Tipi di Ricerca: Ricerca per parole
Trova:
DIRITTO E GIUSTIZIA ( Abbagnano Nicola , 1966 )
StampaQuotidiana ,
Quando a Socrate , che era in carcere in attesa del processo , gli amici proposero la fuga da Atene , egli rifiutò perché fuggire sarebbe stato azione ingiusta nei confronti delle leggi ateniesi che avevano presieduto alla sua nascita , alla sua educazione e all ' intera sua vita . « Giusto » è , in modo tipico , il comportamento di Socrate : cioè , in generale , di chi si ispira al rispetto delle leggi anche quando esse si rivolgono contro il suo interesse privato . Ma che cosa accade quando le leggi stesse , cui si dovrebbe obbedire per essere giusti , si ritengono « ingiuste » ? E come si fa a giudicare , in generale , se una legge è « giusta » o non lo è ? Gli uomini hanno presto fatto l ' amara esperienza che non tutte le leggi sono giuste . E per valutare la giustizia delle leggi , hanno fatto appello a una legge più alta , data dalla natura o da Dio , che sarebbe il fondamento di tutte le leggi umane . In un passo famoso del De Republica , Cicerone esaltava la legge eterna , razionale e conforme a natura che è immutabile in tutti i luoghi e in tutti i tempi ed è l ' espressione stessa della divinità che governa il mondo . E già Aristotele , in un ' illustrazione rimasta classica del concetto di « equità » , mostrava come questa fosse la correzione che i giudici apportano alle imperfezioni della legge positiva , mediante il ricorso alla legge eterna della giustizia . Per duemila anni circa , questi fondamenti del giusnaturalismo sono stati i principi incontestabili di ogni dottrina del diritto . Quando , nel '600 , la ragione umana cominciò a rivendicare la sua autonomia nei confronti dell ' ordine cosmico e della stessa divinità , la legge naturale apparve come la manifestazione della ragione e Grozio affermava che essa aveva la stessa necessità dei principi della matematica . Con ciò , essa non perdeva , ovviamente , la sua certezza assoluta , ma mutava soltanto il suo fondamento : che non veniva più riconosciuto nell ' ordine naturale o divino , ma nella infallibilità dell ' umana ragione . La consolante credenza in un ' unica , immutabile legge di giustizia ha continuato a permeare , anche dopo il tramonto del giusnaturalismo razionalistico del '700 , la maggior parte delle teorie filosofiche del diritto , che ne hanno dato ora questa ora quella giustificazione o l ' hanno in molti modi camuffata o mistificata . Soltanto negli ultimi decenni , ad opera di quella corrente che suol chiamarsi « positivismo giuridico » ma che non ha niente a che fare con il vecchio positivismo e perciò meglio si chiamerebbe « neoempirismo giuridico » , quella certezza è stata messa in crisi . La crisi è il riflesso , nel campo della teoria del diritto , della crisi generale della metafisica cioè della credenza in elementi assoluti , soprannaturali , trascendenti per spiegare il mondo della realtà umana . Quali sono le ragioni specifiche della crisi ? Il diritto naturale è stato invocato a fondare le leggi più disparate . Si è ricorso ad esso per giustificare l ' autorità assoluta dello Stato come per giustificare la lotta e l ' insurrezione contro lo Stato . Si è fondata su di esso la divisione naturale tra schiavi e liberi ( come fecero Platone e Aristotele ) e l ' uguaglianza naturale di tutti gli uomini ( come fecero gli Stoici , i Cristiani e gli Illuministi ) . Si è ritenuta legge di natura che il più forte prevalga sul più debole ( come dicevano gli antichi Sofisti e alcuni moderni ) e che tutti gli uomini debbano comportarsi come fratelli . Se ne è vista l ' espressione nella guerra belluina di tutti contro tutti e nella « solidarietà » che lega tutti gli uomini fra loro . Si è « dedotto » da esso l ' assolutismo politico ( Hobbes ) come il liberalismo ( Locke e molti moderni ) . Ma a che può servire una « legge unica ed eterna » che consente di giustificare le leggi positive più contrastanti e non permette di scegliere razionalmente tra esse ? È questo l ' interrogativo che domina il libro recente di una lancia spezzata del neoempirismo giuridico , il danese Alf Ross ( Diritto e giustizia ; l ' edizione italiana è del 1965 ) . « Il diritto naturale » scrive Ross « cerca l ' assoluto , l ' eterno , ciò che deve rendere il diritto qualcosa di più di una creazione dell ' uomo e che esonera il legislatore dalle penose responsabilità della decisione ... Ma l ' esperienza mostra che le dottrine costruite dagli uomini su questo fondamento , ben lungi dall ' essere eterne e immutabili , sono mutate a seconda dei tempi , dei luoghi e delle persone . La nobile sembianza del diritto naturale è stata usata per difendere o combattere ogni possibile tipo di richieste nascenti da una specifica situazione di vita o determinate da interessi politici ed economici di classe , dalla tradizione culturale , dai suoi pregiudizi e dalle sue aspirazioni . » Sotto quelle nobili sembianze si cela perciò , secondo Ross , « una sgualdrina che è a disposizione di tutti » . Il risultato di quest ' atteggiamento è la dissociazione totale tra i concetti di « diritto » e di « giustizia » . Le parole « giusto » e « ingiusto » sono interamente prive di significato se riferite , non ad un comportamento , ma ad una norma generale o ad un ordinamento giuridico . L ' ideologia della giustizia conduce solo al fanatismo e al conflitto perché pretende dar valore assoluto a interessi che si oppongono ad altri interessi e chiude la strada alla discussione diretta a trovare una soluzione razionale dei conflitti . Pertanto dichiarare ingiusta una norma o un riordinamento giuridico non è un atto di ragione ma l ' espressione di una reazione emotiva , cioè di atteggiamenti o di interessi che sono in contrasto con quella norma o non trovano in essa una sufficiente difesa . Sembrerebbe con ciò che ogni critica del diritto vigente , ogni tentativo di modificarlo o correggerlo , appartenesse al dominio dell ' irrazionale e consistesse solo in una cieca lotta di interessi . Ma Ross non spinge sino a questo punto la sua coerenza . Egli si preoccupa di stabilire anche il compito della « politica del diritto » cioè della disciplina di trasformazione del diritto . La politica del diritto concerne problemi che non sono , o non sono soltanto , giuridici perché appartengono all ' economia , alla finanza , pubblica o privata , al commercio , all ' educazione , ai rapporti con gli Stati esteri , alla difesa e via dicendo . Questi problemi devono ovviamente essere trattati o elaborati con le tecniche specifiche del campo cui appartengono e in base a tali tecniche vanno trovate le soluzioni di essi . La considerazione giuridica interviene soltanto per prevedere , nei limiti del possibile , quali sono le possibilità di influenzare , nel senso previsto da quelle soluzioni , le azioni umane mediante sanzioni giuridiche . E in questo senso la politica del diritto è « sociologia giuridica applicata » o « tecnica giuridica » . In tal modo all ' ideale di una unica norma di giustizia valida come criterio o fondamento di tutte le leggi si sostituisce come criterio per la valutazione e la correzione delle leggi il pluralismo delle tecniche invalse nei vari campi che sono , o possono essere , oggetto di regolamentazione giuridica . Soltanto queste tecniche potranno infatti dirci quali sono i fini che nei campi rispettivi è conveniente , o utile o indispensabile realizzare ; mentre la dottrina giuridica ci dirà se , e in quale misura , questa regolamentazione , agendo sui comportamenti , potrà condurre alla realizzazione di quei fini . Ma se così stanno le cose , può ancora dirsi , come vuole Ross , che dichiarare « ingiusta » una legge significa semplicemente abbandonarsi ad una « reazione emotiva » ? Mettendo tra parentesi l ' appello all ' ideale assoluto di giustizia del vecchio giusnaturalismo , affermare che una legge è « ingiusta » può avere proprio il significato chiarito da Ross , che essa non risponde alle tecniche del campo che dovrebbe regolamentare o alla tecnica causale delle sanzioni . Se per esempio l ' esperienza prova che la pena di morte non è un deterrente più efficace di altri , la sua abolizione diventa « razionale » perché fra l ' altro evita le conseguenze fatali di un possibile errore giudiziario . Norme legislative che aggravano i conflitti invece di evitarli o risolverli o che impediscono , limitano o inceppano attività che è interesse comune garantire e sviluppare o che negano ai cittadini , o a gruppi di cittadini , possibilità che sono a loro stessi o ad altri utili , convenienti o indispensabili , possono ben dichiararsi « irrazionali » nel senso ristretto e specifico di questo termine . E se per razionale s ' intende , non già il dettato di una ragione infallibile , ma ogni tecnica efficace , convalidata e correggibile , di un campo qualsiasi , il vecchio ideale della giustizia trascendente e normativa si converte in quello della razionalizzazione delle norme giuridiche , mediante l ' adeguazione a queste tecniche . Un compito limitato e fallibile quanto si vuole , ma profondamente umano e impegnativo , perché consente agli uomini di guardare con più fiducia al loro avvenire .