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TASTIERA 3 ( BALDINI ANTONIO , 1941 )
StampaQuotidiana ,
La vedova Mondella , avendo confidato Lucia alle mura del convento di Monza , se ne torna in baroccio ai suoi monti . Si fa smontare al convento di Pescarenico e chiede del padre Cristoforo . Chi cercate , buona donna ? Il padre Cristoforo . Non c ' è . Starà molto a tornare ? Mah ! Dov ' è andato ? A Palermo . Eh la Peppa ! Ma così si legge nella primitiva redazione del romanzo , quando ancora s ' intitolava Fermo e Lucia . Nei Promessi Sposi il dialogo acquista in mimica e verisimiglianza . In tanto , chi viene ad aprire è una cara conoscenza : fra Galdino delle noci . Oh la mia donna , che vento v ' ha portato ? Vengo a cercare il padre Cristoforo . Il padre Cristoforo ? Non c ' è . Oh , starà molto a tornare ? Ma ... ? disse il frate , alzando le spalle e ritirando nel cappuccio la testa rasa . Dov ' è andato ? A Rimini . Cominciamo a ragionare : l ' autore ammette che già l ' « andare a piedi da Pescarenico a Rimini è una bella passeggiata » ( qualche cosa come quattrocento chilometri ) ; fino a Palermo , poi ! A tenere insieme presenti il testo di Fermo e Lucia ( 1821-1823 ) e quello delle due edizioni dei Promessi Sposi ( 1827-1840 ) è come andare lungo la spiaggia quando il mare ha il respiro più corto e ancora si scorgono i segni e i detriti che le onde lunghe avevano impresso e portato sulla sabbia . Onda lunga : il frate a Palermo ; onda corta : il frate a Rimini . Onda lunga : il fattaccio di Gertrude spiegato per filo e per segno ; onda corta : « la sventurata rispose » . Onda lunga , la fine in frenesia di don Rodrigo sul cavallo scavezzato ; onda corta , la sua agonia sulla paglia nella capanna del lazzaretto ; e lo stesso dicasi per tutto quanto nel romanzo da principio era eccessivo , feroce , sguaiato , stonato anche nella santimònia come nella scena del « banchetto » di pane e acqua recitata dal cardinale Federigo in conspetto alla turba acclamante dei fedeli , o di meno accettabile quale appunto la trottata di più che mille miglia sul cavallo di San Francesco , dalla Brianza alla Conca d ' oro , d ' un povero cappuccino . Ciò è molto istruttivo . A tanta disciplina discrezione dolcezza il Manzoni prosatore non poteva arrivare alla prima e gli convenne lasciarsi andare giù per la china d ' una impetuosa improvvisazione , per poi risalire l ' erta « pensandoci su » , lentamente , cautamente , per anni e anni . Voglio dire che se il povero frate non fosse partito col foglio di via dell ' « obbedienza » per oltrestretto , con molta probabilità non sarebbe arrivato neanche sulle rive del Marecchia . Resta poi da dire che se il romanziere fosse rimasto incastrato a Fermo e Lucia , – dove pure il romanzo , in quanto romanzo , c ' era già tutto , – d ' un Manzoni prosatore , a un secolo di distanza , appena si pispiglierebbe . ( Che lezione , per i « contenutisti » che si sentono vocati a consegnare alla carta quanto più consistenti partite di vita sia loro possibile accaparrare ! ) . Com ' è parimente vero che il Manzoni non sarebbe riuscito quel prodigioso tessitore ch ' egli è se in un primo tempo non avesse steso un po ' alla carlona , con la mano ancora pesante , la malatrama di quell ' affrettato canovaccio . ( Che lezione , per i « calligrafi » che si fanno scrupolo di offendere il candore della pagina con una parola di troppo ! ) . Tutti ricordano il ritratto che di Margherita di Savoia fa il Carducci in Eterno femminino regale : Ella sorgeva con una rara purezza di linee e di pose nell ' atteggiamento e con una eleganza semplice e veramente superiore sì dell ' adornamento gemmato sì del vestito ( color tortora , parrai ) largamente cadente . In tutti gli atti , e nei cenni , e nel mover raro dei passi e della persona , e nel piegar della testa , nelle inflessioni della voce e nelle parole , mostrava una bontà dignitosa ; ma non rideva né sorrideva mai . Riguardava a lungo , cogli occhi modestamente quieti , ma fissi ; e la bionda dolcezza del sangue sassone pareva temperare non so che , non dirò rigido , e non vorrei dire imperioso ... « Questo è schietto e puro Manzoni » , assevera Giulio Bertoni ( Lingua e poesia , Firenze 1937 , pag . 205 ) , che aveva probabilmente nell ' orecchio le descrizioni della Signora di Monza e della madre di Cecilia . Senonché , a proposito del medesimo passo carducciano Mario Praz ( La carne , la morte e il diavolo nella letteratura romantica , Milano 1930 , pag . 433 ) esce a dire : « Chi non sente che il movimento della prosa aulica di Stelio [ leggi : D ' Annunzio ] nel Fuoco , prende origine di qui ? » . Concediamo pure che qualche parte di vero sia nel rilievo dell ' uno e l ' altro insigne filologo a quei tre periodi carducciani ( io forse ci ritroverei anche qualche pennellata del Tommaseo ritrattista di belle donne ) e togliamo un momento idealmente di mezzo la pagina da essi citata al doppio confronto , per il gusto raro di vedere una volta stare a fronte l ' autore del Piacere e quello della Morale cattolica , come chi dicesse il diavolo e l ' acqua santa . Che si dicono , che fanno ? Disagio e meraviglia sono reciproci . Avesse dovuto riempire lui la trama dei Promessi , da che verso D ' Annunzio l ' avrebbe tirata ? Potreste garantire ch ' egli non avrebbe assunto il punto di vista di don Rodrigo e del conte Attilio piuttosto che quello del padre Cristoforo ? Magari dopo vinta la tentazione di fare del cappuccino un personaggio sul tipo di quel fra ' Lucerta di Terra vergine che muore di emorragia cerebrale per la rientrata voglia d ' una bella villana ? ( « Ohibò , ohibò , le ragazze non istanno bene coi cappuccini » era del resto anche l ' opinione d ' uno degli scherani d ' Egidio che avean dato mano al ratto della povera giovane in Fermo e Lucia ) . Dico che è quasi più facile immaginarsi un Manzoni che lavori al Piacere che non un D ' Annunzio che attenda sul serio ai Promessi Sposi ... Tornando al punto : D ' Annunzio che riecheggia inconsciamente Carducci che riecheggia involontariamente Manzoni ... Caro Ugo , caro Massimo , ( Vedi Corriere della Sera del 14 e del 21 ottobre ) , caro Giulio e caro Mario , caro Gabriele e carissimo don Lisander , sarebbe questa , per caso , la Tradizione ? Avversarsi , sconoscersi , vilipendersi ; peggio , ignorarsi ; peggio ancora , esser convinti d ' aver trovato il proprio bene precisamente nelle letterature più remote dallo spirito della letteratura materna , e non cessare per questo d ' appartenere in pieno alla stessa grande famiglia , non è forse questa la Tradizione ? L ' esemplificazione porterebbe lontano . Si potrebbero rifilare alla Feroniade di nascosto certi versi d ' Alcione e nessuno s ' accorgerebbe del tassello ; neanche il Monti . Laus vitae e Il Giorno : D ' Annunzio e l ' abate Parini : si possono pensare opere e uomini più distanti ? Eppure talune rigirate perifrasi nel primo , e per maggiore singolarità nei passi dove più il poeta ambiva investire liricamente aspetti della vita contemporanea , m ' hanno fatto tornare a mente certi arguti artifizi del poemetto settecentesco . Quel « carro elettrico » ( che poi sarebbe il tranvai elettrico : Maia , verso 5537 ) il quale corre tra la ferrea fune sospesa e il duplice ferro seguace , e più ancora quel telefono ( ibid . v . 2681 ) per il quale la voce sonora formata dal labro spirante in cavo artificio s ' ingolfa , di sillaba in sillaba vibra tacitamente lontana , ravvivasi come in profonda búccina e favellare l ' ascolta l ' orecchio inclinato , m ' hanno indotto a ricercare nel Giorno la pagina dove si parla dell ' inventore del microscopio e quella ( Notte , v . 287 ) dove si cantano le laudi del canapè . Vero è che il « cavo artificio » e la « profonda bùccina » levano ogni voglia di telefonare , mentre quel canapè « di tavole contesto e molli cigne » , col « pàtulo appoggio » per il dorso e i flessuosi bracciuoli per i gomiti , « mal repugnante e mal cedente insieme Sotto ai mobili fianchi » , fa già voglia di sbottonarsi il colletto e lasciarvisi cadere . Ma è che la peregrinità circonlocutoria pariniana è ricomperata appieno dall ' ironia che vi serpeggia per entro a ludibrio di quella società manierosa della quale l ' Abate scopre perfidamente gli altarini , mentre l ' annunciatore della Decima Musa arrotonda il suo indovinello coll ' ozioso impegno di chi proprio sul serio chiamasse la barba « onor del mento » . D ' Annunzio , voi dite , non sta tutto lì ; ( rispondo : ci mancherebbe altro ! ) e pensate anche : Se la Tradizione è l ' onor del mento , benefà Bontempelli a raccomandarci di infischiarcene . Ma , della Tradizione , il cavo ordigno e l ' onor del mento sono , come altri innumerevoli spezzati di magniloquenza o di ardua criptoloquenza , i ferrivecchi ; la cui secolare giacenza nei magazzini della Tradizione poetica italiana denuncia per altro un attaccamento , che non può esser fortuito , ai modi più nobili . Muse straccione non hanno mai fatto fortuna in Italia . Viene poi il momento che una ispirazione verace riconforta coonesta ed abbella anche i ferrivecchi . Quando Leopardi ode « augelli far festa » nessuno si sogna di arricciare il naso perché il poeta non ha scritto uccelli , passeri o cardelli . Quando è verso di Ungaretti iniziale di più d ' una sua poesia : uno di quei suoi versi fatti d ' una sola parola lungamente vibrata e sospesa che hanno fatto tanto ridere gli sciocchi . Quando mi morirà questa notte e come un altro potrò guardarla ... Ma centomila poesie italiane , di sommi e di mediocri , auliche o popolari , oziose o concitate , allegre o sentimentali , cominciano con « quando » . Basta riandare con la memoria le poesie imparate a scuola . « Quando Orion dal cielo ... » , « Quando Giason dal Pelio ... » e tante altre rimasteci impresse dalle prime letture autonome ; basta scorrere gl ' « indici dei capoversi » in fondo alle raccolte di tanti poeti antichi e moderni ( e quanto più sono poeti di corda lenta ; ma Stecchetti esagera ! ) : tutto il Parnaso italiano è uno scampanio di « quando » , da Petrarca a Parzanese , da Carducci a Ungaretti . ( Specie i sonetti . « Quando » in vista , sonetto in pista . Contro quattordici sonetti di Petrarca aperti in « quando » , sta una sua sola canzone . Ma è il più bel « quando » della lirica italiana : « Quando il soave mio fido conforto ... » ) . Esiste , per finire , anche una poesia , unica del suo genere , che con un « quando » termina : un « quando » paurosamente isolato e interrogativo . È l ' ode alla Guerra di Carducci , scritta giusto di questi giorni cinquant ' anni or sono , in occasione del terzo Congresso internazionale per la Pace , solennemente inaugurato in Campidoglio il 2 novembre 1891 : jettata Pace , il giorno dei Morti ! I congressisti , con molti battimani e qualche battibecco , portarono a termine i loro lavori e trascorsero bellissime giornate romane fra luminarie ricevimenti e serate di gala . Trionfava nei ritrovi la bella baronessa Suttner , che aveva pubblicato da poco un romanzo intitolato Abbasso le armi . Il 3 novembre Carducci prese la penna . Dopo aver ragionato in venti strofe qualcuna stupenda le fatali , buone e cattive , ragioni della guerra , chiudeva dicendo pace è vocabolo mal certo . Dal sangue la Pace solleva candide l ' àli . Quando ? La risposta era implicita nell ' ode stessa : mai . Ancora me ne dispiace per la bella baronessa !