StampaQuotidiana ,
Le
parole
messe
in
musica
,
le
parole
cantate
non
piacciono
ai
più
raffinati
cultori
dell
'
arte
dei
suoni
.
Fra
coloro
che
ancora
le
sopportano
,
molti
preferiscono
le
forme
corali
,
in
cui
la
parola
sparisce
,
altri
amano
che
della
voce
giunga
solo
l
'
arabesco
sonoro
,
senza
che
alcuna
sillaba
si
distingua
,
altri
ancora
(
i
meno
)
vorrebbero
che
la
parola
musicata
giungesse
a
noi
sempre
scandita
,
chiara
,
intelligibile
.
Sono
i
partitanti
del
così
detto
«
recitar
cantando
»
,
italianissimo
precetto
.
Mi
unirei
volentieri
a
questi
ultimi
se
il
gioco
valesse
come
suol
dirsi
la
candela
,
se
fossi
certo
che
la
musica
può
in
certi
casi
far
sprizzare
dalla
poesia
,
che
in
se
stessa
è
già
musica
,
una
musica
di
secondo
grado
degna
,
o
non
indegna
,
della
prima
.
So
di
sfiorare
un
problema
sul
quale
esiste
tutta
una
letteratura
,
che
purtroppo
conosco
solo
in
minima
parte
.
È
musicabile
la
poesia
?
E
qual
genere
di
poesia
?
E
fino
a
che
punto
?
E
in
quale
misura
le
parole
dovranno
conservare
la
loro
autonomia
e
lasciarsi
intendere
dall
'
ascoltatore
?
In
genere
la
recente
tradizione
operistica
ha
ignorato
il
problema
e
ha
considerato
la
parola
come
il
necessario
pretesto
a
far
sì
che
lo
strumento
«
voce
umana
»
possa
entrare
nel
gioco
degli
altri
strumenti
e
farsi
valere
.
Ma
esiste
anche
una
scuola
che
va
dai
nostri
grandi
cinquecentisti
fino
a
Debussy
e
magari
fino
allo
Schönberg
di
Pierrot
lunaire
,
e
che
pretende
di
avere
un
rispetto
assoluto
della
parola
,
di
creare
ad
essa
il
giusto
prolungamento
o
alone
sonoro
,
senza
distruggerne
l
'
individualità
.
Questi
teorici
,
più
o
meno
consapevoli
,
del
canto
recitato
hanno
però
finito
con
l
'
ammettere
che
solo
una
«
certa
poesia
»
è
musicabile
e
la
scelta
dei
loro
testi
rivela
chiaramente
ch
'
essi
si
sono
quasi
sempre
posti
sulla
via
del
compromesso
.
Musicavano
una
volta
ballatette
,
poesiole
d
'
Arcadia
,
strofette
scritte
apposta
per
la
musica
;
affrontano
oggi
drammi
di
scarso
valore
poetico
(
Pelléas
et
Mélisande
)
o
liriche
di
una
vacuità
addirittura
inconcepibile
,
come
la
suite
del
Pierrot
lunaire
,
opera
di
un
Albert
Giraud
che
deve
al
musicista
viennese
il
suo
insperato
repéchage
.
Il
peggior
partito
fu
quello
preso
dai
musici
che
scrissero
da
sé
i
propri
testi
o
libretti
:
incerti
fra
la
doppia
vocazione
,
poetica
e
musicale
,
essi
si
lasciarono
ipnotizzare
da
parole
orrende
e
solo
si
salvarono
permettendo
che
le
voci
andassero
sommerse
nella
selva
del
grande
golfo
mistico
.
Fa
eccezione
,
parzialmente
,
Riccardo
Wagner
,
ma
ciò
avviene
per
la
superba
natura
del
suo
genio
,
e
non
perché
in
lui
non
si
avverta
una
soverchiante
prepotenza
subìta
dalla
parola
.
Se
dal
piano
delle
scuole
e
delle
teorie
ci
spostiamo
all
'
osservazione
dei
fatti
,
noi
vediamo
che
almeno
dall
'
Ottocento
in
poi
un
sapiente
compromesso
regola
tutte
le
esecuzioni
di
musica
vocale
.
Fatta
eccezione
per
moltissimi
Lieder
o
romanze
da
camera
,
o
per
qualche
recitativo
d
'
opera
comica
,
o
per
alcuni
superbi
frammenti
del
Boris
,
la
soluzione
pratica
del
difficile
problema
è
sempre
la
stessa
;
le
parole
ci
sono
e
non
ci
sono
,
si
sentono
e
non
si
sentono
,
aiutano
o
danneggiano
l
'
effetto
,
a
seconda
dei
casi
.
Si
è
formata
,
anche
in
questo
campo
,
una
tradizione
che
i
migliori
interpreti
rispettano
quasi
d
'
istinto
.
È
doveroso
far
sentire
le
parole
in
certi
miracolosi
«
attacchi
»
che
anche
poeticamente
hanno
una
freschezza
primaticcia
degna
del
nostro
Duecento
(
«
Casta
Diva
che
inargenti
...
»
,
«
La
rivedrà
nell
'
estasi
/
raggiante
di
pallore
...
»
)
o
all
'
inizio
di
qualche
incalzante
proposta
tematica
(
«
Fuggi
fuggi
,
per
l
'
orrida
via
/
sento
l
'
orma
dei
passi
spietati
...
»
)
.
In
altri
casi
tutto
è
affidato
all
'
intuizione
e
alle
possibilità
dell
'
artista
.
I
ghirigori
acrobatici
di
Rosina
non
possono
essere
pronunciati
come
le
sillabe
di
un
Lied
di
Schubert
;
è
giusto
che
Vasco
de
Gama
liberi
dal
vago
tremolo
orchestrale
le
suggestive
parole
«
O
paradiso
dall
'
onde
uscito
»
,
ma
è
altrettanto
lecito
che
il
grande
navigatore
ci
nasconda
gli
ulteriori
sviluppi
della
sua
sorpresa
,
specie
quand
'
essi
restano
affidati
alla
sola
forza
di
penetrazione
del
si
naturale
o
del
do
sopra
le
righe
.
L
'
invettiva
di
Rigoletto
«
Solo
per
me
l
'
infamia
»
è
un
suono
di
gong
più
che
un
suono
di
sillabe
umane
:
guai
a
pronunciare
troppo
,
guai
a
turbare
la
piena
rotondità
di
quel
rombo
da
giorno
del
Giudizio
.
Viceversa
,
tutte
le
volte
che
un
tema
è
annunciato
in
anticipo
da
uno
o
più
strumenti
,
l
'
attacco
delle
prime
parole
deve
riuscire
nitidissimo
.
Quando
il
vecchio
Sir
Giorgio
,
nei
Puritani
,
incide
a
gran
voce
«
Il
rivale
salvar
tu
puoi
...
»
,
il
pubblico
è
felice
di
sentire
incarnarsi
in
parole
un
disegno
melodico
a
lui
già
noto
:
ma
subito
dopo
le
acque
si
intorbidano
e
il
tema
,
ripreso
da
una
voce
troppo
uguale
,
quella
di
Sir
Riccardo
,
non
riesce
a
far
corpo
con
le
parole
come
«
Fu
voler
del
Parlamento
»
,
che
fanno
veramente
cascar
l
'
asino
.
Non
che
sia
un
verso
peggiore
di
tanti
altri
;
ma
le
parole
troppo
astratte
o
troppo
tecniche
o
troppo
specifiche
sopportano
male
la
musica
;
ed
evidentemente
questo
quasi
carducciano
parlamento
non
fa
eccezione
.
(
È
una
delle
tante
meritate
disgrazie
dell
'
istituto
parlamentare
;
ma
lasciamo
correre
...
)
I
problemi
della
parola
in
musica
,
del
recitar
cantando
o
del
cantare
non
recitando
affatto
restano
dunque
aperti
e
insolubili
:
Mussorgski
,
Debussy
e
alcuni
autori
di
canti
negri
sembrano
,
fra
i
moderni
,
coloro
che
meglio
sono
riusciti
a
legare
il
suono
alla
parola
,
ma
la
loro
personalissima
soluzione
non
può
valere
per
tutti
.
Sono
esistiti
,
e
speriamo
ne
sorgano
altri
in
avvenire
,
grandissimi
musicisti
del
teatro
che
si
servono
della
parola
scritta
come
d
'
un
semplice
punto
d
'
appoggio
:
Mozart
,
Bellini
e
Verdi
,
per
esempio
.
Il
loro
ideale
non
era
quello
di
Strawinski
,
una
lingua
morta
,
un
testo
latino
quasi
indecifrabile
al
gran
pubblico
,
ma
un
discorso
chiaro
e
neutro
al
quale
si
potesse
far
violenza
.
Ciò
resta
vero
anche
se
Mozart
amò
i
libretti
dell
'
abate
Da
Ponte
e
Bellini
quelli
di
Felice
Romani
.
E
Verdi
?
Si
è
un
poco
esagerato
sugli
orrori
delle
parole
da
lui
musicate
.
«
L
'
orma
dei
passi
spietati
»
,
tristamente
famosa
,
non
riesce
a
muovermi
a
sdegno
.
Guai
se
leggessimo
Shakespeare
a
questa
stregua
:
non
venitemi
a
dire
,
per
carità
!
,
che
l
'
orma
si
vede
e
non
si
sente
.
D
'
altronde
anche
i
vecchi
libretti
,
fatti
apposta
per
essere
musicati
,
confermano
,
quando
toccano
qualche
espressione
riuscita
,
che
poesia
e
musica
camminano
per
conto
proprio
e
che
il
loro
incontro
resta
affidato
a
fortune
occasionali
.
Peggio
quando
raggiungono
involontariamente
il
clima
del
surreale
.
Conoscevo
un
uomo
(
un
uomo
in
tutto
il
resto
normalissimo
)
che
provava
il
bisogno
di
ripetere
da
cento
a
centocinquanta
volte
al
giorno
un
verso
che
era
diventato
il
suo
intercalare
favorito
:
«
Stolto
!
ci
corre
alla
Negroni
!
»
.
Lo
diceva
anche
al
telefono
,
in
conversazioni
di
carattere
commerciale
.
Quando
gli
rivelai
che
si
trattava
della
Lucrezia
Borgia
egli
impallidì
,
geloso
del
suo
segreto
,
e
mi
disse
che
mai
avrebbe
sentito
quell
'
opera
per
non
provare
la
delusione
di
una
musica
soprammessa
alle
sue
«
divine
parole
»
.
Scansato
da
tutti
come
un
appestato
,
egli
finì
per
stringere
amicizia
con
un
tale
che
ripeteva
a
intermittenza
«
La
nostra
tomba
è
un
'
ara
»
(
variante
della
foscoliana
«
vostra
tomba
»
)
e
con
un
terzo
maniaco
che
aveva
scelto
il
più
lungo
intercalare
ch
'
io
ricordi
:
«
Speriamo
di
morire
prima
che
le
Pleiadi
si
colchino
»
.
Doveva
essere
un
classicista
a
spasso
,
un
professore
in
pensione
.
I
tre
uomini
,
vistisi
porre
al
bando
per
la
loro
incorreggibile
,
benché
innocua
ed
epigrafica
,
ecolalia
,
finirono
per
incontrarsi
clandestinamente
in
una
camera
d
'
affitto
dove
potevano
emettere
a
ripetizione
il
loro
verso
preferito
;
e
dove
poi
(
il
fatto
avvenne
una
quindicina
d
'
anni
fa
)
furono
arrestati
,
accusati
di
congiurare
contro
il
regime
e
proposti
per
il
confino
.
Dopo
tale
disavventura
il
trio
si
sciolse
e
oggi
non
saprei
dire
se
qualcuno
dei
suoi
componenti
sopravviva
.
Inconsapevoli
testimoni
della
magica
autosufficienza
della
Parola
,
i
tre
sventurati
sarebbero
assai
sorpresi
di
riconoscersi
in
uno
scritto
che
sfiora
,
ma
non
pretende
di
risolvere
la
vessata
questione
dei
rapporti
,
coniugali
ed
extra
-
coniugali
,
tra
il
Verbo
e
la
Musica
.