
dopo
una
recita
di
Lucien
Guitry
,
all
'
andare
a
letto
di
Ruggeri
o
di
Guitry
come
ad
un
pretesto
per
continuare
,
nella
fantasia
,
la
vita
del
personaggio
che
essi
avevano
creato
innanzi
al
pubblico
.
Gandusio
può
avermi
fatto
ridere
ma
non
mi
fa
ridere
la
possibilità
di
immaginarmi
Gandusio
in
trattoria
,
dopo
teatro
,
davanti
a
una
cotoletta
.
Dopo
un
film
di
Charlot
,
continuerò
a
vedere
Charlot
in
tram
,
a
cena
o
mentre
cerca
le
chiavi
di
casa
o
mentre
preme
il
bottone
dell
'
ascensore
.
Ha
creato
una
maschera
identica
alla
sua
figura
umana
ed
egli
,
in
quanto
maschera
,
non
è
più
padrone
di
se
stesso
.
Lo
stesso
mi
accade
se
penso
a
Totò
nella
sua
camera
d
'
albergo
,
dopo
che
ha
passato
quasi
otto
ore
davanti
a
me
scrittore
che
cerco
di
scoprire
i
lineamenti
del
suo
ritratto
segreto
.
Totò
non
è
più
padrone
di
nulla
,
nemmeno
di
andare
a
dormire
in
santa
pace
.
Se
i
suoi
milleduecento
spettatori
di
ogni
sera
pensano
,
dopo
teatro
,
a
lui
che
va
a
letto
,
tutti
milleduecento
si
mettono
a
ridere
.
Totò
dorme
?
La
gente
ride
.
Totò
si
rivolta
nel
letto
?
Totò
perde
una
coperta
?
Totò
cerca
le
pantofole
?
Totò
non
trova
il
bottone
del
campanello
?
L
'
immagine
di
Totò
non
appartiene
più
a
Totò
.
Come
il
protagonista
del
racconto
di
Chamisso
che
ha
perduto
la
sua
ombra
,
l
'
attore
comico
,
costruendo
di
se
stesso
,
per
mostruose
ispirazioni
,
una
maschera
,
ha
perduto
la
propria
immagine
,
l
'
ha
ceduta
a
qualcuno
che
se
ne
è
fatto
padrone
e
che
può
muoverla
a
suo
piacimento
,
tirannicamente
.
Totò
può
,
per
questo
,
guadagnare
quanto
vuole
:
sarà
sempre
povero
,
di
quella
strana
povertà
dell
'
uomo
che
non
appartiene
più
a
se
stesso
.
Credo
che
per
questo
,
per
una
sia
pure
imprecisa
coscienza
di
questo
,
Totò
,
appena
esce
dal
rettangolo
di
luce
della
ribalta
,
sia
l
'
uomo
più
serio
che
ho
avvicinato
:
il
meno
ciarliero
,
il
più
misurato
nella
parola
e
nel
gesto
.
Totò
,
fra
le
quinte
,
non
fa
ridere
nemmeno
un
momento
.
La
conversazione
con
lui
è
piuttosto
difficile
perché
,
in
genere
,
non
si
pensa
mai
troppo
al
carattere
degli
uomini
e
alla
loro
posizione
davanti
al
proprio
destino
.
Con
un
poco
più
di
preventiva
meditazione
sul
tema
«
Totò
fra
le
quinte
»
,
sarebbe
stato
facile
immaginare
che
,
appunto
,
per
la
violenza
estrema
dei
colori
della
maschera
Totò
,
tanto
più
tenui
dovevano
essere
i
colori
dell
'
uomo
Totò
.
Non
si
pensa
mai
abbastanza
alle
cose
:
i
nostri
diplomi
di
«
fine
psicologo
»
meriterebbero
spesso
di
esser
fatti
a
pezzi
.
Com
'
è
possibile
pensare
che
Totò
uomo
,
appena
tra
le
quinte
,
non
debba
istintivamente
reagire
al
Totò
maschera
?
Totò
non
ha
bisogno
di
continuare
il
suo
personaggio
,
quando
cala
il
sipario
.
Il
suo
personaggio
continua
a
vivere
nella
memoria
e
nella
fantasia
.
Egli
torna
immediatamente
Totò
uomo
.
A
differenza
anche
di
molti
che
non
sono
attori
e
che
,
per
essere
assunti
nell
'
arte
e
nella
storia
al
ruolo
di
personaggi
storici
,
continuano
in
ogni
ora
,
solo
che
li
si
guardi
,
solo
che
pensino
di
essere
osservati
,
a
sforzarsi
di
assomigliare
al
loro
personaggio
o
di
disegnare
un
contrario
di
se
stessi
,
mi
pare
che
Totò
non
si
curi
nemmeno
di
costruire
un
antiTotò
.
Egli
non
è
il
contrario
di
se
stesso
:
non
è
il
«
pagliaccio
che
pranza
dopo
aver
fatto
ridere
»
o
la
maschera
che
ammicca
per
far
intendere
che
,
sotto
il
cerone
del
trucco
,
c
'
è
l
'
uomo
.
È
una
creatura
molto
differente
che
sembra
non
abbia
,
di
Totò
,
mai
sentito
parlare
e
che
per
Totò
abbia
una
estrema
indifferenza
.
Il
Totò
della
scena
resta
placidamente
attaccato
a
un
gancio
dell
'
attaccapanni
.
Padrone
chiunque
di
immaginarlo
per
le
vie
del
mondo
con
il
suo
stretto
tubino
,
la
sua
lunga
mascella
,
il
suo
riso
sgangherato
,
il
suo
collo
da
disossato
ballerino
fantoccio
.
Nella
vita
,
Totò
è
quasi
impacciato
,
quando
sorprende
che
il
nostro
sguardo
insiste
a
cercare
nel
suo
viso
una
maschera
che
non
è
più
sua
e
che
ormai
appartiene
alla
favola
del
nostro
tempo
.
Il
camerino
di
Totò
è
,
come
il
teatro
,
sottoterra
,
e
vi
si
arriva
per
complicati
labirinti
.
Quando
si
è
là
dentro
,
il
palcoscenico
sembra
lontanissimo
.
Ho
pensato
spesso
,
mentre
parlavo
con
Totò
durante
i
momenti
in
cui
si
cambiava
tra
una
scena
e
l
'
altra
,
a
certe
mie
esperienze
di
sommergibilista
oceanico
.
Non
solo
l
'
aria
è
quella
,
stanca
e
viziata
,
del
piccolo
quadrato
di
un
sommergibile
alla
massima
immersione
:
ma
è
quello
,
in
un
certo
senso
,
anche
il
silenzio
.
Il
pubblico
bisogna
ricordarselo
,
come
ci
si
ricorda
,
a
cento
metri
sott
'
acqua
,
della
superficie
azzurra
e
ondosa
del
mare
.
Non
si
sente
la
sua
voce
.
Si
cerca
istintivamente
il
periscopio
.
Questo
accade
perché
qui
non
arriva
nulla
,
nemmeno
il
risucchio
della
grande
ondata
spettacolare
della
rivista
che
svolge
intanto
,
nel
golfo
di
luce
del
palcoscenico
,
le
sue
grandi
manovre
di
colori
,
di
luci
,
di
piume
,
di
danze
,
di
vive
morbide
statue
di
donne
.
La
rivista
non
arriva
al
camerino
di
Totò
che
come
l
'
eco
,
se
potesse
giungerci
,
di
un
pianeta
lontano
.
Lo
spettacolo
,
per
chi
se
ne
sta
seduto
nel
camerino
,
è
come
avvenisse
sulla
luna
.
Su
una
parete
è
attaccato
un
piccolo
altoparlante
.
Basta
toccare
un
bottone
e
l
'
altoparlante
si
mette
a
parlare
e
a
cantare
:
parole
e
suoni
un
po
'
confusi
,
quasi
da
segnalazioni
medianiche
.
Anche
nelle
navi
da
guerra
in
navigazione
e
in
battaglia
,
imperiosi
altoparlanti
ripetono
,
nei
vari
ponti
,
alle
macchine
,
alle
stive
,
ai
depositi
di
munizioni
e
alle
torri
dei
cannoni
le
voci
del
comando
,
i
rumori
della
battaglia
.
Totò
mentre
si
trucca
per
la
nuova
scena
,
segue
,
ogni
tanto
,
alla
voce
roca
e
lievemente
sinistra
,
fredda
e
incorporea
dell
'
altoparlante
,
la
manovra
e
la
battaglia
.
La
presenza
di
quelle
voci
è
come
la
presenza
del
destino
,
è
come
il
monito
al
personaggio
per
dirgli
:
«
Ricordati
che
sei
Totò
»
.
Nessuno
può
entrare
.
Il
retroscena
di
una
rivista
è
uno
dei
luoghi
più
segreti
del
mondo
.
Una
soubrettina
o
una
ballerinetta
possono
sfilare
sulla
passerella
con
venti
centimetri
quadrati
di
stagnola
per
tutto
vestito
,
sotto
la
luce
implacabile
dei
proiettori
,
ma
nell
'
ombra
delle
quinte
la
bellezza
e
la
nudità
sono
elementi
di
lavoro
,
accanto
ai
quali
non
ci
si
può
fermare
come
fa
il
nottambulo
che
passa
un
quarto
d
'
ora
a
guardare
gli
operai
che
riparano
le
rotaie
del
tram
.
Il
camerino
di
Totò
,
con
il
lungo
corridoio
buio
che
lo
precede
,
mi
fa
anche
per
questo
pensare
alle
navi
da
guerra
dove
non
ci
sono
donne
.
Una
serata
dietro
le
quinte
con
Totò
è
una
serata
fra
uomini
:
uno
dei
quali
si
spoglia
e
si
riveste
ogni
momento
davanti
alla
propria
immagine
riflessa
in
due
specchi
.
L
'
immagine
è
quieta
,
quasi
assorta
,
fondamentalmente
malinconica
,
al
limite
del
doloroso
.
Non
si
ride
,
non
v
'
è
motivo
od
occasione
di
ridere
.
Sembra
che
Totò
non
abbia
quasi
ricordi
o
che
non
voglia
averne
,
stanco
dell
'
infinita
proiezione
di
se
stesso
nella
lunga
prospettiva
del
tempo
,
dall
'
infanzia
ad
oggi
.
L
'
altoparlante
porta
musiche
più
o
meno
indiavolate
.
Totò
è
sfigurato
dal
trucco
,
si
incolla
sulla
fronte
un
ridicolo
parrucchino
,
indossa
una
goffa
camiciola
.
Parla
di
quand
'
era
bambino
a
Napoli
e
aveva
delle
crisi
mistiche
e
riempiva
la
casa
di
altarini
.
Poi
voleva
fare
l
'
ufficiale
di
marina
.
Solo
a
venti
anni
vide
,
per
la
prima
volta
,
un
attore
e
da
allora
scoprì
la
sua
vocazione
.
Se
,
in
strada
,
incontrava
quel
vecchio
attore
,
lo
seguiva
timido
e
lo
sopravanzava
varie
volte
per
guardarlo
in
faccia
.
Parla
della
commedia
dell
'
arte
e
di
Pulcinella
.
E
veramente
Totò
è
il
Pulcinella
moderno
,
senza
maschera
,
con
la
faccia
lavata
,
complicato
con
tutto
il
grottesco
e
forse
anche
con
tutte
le
malinconie
geometriche
del
nostro
tempo
.
Quando
l
'
altoparlante
lo
avverte
che
è
l
'
ora
di
salire
in
palcoscenico
,
nel
praticabile
che
,
visto
dalla
platea
,
rappresenta
un
interno
di
vagone
-
letto
,
interrompe
il
racconto
e
va
verso
il
suo
lavoro
per
il
corridoio
buio
,
verso
il
palcoscenico
buio
.
Adesso
dal
piano
del
palcoscenico
,
lo
vedo
in
luce
,
nella
scatola
del
vagone
-
letto
,
dalla
vita
in
su
,
come
da
una
ribalta
di
teatro
di
burattini
.
Dalla
parte
dove
sono
io
,
il
silenzio
è
alto
come
è
fitta
l
'
ombra
rotta
qua
e
là
dagli
spiragli
di
luce
dei
camerini
.
La
maschera
è
là
,
come
nei
tempi
antichi
,
come
alla
piccola
ribalta
delle
piazze
napoletane
,
inquadrata
nell
'
immaginario
finestrone
del
treno
.
Tira
invisibili
fili
e
un
'
invisibile
umanità
ride
,
di
là
dalla
ribalta
,
come
per
un
comando
sovrumano
,
in
una
misura
infallibile
.
Alla
comicità
di
Totò
si
possono
trovare
molte
origini
,
come
sempre
si
fa
quando
si
parla
di
un
attore
comico
o
,
meglio
,
del
creatore
di
una
maschera
,
sia
esso
Charlot
,
Max
Linder
,
Prince
,
Ridolini
,
Buster
Keaton
.
Pochi
argomenti
come
quello
del
creatore
di
maschere
moderne
per
il
teatro
,
per
il
cinema
o
per
il
circo
(
pensate
al
clown
Giacomino
,
amato
parimenti
da
Kuprin
,
da
Andreew
e
da
Gorkij
;
pensate
ai
Fratellini
e
a
Grock
)
si
sono
prestati
a
saggi
lunghi
e
seri
.
Petrolini
è
stato
commentato
filosoficamente
da
Bontempelli
.
Su
Charlot
esiste
una
biblioteca
e
sui
Fratellini
un
mezzo
scaffale
di
libri
.
Quella
di
Totò
è
all
'
inizio
una
comicità
da
invertebrato
;
la
sua
prima
immagine
è
un
metro
snodato
,
di
quelli
gialli
da
falegname
.
Partendo
da
qui
,
la
sua
comicità
,
ubbidiente
ad
una
macabra
geometria
,
si
è
sviluppata
e
complicata
anche
con
certi
ghigni
sinistri
che
sembrano
rubati
a
una
pittura
di
Ensor
o
a
certe
diaboliche
incisioni
di
Goya
.
Il
tubino
e
la
redingote
sono
quelli
di
Charlot
,
certe
intonazioni
sono
ancora
di
Ettore
Petrolini
,
il
naso
e
il
mento
sono
quelli
di
Pulcinella
.
Da
questo
incrocio
è
nato
Totò
.
Totò
il
buono
come
lo
ha
chiamato
Zavattini
:
un
po
'
uomo
,
un
po
'
angelo
,
un
po
'
marionetta
e
un
po
'
clown
,
come
del
resto
ai
suoi
tempi
è
stato
Charlie
Chaplin
.
Un
comico
che
fa
ridere
con
le
ossa
,
muovendo
gli
angoli
più
imprevisti
dello
scheletro
.
Si
muove
,
nei
momenti
di
parossismo
,
come
si
muovono
sulla
lavagna
i
quadrati
costruiti
sui
lati
del
triangolo
del
teorema
di
Pitagora
.
Data
la
sua
origine
napoletana
,
non
è
forse
ingiusto
ricordare
la
geometria
di
certi
gesti
dei
mimi
greci
,
tramandati
nella
pittura
dei
vasi
ellenici
.
A
questa
violentissima
capacità
di
pantomima
si
accompagna
,
per
contrasto
,
l
'
alta
mestizia
degli
occhi
più
disillusi
del
mondo
.
La
bocca
sorride
e
si
illude
,
bonaria
;
gli
occhi
non
credono
alla
favola
gaia
entro
la
quale
vivono
;
il
corpo
balla
e
si
scompone
come
nel
grottesco
di
una
danza
macabra
.
Un
personaggio
che
sarebbe
piaciuto
ai
Goncourt
,
per
il
suo
verismo
e
,
per
la
sua
fantasia
,
a
Théophile
Gautier
.
Nelle
cronache
del
teatro
francese
del
Secondo
Impero
,
c
'
è
la
storia
di
qualche
comico
spettrale
che
piacque
anche
a
Victor
Hugo
.
Non
è
,
del
resto
,
Zavattini
profeta
letterario
di
Totò
,
il
romantico
degli
angeli
e
dei
poveri
?
Anche
se
,
nella
prospettiva
teatrale
,
la
mimica
facciale
più
sottile
deve
diventare
smorfia
violenta
e
l
'
attore
deve
moltiplicare
le
dosi
della
virtù
comica
per
ottenere
«
l
'
onda
lunga
»
che
lo
metta
in
contatto
con
lo
spettatore
lontano
,
il
suo
migliore
segreto
Totò
lo
ha
nelle
sfumature
:
un
millimetrico
flettersi
delle
sopracciglia
,
un
velarsi
improvviso
dell
'
occhio
,
un
intimo
ammiccare
forse
furbesco
e
forse
di
mestizia
.
Alla
una
e
mezzo
di
notte
,
un
uomo
di
media
statura
esce
dal
teatro
.
Ha
in
testa
un
cappello
color
noisette
,
un
paltò
dello
stesso
colore
,
una
camicia
di
seta
con
le
due
punte
del
colletto
fermate
da
una
spilla
.
La
strada
è
quasi
deserta
.
Nessuno
si
ferma
e
nessuno
ci
guarda
.
«
Non
ho
avuto
»
,
dice
,
«
una
carriera
difficile
,
non
ho
vissuto
molto
,
non
ho
avuto
nemici
.
Ho
avuto
una
vita
come
tutti
gli
altri
.
Sono
come
tutti
gli
altri
.
»
In
trattoria
,
mangia
un
piatto
di
prosciutto
e
un
piatto
di
spaghetti
.
Il
fotografo
,
naturalmente
,
vuole
riprenderlo
con
la
forchetta
in
mano
.
Totò
non
è
padrone
,
l
'
ho
visto
,
della
sua
immagine
.
Quando
,
chiamandolo
per
nome
,
l
'
ho
salutato
sulla
porta
dell
'
albergo
,
l
'
autista
del
tassì
notturno
si
è
affacciato
al
suo
sportello
,
per
vederlo
.
Probabilmente
avrà
pensato
che
io
avessi
scherzato
.
StampaQuotidiana ,
Non
mi
sembra
che
il
ricordo
di
Trilussa
possa
dividersi
da
quello
della
sua
casa
romana
,
dove
mi
pare
ch
'
egli
abbia
abitato
sempre
.
La
casa
fu
costruita
,
molti
anni
fa
,
da
un
certo
Corrodi
,
che
la
destinò
tutta
a
studi
di
artisti
.
I
lavori
del
Lungotevere
,
che
erano
stati
tanto
a
cuore
di
Garibaldi
,
erano
finiti
da
poco
tempo
;
a
quel
tratto
del
Lungotevere
-
da
cui
già
si
scopriva
,
non
ancora
nascosto
dalle
nuove
costruzioni
del
quartiere
di
Prati
,
là
,
in
fondo
a
via
Cola
di
Rienzo
,
il
profilo
delle
mura
del
Vaticano
-
era
stato
dato
il
nome
antipapalino
di
Arnaldo
da
Brescia
e
,
come
un
monito
ai
pellegrini
che
si
fossero
accinti
a
varcare
il
nuovo
ponte
,
era
stata
collocata
fra
quattro
platani
la
statua
di
Ciceruacchio
,
raffigurato
dallo
Ximenes
nell
'
atto
con
cui
il
fiero
popolano
si
denuda
Il
petto
per
offrirlo
alle
scariche
del
plotone
di
esecuzione
.
Cola
di
Rienzo
,
Arnaldo
da
Brescia
,
Ciceruacchio
:
a
Roma
,
almeno
come
toponomastica
,
si
respirava
ancora
un
'
aria
molto
«
Venti
Settembre
»
.
Il
villino
del
Corrodi
era
,
ed
è
ancora
,
un
edificio
di
stile
architettonico
incerto
,
che
avrebbe
potuto
essere
ispirato
dalla
scuola
romana
fra
il
'70
e
il
'90
,
quella
del
Kock
o
dei
vecchi
Piacentini
e
Bazzani
:
un
edificio
,
in
ogni
modo
,
di
una
certa
dignità
,
e
non
destinato
certamente
ad
ospitare
dei
«
morti
de
farne
»
com
'
erano
,
in
quegli
anni
,
gli
ospiti
degli
studi
di
via
Margutta
.
Il
pianterreno
era
diviso
in
quattro
grandi
spazi
,
adatti
particolarmente
a
scultori
.
Altri
quattro
erano
al
secondo
piano
.
Non
so
con
precisione
in
quale
anno
Trilussa
,
in
cambio
di
un
mese
d
'
affitto
anticipato
-
il
pagamento
semestrale
era
,
a
quei
tempi
,
possibile
solo
nella
grassa
Milano
:
a
Roma
si
era
di
respiro
molto
più
corto
-
sia
entrato
in
possesso
delle
chiavi
di
uno
degli
otto
studi
Corrodi
.
Ma
certamente
fu
parecchi
anni
prima
della
guerra
di
Tripoli
.
Trilussa
era
giovane
,
scapolo
,
e
poeta
:
era
giusto
che
si
cercasse
quello
che
allora
si
chiamava
un
«
eremo
»
in
una
località
piuttosto
fuori
mano
.
Aveva
-
ne
ho
ritrovata
l
'
immagine
in
una
rivista
del
gennaio
del
1900
-
baffi
neri
e
folti
,
che
solo
più
tardi
moderò
secondo
la
moda
«
americana
»
:
baffi
fine
Ottocento
dei
quali
si
parla
tanto
nelle
novelle
di
Maupassant
,
che
davano
un
brivido
delizioso
quando
sfioravano
,
in
un
bacio
,
il
collo
di
una
bella
dama
.
La
statura
sua
era
altissima
:
i
giornali
del
primo
Novecento
,
quando
andava
in
giro
per
l
'
Italia
a
leggere
i
suoi
versi
,
parlavano
delle
sue
gambe
«
smisurate
»
.
Credo
che
più
che
le
muse
,
molte
belle
donne
abbiano
,
e
per
molti
anni
,
bussato
alla
porticina
del
suo
studio
:
e
questo
mi
spiega
perché
buona
parte
delle
sue
poesie
,
se
non
proprio
tutte
,
Trilussa
mi
ha
detto
di
averle
scritte
,
invece
che
in
casa
,
per
strada
,
durante
certe
passeggiate
.
E
questo
mi
spiega
perché
,
quando
i
capelli
di
Trilussa
cominciarono
a
diventare
grigi
,
egli
avesse
fatto
intagliare
,
nelle
imposte
delle
finestre
terrene
,
certi
spioncini
da
cui
poteva
,
avvicinandosi
in
pantofole
,
vedere
se
gli
conveniva
,
o
no
,
aprire
la
porta
.
Quando
gli
italiani
cominciano
a
sognare
l
'
unità
del
proprio
Paese
e
ad
agitarsi
per
essa
,
subito
nella
nostra
letteratura
,
da
una
parte
,
si
schierano
í
poeti
che
chiameremo
«
in
lingua
»
e
,
dall
'
altra
,
i
«
dialettali
»
.
Queste
sono
forse
le
contraddizioni
indicatrici
del
temperamento
italiano
.
Si
fa
deserta
,
nel
suo
parco
al
Gianicolo
,
l
'
accademia
arcadica
del
Bosco
Parrasio
tanto
cara
ai
prelati
di
Pio
IX
,
e
da
Trastevere
vengono
al
mondo
il
Belli
e
Pascarella
e
Trilussa
.
Un
poeta
della
Maremma
e
un
poeta
d
'
Abruzzo
cantano
la
gloria
della
Dea
Roma
:
i
romani
rispondono
con
i
sonetti
e
con
le
favole
di
Trilussa
,
nelle
quali
di
Roma
con
la
maiuscola
si
parla
poco
e
quasi
niente
,
e
,
invece
che
girare
per
i
Fori
e
per
la
Via
Sacra
,
si
va
per
vicoli
e
cortili
e
osterie
a
conoscere
,
da
vicino
,
il
popolino
.
Trilussa
aveva
tredici
anni
quando
il
nipote
del
poeta
e
Luigi
Morandi
,
fra
il
1886
e
il
1889
,
mandarono
fuori
i
sei
volumi
dei
sonetti
di
Gioachino
Belli
sino
allora
malamente
noti
o
addirittura
stampati
alla
macchia
.
Le
date
contano
anche
nella
vita
dei
poeti
,
soprattutto
quando
sono
ragazzi
come
lo
era
allora
Trilussa
.
Dell'82
sono
Er
morto
de
campagna
e
la
Serenata
di
Pascarella
,
dell'85
Villa
Glori
,
e
del
'93
La
scoperta
de
l
'
America
.
Sono
degli
stessi
anni
le
rime
migliori
di
Gigi
Zanazzo
che
fonda
il
Rugantino
per
accogliere
e
diffondere
le
creazioni
della
poesia
vernacola
romanesca
.
Trastevere
,
Piazza
Navona
,
la
festa
di
San
Giovanni
con
i
lampioncini
e
le
lumache
fritte
,
diventano
temi
di
poesia
in
quella
stagione
.
Se
si
guarda
al
di
là
delle
mura
di
Roma
,
troveremo
,
nello
stesso
periodo
,
i
primi
sonetti
di
Salvatore
di
Giacomo
,
Zi
'
munacella
e
'
O
funneco
verde
.
Per
un
ragazzo
che
si
senta
nato
per
parlare
in
dialetto
la
scelta
del
maestro
-
anche
se
non
si
voglia
risalire
al
Porta
che
forse
ha
insegnato
qualcosa
persino
al
Belli
-
è
piuttosto
difficile
.
Per
quanti
anni
Trilussa
dovrà
portar
il
dolce
ma
grave
peso
di
esser
chiamato
l
'
erede
di
Pascarella
,
benché
non
l
'
abbia
imitato
mai
?
Chi
ha
parlato
di
lui
,
in
occasione
della
sua
morte
,
ha
dimenticato
,
mi
sembra
,
di
notare
ciò
che
il
giornalismo
aveva
dato
,
forse
anche
usandole
violenza
,
alla
poesia
di
Trilussa
.
Dei
caratteri
«
giornalistici
»
dell
'
autore
delle
Favole
si
è
ricordato
,
con
molto
acume
,
anni
fa
Pietro
Pancrazi
.
Fu
il
giornalismo
,
l
'
obbligo
di
pubblicare
i
versi
,
prima
che
in
volume
,
in
giornali
e
in
settimanali
,
che
costrinse
Trilussa
a
rammentarsi
sempre
di
scrivere
per
un
pubblico
largo
,
che
voleva
cose
rapide
nella
stesura
,
precise
nel
bersaglio
,
immerse
tutte
nella
realtà
e
non
sospese
a
metà
strada
tra
la
descrizione
e
il
«
caso
personale
»
come
poté
permettersi
,
parlando
molti
anni
dopo
a
pochi
amici
,
il
milanese
Delio
Tessa
.
Per
prima
cosa
i
versi
di
Trilussa
dovevano
,
fra
il
1890
e
il
1900
,
piacere
al
suo
direttore
Luigi
Cesana
,
un
giornalista
che
aveva
fatto
la
fortuna
del
«
Messaggero
»
rivolgendosi
,
e
non
si
vergognava
di
dirlo
,
al
pubblico
delle
portinaie
per
salire
,
da
questo
,
a
quello
dei
piccoli
impiegati
a
lire
1100
annue
:
dovevano
piacere
ai
cronisti
di
via
del
Bufalo
,
che
anch
'
essi
fornicavano
,
come
Nino
Ilari
,
con
le
muse
vernacole
e
poetavano
di
bulli
e
di
minenti
:
dovevano
corrispondere
a
fatti
e
sentimenti
di
interesse
generale
,
evitare
,
con
un
dialetto
tutto
cose
e
senza
troppi
aggettivi
-
senza
aggettivi
ai
tempi
di
D
'
Annunzio
!
-
ogni
nebulosità
.
Dovevano
poter
essere
letti
sul
tranvai
a
cavalli
di
corso
Umberto
e
annunciati
dagli
strilloni
dei
giornali
all
'
angolo
di
via
delle
Convertite
.
Il
primo
che
doveva
ridere
delle
favole
di
Trilussa
,
o
approvarne
l
'
ironia
,
era
il
tipografo
che
ne
componeva
a
mano
il
quadretto
in
carattere
grassetto
.
Lo
scopino
che
lo
vedeva
rincasare
all
'
alba
doveva
dire
:
«
Trilussa
ha
ragione
»
e
i
vetturini
,
che
,
mentre
davano
la
biada
ai
cavalli
al
largo
del
Tritone
,
lo
vedevano
spuntare
di
lontano
con
le
sue
gambe
interminabili
,
dovevano
dire
:
«
Questo
è
il
nostro
poeta
...
»
.
Egli
doveva
«
farsi
intendere
al
volo
»
,
come
certi
comici
di
teatro
:
e
per
questo
era
giusto
che
Ojetti
,
romano
come
lui
,
-
Trilussa
era
di
Trastevere
e
Ojetti
del
Rione
Colonna
-
collocasse
certi
colori
del
suo
umorismo
,
nativamente
popolare
,
vicino
a
quelli
della
tavolozza
di
Petrolini
.
Per
molti
anni
Trilussa
era
andato
al
giornale
con
la
poesia
in
tasca
,
così
come
un
attore
,
alle
otto
,
entra
in
camerino
a
truccarsi
per
presentarsi
al
pubblico
.
Una
vita
appartata
,
un
poetare
sommesso
,
una
musa
ermetica
gli
erano
,
per
forza
di
cose
,
precluse
.
La
sua
poesia
nasceva
accanto
alla
linotype
,
mentre
quella
del
Belli
era
gelosamente
custodita
in
segretissimi
cassetti
.
Per
questo
,
dai
sonetti
giovanili
Trilussa
passò
alla
satira
delle
Favole
,
concise
,
immediate
,
sul
cui
foglio
il
redattore
-
capo
scriveva
a
matita
«
corpo
12»
e
,
mentre
le
passava
in
tipografia
,
sapeva
che
il
fattorino
se
le
sarebbe
lette
subito
in
corridoio
.
Pochi
scrittori
hanno
avuto
minori
amicizie
letterarie
di
Trilussa
.
A
Roma
vivevano
-
per
far
tre
nomi
di
valore
diametralmente
opposto
-
Pirandello
,
Grazia
Deledda
e
Zuccoli
.
Trilussa
quasi
non
li
conosceva
.
Perché
il
suo
mondo
,
estremamente
fatto
di
comunicativa
,
non
aveva
,
in
effetti
,
vasi
comunicanti
con
altri
mondi
letterari
.
Credo
che
egli
abbia
praticamente
ignorato
i
movimenti
letterari
di
«
Lacerba
»
,
della
«
Voce
»
,
della
«
Ronda
»
.
Credo
non
abbia
delirato
nemmeno
per
D
'
Annunzio
.
Nello
studio
Corrodi
,
i
libri
erano
pochi
:
e
molto
più
numerose
,
anche
se
ormai
polverose
,
erano
le
fotografie
delle
belle
donne
.
Trilussa
aveva
avuto
forse
,
ai
primi
anni
del
secolo
,
la
voglia
di
avere
anche
lui
un
po
'
di
Capponcina
:
ma
s
'
era
fermato
subito
:
il
suo
arredamento
assomigliava
più
a
quello
della
soffitta
madrilena
di
Ramon
Gomez
de
la
Serna
,
racimolato
dai
rigattieri
,
che
a
quello
del
Vittoriale
.
Il
sogno
più
ambizioso
di
Trilussa
era
stato
di
impiantare
nello
studio
un
teatro
di
burattini
.
Il
suo
salotto
intellettuale
era
al
tavolino
di
un
'
osteria
alla
Chiesa
Nuova
.
La
sua
franchezza
nell
'
accettare
il
suo
ruolo
poetico
,
anche
se
egli
doveva
sembrare
per
tanto
tempo
solamente
l
'
umorista
di
un
mondo
esclusivamente
piccolo
e
medio
-
borghese
,
è
stata
il
suo
merito
maggiore
:
quello
che
gli
ha
permesso
di
non
esulare
mai
dalla
sua
misura
e
di
non
sforzare
e
falsare
la
sua
voce
.
Egli
seppe
insomma
qual
era
non
solo
il
suo
mondo
ma
anche
la
esatta
tessitura
della
sua
voce
:
e
questa
voce
conservò
fresca
per
quasi
sessant
'
anni
.