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Diario romano. 2 ( Fusco Gian Carlo , 1958 )
StampaQuotidiana ,
Tre del pomeriggio . Roma digerisce in silenzio . Via Condotti è assopita nel sole già caldo . Un sacerdote americano , alto quasi due metri , poderoso , sta fotografando da angoli diversi le azalee che invadono e sommergono la gradinata di piazza di Spagna . In fondo all ' ultima saletta del Caffè Greco , dove aleggia un vago odore di cioccolato in tazza e di anice , il dottor P . e l ' avvocato C . , ambedue siciliani e cineasti , mi parlano della situazione cinematografica . Ne ragionano con l ' amarezza un po ' ironica degli amanti delusi ma non ancora completamente disamorati . L ' avvocato C . , produttore , sceneggiatore , soggettista , è un longilineo quasi calvo , dagli occhi malinconici e intelligenti . Il dottor P . , procuratore di una produzione piuttosto importante , è calmo e tarchiato , ferratissimo in fatto di cifre e di statistiche . Ma imprigionare nei numeri il problema del cinema italiano , ossia romano , è impresa difficile : come mettersi a contare le onde del mare o le foglie di un bosco . « Attorno alla nostra produzione » , dice il dottor P . , « vegeta e s ' intreccia una jungla di luoghi comuni e di valutazioni errate . Per esempio , tutti , da un paio d ' anni a questa parte , parlano di ` crisi ' . Come se da una situazione sicura e florida , si fosse improvvisamente passati al dissesto , all ' arenamento . Baggianate . La vera crisi , fatta di marasma economico e d ' imprese pazze , l ' abbiamo avuta quando si producevano allegramente 130 film all ' anno . Quella che oggi viene definita ' crisi ' , non è che il fatale ridimensionamento di una situazione anarchica , basata sulla presunzione dei dilettanti , alimentata da riserve finanziarie più che altro immaginarie . Crisi per eccesso , ma crisi . L ' effetto non va confuso con la causa . Quando la ' Minerva ' fallì , erano già diversi anni che stava dibattendosi come Laocoonte , fra i serpenti di un ' amministrazione caotica , fra miliardi ch ' erano soltanto fantasmi di miliardi . Lo stesso discorso vale per la distribuzione . Nei dieci ` distretti ' cinematografici italiani , da Padova a Catania , pullularono distributori improvvisati , senza radici come denti di latte . In mezzo ad essi , ogni ` distretto ' poteva contare su un paio di ditte serie » . La conversazione procede , pacata , sul terreno delle cifre . Il dottor P . analizza , lapis alla mano , le percentuali in cui si scompone , nei botteghini degli 11.000 cinema italiani , il prezzo del biglietto . Soltanto 18 lire ogni cento vanno al produttore , dopo un ' attesa di anni . Ci addentriamo nel meccanismo complicato dei premi governativi ; nel labirinto alquanto misterioso dell ' Anica ( Associazione nazionale industrie cinematografiche e affini ) , dove gli interessi contrastanti dei produttori , dei distributori e dei proprietari di sale ( spesso rappresentati da una sola persona ) si conciliano , o fingono di conciliarsi , in una specie di limbo corporativistico . L ' avvocato C . mi spiega perché il mercato respinge i film a basso costo : « E chi volete che si muova di casa , per andare a vedere , pagando dalle 500 alle 800 lire , le stesse cose che può vedersi tranquillamente in casa , alla Tv , senza scomodarsi e quasi gratis ? Oggi , in Italia come in America , come dovunque , il cinema può attirare il pubblico soltanto con spettacoli eccezionali : offrendo colore , masse sbalorditive , paesaggi affascinanti : tutto ciò che la Tv non può dare . L ' America è corsa ai ripari nove anni fa , dilatando gli schermi , lanciando il ' Cinerama ' , rinnovando la suggestione del ` western ' col Cinemascope e il Vistavision . Da noi , che non possiamo contare sui miliardi di Hollywood , la lotta è dura , disperata . Dopo i trionfi del ' neorealismo ' , stiamo assaggiando le amarezze della realtà » . Negli anni dell ' immediato dopoguerra , sembrò che gli americani avessero perso la guerra del cinema vincendo quella degli eserciti . Assistendo alla proiezione di Roma città aperta , di Paisà , Ladri di biciclette eccetera , il pubblico di Nuova York o di Chicago si dimenticava perfino di masticare la sua gomma . Per gli americani , nel '46 , Stalin era ancora ' lo zio Giuseppe ' . I critici annidati nel Greenwich Village potevano ancora farsi la barba ogni due giorni , portare maglioni rossi e scrivere che ' il neorealismo sociale italiano stava alla produzione americana come Omero sta a Spillane ' . Rossellini poteva divagare quanto voleva . Più divagava , più faceva testo . Il ' racconto ' , la ` trama ' erano giudicati ' casi limite ' ' , espedienti vili , compromesso , lenocinio . A parte i suoi meriti sostanziali , il così detto ' neorealismo ' fu la grande stagione degli improvvisatori . Imitando Rossellini , De Sica e gli altri ` istintivi ' di talento , una quantità di mediocri si credettero in grado di far capolavori senza le rotaie di un soggetto : raccattando immagini ' valide di per sé ' e cucendole insieme alla meglio . I soggettisti non si sentirono più impegnati a inventare una storia , a immaginare situazioni concatenate , coerenti . Si trasformarono in ideatori di ' gags ' , di episodi isolati , di trovatine divertenti o commoventi , a seconda dei casi . Poi , improvvisamente , quando gli intellettuali del Greenwich Village cominciarono a rifarsi la barba tutte le mattine e a rimettersi la cravatta per non dar nell ' occhio al senatore Mac Carthy , gli americani aggiunsero ai contratti di 60 pagine stipulati coi produttori italiani una formuletta umiliante che suona pressappoco così : ' Il film deve consistere in una serie di sequenze cinematografiche connesse fra loro in modo logico : ogni sequenza , cioè , deve essere legata alla precedente in modo comprensibile . Il tutto deve costituire un racconto che abbia indiscutibile valore narrativo ' . La lunga stagione romana delle cicale e delle lontre era finita . Cominciava quella , assai più scomoda , delle formiche e dei castori . A parte le cifre e le statistiche ; a prescindere dall ' obbiettiva consultazione del « Bollettino generale dei protesti » , alla cui mole solenne certa produzione cinematografica dà un generoso contributo ; le varie , allegre e malinconiche avventure del nostro cinema hanno la loro chiave nell ' aria stessa di quella stupefacente , affascinante , irritante , scoraggiante , inafferrabile città che ha nome Roma . La nostra industria cinematografica , nata a Torino nel novembre del 1904 , per iniziativa di Arturo Ambrosio ( il Venchi della celluloide nazionale ) , ebbe il suo primo germoglio romano meno di un anno dopo , nella primavera del '905 , ad opera di Filoteo Alberini , produttore - sceneggiatore - soggettista - regista - operatore . Nel 1906 , dalla società dell ' Alberini con tale Santoni , nacque la Cines : quella stessa che andò in liquidazione l ' anno passato . Ma tutto ciò appartiene alla preistoria . La vera storia del cinema romano ebbe inizio con l ' avvento del fascismo : trovò la sua prima cornice nella società piccolo - borghese , oziosa , assetata di lussi , tracotante , formatasi attorno ai seguaci di Mussolini . Quando si dice che l ' industria cinematografica italiana non poteva stabilirsi che a Roma , per ragioni climatiche , per sfruttarne la lunga primavera , si dice una grossa stupidaggine . Altrimenti le grandi case del nord - Europa , di Londra , Berlino e Parigi , non sarebbero mai nate . La verità è che , nel 1925 , superate le paure della Quartarella , operato lo strangolamento totale dell ' opposizione , Mussolini volle che l ' « industria delle ombre » si concentrasse nel suo immediato raggio d ' azione . Egli aveva capito perfettamente tre cose : che quella era l ' unica industria da cui Roma potesse trarre vantaggio economico , senza il pericolo di una crescente concentrazione operaia ; che prima o poi sarebbe servita ad acquetare e impastoiare gli intellettuali ; che sarebbe stato più facile indirizzare alla propaganda una cinematografia ambientata nella capitale . Non basta . Il « regime » , nato dal risentimento e dal tedio della gioventù provinciale , esaltava ufficialmente le aspre opere dei campi e la fecondità delle massaie : ma segretamente sognava calze di seta , sottovesti di pizzo , avventure scabrose . Fingeva d ' interessarsi a Oriani , a Machiavelli , a Pareto : ma di nascosto rileggeva Da Verona , Mariani e Pitigrilli . Perfino Kiribiri . Proclamava la grandezza di Augusto , ma sognava Trimalcione . Quanti furono i gerarchi che non ebbero il loro nome mescolato alle storie galanti di Cinecittà ? Mentre l ' Italia agonizzava pietosamente , dopo 1'8 settembre , sotto i mille problemi che la schiacciavano , una delle prime preoccupazioni delle autorità repubblichine fu il trasloco a Venezia di Cinecittà . E Alessandro Pavolini , trasferitosi a Verona , tutto nero con un teschio sul petto , non si lasciava forse carezzare l ' affaticata fronte da Doris Duranti ? E lo stesso Mussolini non preferì , anche in extremis , il profilo fotogenico di Clara Petacci alle tagliatelle di « donna » Rachele ? Nel 1925 , quando nacque l ' Istituto Luce , ente parastatale « per la propaganda e la cultura a mezzo della cinematografia » , un peccato originale , impresso negli uomini e nelle cose , segnò il destino del cinema italiano , costituzionalmente fascista . Le esperienze estetiche , le polemiche dei critici e dei registi , non bastano a cancellarne l ' impronta iniziale . Tutto andrebbe rifatto da capo . Gli innumerevoli episodi e aneddoti umoristici relativi al mondo cinematografico romano , da trent ' anni a questa parte , non sono che un corollario . Rispecchiano un ambiente dove il caso è diventato legge , dove la conciliazione degli opposti è un dovere e l ' approssimazione è obbligatoria . Dove , fatte rarissime eccezioni , buoni scrittori e bravi giornalisti hanno imparato a scrivere in quindici giorni le stesse cose che sotto forma di racconto o di articolo richiedono un lavoro di poche ore . Altrimenti , il produttore , pur risparmiando danaro ( spesso non suo ) , non darebbe la dovuta importanza all ' opera dei suoi sceneggiatori . I quali , per essere presi nella giusta considerazione , debbono in qualche modo uniformarsi alle abitudini dei registi , degli aiutoregisti , dei segretari di produzione , delle « dive » , dei « divi » , degli operatori , perfino degli elettricisti : essere poco puntuali , capricciosi , puntigliosi , ombrosi , esigenti , volubili , preziosi . Inflessibili nel pretendere grossi anticipi prima ancora che il film sia entrato in quella fase di discussione che precede la preparazione della prelavorazione . Checché se ne dica , la bizzarra casistica del cinema romano non riguarda soltanto gli « artigianoni » , in fondo bonari , della produzione : gli Amato , i Misiano ecc. Coinvolge anche personalità vigili , sensibili , ricche di talento . Anni or sono , un noto produttore italiano accettò di finanziare , in coproduzione francese , un film progettato da Marcel Carné : « Le barrage » . Il soggetto era ancora allo stato fluido ; si sapeva soltanto che tutto doveva imperniarsi sull ' allagamento di una valle alpina , in seguito all ' apertura di una diga : in francese « barrage » . Nella valle , completamente sommersa , restava un antico villaggio , tempestivamente sfollato . Da ciò , la possibilità d ' immaginare situazioni patetiche e drammatiche . Condizione fondamentale , preparare il soggetto entro una certa data , perché l ' apertura della diga andava ripresa dal vero . Carné accettò con entusiasmo la collaborazione di Cesare Zavattini , propostagli dal produttore romano . Zavattini trovò eccellente lo spunto del film . Dopo rapide trattative , il regista parigino e i suoi sceneggiatori arrivarono a Roma . Tutta l ' équipe , compreso Zavattini , si stabilì all ' Hôtel Excelsior , fra stucchi color panna e turisti di gran lusso . Era stabilito che Carné , Zavattini e gli sceneggiatori francesi dovessero creare il soggetto e un primo abbozzo di sceneggiatura attraverso conversazioni libere e animate , scambi d ' idee e di vedute , registrate nei minimi particolari , anche apparentemente insignificanti , da tre stenografe , due italiane e una francese , costantemente presenti alle riunioni . Si andò avanti , così , per circa tre mesi . I minuziosi verbali trascritti dalle stenografe avevano già empito un armadio e stavano già traboccando da un baule . Pareva che , in linea di massima , un soggetto ci fosse : basato sull ' amore di una fanciulla , abitante nel paese sacrificato alla diga , per un giovane ingegnere addetto ai lavori . Se non che , il vecchio padre della ragazza , attaccato come un ' ostrica alla sua casa , si rifiutava ostinatamente di sfollare . Invano supplicato dalla figlia , si appostava sul tetto , armato di fucile , pronto a far fuoco su chiunque si avvicinasse . Solo all ' ultimo momento , pochi minuti prima che si aprisse la diga , l ' ingegnere riusciva a smuovere il cocciuto vegliardo e a trarlo in salvo assieme alla ragazza . Tutto bene , fin qui . Ma proprio sulle ultime sequenze , Zavattini e francesi non si trovarono d ' accordo . Zavattini esigeva che il vecchio , girato in controcampo , sparasse sull ' ingegnere ; che il pubblico , per un momento , restasse col cuore sospeso , per poi rallegrarsi constatando che il colpo era andato a vuoto . Secondo lo sceneggiatore italiano , tale effetto non era soltanto consigliabile , ma addirittura indispensabile . Carné e i suoi assistenti lo giudicavano , invece , banale ed assurdo , tanto da gettare nel ridicolo l ' intero film . La discussione andò avanti per due settimane , registrata dalle stenografe . Il produttore cercò di conciliare le parti , una domenica , invitando tutti a colazione fuori di porta . Nulla da fare . « O il vecchio spara , o mi ritiro ! » gridava Zavattini , palpeggiandosi il basco . « Se quel vecchio della malora fa solo l ' atto di premere il grilletto » , ruggiva Carné , « io pianto tutto » . Inutile insistere , supplicare , promettere . « Le barrage » andò a monte . Al produttore non restò che pagare il grosso conto dell ' Excelsior e gli onorari dovuti per contratto al regista , a Zavattini e tutti gli altri . Quel colpo di fucile , sparato o no , venne a costargli circa cinquanta milioni . « Colpa mia » , ammise in seguito il produttore . « Invece di portare Carré a Roma , dovevo portare a Parigi Zavattini » .