StampaQuotidiana ,
È
accettabile
una
conclusione
"
non
etica
"
di
una
guerra
"
etica
"
?
Questo
interrogativo
era
già
nell
'
aria
dal
momento
in
cui
s
'
era
definito
Milosevic
come
l
'
Hitler
dei
Balcani
.
Ed
era
divenuto
più
stringente
dopo
la
sua
incriminazione
per
crimini
di
guerra
e
contro
l
'
umanità
:
si
temeva
proprio
che
questo
fatto
avrebbe
reso
più
difficile
,
o
addirittura
impossibile
,
una
conclusione
negoziata
del
conflitto
.
Si
può
,
infatti
trattare
con
un
criminale
?
La
trattativa
sembrava
così
impigliarsi
in
un
vincolo
etico
e
in
un
ostacolo
giuridico
.
Ma
poi
la
politica
ha
fatto
sentire
forte
la
sua
voce
,
e
la
desiderata
pace
sembra
ormai
a
portata
di
mano
.
Tutto
semplice
,
dunque
,
con
la
politica
che
riafferma
la
sua
autonomia
dalla
morale
e
la
sua
superiorità
sul
diritto
?
Anche
questa
volta
bisogna
diffidare
dalle
semplificazioni
,
dalla
voglia
di
voltare
in
fretta
una
pagina
sgradevole
.
La
guerra
serba
lascia
sul
terreno
morti
e
distruzioni
,
ma
pure
problemi
aperti
,
domande
in
cerca
di
risposta
,
che
condizioneranno
negli
anni
a
venire
le
forme
organizzative
del
mondo
,
il
destino
dei
diritti
,
le
sorti
della
guerra
e
della
pace
.
Ritorniamo
al
modo
in
cui
la
guerra
venne
avviata
,
nel
quale
si
potrebbe
essere
indotti
a
ritrovare
una
logica
opposta
a
quella
che
sta
portando
alla
sua
conclusione
.
Allora
l
'
esigenza
etica
di
reagire
alla
pulizia
etnica
e
l
'
affermazione
del
diritto
di
ingerenza
umanitaria
presentavano
la
politica
non
nella
sua
orgogliosa
autonomia
,
ma
nelle
sembianze
dell
'
ancella
della
morale
e
del
diritto
.
Prima
ancora
d
'
una
necessità
politica
,
era
l
'
imperativo
etico
e
giuridico
ad
imporre
il
ricorso
alle
armi
.
Subito
,
però
,
divennero
evidenti
le
contraddizioni
e
i
limiti
dell
'
argomento
etico
e
di
quello
giuridico
.
Può
l
'
etica
accettare
il
sacrificio
dei
civili
innocenti
?
Può
il
diritto
tramutarsi
in
indifferenza
rispetto
al
modo
in
cui
i
poteri
vengono
esercitati
?
L
'
etica
impone
anche
misura
,
proporzione
:
più
i
giorni
passavano
,
più
si
coglieva
lo
scarto
tra
l
'
azione
bellica
e
i
sacrifici
imposti
a
popolazioni
incolpevoli
,
gli
stessi
serbi
e
i
kosovari
più
di
prima
perseguitati
e
scacciati
.
Il
diritto
è
regola
,
stabilita
in
anticipo
:
il
"
diritto
d
'
ingerenza
umanitaria
"
che
si
stava
faticosamente
costruendo
,
esige
una
precisa
e
preventiva
individuazione
di
chi
può
esercitarlo
,
non
può
mai
essere
inteso
come
una
sorta
di
delega
in
bianco
rilasciata
a
Stati
o
alleanze
perché
intervengano
dove
e
quando
gli
piaccia
.
Così
,
dietro
lo
schermo
etico
e
giuridico
ricomparivano
,
nude
,
la
forza
e
la
spietatezza
della
politica
.
Proprio
per
ricostruire
un
'
accettabile
condizione
etica
e
giuridica
,
allora
,
diveniva
indispensabile
giungere
alla
conclusione
della
guerra
.
Di
una
superiorità
morale
della
pace
hanno
parlato
tutti
i
filosofi
che
si
sono
cimentati
nell
'
impresa
ardua
di
dare
ad
essa
una
fondazione
che
potesse
farla
divenire
"
perpetua
"
.
Ma
,
al
di
là
dell
'
intima
forza
di
questo
principio
,
vi
è
un
'
urgenza
nelle
cose
che
impone
di
non
legare
alla
vicenda
personale
di
un
governante
l
'
umana
sorte
di
milioni
di
persone
,
già
destinate
e
vivere
per
un
tempo
non
breve
in
condizioni
difficili
,
in
territori
devastati
e
con
un
'
economia
distrutta
.
Un
'
implacabile
intransigenza
morale
avrebbe
di
nuovo
portato
a
quella
mancanza
di
misura
e
di
proporzionalità
che
mina
la
forza
dell
'
argomento
etico
.
Negare
ogni
legittimità
alla
trattativa
con
Milosevic
avrebbe
portato
ad
una
situazione
nella
quale
l
'
unica
via
d
'
uscita
sarebbe
stata
l
'
uccisione
del
tiranno
.
Ma
trattare
non
significa
assolvere
o
condonare
.
Non
sto
postulando
l
'
indifferenza
della
politica
rispetto
alle
regole
del
diritto
ed
alle
esigenze
della
morale
.
Voglio
più
semplicemente
dire
che
bisogna
ritrovare
lucidità
nel
ridefinire
le
relazioni
tra
queste
diverse
sfere
,
oscurate
dalla
strumentalità
e
dall
'
approssimazione
con
cui
sono
state
analizzate
in
questo
drammatico
periodo
.
l
'
interlocutore
Milosevic
rimane
l
'
imputato
Milosevic
davanti
al
Tribunale
penale
internazionale
.
Comprendo
la
difficoltà
di
accettare
questa
distinzione
,
e
anche
il
rischio
che
ad
essa
venga
rivolta
una
critica
di
scarso
realismo
.
Ma
queste
sono
le
difficoltà
obiettive
di
una
situazione
in
cui
le
nuove
dimensioni
del
mondo
sfidano
le
logiche
tradizionali
,
mostrano
l
'
inadeguatezza
di
vecchie
istituzioni
e
di
vecchi
concetti
,
e
la
fatica
con
la
quale
si
cerca
di
costruire
un
quadro
istituzionale
adeguato
.
Al
Tribunale
penale
internazionale
spetta
ora
il
difficile
compito
di
agire
con
imparzialità
,
di
scrollarsi
di
dosso
il
sospetto
d
'
essere
il
troppo
docile
strumento
d
'
una
parte
politica
.
Non
è
un
tribunale
dei
vincitori
,
davanti
al
quale
vengono
trascinati
in
catene
gli
sconfitti
.
Agisce
nel
fuoco
dei
conflitti
,
e
quindi
è
destinato
a
fare
i
conti
con
le
difficoltà
di
svolgere
i
processi
e
soprattutto
di
far
eseguire
le
condanne
,
per
ragioni
che
sono
tutte
dipendenti
dalla
politica
.
Si
può
imprigionare
un
capo
di
Stato
?
Stiamo
così
ridefinendo
,
insieme
,
le
modalità
della
politica
,
le
regole
del
diritto
,
lo
spazio
dell
'
etica
.
Non
ci
aggiriamo
,
soltanto
,
smarriti
,
lungo
gli
incerti
confini
tra
diritto
e
morale
.
è
pure
alla
politica
,
a
lungo
invocata
durante
il
conflitto
serbo
come
unica
alternativa
alle
armi
,
che
bisogna
attribuire
un
ruolo
adeguato
,
non
essendo
ormai
sufficiente
fermarsi
all
'
affermazione
della
sua
autonomia
come
irrinunciabile
lascito
della
modernità
.
Dobbiamo
sicuramente
guardarci
da
una
politica
sottomessa
all
'
etica
in
modo
da
farne
puro
strumento
per
imporre
valori
non
condivisi
,
opprimendo
così
minoranze
e
dissenzienti
.
Ma
dobbiamo
pure
guardarci
da
una
politica
ridotta
a
ragion
di
Stato
,
per
la
quale
ogni
regola
giuridica
è
impaccio
,
di
cui
è
legittimo
liberarsi
.
l
'
esigenza
di
legalità
è
ineliminabile
,
a
livello
nazionale
e
sovranazionale
.
La
guerra
in
Serbia
ha
mostrato
la
debolezza
delle
istituzioni
esistenti
,
ma
non
ha
smentito
,
anzi
ha
reso
più
urgente
e
drammatica
,
la
ricerca
di
una
nuova
"
forma
costituzionale
"
del
mondo
.
Si
tratta
ora
di
definire
come
debba
svolgersi
questo
processo
,
e
chi
debba
esserne
protagonista
.
Tra
le
molte
definizioni
di
quest
'
ultima
guerra
,
una
mi
è
sembrata
particolarmente
felice
,
e
inquietante
.
Si
è
parlato
di
guerra
"
costituente
"
,
così
sottolineando
come
il
potere
di
delineare
l
'
assetto
futuro
della
comunità
internazionale
sia
sfuggito
ai
luoghi
della
democrazia
e
si
sia
concentrato
in
quelli
della
forza
.
Proprio
a
questa
deriva
bisogna
sottrarsi
,
partendo
anche
dalla
constatazione
realistica
della
debolezza
delle
istituzioni
esistenti
,
di
un
'
Onu
che
sembra
al
tramonto
e
di
un
'
Europa
che
fatica
a
manifestarsi
.
Al
tempo
stesso
,
però
,
non
ci
si
può
rifugiare
negli
schemi
che
hanno
accompagnato
altri
tempi
e
altri
mondi
.
Proprio
nel
momento
in
cui
con
violenza
tornano
a
manifestarsi
i
nazionalismi
,
non
bisogna
pensare
che
di
nuovo
si
sia
vincolati
dalle
logiche
della
sovranità
nazionale
.
La
parabola
di
questo
concetto
,
così
lucidamente
investigata
da
Hans
Kelsen
già
al
tempo
della
prima
guerra
mondiale
,
sembra
avviarsi
verso
la
sua
conclusione
.
Le
dimensioni
del
mondo
non
possono
più
essere
chiuse
in
confini
nazionali
,
anche
se
continueranno
ad
essere
insidiate
da
ricorrenti
"
tribalizzazioni
"
.
Questo
vuol
dire
che
a
nessuno
Stato
-
nazione
può
essere
attribuito
un
diritto
di
vita
o
di
morte
sui
destini
di
chiunque
.
Ma
vuol
dire
anche
che
dobbiamo
contrastare
le
pretese
tribali
ed
etniche
,
quando
vestono
impropriamente
i
panni
di
uno
dei
nuovi
diritti
collettivi
,
quello
all
'
autodeterminazione
dei
popoli
.
Si
negherebbe
,
altrimenti
,
il
pluralismo
,
ritenuto
ormai
un
valore
irrinunciabile
.
Come
all
'
interno
delle
comunità
nazionali
,
così
nella
dimensione
internazionale
,
dobbiamo
rifiutare
la
logica
dei
ghetti
,
che
produce
separazione
e
distanza
dall
'
altro
,
e
dunque
è
terribile
matrice
di
nuovi
conflitti
.