StampaQuotidiana ,
Tre
del
pomeriggio
.
Roma
digerisce
in
silenzio
.
Via
Condotti
è
assopita
nel
sole
già
caldo
.
Un
sacerdote
americano
,
alto
quasi
due
metri
,
poderoso
,
sta
fotografando
da
angoli
diversi
le
azalee
che
invadono
e
sommergono
la
gradinata
di
piazza
di
Spagna
.
In
fondo
all
'
ultima
saletta
del
Caffè
Greco
,
dove
aleggia
un
vago
odore
di
cioccolato
in
tazza
e
di
anice
,
il
dottor
P
.
e
l
'
avvocato
C
.
,
ambedue
siciliani
e
cineasti
,
mi
parlano
della
situazione
cinematografica
.
Ne
ragionano
con
l
'
amarezza
un
po
'
ironica
degli
amanti
delusi
ma
non
ancora
completamente
disamorati
.
L
'
avvocato
C
.
,
produttore
,
sceneggiatore
,
soggettista
,
è
un
longilineo
quasi
calvo
,
dagli
occhi
malinconici
e
intelligenti
.
Il
dottor
P
.
,
procuratore
di
una
produzione
piuttosto
importante
,
è
calmo
e
tarchiato
,
ferratissimo
in
fatto
di
cifre
e
di
statistiche
.
Ma
imprigionare
nei
numeri
il
problema
del
cinema
italiano
,
ossia
romano
,
è
impresa
difficile
:
come
mettersi
a
contare
le
onde
del
mare
o
le
foglie
di
un
bosco
.
«
Attorno
alla
nostra
produzione
»
,
dice
il
dottor
P
.
,
«
vegeta
e
s
'
intreccia
una
jungla
di
luoghi
comuni
e
di
valutazioni
errate
.
Per
esempio
,
tutti
,
da
un
paio
d
'
anni
a
questa
parte
,
parlano
di
`
crisi
'
.
Come
se
da
una
situazione
sicura
e
florida
,
si
fosse
improvvisamente
passati
al
dissesto
,
all
'
arenamento
.
Baggianate
.
La
vera
crisi
,
fatta
di
marasma
economico
e
d
'
imprese
pazze
,
l
'
abbiamo
avuta
quando
si
producevano
allegramente
130
film
all
'
anno
.
Quella
che
oggi
viene
definita
'
crisi
'
,
non
è
che
il
fatale
ridimensionamento
di
una
situazione
anarchica
,
basata
sulla
presunzione
dei
dilettanti
,
alimentata
da
riserve
finanziarie
più
che
altro
immaginarie
.
Crisi
per
eccesso
,
ma
crisi
.
L
'
effetto
non
va
confuso
con
la
causa
.
Quando
la
'
Minerva
'
fallì
,
erano
già
diversi
anni
che
stava
dibattendosi
come
Laocoonte
,
fra
i
serpenti
di
un
'
amministrazione
caotica
,
fra
miliardi
ch
'
erano
soltanto
fantasmi
di
miliardi
.
Lo
stesso
discorso
vale
per
la
distribuzione
.
Nei
dieci
`
distretti
'
cinematografici
italiani
,
da
Padova
a
Catania
,
pullularono
distributori
improvvisati
,
senza
radici
come
denti
di
latte
.
In
mezzo
ad
essi
,
ogni
`
distretto
'
poteva
contare
su
un
paio
di
ditte
serie
»
.
La
conversazione
procede
,
pacata
,
sul
terreno
delle
cifre
.
Il
dottor
P
.
analizza
,
lapis
alla
mano
,
le
percentuali
in
cui
si
scompone
,
nei
botteghini
degli
11.000
cinema
italiani
,
il
prezzo
del
biglietto
.
Soltanto
18
lire
ogni
cento
vanno
al
produttore
,
dopo
un
'
attesa
di
anni
.
Ci
addentriamo
nel
meccanismo
complicato
dei
premi
governativi
;
nel
labirinto
alquanto
misterioso
dell
'
Anica
(
Associazione
nazionale
industrie
cinematografiche
e
affini
)
,
dove
gli
interessi
contrastanti
dei
produttori
,
dei
distributori
e
dei
proprietari
di
sale
(
spesso
rappresentati
da
una
sola
persona
)
si
conciliano
,
o
fingono
di
conciliarsi
,
in
una
specie
di
limbo
corporativistico
.
L
'
avvocato
C
.
mi
spiega
perché
il
mercato
respinge
i
film
a
basso
costo
:
«
E
chi
volete
che
si
muova
di
casa
,
per
andare
a
vedere
,
pagando
dalle
500
alle
800
lire
,
le
stesse
cose
che
può
vedersi
tranquillamente
in
casa
,
alla
Tv
,
senza
scomodarsi
e
quasi
gratis
?
Oggi
,
in
Italia
come
in
America
,
come
dovunque
,
il
cinema
può
attirare
il
pubblico
soltanto
con
spettacoli
eccezionali
:
offrendo
colore
,
masse
sbalorditive
,
paesaggi
affascinanti
:
tutto
ciò
che
la
Tv
non
può
dare
.
L
'
America
è
corsa
ai
ripari
nove
anni
fa
,
dilatando
gli
schermi
,
lanciando
il
'
Cinerama
'
,
rinnovando
la
suggestione
del
`
western
'
col
Cinemascope
e
il
Vistavision
.
Da
noi
,
che
non
possiamo
contare
sui
miliardi
di
Hollywood
,
la
lotta
è
dura
,
disperata
.
Dopo
i
trionfi
del
'
neorealismo
'
,
stiamo
assaggiando
le
amarezze
della
realtà
»
.
Negli
anni
dell
'
immediato
dopoguerra
,
sembrò
che
gli
americani
avessero
perso
la
guerra
del
cinema
vincendo
quella
degli
eserciti
.
Assistendo
alla
proiezione
di
Roma
città
aperta
,
di
Paisà
,
Ladri
di
biciclette
eccetera
,
il
pubblico
di
Nuova
York
o
di
Chicago
si
dimenticava
perfino
di
masticare
la
sua
gomma
.
Per
gli
americani
,
nel
'46
,
Stalin
era
ancora
'
lo
zio
Giuseppe
'
.
I
critici
annidati
nel
Greenwich
Village
potevano
ancora
farsi
la
barba
ogni
due
giorni
,
portare
maglioni
rossi
e
scrivere
che
'
il
neorealismo
sociale
italiano
stava
alla
produzione
americana
come
Omero
sta
a
Spillane
'
.
Rossellini
poteva
divagare
quanto
voleva
.
Più
divagava
,
più
faceva
testo
.
Il
'
racconto
'
,
la
`
trama
'
erano
giudicati
'
casi
limite
'
'
,
espedienti
vili
,
compromesso
,
lenocinio
.
A
parte
i
suoi
meriti
sostanziali
,
il
così
detto
'
neorealismo
'
fu
la
grande
stagione
degli
improvvisatori
.
Imitando
Rossellini
,
De
Sica
e
gli
altri
`
istintivi
'
di
talento
,
una
quantità
di
mediocri
si
credettero
in
grado
di
far
capolavori
senza
le
rotaie
di
un
soggetto
:
raccattando
immagini
'
valide
di
per
sé
'
e
cucendole
insieme
alla
meglio
.
I
soggettisti
non
si
sentirono
più
impegnati
a
inventare
una
storia
,
a
immaginare
situazioni
concatenate
,
coerenti
.
Si
trasformarono
in
ideatori
di
'
gags
'
,
di
episodi
isolati
,
di
trovatine
divertenti
o
commoventi
,
a
seconda
dei
casi
.
Poi
,
improvvisamente
,
quando
gli
intellettuali
del
Greenwich
Village
cominciarono
a
rifarsi
la
barba
tutte
le
mattine
e
a
rimettersi
la
cravatta
per
non
dar
nell
'
occhio
al
senatore
Mac
Carthy
,
gli
americani
aggiunsero
ai
contratti
di
60
pagine
stipulati
coi
produttori
italiani
una
formuletta
umiliante
che
suona
pressappoco
così
:
'
Il
film
deve
consistere
in
una
serie
di
sequenze
cinematografiche
connesse
fra
loro
in
modo
logico
:
ogni
sequenza
,
cioè
,
deve
essere
legata
alla
precedente
in
modo
comprensibile
.
Il
tutto
deve
costituire
un
racconto
che
abbia
indiscutibile
valore
narrativo
'
.
La
lunga
stagione
romana
delle
cicale
e
delle
lontre
era
finita
.
Cominciava
quella
,
assai
più
scomoda
,
delle
formiche
e
dei
castori
.
A
parte
le
cifre
e
le
statistiche
;
a
prescindere
dall
'
obbiettiva
consultazione
del
«
Bollettino
generale
dei
protesti
»
,
alla
cui
mole
solenne
certa
produzione
cinematografica
dà
un
generoso
contributo
;
le
varie
,
allegre
e
malinconiche
avventure
del
nostro
cinema
hanno
la
loro
chiave
nell
'
aria
stessa
di
quella
stupefacente
,
affascinante
,
irritante
,
scoraggiante
,
inafferrabile
città
che
ha
nome
Roma
.
La
nostra
industria
cinematografica
,
nata
a
Torino
nel
novembre
del
1904
,
per
iniziativa
di
Arturo
Ambrosio
(
il
Venchi
della
celluloide
nazionale
)
,
ebbe
il
suo
primo
germoglio
romano
meno
di
un
anno
dopo
,
nella
primavera
del
'905
,
ad
opera
di
Filoteo
Alberini
,
produttore
-
sceneggiatore
-
soggettista
-
regista
-
operatore
.
Nel
1906
,
dalla
società
dell
'
Alberini
con
tale
Santoni
,
nacque
la
Cines
:
quella
stessa
che
andò
in
liquidazione
l
'
anno
passato
.
Ma
tutto
ciò
appartiene
alla
preistoria
.
La
vera
storia
del
cinema
romano
ebbe
inizio
con
l
'
avvento
del
fascismo
:
trovò
la
sua
prima
cornice
nella
società
piccolo
-
borghese
,
oziosa
,
assetata
di
lussi
,
tracotante
,
formatasi
attorno
ai
seguaci
di
Mussolini
.
Quando
si
dice
che
l
'
industria
cinematografica
italiana
non
poteva
stabilirsi
che
a
Roma
,
per
ragioni
climatiche
,
per
sfruttarne
la
lunga
primavera
,
si
dice
una
grossa
stupidaggine
.
Altrimenti
le
grandi
case
del
nord
-
Europa
,
di
Londra
,
Berlino
e
Parigi
,
non
sarebbero
mai
nate
.
La
verità
è
che
,
nel
1925
,
superate
le
paure
della
Quartarella
,
operato
lo
strangolamento
totale
dell
'
opposizione
,
Mussolini
volle
che
l
'
«
industria
delle
ombre
»
si
concentrasse
nel
suo
immediato
raggio
d
'
azione
.
Egli
aveva
capito
perfettamente
tre
cose
:
che
quella
era
l
'
unica
industria
da
cui
Roma
potesse
trarre
vantaggio
economico
,
senza
il
pericolo
di
una
crescente
concentrazione
operaia
;
che
prima
o
poi
sarebbe
servita
ad
acquetare
e
impastoiare
gli
intellettuali
;
che
sarebbe
stato
più
facile
indirizzare
alla
propaganda
una
cinematografia
ambientata
nella
capitale
.
Non
basta
.
Il
«
regime
»
,
nato
dal
risentimento
e
dal
tedio
della
gioventù
provinciale
,
esaltava
ufficialmente
le
aspre
opere
dei
campi
e
la
fecondità
delle
massaie
:
ma
segretamente
sognava
calze
di
seta
,
sottovesti
di
pizzo
,
avventure
scabrose
.
Fingeva
d
'
interessarsi
a
Oriani
,
a
Machiavelli
,
a
Pareto
:
ma
di
nascosto
rileggeva
Da
Verona
,
Mariani
e
Pitigrilli
.
Perfino
Kiribiri
.
Proclamava
la
grandezza
di
Augusto
,
ma
sognava
Trimalcione
.
Quanti
furono
i
gerarchi
che
non
ebbero
il
loro
nome
mescolato
alle
storie
galanti
di
Cinecittà
?
Mentre
l
'
Italia
agonizzava
pietosamente
,
dopo
1'8
settembre
,
sotto
i
mille
problemi
che
la
schiacciavano
,
una
delle
prime
preoccupazioni
delle
autorità
repubblichine
fu
il
trasloco
a
Venezia
di
Cinecittà
.
E
Alessandro
Pavolini
,
trasferitosi
a
Verona
,
tutto
nero
con
un
teschio
sul
petto
,
non
si
lasciava
forse
carezzare
l
'
affaticata
fronte
da
Doris
Duranti
?
E
lo
stesso
Mussolini
non
preferì
,
anche
in
extremis
,
il
profilo
fotogenico
di
Clara
Petacci
alle
tagliatelle
di
«
donna
»
Rachele
?
Nel
1925
,
quando
nacque
l
'
Istituto
Luce
,
ente
parastatale
«
per
la
propaganda
e
la
cultura
a
mezzo
della
cinematografia
»
,
un
peccato
originale
,
impresso
negli
uomini
e
nelle
cose
,
segnò
il
destino
del
cinema
italiano
,
costituzionalmente
fascista
.
Le
esperienze
estetiche
,
le
polemiche
dei
critici
e
dei
registi
,
non
bastano
a
cancellarne
l
'
impronta
iniziale
.
Tutto
andrebbe
rifatto
da
capo
.
Gli
innumerevoli
episodi
e
aneddoti
umoristici
relativi
al
mondo
cinematografico
romano
,
da
trent
'
anni
a
questa
parte
,
non
sono
che
un
corollario
.
Rispecchiano
un
ambiente
dove
il
caso
è
diventato
legge
,
dove
la
conciliazione
degli
opposti
è
un
dovere
e
l
'
approssimazione
è
obbligatoria
.
Dove
,
fatte
rarissime
eccezioni
,
buoni
scrittori
e
bravi
giornalisti
hanno
imparato
a
scrivere
in
quindici
giorni
le
stesse
cose
che
sotto
forma
di
racconto
o
di
articolo
richiedono
un
lavoro
di
poche
ore
.
Altrimenti
,
il
produttore
,
pur
risparmiando
danaro
(
spesso
non
suo
)
,
non
darebbe
la
dovuta
importanza
all
'
opera
dei
suoi
sceneggiatori
.
I
quali
,
per
essere
presi
nella
giusta
considerazione
,
debbono
in
qualche
modo
uniformarsi
alle
abitudini
dei
registi
,
degli
aiutoregisti
,
dei
segretari
di
produzione
,
delle
«
dive
»
,
dei
«
divi
»
,
degli
operatori
,
perfino
degli
elettricisti
:
essere
poco
puntuali
,
capricciosi
,
puntigliosi
,
ombrosi
,
esigenti
,
volubili
,
preziosi
.
Inflessibili
nel
pretendere
grossi
anticipi
prima
ancora
che
il
film
sia
entrato
in
quella
fase
di
discussione
che
precede
la
preparazione
della
prelavorazione
.
Checché
se
ne
dica
,
la
bizzarra
casistica
del
cinema
romano
non
riguarda
soltanto
gli
«
artigianoni
»
,
in
fondo
bonari
,
della
produzione
:
gli
Amato
,
i
Misiano
ecc.
Coinvolge
anche
personalità
vigili
,
sensibili
,
ricche
di
talento
.
Anni
or
sono
,
un
noto
produttore
italiano
accettò
di
finanziare
,
in
coproduzione
francese
,
un
film
progettato
da
Marcel
Carné
:
«
Le
barrage
»
.
Il
soggetto
era
ancora
allo
stato
fluido
;
si
sapeva
soltanto
che
tutto
doveva
imperniarsi
sull
'
allagamento
di
una
valle
alpina
,
in
seguito
all
'
apertura
di
una
diga
:
in
francese
«
barrage
»
.
Nella
valle
,
completamente
sommersa
,
restava
un
antico
villaggio
,
tempestivamente
sfollato
.
Da
ciò
,
la
possibilità
d
'
immaginare
situazioni
patetiche
e
drammatiche
.
Condizione
fondamentale
,
preparare
il
soggetto
entro
una
certa
data
,
perché
l
'
apertura
della
diga
andava
ripresa
dal
vero
.
Carné
accettò
con
entusiasmo
la
collaborazione
di
Cesare
Zavattini
,
propostagli
dal
produttore
romano
.
Zavattini
trovò
eccellente
lo
spunto
del
film
.
Dopo
rapide
trattative
,
il
regista
parigino
e
i
suoi
sceneggiatori
arrivarono
a
Roma
.
Tutta
l
'
équipe
,
compreso
Zavattini
,
si
stabilì
all
'
Hôtel
Excelsior
,
fra
stucchi
color
panna
e
turisti
di
gran
lusso
.
Era
stabilito
che
Carné
,
Zavattini
e
gli
sceneggiatori
francesi
dovessero
creare
il
soggetto
e
un
primo
abbozzo
di
sceneggiatura
attraverso
conversazioni
libere
e
animate
,
scambi
d
'
idee
e
di
vedute
,
registrate
nei
minimi
particolari
,
anche
apparentemente
insignificanti
,
da
tre
stenografe
,
due
italiane
e
una
francese
,
costantemente
presenti
alle
riunioni
.
Si
andò
avanti
,
così
,
per
circa
tre
mesi
.
I
minuziosi
verbali
trascritti
dalle
stenografe
avevano
già
empito
un
armadio
e
stavano
già
traboccando
da
un
baule
.
Pareva
che
,
in
linea
di
massima
,
un
soggetto
ci
fosse
:
basato
sull
'
amore
di
una
fanciulla
,
abitante
nel
paese
sacrificato
alla
diga
,
per
un
giovane
ingegnere
addetto
ai
lavori
.
Se
non
che
,
il
vecchio
padre
della
ragazza
,
attaccato
come
un
'
ostrica
alla
sua
casa
,
si
rifiutava
ostinatamente
di
sfollare
.
Invano
supplicato
dalla
figlia
,
si
appostava
sul
tetto
,
armato
di
fucile
,
pronto
a
far
fuoco
su
chiunque
si
avvicinasse
.
Solo
all
'
ultimo
momento
,
pochi
minuti
prima
che
si
aprisse
la
diga
,
l
'
ingegnere
riusciva
a
smuovere
il
cocciuto
vegliardo
e
a
trarlo
in
salvo
assieme
alla
ragazza
.
Tutto
bene
,
fin
qui
.
Ma
proprio
sulle
ultime
sequenze
,
Zavattini
e
francesi
non
si
trovarono
d
'
accordo
.
Zavattini
esigeva
che
il
vecchio
,
girato
in
controcampo
,
sparasse
sull
'
ingegnere
;
che
il
pubblico
,
per
un
momento
,
restasse
col
cuore
sospeso
,
per
poi
rallegrarsi
constatando
che
il
colpo
era
andato
a
vuoto
.
Secondo
lo
sceneggiatore
italiano
,
tale
effetto
non
era
soltanto
consigliabile
,
ma
addirittura
indispensabile
.
Carné
e
i
suoi
assistenti
lo
giudicavano
,
invece
,
banale
ed
assurdo
,
tanto
da
gettare
nel
ridicolo
l
'
intero
film
.
La
discussione
andò
avanti
per
due
settimane
,
registrata
dalle
stenografe
.
Il
produttore
cercò
di
conciliare
le
parti
,
una
domenica
,
invitando
tutti
a
colazione
fuori
di
porta
.
Nulla
da
fare
.
«
O
il
vecchio
spara
,
o
mi
ritiro
!
»
gridava
Zavattini
,
palpeggiandosi
il
basco
.
«
Se
quel
vecchio
della
malora
fa
solo
l
'
atto
di
premere
il
grilletto
»
,
ruggiva
Carné
,
«
io
pianto
tutto
»
.
Inutile
insistere
,
supplicare
,
promettere
.
«
Le
barrage
»
andò
a
monte
.
Al
produttore
non
restò
che
pagare
il
grosso
conto
dell
'
Excelsior
e
gli
onorari
dovuti
per
contratto
al
regista
,
a
Zavattini
e
tutti
gli
altri
.
Quel
colpo
di
fucile
,
sparato
o
no
,
venne
a
costargli
circa
cinquanta
milioni
.
«
Colpa
mia
»
,
ammise
in
seguito
il
produttore
.
«
Invece
di
portare
Carré
a
Roma
,
dovevo
portare
a
Parigi
Zavattini
»
.